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STORIA DEI CREDENTI IN CRISTO

Ultimo Aggiornamento: 28/11/2012 08:26
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29/03/2012 15:23
 
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In questa sezione cercheremo di presentare un quadro STORICO della vita di Cristo da cui poi parte la vita dei CREDENTI IN LUI, evangelizzati dagli stessi Apostoli.

Gesù di Nazaret, Storia di Dio, Dio della storia
di  Mons. Bruno Forte

Fra il 6-7 a.C. e il 30 d.C. si svolge la storia di Gesù di Nazaret: la nascita avvenne certamente prima della morte di Erode il Grande, databile al 4 a.C. secondo quanto attesta Giuseppe Flavio (Antiquitates Iudaicae, 17,8,1; 17, 9, 3). È questo infatti il Re che aveva voluto la strage degli innocenti per il timore suscitato in lui dalle informazioni dei Magi circa la nascita dell’atteso “re dei Giudei” (Mt 2,1ss; Lc 1,5). Fu il monaco Dionigi il Piccolo a commettere l’errore di datazione, ponendo al 754 di Roma la nascita di Gesù, quando nel 525 per incarico del papa Giovanni I la calcolò per sostituire con l’era dell’Incarnazione quella di Diocleziano o dei martiri, usata fino ad allora nella Chiesa. Gesù nacque durante l’impero di Augusto (63 a.C. - 14 d.C.: cf. Lc 2,1): la città di provenienza era Nazaret, nel territorio della Galilea. Si trattava in realtà di un piccolo villaggio di 100-150 abitanti, il cui nome è menzionato in una iscrizione ebraica del III-IV secolo d.C. trovata nel 1962 a Cesarea Marittima, che ha consentito di fissarne definitivamente la grafia ebraica con la lettera “z” (zade), per cui la parola risale chiaramente a “nezer”, germoglio, ed evoca così l’attesa messianica del germoglio davidico (cf. Is 11,1). Ripopolato verso la fine del II secolo a.C.al tempo dell’asmoneo Ircano (134-104 a.C.), che impose il ritorno all’ebraismo nella zona, il villaggio fu probabilmente abitato da un clan davidico, detto dei Nazorei, animato da un vivo fervore messianico. Forse anche per il contrasto fra questo ardore dei suoi abitanti e la terra semipagana in cui erano andati ad abitare, Nazaret era disprezzata dai pii israeliti: “Da Nazaret - chiede Natanaele - può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46).
La famiglia di Gesù era ebraica, proveniva dalla Giudea, da Betlemme, dove si recò per il censimento, ed era di ascendenze davidiche. In essa si conosceva certamente l’ebraico, per la frequenza alla lettura delle Scritture, ma si parlava normalmente l’aramaico galileo, il dialetto che farà riconoscere Pietro nel cortile del Sommo sacerdote (cf. Mt 26,73). Dai contatti di cui parla il vangelo si può supporre che Gesù capisse il greco e il latino, lingue comuni dell’Impero romano. La Madre Maria era sposa di un uomo, Giuseppe, falegname: questo fu probabilmente il mestiere del giovane galileo, esercitato forse anche nella vicina Sefforis, dove al tempo della sua giovinezza si costruivano importanti edifici, di cui restano le rovine portate di recente alla luce a pochissima distanza in linea d’aria da Nazaret. Il Nazareno apparteneva a un clan di parenti stretti - detti a volte anche “fratelli” nel senso di cugini - che all’inizio della sua vita pubblica si mostrarono scandalizzati da lui: “I suoi uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: ‘È fuori di sé’ “ (Mc 3,21). Dopo un tempo nel deserto e il battesimo ricevuto da Giovanni, diede inizio alla sua vita pubblica, dapprima in Galilea, intorno al lago di Tiberiade, poi in Giudea, a Gerusalemme. Aveva circa trent’anni (cf. Lc 3,23): la sua vita pubblica si svolge in tre anni (Giovanni parla di tre Pasque: 2,13; 6,4; 11,55), anche se in base ai Sinottici si potrebbe supporre che tutto si sia concentrato in un anno, sotto l’impero di Tiberio (14-37), quando era tetrarca della Galilea Erode (4 a.C. - 39 d.C.: Lc 3,1). Cinque tappe si lasciano riconoscere fino alla morte di Croce: il silenzio di Nazaret; la primavera di Galilea, tempo dei primi entusiasmi; la crisi galilaica, che porta Gesù alla decisione sofferta di andare a Gerusalemme, dove muoiono i profeti (cf. Lc 9,51 e 13,33); il viaggio a Gerusalemme e la storia della passione. Gesù fu crocifisso sotto il procuratore romano Ponzio Pilato, con l’accusa di essere un agitatore politico (il “titulus crucis” - la tavoletta col motivo della condanna, parla del Nazareno re dei Giudei). La sua morte fu un assassinio politico-religioso, che vide coinvolti in varia misura i capi ebraici e Pilato.


1. UNA STORIA DI LIBERTA'

A questa vita “esteriore” corrispose evidentemente una storia interiore: fu la vicenda di Gesù di Nazaret una storia di libertà? o - in forza del mistero della sua condizione, rivelato pienamente a Pasqua - tutto risultò per lui predeterminato e si svolse quale fedele riflesso di un eterno consiglio divino? E, se questo avvenne, fino a che punto poté dirsi umana la sua vicenda? c'è forse umanità dove non c'è, fino in fondo, il rischio della libertà, dove non si dà la situazione limite di poter scegliere o subire la vita, dominarla o esserne dominati, a seconda delle condizioni in cui si è posti e delle scelte che si fanno?

a) Un cammino di libertà

A queste domande, che investono profondamente l'immagine che ci facciamo del Profeta galileo, e pertanto la nostra sequela di lui, la fede della Chiesa ha dato una risposta decisiva: la condanna dei «monoteliti» - assertori dell'esistenza di un'unica volontà in Cristo - al III Concilio di Costantinopoli nel 681, ha evidenziato come Gesù sia dotato di volontà e di libertà umane, sia cioè un uomo libero. Il Nazareno ha scelto liberamente il suo futuro, si è posto e proposto nel rischio della libertà, con tutto il peso della sua umanità, vera e piena. Ha comportato questo rischio la possibilità di un conflitto fra la condizione filiale di Gesù davanti al Padre e la sua condizione di uomo tra gli uomini? Avrebbe potuto il Profeta galileo rifiutarsi al disegno divino per seguire un proprio disegno, e quindi peccare?
A queste domande è possibile dare subito una risposta a partire dalla fede pasquale: «Egli non commise peccato» (1Pt 2,22); fu «provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Così egli ha spezzato la legge di peccato della nostra storia e ha fatto irrompere in essa la nuova storia di Dio. Il fatto che Gesù non abbia conosciuto peccato, non significa tuttavia che siano mancati alla sua condizione d'uomo il rischio e la fatica della libertà. Egli non è stato esposto meno di noi alla fatica di vivere, e dunque alla gravità di scelte radicali, spesso costose e difficili: l'assenza di peccato in lui non è un'astratta impeccabilità, un'incapacità a compiere il male, connessa in modo naturale al suo essere uomo, ma risulta dalla totalità del suo processo di vita. In altri termini, se il Figlio è stato mandato in una carne di peccato per condannare il peccato della carne (cf. Rm 8,3), egli ha scelto fra le tribolazioni e le prove della sua carne «simile a quella del peccato» (cf. ib.) la via dell'incondizionata fedeltà al Padre.
Si può dunque parlare di una storia della libertà di Gesù, di un suo cammino, di scelta in scelta, sulla via stretta dell'obbedienza a Dio, di una sua vocazione, riconosciuta ed accolta. Come si configura questo cammino? Come esso si va definendo nel concreto della vicenda umana del Nazareno? La risposta a queste domande esige la narrazione della storia di Gesù come storia di libertà, in cui si manifesta la scelta operata nel più profondo della sua coscienza, che ha orientato in maniera radicale ogni decisione successiva. Questa scelta - che corrisponde a ciò che viene chiamato «opzione fondamentale» - è quella che dà senso e unità alle molteplici prese di posizione settoriali. In essa si esprime il «cuore» del Nazareno e si gioca la sua vocazione. Qual è stata l'opzione fondamentale di Gesù? come ha vissuto il Nazareno la scelta della sua vocazione?
Due racconti - posti rispettivamente all'inizio e alla fine della vita pubblica di Gesù - lo mostrano impegnato nel fare la scelta decisiva di fronte alla sua vita e alla sua morte, e consentono perciò di comprendere quale fu la sua «opzione fondamentale». Si tratta del «mistero» delle tentazioni nel deserto e di quello dell'agonia del Getsemani. Non si può negare che questi racconti contengano un nucleo storico, perché è del tutto inverosimile che la comunità delle origini abbia inventato scene a prima vista così contrastanti con la Signoria del Risorto, proclamata a Pasqua.

b) Gesù davanti alla sua vita: la tentazione nel deserto

L'interpretazione delle tentazioni, predominante nella tradizione cristiana, è stata quella esemplare-pedagogica: il Signore ha dato agli uomini l'esempio di come superare la prova, senza però esserne lui stesso veramente toccato. In tal modo si pensava di scongiurare ogni pericolo di diminuzione della perfezione di Gesù. Tuttavia, «una insistenza unilaterale sull'aspetto pedagogico della tentazione di Cristo rischia di toglierle ogni serietà» (C. Duquoc): egli avrebbe in fondo recitato una parte, anche se per il fine buono di istruirci. Il valore pedagogico non deve certo essere escluso: tuttavia esso regge solo se la tentazione è reale.
Diverse testimonianze del Nuovo Testamento sembrano comprovare la verità della tentazione del Cristo: Gesù stesso parla delle sue «prove» (Lc 22,28: il termine è quello proprio delle tentazioni «peirasmòs»). «Proprio per essere stato messo alla prova ed aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18). Nelle prove egli ha «imparato l'obbedienza»: «(Cristo) nei giorni della sua carne, avendo elevato preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva liberarlo da morte, ed essendo stato esaudito per la sua pietà, imparò, quantunque Figlio, per le cose patite l'obbedienza...» (Eb 5,7).
Lo stesso lavoro redazionale di Matteo e Luca, che sostituiscono alla scarna nudità del racconto di Marco (1,12-13) l'elaborata presentazione delle tre tentazioni (Mt 4,1-11; Lc 4,1-13), parallele a quelle d'Israele nel deserto, mostra come per la comunità primitiva in questo episodio ha avuto luogo una scelta reale, svolta decisiva, ricapitolatrice di tutta la storia della salvezza: è l'ora della pienezza dei tempi!
Come Israele fu veramente provato, così Gesù viene veramente tentato: lo stesso è l'ambiente, il deserto della tremenda solitudine con Dio; parimenti carico di senso teologico è il tempo, i 40 giorni, che richiamano i 40 anni dell'Esodo e la durata della permanenza di Mosé sul monte (cf. Es 24,18 e 34,28); tre sono le prove, corrispondenti al quelle del popolo eletto. Il Nazareno rivive nel deserto le tentazioni d'Israele: mentre però quest'ultimo aveva ceduto, Gesù riporta vittoria.
Il confronto fra l'elaborato racconto di Matteo e Luca e la semplice notizia di Marco fa supporre che, in radice, la tentazione sia stata una sola. Si può pensare alla suggestione suprema, la stessa che sedusse il primo Adamo: la fiducia in sé e nella potenza del mondo, invece che la fiducia in Dio e nella sua «debolezza». È l'alternativa radicale, «l'amore di sé fino alla dimenticanza di Dio, o l'amore di Dio fino alla dimenticanza di sé» (S. Agostino). Gesù avverte la seduzione dell'altra sponda, l'apparente maggiore incisività di essa. La soglia lo sfiora: da una parte, egli sente il fascino del messianismo politico e terrestre del suo tempo, che aveva respirato in mezzo alla sua gente condividendone il dolore di popolo oppresso; dall'altra, gli si affaccia il messianismo dell'obbedienza profetica, che egli aveva imparato a conoscere nel suo colloquio col Padre, soprattutto attraverso la lettura delle Scritture relative al Servo sofferente e ai profeti.
Le tre tentazioni potrebbero allora essere interpretate come tre forme dell'unica tentazione messianica, eco dei diversi modelli di messianismo, presenti nel mondo di Gesù: il messianismo dei beni temporali, connesso alla fame di giustizia dei poveri, il messianismo apocalittico, espressione dei movimenti profetico-penitenziali, e il messianismo politico, proprio dei gruppi rivoluzionari. Il Nazareno dice «no» alle suggestioni del suo tempo: egli non cerca il consenso facile, non accontenta le attese degli uomini, ma le sovverte. Gesù sceglie il Padre: con atto di sovrana libertà preferisce l'obbedienza a Dio e l'abnegazione di sé, all'obbedienza a sé, implicante la negazione di Dio. Egli non cede alla forza dell'evidenza, all'attrattiva dell'efficacia immediata: egli crede nel Padre con incrollabile certezza e intende compierne il disegno, per quanto oscuro e doloroso esso gli appaia. Nell'ora della tentazione radicale Gesù si afferma libero da sé, libero per il Padre e per gli altri, libero della libertà dell'amore: in lui, Servo incondizionatamente obbediente, la scala dell'ubbidienza profetica tocca il suo vertice. Gesù testimonia come la sua vocazione sia il Padre, il Dio vivente, al quale perdutamente sottomette ed affida la sua vita.

c) Gesù davanti alla sua morte: l'agonia del Getsemani

«Il diavolo», scrive Luca (4,12), «si allontanò da lui per tornare al tempo fissato»: indizio chiaro che la «scena della tentazione viene continuamente ripetuta nella vita di Gesù: la lotta contro il diavolo percorre tutta la sua vita, passo dopo passo egli si conquista il campo di Satana, respinge il suo potere... Davvero la vita di Gesù è un continuo tagliente discernimento degli spiriti» (H. Urs von Balthasar). L'offerta al Padre si compie in una perenne «liturgia» d'offerta e di lode, fatta delle opere e dei giorni dell'intera esistenza del Nazareno: fino all'ora suprema, a Gerusalemme...
Gesù è nel Getsemani, alla fine del suo cammino, nel momento in cui gli si pone dinanzi l'estrema conseguenza della sua scelta di amore. Egli risente, fino al sudore di sangue (cf. Lc 22,44), la tentazione dell'altra sponda. Gli evangelisti parlano della sua angoscia (cf. Mc 14,33 e Mt 26,37), della sua tristezza (cf. Mc 14,34 e Mt 26,38), della sua paura (Mc 14,33). Egli avverte un immenso bisogno di vicinanza amicale: «Restate qui e vegliate con me» (Mt 26,38). Ma è lasciato solo, tremendamente solo davanti al suo futuro, come è nelle scelte fondamentali di ogni uomo: «Non siete capaci di vegliare un'ora sola con me!» (Mt 26,40). Gli si pone ancora una volta dinanzi, nel modo più violento, l'alternativa radicale: salvare la propria vita o perderla, scegliere fra la propria volontà e la volontà del Padre: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!» (Mc 14,36 e par.). Nel momento in cui conferma il «sì» della sua libertà radicale, si aggrappa totalmente al Padre e lo chiama col nome della confidenza e della tenerezza: «Abbà!... Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (ib.). Non a caso è questa l'unica volta nei Vangeli in cui è conservata la forma aramaica confidenziale Abbà dell'invocazione al Padre! Il «Sì» di Gesù nasce dall'amore senza riserve: la sua è la libertà dell'amore! Nell'ora suprema egli sceglie ancora il dono di sé, si rimette nelle mani del Padre suo con una confidenza infinita, e vive la sua libertà come liberazione, libertà da sé per il Padre e per gli altri. È la libertà di chi trova la propria vita perdendola (cf. Mc 8,35), la capacità di rischiare tutto per amore, l'audacia di chi dona tutto.
In questi misteri della vita di Gesù traspare la sua opzione fondamentale, la scelta su cui egli gioca tutto, la vocazione della sua vita: quella che l'autore della lettera agli Ebrei ha interpretato fedelmente con le parole del Salmo 40,9: «Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,99). «Mio cibo - dice il Cristo giovanneo - è fare la volontà di colui che mi ha mandato e di compiere la sua opera» (Gv 4,34; cf. 8,29; 15,10). Sul piano più profondo della libertà, Gesù si pone come l'uomo totalmente libero per amore, totalmente finalizzato al Padre e agli altri. Egli testimonia come nessuno sia così libero, quanto chi è libero dalla propria libertà a motivo di un più grande amore. Libero da sé, egli esiste per il Padre e per gli altri: questa è la sua opzione fondamentale, che fa di lui veramente «l'uomo libero». Esistere per il Regno, che viene, è la causa della sua vita: la sua vocazione, che fa dell'intera sua esistenza una liturgia a Dio.

2. IL VANGELO DELLE SOFFERENZE

Quale prezzo Gesù ha pagato per portare a compimento la libera risposta d'amore alla sua vocazione? quale esperienza del dolore umano ha egli avuto? Si sono presentati nella storia di Gesù di Nazaret l'oscurità dell'avvenire e il dolore del negativo, in cui incombe la minaccia del nulla su tutta la vita? o, in forza della condizione divina, il Nazareno non ha sperimentato la fatica di vivere, il peso dell'ostilità delle cose e degli uomini, la resistenza interiore di fronte alla tenebra e alla prova?

a) Verso la Croce

La vita di Gesù è tutta orientata alla croce: le narrazioni evangeliche non sono che «storie della passione, con un'introduzione particolareggiata» (M. Kähler). L'intera vicenda del Nazareno sta sotto il segno grave e doloroso dell'ultimo abbandono: «Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio» (Imitazione di Cristo, l. II, cap. 12). Da quando l'annuncio cristiano risuona nel tempo, il racconto della storia di Dio fra gli uomini è indissolubilmente unito a «quella storia ossia quella passione, che è la storia della sua vita» (Kierkegaard): il Vangelo delle sue sofferenze. Non si capirà la vita e la vocazione di Gesù senza la croce, come peraltro non si capirà la croce senza il cammino verso di essa. È perciò che la comunità delle origini ha potuto riconoscere nel Nazareno «l'uomo dei dolori» di cui parla il profeta (cf. Is 53,3): «Come una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non aprì la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato...» (At 8,32-33). Gesù di Nazaret è il Servo, l'Innocente che soffre per puro amore sotto il peso dell'ingiustizia del mondo!
Gesù ha sentito la soglia imponderabile e amara della morte: la storia della sua fede e della sua speranza, la sua vita di preghiera, il cammino cosparso di prove della sua libertà ne sono la conferma costante. Oscurità e tentazione si sono scontrate nel profondo del suo spirito con l'incondizionata dedizione al Padre, che ne è stata come sigillata, fino al «sì» che lo ha portato alla morte: «Abba, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu!» (Mc 14,36). Questa interiore esperienza di finitudine, questa fatica di vivere assunta nella forza di un più grande amore e della speranza credente, apre Gesù alla comprensione reale del patire umano: la sua compassione per la folla (cf. ad esempio Mt 9,36; 15,32), il suo commuoversi davanti agli infelici e ai sofferenti (cf. Mc 1,41; Mt 20,34; Lc 7,13; ecc.), rivelano una sensibilità all'altrui dolore, che solo chi del dolore ha fatto esperienza riesce ad avere. Il Sofferente, che comprende e ama, dà ristoro e forza a chi è oppresso dal patire: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico è leggero» (Mt 11,28-30).
All'esperienza dell'interiore finitudine e alla compassione che ne deriva per l'altrui soffrire, si aggiunge nella vita del Nazareno l'impatto durissimo col dolore provocatogli dagli uomini: considerato un esaltato dai suoi («È fuori di sé»: Mc 3,21), accusato di essere un indemoniato dagli scribi (cf. Mc 3,22 e par.), definito un impostore dai potenti (cf. Mt 27,63), egli sente tutto il peso dell'ostilità che si accumula nei suoi confronti. Non è rattristato per le accuse, ma per la durezza dei cuori, da cui esse provengono (cf. Mc 3,5). Gli avversari non si stancheranno di attaccarlo in tutti i modi: lo accusano per il comportamento dei suoi discepoli, che non digiunano (cf. Mc 2,18) e non osservano la Legge (cf. 2,24; 7,5; ecc.); cercano di screditarlo agli occhi del popolo, con ogni sorta di calunnia (cf. Mc 3,22), giungendo fino ad espellere dalla Sinagoga chi gli presta fede (cf. Gv 9,22; 12,42); tentano di metterlo in difficoltà su questioni controverse (cf. Mc 10,2; 12,18-23) o compromettenti (cf. Mc 12,13-17). Varie volte si prova ad arrestarlo (cf. Mc 12,12; Gv 7,30.32.44; 10,39) e si cerca di ucciderlo (cf. Lc 4,29; Gv 8,59; 10,31); con cura viene intessuta la trama iniqua della congiura per farlo morire (cf. Mc 3,6; 14,1-2.55-59). Perché tutto questo? I motivi dell'ostilità al Nazareno da parte dei gruppi influenti sono facili a comprendersi: la sua inaudita pretesa li irrita (cf. Mc 6,2-3; 11,27-28; Gv 7,15; ecc.), la sua popolarità li spaventa (cf. Mc 11,18; Gv 11,48; ecc.). Gesù mette in discussione con la parola e con la vita le loro certezze, e, col suo successo fra il popolo, rischia di scuotere dalle fondamenta il precario ordine esistente. Ma egli è troppo libero per fermarsi sotto il condizionamento della paura: continua perciò per la sua strada, nella fedeltà al «sì» radicale detto al Padre. Si fa, è vero, accorto: riesce a sfuggire ai tentativi di lapidazione e di arresto (cf. Lc 4,30; Gv 8,59; 10,39); evita occasioni di scontro (cf. Mc 7,24; 8,13; ecc.). Ma mette a fuoco anche, nel crogiuolo di questa sofferenza, la scelta, che segnerà una svolta nella sua azione: il viaggio decisivo a Gerusalemme, compimento della sua vocazione. «La città del gran Re» (Mt 5,35) è il luogo dove i destini d'Israele e dei suoi profeti devono compiersi (cf. Lc 13,33). Gesù prevede ciò che l'aspetta a Gerusalemme come conseguenza delle scelte della sua vita e del suo messaggio (cf. Mc 8,31; 9,31; 10,33-34; e par.): il rifiuto incontrato in Galilea, ben più profondo dei facili entusiasmi della folla, gli ha consentito di tematizzare senza più ombre che egli dovrà bere fino in fondo il calice del destino del giusto, compiendo la suprema liturgia del Figlio dell'uomo. In questo senso, è la «crisi» che attraversa tutta la «primavera galilaica» a portarlo a Gerusalemme: essa è una dolorosa esperienza di finitudine, assunta però in un più chiaro slancio di donazione al Padre e di fede nella finale vittoria della giustizia e dell'amore. Sarà questa opzione di obbedienza totale, più forte di ogni sconfitta, che lo porterà infine incontro alla morte di croce.

b) Le consegne divine: il crocifisso amore

Con l'andata a Gerusalemme si entra in pieno nella storia della passione. Gesù vi si dirige «decisamente» (Lc 9,51: letteralmente: «indurì la faccia per andarvi»), camminando avanti ai suoi, che lo seguono sconcertati (cf. Mc 10,32). Nella città di Davide lo scontro raggiunge il suo apice: sono ormai coinvolti da vicino il Sinedrio e la nobiltà laica e sacerdotale che esso rappresenta. Il Nazareno è consapevole dell'iniquità che sta per consumarsi riguardo a lui, ma l'affronta con la ricchezza di senso di chi vede la morte ingiustamente subita come una volontaria donazione, vissuta in obbedienza al Padre e feconda di vita: ne sono prova i racconti dell'Ultima Cena, nei quali il Servo confida ai suoi il memoriale dell'alleanza nuova nel suo sangue. In questo quadro di finitudine, fonte di sofferenza liberamente accolta, viene a situarsi anche la vicenda del processo di Gesù: è l'ora degli avversari, «l'impero delle tenebre» (Lc 22,53). Per quali motivi è stato condannato il Nazareno? Agli occhi del Sinedrio egli è il bestemmiatore (cf. Mc 14,53-65 par.), che con la sua pretesa e la sua azione (soprattutto la «scandalosa» purificazione del tempio: cf. Mc 11,15-18 e par.) ha meritato la morte secondo la Legge (cf. Dt 17,12). E tuttavia Gesù non ha subito la pena riservata ai bestemmiatori, la lapidazione (cf. Lv 24,14): egli è stato giustiziato dagli occupanti romani, subendo la pena inflitta agli schiavi disertori e ai sobillatori contro l'impero, la ignominiosa morte di croce. La sua condanna è stata, alla fine, politica, come attesta il «titulus crucis», la scritta con la motivazione della condanna posta sul palo della vergogna: «Gesù Nazareno Re dei Giudei» (Gv 19,19). La sua morte, allora, può definirsi un assassinio giudiziario, di significato politico-religioso: il Venerdì Santo (7 aprile dell'anno 30?) è per la Legge il giorno in cui muore il bestemmiatore e per il potere il giorno in cui muore il sovversivo. Ma la comunità nascente - segnata dall'esperienza pasquale - sa che non è così: per questo essa ci parla di tre misteriose consegne.
La prima è quella che il Figlio fa di se stesso: l'ha espressa con evidenza Paolo: «Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Si sente in queste espressioni la corrispondenza con la testimonianza evangelica: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!» (Lc 23,46: citazione del Sal 31,6). «Chinato il capo consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). Il Figlio si consegna al Dio e Padre suo per amore nostro e al nostro posto: e la consegna ha tutto lo spessore della dolorosa offerta. Attraverso questa consegna il Crocefisso prende su di sé il carico del dolore e del peccato passato, presente e futuro del mondo, entra fino in fondo nell'esilio da Dio per assumere quest'esilio dei peccatori nell'offerta e nella riconciliazione pasquale: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede» (Gal 3,13s). Non è il grido di Gesù morente il segno dell'abisso di dolore e di esilio che il Figlio ha voluto assumere per entrare nel più profondo della sofferenza del mondo e portarlo alla riconciliazione col Padre? «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; cf. Mt 27,46).
Alla consegna che il Figlio fa di sé, corrisponde la consegna del Padre: essa è già indicata dalle formule del cosiddetto «passivo divino»: «Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno» (Mc 9,31 e par.; cf. 10,33.45 e par.; Mc 14,41s. = Mt 26,45b-46). A consegnarlo non saranno gli uomini, nelle cui mani sarà consegnato, né sarà soltanto lui stesso a consegnarsi, perché il verbo è al passivo. Chi lo consegnerà sarà Dio, suo Padre: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32). È in questa consegna che il Padre fa del proprio Figlio per noi, che si rivela la profondità del suo amore per gli uomini: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10; cf. Rm 5,6-11). Anche il Padre fa storia nell'ora della croce: egli, sacrificando il proprio Figlio, giudica la gravità del peccato del mondo, ma mostra anche la grandezza del suo amore misericordioso per noi. Alla consegna dell'ira - «Dio li ha consegnati all'impurità» (Rm 1,18ss.) - succede la consegna dell'amore! L'offerta della croce indica nel Padre sofferente la sorgente del dono più grande, nel tempo e nell'eternità: la croce rivela che «Dio (il Padre) è amore» (1Gv 4,8-16)! La sofferenza del Padre - che corrisponde a quella del Figlio crocifisso come dono e offerta sacrificale di lui, e che è evocata da quella di Abramo nell'offerta di Isacco suo figlio «unigenito» (cf. Gen 22, 12, Gv 3,16 e 1Gv 4,9) - non è che l'altro nome del suo amore infinito: «Il Padre, Dio dell'universo, paziente e misericordioso, sente egli stesso in certo modo il dolore... Il Padre stesso non è senza dolore! Se qualcuno lo implora egli è preso da pietà e compassione; soffre attraverso l'amore; ha sentimenti che non potrebbe avere secondo la sua natura sublime. Riguardo a noi egli sente il dolore umano» (Origene, Hom. in Ezech. 6,6). La suprema, dolorosa consegna è, nel Figlio, come nel Padre, il segno del supremo amore che cambia la storia: «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Alla sofferenza del Figlio fa dunque riscontro una sofferenza del Padre: Dio soffre sulla croce come Padre, che offre, come Figlio, che si offre, come Spirito, che è l'amore promanante dal loro amore sofferente. Il Dio cristiano non è fuori della sofferenza del mondo, spettatore impassibile di essa dall'alto della sua immutabile perfezione: egli la assume e la vive nel modo più intenso, come sofferenza attiva, come dono e offerta da cui sgorga la vita nuova del mondo. Da quel Venerdì Santo noi sappiamo che la storia delle sofferenze umane è anche storia del Dio cristiano: Egli è presente in essa, a soffrire con l'uomo e a contagiargli il valore immenso della sofferenza offerta per amore. Egli non è «l'occulta controparte» verso la quale si leva il grido del sofferente e del desolato, ma è «in un senso più profondo il Dio umano, che grida in lui e con lui e che interviene a suo favore con la sua croce quando egli nei suoi tormenti ammutolisce» (J. Moltmann). È il Dio che dà senso alla sofferenza del mondo, perché l'ha assunta a tal punto da farne la propria sofferenza: questo senso è l'amore.
Storia del Figlio, storia del Padre, la croce è parimenti storia dello Spirito: l'atto supremo della consegna è l'offerta sacrificale dello Spirito, come ha colto l'evangelista Giovanni: «Chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). È «con uno Spirito eterno» che il Cristo «offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9,14). Il Crocifisso consegna al Padre nell'ora della croce lo Spirito che il Padre gli aveva donato, e che gli sarà dato in pienezza nel giorno della resurrezione: il Venerdì Santo, giorno della consegna che il Figlio fa di sé al Padre e che il Padre fa del Figlio alla morte per i peccatori, è il giorno in cui lo Spirito è consegnato dal Figlio al Padre suo, perché il Crocifisso resti abbandonato, nella lontananza da Dio, nella compagnia con i peccatori. È l'ora della morte in Dio, dell'avvenimento dell'abbandono del Figlio da parte del Padre nella loro pur sempre più grande comunione, evento che si consuma nella consegna dello Spirito Santo al Padre, e che rende possibile il supremo esilio del Figlio nell'alterità del mondo, il suo divenire «maledizione» nella terra dei maledetti da Dio, perché questi insieme con lui possano entrare nella gioia della riconciliazione pasquale. Senza la consegna dello Spirito la croce non apparirebbe in tutta la sua radicalità di evento trinitario e salvifico: se lo Spirito non si lasciasse consegnare nel silenzio della morte, con tutto l'abbandono che essa porta con sé, l'ora delle tenebre potrebbe essere equivocata come quella di una oscura morte di Dio, dell'incomprensibile spegnersi dell'Assoluto, e non verrebbe intesa, come è, come l'atto che si svolge in Dio, l'evento della storia dell'amore del Dio immortale, per il quale il Figlio entra nel più profondo dell'alterità dal Padre in obbedienza a Lui, lì dove incontra i peccatori. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21; cf. Rm 8,3).

c) La storia trinitaria di Dio

Storia del Figlio, del Padre e dello Spirito, la croce è storia trinitaria di Dio: la Trinità fa suo l'esilio del mondo sottoposto al peccato, perché questo esilio entri a Pasqua nella patria della comunione trinitaria. La croce è storia nostra perché è storia trinitaria di Dio: essa non proclama la bestemmia di una morte di Dio, che faccia spazio alla vita dell'uomo prigioniero della sua autosufficienza, ma la buona novella della morte in Dio, perché l'uomo viva della vita del Dio immortale, nella partecipazione alla comunione trinitaria, resa possibile grazie a quella morte. Sulla croce la «patria» entra nell'esilio, perché l'esilio entri nella «patria»: in essa è offerta la chiave della storia! La croce rinvia così alla Pasqua: l'ora dello iato rimanda a quella della riconciliazione, l'impero della morte al trionfo della vita! L'alterità del Figlio dal Padre nel Venerdì Santo, che si consuma nella dolorosa consegna dello Spirito, il suo «discendere agli inferi» nella solidarietà con tutti quelli che furono, sono e saranno prigionieri del peccato e della morte, è orientata, nell'unità del mistero pasquale, alla riconciliazione del Figlio col Padre, compiutasi al «terzo giorno», mediante il dono che il Padre fa dello Spirito al Figlio e in lui e per lui agli uomini lontani, così riconciliati: «In Cristo Gesù voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al suo sangue. Egli è la nostra pace... Per mezzo di lui possiamo presentarci al Padre in un solo Spirito» (Ef 2,13s.18). Alla lontananza della croce segue la comunione della resurrezione: la morte in Dio per il mondo del Venerdì Santo passa a Pasqua nella vita in Dio del mondo: proprio perché essa non è la morte del peccato, ma la morte nell'amore, essa è la morte della morte, che non lacera, ma riconcilia, non nega l'unità divina, ma sommamente l'afferma in sé e per il mondo. Così il mistero pasquale realizza e porta a supremo compimento la verità della nuova alleanza.


3. IN PRINCIPIO L'ESPERIENZA DI UN INCONTRO

Con la resurrezione e l'effusione dello Spirito la vocazione di Cristo diventa la vocazione del cristiano. All'inizio vi fu l'esperienza di un incontro: ai pavidi fuggiaschi del Venerdì Santo Gesù si mostrò vivente (cf. At 1,3). Quest'incontro fu talmente decisivo per loro, che la loro esistenza ne venne totalmente trasformata: alla paura fece seguito il coraggio; all'abbandono l'invio; i fuggitivi divennero i testimoni, per esserlo ormai fino alla morte, in una vita donata senza riserve a Colui, che pure avevano tradito nell'«ora delle tenebre». Che cosa era avvenuto?

a) Il nuovo inizio di Pasqua

Uno iato sta fra il tramonto del Venerdì Santo e l'alba di Pasqua: uno spazio vuoto, in cui è accaduto qualcosa di talmente importante, da dare origine di fatto al movimento cristiano nella storia. Dove lo storico profano non può che constatare questo «nuovo inizio», l'annuncio cristiano, registrato nei testi del Nuovo Testamento, confessa l'incontro col Risorto come esperienza di grazia: e a questa esperienza ci dà accesso specialmente attraverso i racconti delle apparizioni. I cinque gruppi di racconti (la tradizione paolina: 1Cor 15,5-8; quella di Marco: Mc 16,9-20; quella di Matteo: Mt 28,9-10.16-20; quella lucana: Lc 24,13-53; e quella giovannea: Gv 20.14-29 e 21) non si lasciano fra loro armonizzare nei dati cronologici e geografici: essi, tuttavia, sono costruiti tutti su una medesima struttura, che lascia trasparire le caratteristiche fondamentali dell'esperienza di cui parlano. Vi si ritrova sempre l'iniziativa del Risorto, il processo di riconoscimento da parte dei discepoli, la missione, che fa di essi i testimoni di ciò che hanno «udito e visto con i loro occhi e contemplato e toccato con le loro mani» (cf. 1Gv 1,1). È l'esperienza della vocazione del cristiano, riconosciuta ed accolta nella vocazione del Signore Gesù.
L'iniziativa del Risorto, il fatto che sia Lui a mostrarsi vivente (cf. At 1,3), ad «apparire» (cf. il verbo «ofte», usato in 1Cor 15,3-8 e Lc 24,34, che nell'Antico Testamento in greco è adoperato per descrivere le teofanie: cf. Gen 12,7; 17,1; 18,1; 26,2), dice che l'esperienza degli uomini delle origini cristiane ebbe un carattere di «oggettività»: fu qualcosa che capitò a loro, qualcosa che «venne» a loro, non qualcosa che «divenne» in loro. Non fu la commozione della fede e dell'amore a creare il suo oggetto, ma fu il Vivente a suscitare in modo nuovo la fede e l'amore. La vocazione viene «dal di fuori»...
Ciò non esclude, tuttavia, il processo spirituale, che è stato necessario ai primi credenti per «credere ai loro occhi», per aprirsi interiormente a quanto è avvenuto in Gesù Signore: è quanto assicura l'itinerario progressivo, che porta dallo stupore e dal dubbio al riconoscimento del Risorto: «Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31). Questo processo dice la dimensione soggettiva e spirituale dell'esperienza fontale della fede cristiana, e garantisce lo spazio della libertà e della gratuità dell'assenso credente in ogni storia di vocazione.
Si compie così l'esperienza dell'incontro: in un rapporto di conoscenza diretta e rischiosa, il Vivente si offre ai suoi e li rende viventi di vita nuova, la Sua, testimoni di Lui, di quell'incontro con Lui che ha segnato per sempre la loro esistenza: «Andate in tutto il mondo, predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). L'esperienza pasquale - oggettiva e soggettiva insieme - per la forza dell'incontro fra il Vivente e i suoi, si presenta come esperienza trasformante: da essa ha origine la missione, in essa trae impulso il movimento che si dilaterà fino agli estremi confini della terra.

b) La doppia «identità nella contraddizione»

L'incontro da cui nasce la fede cristiana si offre allora come esperienza di una duplice identità nella contraddizione: la prima, fra il Cristo risuscitato e l'umiliato della Croce; la seconda, fra i fuggiaschi del Venerdì Santo e i testimoni di Pasqua. Nel Risorto viene riconosciuto il Crocifisso: e questo riconoscimento, che lega la suprema esaltazione alla suprema vergogna, fa sì che la paura dei discepoli si trasformi in coraggio ed essi divengano uomini nuovi, capaci di amare la dignità della vita ricevuta in dono più della vita stessa, pronti al martirio.
Perché l'esperienza dell'incontro col Risorto cambia così profondamente l'esistenza dei discepoli? La risposta è possibile solo se ci si apre, con essi, all'approfondimento trinitario degli eventi pasquali: la resurrezione e la croce, momenti della storia del profeta galileo, sono colti come atti in cui è intervenuto su di lui e per lui il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri» (At 3,13), che ha agito «con potenza secondo lo Spirito di santificazione» (Rm 1,4). Quello stesso Dio ci ha dimostrato in tutto questo il suo amore (cf. Rm 7,8), benedicendoci «con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo», riversando su di noi «la ricchezza della sua grazia», suggellandoci in Cristo con lo Spirito Santo (cf. l'inno di Ef 1,3-14). La presenza del Padre, la sua iniziativa nello Spirito, si offrono come il fondamento e l'origine ultima tanto dell'identità nella contraddizione fra il Crocefisso e il Risorto, quanto dell'identità nella contraddizione da questa scaturente fra gli uomini vecchi della paura e del rinnegamento e gli uomini nuovi della testimonianza fino al dono della vita. Secondo la fede delle origini, Pasqua diventa storia nostra, perché è storia trinitaria di Dio: storia dell'amore divino, storia della nostra libertà nella sequela di Gesù...

c) La «sequela libertatis», vocazione del cristiano

Quanto più i cristiani saranno come il loro Signore liberi da sé, liberi per il Padre e per gli altri, tanto più realizzeranno la loro vocazione in Cristo e nella Chiesa e provocheranno gli uomini alla libertà, aprendone le vie. Discepoli dell'uomo libero, che, per la sua libertà di amore incondizionato al Padre e agli uomini, è morto nella vergogna della croce, i cristiani si sforzeranno di far crescere con la preghiera e con la vita l'esperienza della libertà nel mondo in cui vivono, senza cercare l'efficacia immediata o il consenso esteriore. Chi è veramente libero per il Padre e per gli altri, vive la propria vocazione sapendo calcolare con l'ignoto, credendo cioè, al di là di ogni possibilità, alla possibilità impossibile, quella che la libertà di Dio, rivelata in Gesù Cristo, ha promesso alla storia. Chi è veramente libero testimonia che la libertà, anche quando è sconfitta, merita di essere vissuta, ed è contagiosa e liberante, perché, come la libertà del Nazareno, è rivelazione e dono di un mistero più grande. Non è con le sole mani operose dell'uomo che si libererà il mondo dal male che l'opprime: non si dà liberazione profonda e duratura, senza che quelle stesse mani si aprano anche nella lode e nell'invocazione ad accogliere il dono, che viene dall'alto. L'emancipazione dell'uomo moderno - come processo di liberazione prodotto dalle sole forze intramondane - non ha cessato di produrre totalitarismi e manipolazioni di ogni sorta, dove non ha saputo aprirsi alla liberazione, che in Gesù Cristo è stata offerta alla storia: la liberazione da sé, per esistere, nell'amore e nella speranza, per il Padre e per gli altri e fare dell'intera nostra vita una liturgia di lode e di amore al Padre e di servizio agli uomini. Gesù, uomo libero, non cessa di provocare gli uomini alla libertà!
[Modificato da Credente 19/05/2012 22:12]
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29/03/2012 15:27
 
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Nella Chiesa delle origini dal 30 al 120 d.C. convivevano persone e gruppi diversi sia per provenienza che per alcune concezioni e usanze. In base ai dati del Nuovo Testamento e della letteratura cristiana antica si possono distinguere:


1) giudei di Gerusalemme di lingua aramaica (gli «ebrei» di At 6,1), con i quali entrano in conflitto quelli di lingua greca per una disparità nell’assistenza, ma forse anche per diversità di concezioni sul culto al tempio;


2) giudei di Gerusalemme di lingua greca (gli «ellenisti» di At 6,1.5), che praticavano un culto in lingua greca che doveva essere diverso da quello in lingua aramaica praticato dagli «ebrei», che a un certo punto ebbero una sorta di organismo direttivo formato da sette persone, tra cui Stefano (At 6,2-6), erano critici verso la legge e il tempio (At 6,11.13-14; 7,48; 8,1), furono i primi missionari tra i pagani e accettarono la comunione coi cristiani di origine pagana non circoncisi (At 8,4-6.12-13.26-40; 11,20-21);


3) giudei che praticavano tutti i precetti della legge mosaica e non accettavano la comunione di mensa coi cristiani di origine pagana, ai quali volevano anche imporre la circoncisione (At 11,2-3; 15,1-2.5; Gal 1,6-9; 2,4-5.12-13; 3,1-3; 5,2-12; 6,12-15);


4) giudei che praticavano tutti i precetti della legge mosaica, sostenevano che i pagani divenuti credenti in Cristo non dovevano circoncidersi e accettavano la comunione di mensa con loro, purché rispettassero alcune prescrizioni alimentari giudaiche (At 10,28; 15,2.19-20.28-29; Gal 2,3; 1 Cor 7,18; Rm 2,26; 3,1; 4,11);


5) giudei che avevano abbandonato le prescrizioni della legge mosaica e il rito della circoncisione per i loro figli (At 21,21);


6) giudei che erano stati scribi, probabilmente farisei (Mt 13,52; 23,34);


7) giudei provenienti dalle fila dei farisei (At 15,5);


8) giudei provenienti dall’essenismo (per i quali rimando ai miei interventi dell’1 febbraio 2003, del 19 settembre 2003 e del 28 aprile 2004);


9) comunità di Damasco, sorta prima della conversione e dell’arrivo di Paolo (33-35 d.C.), di cui faceva parte Anania (At 9,1-2.10-21; 22,5.12-16; 26,11-12);


10) comunità di Alessandria sorta prima dell’arrivo di Paolo a Efeso durante il suo terzo viaggio (53-54 d.C.), comunità dalla quale proveniva Apollo (At 18,24-25) e che praticava «il battesimo di Giovanni» (At 18,25), cioè un battesimo per la purificazione del corpo e la remissione dei peccati dopo la conversione personale;


11) comunità prepaolina di Efeso (At 19,1-7), i cui membri praticavano «il battesimo di Giovanni» (At 19,3) e che dopo il battesimo da parte di Paolo ricevono lo Spirito Santo (At 19,5-6), ciò che si collega al fatto che il battesimo cristiano è un battesimo nello Spirito (Mt 3,11; 28,19; Mc 1,8; Lc 3,16; Gv 1,33; At 1,5; 2,38; 11,16; 1 Cor 12,13; Tt 3,5);


12) comunità di Roma, sorta prima della redazione della Lettera ai Romani (57-58 d.C.) e molto probabilmente già esistente al tempo dell’editto di Claudio (49-50 d.C.), che cacciò dalla città quei giudei che fomentavano disordini «impulsore Chresto» (Svetonio, Vita di Claudio, 25); tra di essi vi erano Aquila e Priscilla, che Paolo trova a Corinto durante il suo secondo viaggio (49-52 d.C.) e che verosimilmente erano già cristiani, poiché Luca non dice che furono convertiti da Paolo (At 18,1-3);


13) samaritani e giudei convertiti dal giudeo ellenista Filippo (At 8,4-6.12-13.26-40);


14) giudei della diaspora convertiti dagli ellenisti in Fenicia e a Cipro (At 11,19);


15) pagani convertiti dagli ellenisti ad Antiochia (At 11,20-21);


16) pagani convertiti da Pietro a Cesarea (At 10,44-48; 11,17-18; 15,7-11);


17) pagani convertiti da Paolo e dai suoi collaboratori in diverse città;


18) gruppi diversi formatisi ad Antiochia (Gal 2,13-14);


19) gruppi diversi formatisi in Galazia (Gal 1,6-7; 3,1; 4,9-10; 5,7);


20) gruppi diversi formatisi a Corinto (1 Cor 1,10-12; 3,3-4; 11,16.18-19; 2 Cor 12,20);


21) gruppo di cui parla Paolo in 2 Cor 10,2 – 12,21, costituito da giudei divenuti credenti in Cristo (2 Cor 11,22-23), che si sono introdotti nella comunità di Corinto dall’esterno (2 Cor 11,3-4) e predicano «un altro Gesù» e «un altro vangelo» (2 Cor 12,4); Paolo li definisce «superapostoli» (2 Cor 11,5; 12,11), «pseudoapostoli, operai fraudolenti, mascherati da apostoli di Cristo» (2 Cor 11,13);


22) gruppo interno alla Chiesa di Corinto, che praticava un battesimo «per i morti» (1 Cor 15,29), probabilmente “al posto” dei morti, cioè, con un’iniziale pratica di suffragio, per assicurare la salvezza a quelli che erano morti senza aver ricevuto il battesimo;


23) gruppo di cui parla Paolo nella Lettera ai Filippesi (Fil 1,28; 3,2-5), probabilmente costituito da giudei convertiti che pretendevano la circoncisione dei pagani convertiti, visti i termini «mutilazione» in Fil 3,2 e «circoncisione» in Fil 3,3.5;


24) nazorei, di cui parlano Epifanio (Panarion XVIII e XXIX), Girolamo (De viris ill. III,2-4; PL XXIII; In Is. 8,11-22; 9,1; 11,1-3; 29,17-21; PL XXIV; In Matth. 23,35; PL XXVI; Ep. 112,13; CSEL LV) e Giuseppe di Tiberiade (Hypomnesticon), che secondo Epifanio sono nati intorno al 66 d.C. dopo la fuga a Pella dei giudeo-cristiani di Gerusalemme (Pan. XXIX,7,8), ma che verosimilmente sono nati prima (cfr. At 24,5 e 28,22), che osservavano i precetti della legge mosaica, continuavano a usare l’originale Vangelo di Matteo in ebraico «nella sua interezza» secondo Epifanio (Pan. XXIX,9,4), cioè senza le falsificazioni e mutilazioni apportate degli ebioniti, riconoscevano e accettavano la missione di Paolo e avevano una cristologia assolutamente ortodossa sia secondo Epifanio (Pan. XXIX,7,6), sia secondo Girolamo, il quale in una sua lettera ad Agostino dice che i nazorei «credono in Cristo, Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, e dicono pure che è lui che ha patito sotto Ponzio Pilato e che è risuscitato, proprio come lo crediamo anche noi» (Ep. 112,13; CSEL LV);


25) gruppo o comunità che ha prodotto la Lettera di Giacomo (cfr. Gc 5,14), che distingueva se stesso da quelli che si fanno ingannare (Gc 1,16) e che si smarriscono (Gc 5,19) e condannava una sapienza (sophia) «terrestre, psichica, demoniaca» (Gc 3,15). Tale gruppo riteneva che i peccati degli uomini, originati dalla loro concupiscenza (Gc 1,15), fossero rimessi per le loro opere buone (Gc 2,24; 5,20), o per la preghiera dei presbiteri (Gc 5,15) o di Giacomo (nella notizia di Egesippo su Giacomo (in Eusebio, Hist. eccl. II,3,6) questi chiedeva ogni giorno perdono per il popolo). Non sappiamo se questo gruppo ritenesse o meno che i peccati degli uomini fossero rimessi per i meriti e le sofferenze di Cristo, idea questa assai diffusa e centrale nella cristologia, che si ritrova nel Vangelo di Matteo (Mt 26,28), nel corpus giovanneo (Gv 1,29; 1 Gv 1,7; 2,2; 4,10; Ap 1,5), nel corpus paolino (Rm 3,25; 4, 25; 1 Cor 15,3; Gal 1,3-4; Ef 1,7; Tt 2,14), nella Lettera agli Ebrei (Eb 1,3; 2,17; 7,27; 9,28; 10,12) e nella prima Lettera di Pietro (1 Pt 3,18); e non è facile capire se per questo gruppo il peccato origina dalla trasgressione di una norma (concezione che avrebbe radici farisaiche), oppure è inteso come una sorta di status originario indipendente dalla volontà del singolo, concezione che avrebbe radici nell’essenismo (cfr. 1QH XII,29; 4Q181 fr. 1,1; 1 Enoc LXXXI,5) e in Paolo (cfr. Rm 3,23; 5,12.17-21; 7,8.11.14-24);


26) gruppo dei seguaci di Simone Mago, samaritano che «esercitava la magia» (At 8,9) e che fu convertito e battezzato dall’ellenista Filippo (At 8,13). Di lui parlano, oltre agli Atti degli Apostoli, anche Giustino, Ireneo, Clemente Alessandrino, Ippolito Romano, Girolamo, Eusebio, gli Atti di Pietro e la letteratura pseudoclementina. Si faceva chiamare «Potenza di Dio Grande» (At 8,10), «Paraclito» e «Onnipotente» (Girolamo, In Matth., XXIV,5; PL XXVI) ed era venerato come un dio (Giustino, Apol. I,26,3; 56,2). Si recò a Roma ai tempi di Claudio ed ebbe lì molti seguaci. Ma la statua ritrovata nell’isola tiberina nel 1574, che porta l’iscrizione “Semoni Sanco deo fidio sacrum”, era dedicata non a lui, come pensano alcuni, ma al dio sabino Semo Sancus. Aveva come compagna Elena, un’ex prostituta di Tiro, che secondo lui era “l’idea primordiale” e aveva creato gli angeli, i quali a loro volta avevano creato il mondo materiale. Egli diceva di essere venuto a liberarla dal corpo materiale. Secondo Ireneo, Simone affermava di essere apparso ai samaritani come «Padre», ai giudei come «Figlio» e ai pagani come «Spirito Santo» (Adv. haer. I,23,2; 27,4);


27) gruppo di cui si parla in Ef 5,6-7, costituito da «figli della disobbedienza» (Ef 5,6), che ingannano «con vuote parole» (Ef 5,6), e ai quali non ci si deve associare (Ef 5,7). Anche se la «disobbedienza» in molti passi del Nuovo Testamento è sinonimo o di generica trasgressione di norme etico-religiose (Lc 1,17; Rm 10,21 (che cita Is 65,2); 11,30; Ef 2,2; Tt 1,16; 3,3; Eb 4,6), o di mancanza di fede (Gv 3,36; At 14,2; 26,19; Rm 2,8; 10,16; 11,31; 15,31; 1 Pt 2,8; 3,1; 4,17; Eb 3,18; 11,31), in questo caso il riferimento a «vuote parole» (Ef 5,6) e il divieto di diventare compagni di quelli che le proferiscono (Ef 5,7) fanno pensare a un gruppo che aveva aderito alla fede;


28) comunità giovannee (cfr. Gv 3,5-8; 4,23; 8,31; 9,35-39; 11,25-27; 17,20-26; 20,26-29; 21,24; 3 Gv 6.9; Ap 1,4.11.20; 2,7.11.17.23; 3,6.13.22; 22,16), che sono in diverse città (3 Gv 3.6.7.10; Ap 1,4.11.20; 2,7.11.17.23; 3,6.13.22; 22,16), che celebravano la Pasqua il 14 Nisan, in qualunque giorno della settimana cadesse (cfr. Eusebio, Hist. eccl. V,23-24) e che da un lato insistevano sul fatto che Gesù era un uomo (Gv 4,29; 5,12; 7,46; 8,40; 9,11.24; 10,33; 11,47.50; 18,14.17.29; 19,5), dall’altro affermavano direttamente che Gesù era Dio (Gv 1,1.18; 5,18; 10,30.33; 20,28), che preesisteva alla sua incarnazione (Gv 1,1-2.14.18; 3,13; 6,38.41-42.51; 1 Gv 1,1-2; 2,13-14; Ap 22,13) e che il Padre era in lui e lui nel Padre (Gv 1,18; 10,30.38; 14,10-11.20; 17,21); a un certo punto furono espulse dalle sinagoghe (cfr. Gv 9,22; 12,42; 16,2-3), forse perché affermavano direttamente che Gesù era Dio; e a un certo punto furono critiche verso il tempio (cfr. Gv 4,21-24), verso il riposo sabbatico (cfr. Gv 5,16-17) e verso i riti giudaici di purificazione (cfr. Gv 15,3);


29) gruppo separatosi dalle comunità giovannee (1 Gv 2,18-19.26; 3,7; 4,1-6; 2 Gv 7.10-11; Ap 2,2), i cui membri, definiti «anticristi» (1 Gv 2,18; cfr. 1 Gv 2,22; 4,3, 2 Gv 7), dicono di essere in comunione con Dio (1 Gv 1,6; 2,6), di conoscere Dio (1 Gv 2,4; 4,8), di essere nella luce (1 Gv 2,9) e professano che Gesù non è venuto nella carne (1 Gv 4,1-3; 2 Gv 7), probabilmente un gruppo di doceti o un iniziale gruppo gnostico;


30) gruppo di cui parla Paolo in Fil 3,18-21, i cui membri definisce «nemici della croce di Cristo», forse perché negavano la risurrezione della carne o la risurrezione di Cristo (cfr. Fil 3,20-21), probabilmente di doceti;


31) gruppi nati all’interno delle chiese paoline, a cui a un certo punto aderirono Imeneo, Fileto e Alessandro (1 Tm 1,19-20; 2 Tm 2,16-18; 4,14-15), che negavano la risurrezione della carne (1 Cor 15,12-13.15-16.29-32; 2 Tm 2,18), probabilmente doceti;


32) gruppi che predicano «di astenersi dai cibi» e proibiscono di sposarsi (1 Tm 4,3), i cui membri fanno traviare (1 Tm 4,1) e sono «bugiardi» (1 Tm 4,2);


33) gruppi gnostici iniziali, che professando una «falsamente nominata conoscenza» (1 Tm 6,20) e dichiarando «di conoscere Dio» (Tt 1,16), insegnano un’altra dottrina (1 Tm 1,3; 6,3) opposta alla «sana dottrina» (1 Tm 1,10; 2 Tm 4,3; Tt 1,9; 2,1) e «sviarono riguardo alla fede» (1 Tm 6,21); il fatto che in 1 Tm 6,20 Timoteo viene invitato ad evitare «i vuoti discorsi profani e le opposizioni di una falsamente nominata conoscenza» (pseudōnymou gnōseōs) presuppone che venisse già usato il termine tecnico gnōsis nelle dottrine che Timoteo viene invitato ad evitare;


34) gruppo nato nella comunità paolina di Colossi, che abbindolava gli altri con la «filosofia» (Col 2,8), «per cibi, bevande o in materia di una festa o di novilunio o di sabati» (Col 2,16), per la sottomissione a precetti giudaici (Col 2,20-23) e «nel culto degli angeli» (Col 2,18), forse un gruppo che osservava la legge mosaica e che aveva una cristologia angelica, condannata sia nella stessa Lettera ai Colossesi, dove si afferma che gli angeli sono stati creati per mezzo di Cristo (Col 1,16) e quindi Cristo non può essere un angelo, sia nella Lettera agli Ebrei, che afferma ripetutamente, evidentemente polemizzando con qualcuno, che Cristo è superiore agli angeli (Eb 1,4-13; 2,5);


35) gruppo dei «nicolaiti» (Ap 2,6.15), i cui membri sono accusati di mangiare carne immolata agli idoli (Ap 2,14.20) e di fornicazione (Ap 2,14.20-22);


36) gruppo di cui parla Clemente Romano nella sua Lettera ai Corinzi (1 Clem. I,1; III,3; XIV,1-2; XLVI,5.8; XLVII,6; LI,1; LIV,1; LVII,1-2; LXIII,1), che negli ultimi anni del primo secolo, istigato da qualcuno (1 Clem. XLVII,5), si è ribellato ai presbiteri della Chiesa di Corinto, perché voleva che alcuni fossero esonerati dall’episcopato (1 Clem. XLIV,3-6), forse per «gelosia» (1 Clem. LXIII,2). Clemente invita questo gruppo alla pace e alla riconciliazione, affermando che i presbiteri di Corinto hanno «servito rettamente il gregge di Cristo» (1 Clem. XLIV,3), hanno una «ottima condotta» (1 Clem. XLIV,6), sono «giusti e innocenti» (1 Clem. XLVI,4);


37) gruppi descritti nella seconda Lettera di Pietro (2 Pt 1,16; 2,1-22; 3,3) e nella Lettera di Giuda (Gd 4-19), accusati di libertinaggio, lussuria e corruzione (2 Pt 2,2-3.10.14.18-19; 3,3; Gd 4.7-8.16.18), di rinnegare Cristo (2 Pt 2,1; Gd 4), di essere «falsi maestri» (2 Pt 2,1), di non seguire «la via della verità» (2 Pt 2,2) e di essere in «errore» (2 Pt 2,18; 3,17; Gd 11); si afferma che promettono agli altri «la libertà, mentre sono, essi stessi, schiavi della corruzione» (2 Pt 2,19); probabilmente si tratta di iniziali gruppi gnostici, vista la frequenza con cui nella seconda Lettera di Pietro sono usati il termine «conoscenza» (2 Pt 1,2.3.5.6.8; 2,20; 3,18) e il verbo conoscere (2 Pt 1,20; 2,21);


38) ebioniti, di cui parlano Ireneo (Adv. haer. I,26,1-2; III,11,7), Origene (Contra Celsum 5,61-65; PG XI; In Matth. 16,12; PG XIII), Ippolito Romano (Refutatio VII,35), Epifanio (Pan. XXX), Girolamo (De viris ill. IX,1; PL XXIII) ed Eusebio (Hist. eccl. III,27,1-4), nati probabilmente dopo la morte di Giacomo (62 d.C.) e prima dello scoppio della guerra giudaica (66 d.C.), che accettavano solo un Vangelo di Matteo modificato redatto in greco, di cui si trovano frammenti in Epifanio (Pan. XXX,13,3-8), rifiutavano Paolo, negavano la divinità di Cristo, negavano la preesistenza di Cristo, affermavano che lo Spirito Santo era sceso in lui solo al momento del battesimo nel Giordano, facevano quotidiani battesimi per immersione, usavano acqua e non vino per l’eucaristia;


39) elchasaiti, di cui parlano Origene (Hom. in Ps. 32, cit. in Eusebio, Hist. eccl. VI,38), Ippolito Romano (Ref. IX,13-17 e X,29) ed Epifanio (Pan. XIX e LIII), che praticavano un battesimo per immersione che poteva essere somministrato più volte, ritenevano che Cristo fosse androgino, che lo Spirito Santo fosse di natura femminile e che vi è stato un “travaso” del Cristo in diversi soggetti storici;


40) doceti, di cui parlano Ignazio di Antiochia (Smirn. IV – VII; Trall. IX – XI; Magn. X – XI; Ef. VII e XVIII), che scrive le sue lettere, essendo morto martire sotto Traiano, prima del 117 d.C., Ippolito Romano (Ref. VIII,8-11; X,16) e Teodoreto di Cirro (Ep. LXXXII), che affermavano che il Cristo aveva l’apparenza di uomo, ma non aveva natura umana e carnale, e negavano la passione e risurrezione di Cristo, sostenendo che sia la sua nascita che la sua passione che la sua risurrezione sono state apparenze.


Tra la fine del primo secolo d.C. e l’inizio del secondo il cristianesimo era dunque una realtà multiforme e variegata. Nel corso del secondo secolo la maggioranza dei gruppi e comunità sopra descritti hanno trovato una forma di integrazione nella Chiesa. Sono stati tenuti fuori alcuni gruppi per la loro cristologia, che fu ritenuta diversa da quella della tradizione apostolica: i seguaci di Simone Mago, gli ebioniti, gli elcasaiti, i doceti e gli gnostici. Sono stati tenuti fuori anche i nicolaiti e i cristiani di origine giudea che volevano imporre ai pagani convertiti la circoncisione. Gli altri hanno trovato forme di coesistenza e di incontro. Data la grande varietà di idee e di posizioni, nella seconda metà del primo secolo si è cominciato a distinguere tra ciò che era e ciò che non era conforme alle tradizioni che risalivano agli apostoli e tra ciò che era e ciò che non era contrario a queste tradizioni. Ad esempio, la circoncisione dei pagani divenuti cristiani è stata ritenuta non apostolica, perché non era stata sostenuta né dai dodici, né da Giacomo, né da Paolo. Lo stesso vale per le idee che Gesù non era un uomo, o che non possedeva la natura divina, o che non era risorto dai morti. È importante sottolineare che le tradizioni apostoliche erano numerose e diverse (come del resto attestano le diversità dei ventisette libri del Nuovo Testamento) e dunque che nella Chiesa vi è stato in qualche modo un incontro tra queste diversità.

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29/03/2012 16:42
 
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La storia del cristianesimo è la storia di fatti e persone, come tale, è caratterizzata da luoghi e momenti precisi, perché la storia di ognuno di noi è scandita in luoghi e momenti. [...] 

Gli apostoli ed i discepoli, dopo un comprensibile momento di smarrimento, di fronte alla scomparsa di Colui con il quale avevano condiviso la vita per circa tre anni, verificato, con i propri sensi che le promesse fatte dal Maestro erano state mantenute (Egli non si era definitivamente allontanato, non li aveva abbandonati), continuano a vivere in comunione, intorno alla Madre di Gesù, prima, e, successivamente, intorno ai primi che Lo avevano seguito, consapevoli, fin dall'inizio, che solo attraverso la loro unità Egli continuava a vivere. 

Le notizie circa questa prima comunità ci sono date dagli Atti degli Apostoli, scritti da S. Luca, il quale, oltre a riportare racconti uditi dagli stessi apostoli, vive in prima persona quella vita (egli, infatti, è compagno di Paolo quando questi giunge a Roma per la prima volta). Luca ci riferisce che "…erano assidui nell'ascoltare… gli apostoli, nella frazione del pane… stavano insieme,frequentavano il tempio e spezzavano il pane in casa…". Apprendiamo che, fin dall'inizio, la comunità si raccoglie intorno a coloro che riteneva esserel'Autorità, la Guida sicura, il punto di RIFERIMENTO e, più in particolare, Pietro, designato direttamente da Gesù per rappresentarlo, quale Suo prolungamento; già in Gerusalemme, e prima della grande diffusione, esiste un nucleo istituzionale, successivamente, le comunità sparse intorno saranno rette da anziani scelti con il consenso degli apostoli, i Presbiteri, prima, i Vescovi, dopo, con i Diaconi, che collaboravano con questi. Si distingue la particolare autorità di Pietro, che è il punto di riferimento quando deve essere scelto il sostituto di Giuda, o anche nelle questioni amministrative (come nel caso di Anania e Saffira, i coniugi che, entrati nella comunità, avevano omesso di conferire tutti i loro beni), ed è a Lui che si farà riferimento, per l'ammissione dei non ebrei al cristianesimo. Si ricorda, infatti, che la prima conversione pagana, quella del centurione Cornelio, avvenne ad opera di Pietro, che si recò nella sua casa, invitato, con perplessità da parte di tutti. 

Fin dai primi momenti, però, la vita per i discepoli di Cristo diviene avventurosa, essi devono essere prudenti, per evitare reazioni da parte dei Giudei; è datato al 34 il martirio di Stefano, un Diacono, lapidato dai Giudei, e, tra questi, da quel Saulo, che diventerà "Apostolo delle Genti". Stefano fu oggetto di un linciaggio popolare, seppur "tollerato" dai sacerdoti, che sapevano bene di non avere il potere di eseguire condanne a morte (in quell'occasione, Caifa venne destituito). Si trattò, comunque, secondo il diritto romano, di un abuso, tanto è vero che, dopo la condanna a morte di Giacomo Minore e di altri cristiani, nel 62, ad opera dei sommi sacerdoti, Ananos fu destituito. Egli aveva approfittato di un momento di "vacanza" del governo romano nella provincia (era morto Porzio Festo e non era stato ancora sostituito), per eliminare qualche scomodo cristiano, ma l'atteggiamento dello stato romano, nei confronti di questi primi non fu mai di aperta intolleranza. Addirittura, è del 35, il famoso senatoconsulto di Tiberio, il quale, probabilmente non per simpatia, ma solo per il suo profondo senso religioso, e per tentare di metter pace in una provincia bellicosa, chiese di riconoscere il cristianesimo alla stregua di tutte le altre religioni "lecite". Nonostante il parere contrario del Senato, Tiberio, che secondo Tertulliano e Giustino, aveva ricevuto da Pilato, una relazione sulle vicende di Gesù, pose comunque il veto ad eventuali accuse contro i cristiani

E' ormai ritenuto vero dalla maggior parte degli studiosi, che l'atteggiamento del governo romano, nei confronti della nuova "setta", fu tollerante, almeno fino al 62 – 64. E, anche nelle vere e proprie persecuzioni, a cominciare da quella di Nerone,l'accusa, nei confronti dei cristiani non fu politica, ma religiosa, essi, cioè, non adorando gli dei tradizionali, e non adorando l'imperatore, si rendevano rei di "superstitio illicita", cagionando l'ira degli stessi dei contro l'impero. Solo al tempo di Marco Aurelio, quando il Montanismo diffuse tra i cristiani atteggiamenti di rifiuto dello stato e di aperta provocazione, il cristianesimo fu ritenuto un pericolo vero e proprio per l'impero. Anche quando, nel 49, con un editto, furono espulsi gli ebrei da Roma, il provvedimento, secondo la studiosa Marta Sordi, non riguardò i cristiani (a seguito di tale editto, Prisca e Aquila, ebrei, si rifugiarono a Corinto, dove presero contatti con Paolo). Svetonio riporta di tumulti tra i Giudei "impulsore Chresto", ma non è certo si tratti di Cristo Gesù (Sordi). 

Una vera e propria persecuzione, in Giudea, fu subita dalla Chiesa nel periodo in cui la regione fu affidata ad un re locale, Erode Agrippa I, e sottratta al governo romano; Erode ne approfittò, fece uccidere Giacomo, e "visto che ciò era gradito agli ebrei, fece arrestare Pietro". Nel 42 è collocato l'arrivo di Pietro a Roma (Eusebio, Papia di Gerapoli, Clemente di Alessandria), ed è da ritenere che già vi fosse, in quella città, qualche cristiano. La cosa non ci deve meravigliare, per due ordini di ragioni: le vie di comunicazione, nell'impero romano, erano efficacissime e veloci; inoltre, molte persone si avvicendavano sia in Palestina, sia a Roma, e molti potevano aver avuto contatti con i cristiani. Fin dal primo momento, infatti, l'avvenimento di Cristo veniva reso presente attraverso dei semplici rapporti di frequentazione e di amicizia, più che attraverso una propaganda fatta di predicazioni. Chi veniva in contatto con i primi, coglieva in essi la verifica di una letizia, una vita piena, e più umana, pur nelle incombenze quotidiane. Emblematico della vita dei primi cristiani, è la descrizione che ne fa la lettera di un anonimo del II secolo ad un certo Diogneto. 

Pietro prende contatti con persone di ogni ceto sociale, ma viene prevalentemente ospitato da persone altolocate, addirittura da membri della famiglia imperiale. Pare, infatti, che sia stato subito ospite di Marcello, vicino alla famiglia di Claudio, che era stato conosciuto in Palestina, allorquando aveva sostituito Pilato a Gerusalemme. 

Nella lettera ai Romani di Paolo, è dato individuare almeno cinque gruppi di fedeli, gruppi eterogenei, ebrei, pagani, ricchi e poveri. E' di questo primo periodo di Pietro a Roma, l'episodio narrato da Tacito negli "Annali", relativo al processo maritale di Pomponia Graecina, imparentata con la famiglia di Tiberio. Intorno al 42, questa matrona romana aveva mutato la sua vita, non potendo più provare alcuna gioia nella vita scostumata e pretenziosa della nobiltà, ella venne condotta dinanzi al Tribunale del marito, riscoprendo così, di fatto, una figura giuridica ormai in disuso, per "superstitio illicita"; ella, cioè, non si abbandonava più, come le altre nobili romane dell'epoca, al culto anche sfrenato, dei riti religiosi pagani, conducendo una vita dimessa. Si ritiene che Pomponia avesse conosciuto lo stesso Principe degli apostoli

Emblematico anche il caso relativo alla visita di Paolo e Barnaba a Cipro, invitati dal Proconsole Sergio Paolo, dato riportato negli Atti e confermato da una recente scoperta archeologica. Paolo e Barnaba si trattengono presso Sergio Paolo, stringono un vero e proprio rapporto di amicizia e, sempre scoperte archeologiche recenti, attestano la presenza di una «domus ecclesia» in casa dello stesso Proconsole (la tradizione vuole che in seguito a questa amicizia Saulo prendesse il nome di Paolo). 

Nelle sue lettere ai romani, Paolo si rivolge a persone ben definite, conosciute, dapprima solo indirettamente, poi di persona. Si tratta di gruppi di amici che si riuniscono in case messe a disposizione dalle famiglie più facoltose, le «domus ecclesiae», o chiese domestiche, sulle quali, successivamente, sono state erette delle vere e proprie chiese

Il metodo, il modo di trasmissione della fede, non è altro che la vita normale di uomini e donne, che si sono imbattuti in altri uomini e donne, per "caso",sperimentando una felicità vera. Non crediamo affatto al fascino della moralità espressa, secondo alcuni, dai primi cristiani: la novità del cristianesimo non è data affatto dai costumi, o dai diversi usi, ma dalla sperimentazione, nella vita quotidiana, di una pienezza di umanità (Socci). Essi mostrano di aver incontrato il senso di ogni cosa, il giusto significato di tutto, attraverso una Persona: Gesù Cristo dal cui incontro scaturiscono tutta una conseguenza di atteggiamenti chiamati "morale cristiana". 

Tra le domus ecclesiae, la casa del Senatore Pudente (divenuta Chiesa di Santa Pudenziana, dal nome di una delle figlie del senatore); la casa di Prisca e Aquila sull'Aventino (Socci), gli amici di Paolo a Corinto (divenuta Chiesa di Santa Prisca); la casa dove alloggiò per circa tre anni Paolo, agli arresti domiciliari, lungo il Tevere, e dove si intratteneva con gli amici, soprattutto ebrei del quartiere; qui si rifugia lo schiavo Onesimo, fuggito da Filemone (divenuta chiesa di S. Paolo alla Regola). Le testimonianze letterarie su tali case domestiche sono state, recentemente, confortate dagli scavi archeologici (gli scavi sotto la Chiesa di Santa Pudenziana hanno rivelato una dimora signorile che dalla tarda età repubblicana resistette fino all'epoca di Nerone).
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29/03/2012 16:45
 
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(seguito del post precedente)

Il comportamento dei cristiani è, anche alla luce della testimonianza della lettera a Diogneto, ed all'atteggiamento di Pomponia Graecina, che giustifica il suo cambiamento di vita con un lutto familiare, molto riservato; 
- si riuniscono per la celebrazione dell'eucaristia, 
- per ascoltare le parole degli apostoli, o dei loro testimoni, vivendo, anche sacramentalmente, ciò che anche noi, oggi, viviamo nella Chiesa. 
Da Tertulliano apprendiamo che, fin dal primo momento, fondamentale per la loro vita, era l'incontrarsi per celebrare l'eucaristia, per istruire i catecumeni prima del battesimo, e per fare penitenza prima di spezzare il pane. Fin dai primi tempi, le comunità erano rette dagli anziani, che, chiamati vescovi più tardi, avevano come punto di riferimento ultimo, a partire dal secondo secolo, il Vescovo di Roma, come immediato successore di Pietro

E' emblematico il caso della diatriba sui cosidetti "lapsi", coloro che, per timore, avevano abiurato la loro fede, e intendevano tornare in seno alla comunità: nella controversia tra due vescovi africani, fu demandata la soluzione al Papa Cornelio, e la sua decisione definì la questione, una volta per tutte. Una continuità, quindi, nella vita della Chiesa, mai interrotta, nel metodo e nella sostanza, laddove lo stesso metodo, l'incontro personale, diventa vita vera. Non sono certamente perfetti, sono uomini normali, tra loro nascono invidie, rancori, come in tutti gli uomini normali, anche se certa cinematografia ci fa vedere persone quasi beote, con un sorriso stupido sempre stampato sul volto, possiamo affermare che l'idillio, la poesia, è astrazione, la realtà è quella trasmessaci dalle lettere, dalle testimonianze letterarie, e dai dipinti rinvenuti nelle catacombe e nelle chiese domestiche. 

Le eresie trovano spazio fin dai primissimi anni, tentativi di purificazione, o, semplicemente, tentativi di "dare la propria personale impronta" ad una fede che non si fonda su di una idea o una filosofia, ma su una persona. Dice bene Peguy, il quale definisce il cristianesimo come una catena di umanissimi e imprevisti incontri, sempre così ci si imbatte nel fatto cristiano, indipendentemente dalle proprie origini, dalla propria indole, o idea religiosa

Fino al 64, anno dell'incendio di Roma, non si assiste a vere e proprie persecuzioni, ma, con Nerone, i cristiani vengono accusati di ogni turpitudine, e, soprattutto, di"odio humani generis", per non adorare gli dei propizi all'impero. Il martirio di Pietro è collocato in questo periodo. La colpa di cui i cristiani sono incriminati, secondo Svetonio, è quella di "superstitio illicita", come Pomponia Graecina, una superstitio che però comportava sempre secondo Svetonio, la commissione di "flagitia", atti malefici (oscenità, incesti, così i pagani interpretavano l'eucaristia ed il fatto che tra di loro si chiamassero fratello e sorella). In realtà, questi uomini che sembravano essere contenti senza dedicarsi a divertimenti sfrenati, erano oggetto anche di scherno (a Pompei, è stato ritrovato un graffito che denomina i cristiani "saevi solones", sapientoni dalla faccia scura, e anche Pomponia Graecina era additata per la sua vita dimessa). 

Gli Imperatori della dinastia dei Flavi, e, più in particolare, Tito e Vespasiano, ebbero modo di conoscere i cristiani in Palestina, e, probabilmente, li frequentarono, addirittura molti dei loro familiari lo divennero (Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, Flavio Clemente e Flavia Domitilla, il membro dell'aristocrazia Acilio Glabrione, tutti perseguitati, più tardi da Domiziano, nel 95). Domiziano rinfacciava a Domitilla e Flavio Clemente, suo marito, di essere atei, di non adorare più gli dei tradizionali, stessa accusa toccò a Acilio Glabrione (notizie tratte da Dione). 

L'avvento di Nerva e Traiano apre un periodo di tranquillità e prosperità, anche se continuano le persecuzioni, soprattutto nelle provincie, su accusa di singoli ebrei o pagani; è del 111-113, il famoso rescritto di Traiano, la risposta che l'imperatore fornisce al governatore della Bitinia, Plinio, il quale si chiedeva come comportarsi con i cristiani accusati, ma verso i quali non riteneva vi fossero veri e propri reati da imputare. Traiano permette l'assoluzione degli apostati, suggerendo di chiedere loro non se fossero mai stati cristiani, ma se lo fossero attualmente; ma, soprattutto, vieta il perseguimento d'ufficio. Antonino Pio si attenne alle norme dei suoi predecessori, ma, almeno nel caso di Policarpo, vescovo di Smirne, la norma fu violata: Policarpo fu condannato , a seguito di pressioni da parte della folla inferocita, solo in quanto cristiano. Con Marco Aurelio, per la prima volta, la filosofia stoica si innesta al potere; egli rimane indifferente alla nuova setta, fino all'impatto con il fanatismo montanista, che vietava ai cristiani di prendere parte alla vita politica, pubblica, e di combattere. 

Si trattò di un equivoco, perché la Grande Chiesa combattè questa vera e propria eresia, come attestano le apologie di Atenagora di Atene, Melitone e Milziade. Con Commodo, ebbe fine la persecuzione, e i rapporti furono aperti e tolleranti. L'episodio del Papa Vittore e di Marcia si colloca in questo contesto. Solo con Decio, intorno al 249, si assiste ad una ulteriore persecuzione, molto cruenta e feroce, con veri e propri massacri, così come con Valeriano; ma qui siamo in piena crisi politica e economica, i barbari sono alle porte, la peste decima le città, la carestia spopola le campagne, e il popolo accusa i cristiani anche di questo. Valeriano ne riconosce l'illiceità, mentre, con Gallieno, le comunità divenivano soggetti di diritto, ed ai Vescovi, era riconosciuta l'autorità e venivano restituiti i beni confiscati. La pace dura fino alla tremenda persecuzione di Diocleziano, che, nel suo delirio di restaurazione delle tradizioni, sobillato dai sacerdoti pagani, ritenne i cristiani, soprattutto quelli della classe senatoria,colpevoli di ateismo e di lesa maestà.

Ma, fin dall'inizio, i cristiani, da un lato per assicurarsi uno spazio di libertà, dall'altro per sottolineare l'assoluta novità della loro esperienza, usavano gli strumenti giuridici messi a disposizione dall'ordinamento romano statale; innanzitutto, il "collegium religionis causa", una sorta di figura associativa,attraverso la quale essi aprivano e gestivano scuole, ospedali e banche

Identica cosa accadeva nel linguaggio usato (Ecclesia). I primi, pur stretti intorno al tesoro che ciascuno di essi aveva avuto la fortuna di incontrare, vivono immersi nel mondo, conducendo una vita ordinaria, seppur diversa, più piena; perfettamente integrati, secondo la studiosa Marta Sordi, nella vita civile, militare e politica. Non si preoccupano di distruggere l'istituto della schiavitù, per esempio, ma Paolo, rimandando Onesimo a Filemone, suo "padrone", dopo la fuga, lo definisce "fratello", né si preoccupano di riformare i costumi. Essi rispettano l'imperatore, le leggi, ben sapendo che non sono le battaglie di idee a cambiare l'uomo, ed a renderlo felice. Anzi, consapevoli che, per poter liberamente incontrare altri uomini, era necessario rispettare chi aveva il potere; la comunità cristiana, nella sua libertà e autentico realismo, non disdegnò la protezione politica, le donazioni, tutte le forme di tutela loro concesse. 

Il rapporto con lo stato è stato sempre improntato ad un pragmatismo, che nascedal sano realismo; solo quando gli imperatori hanno preteso di inteferire nelle questioni di fede, imponendo il culto e l'adorazione alle loro persone, scattava l'opposizione, il rifiuto drastico. I martiri sono, pertanto, persone che, ben consapevoli del loro vero bene, vanno incontro alla morte più atroce, non come "fanatici" (così definiti da certa storiografia), ma come chi, dopo aver sperimentato il centuplo sulla terra, va incontro alla felicità senza fine. 

Abbiamo numerose testimonianze dagli atti dei martiri, soprattutto dalle lettere che Ignazio di Antiochia, nel viaggio verso Roma, in catene, scriveva alle comunità che incontrava sul suo cammino. Fanciulle giovanissime, bambini, donne e uomini di ogni rango, ci hanno lasciato commoventi testimonianze e accanto alle loro tombe sempre i fedeli hanno continuato a voler farsi seppellire. Le catacombe, infatti, non erano, come comunemente si crede, il luogo di ritrovo dei cristiani, ma semplicemente, i cimiteri, messi a loro disposizione, spesso insieme ai pagani, per seppellire i "loro" amici. Famoso, il terreno donato dalla nobile Domitilla, oggi catacomba visitabile, presso il quale spesso i cristiani si ritrovavano per venerare i morti, i santi, e anche per celebrare l'eucaristia. 

Del realismo cristiano è testimone la reazione di Agostino, Vescovo di Ippona, allorquando apprende che i barbari sono alle porte (Socci). Il suo distacco nasce dal fatto che qualcosa d'Altro riempie la sua vita, qualcosa, o meglio Qualcuno reale e concreto, che non gli può essere tolto da rivolgimenti politici, che dà gioia e senso anche alla fine di un mondo. Identico realismo soggiace al comportamento "politico", improntato ad una "Libertas ecclesiae", che è cosa ben diversa da una semplice libertà religiosa, o libertà di associazione (la stessa differenza che passa tra un'idea ed un fatto); è molto di più: essi, essendo soddisfatti del continuo dono di Grazia, e dalla felicità che Cristo dà loro, vogliono semplicemente goderselo. 


Per approfondire: 
SOCCI Antonio, Tutti gli amici del senatore a fine impero. Roma, i cristiani dell'anno 380, in Il Sabato, 28.8.1993, n. 35, p. 46s. 
SORDI Marta, I Cristiani e l'Impero Romano, Jaca Book, Milano 1995
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31/03/2012 23:44
 
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Per un ulteriore approfondimento di questa tematica è disponibile la prima parte della STORIA ECCLESIASTICA di Eusebio al seguente collegamento:

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31/03/2012 23:51
 
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La grandezza di Ambrogio

 

di Marta Sordi

 

Il santo vescovo di Milano combatté coraggiosamente per la libertà della Chiesa. Si oppose quando necessario al potere politico. E il popolo stava con lui.

 

Il potere temporale nacque, come è noto, non dalla donazione di Costantino, che è certamente falsa, ma dalla funzione di supplenza che, nel vuoto di potere e, soprattutto di autorità, seguito alla caduta dell'impero romano di Occidente, la Chiesa fu chiamata a svolgere dalle stesse popolazioni dell'Impero Ma uno stretto legame fra Vescovo e Popolo sì era già manifestata sotto l'Impero romano-cristiano, quando il rischio non era quello di una assenza dello Stato, ma, semmai, dell'interferenza di un Potere il cui capo era stato, sino a Graziano, anche il capo ufficiale della religione, nelle cose della Chiesa.

Il comportamento di Ambrogio nella controversia per le basiliche (385-386) e il rapporto nuovo da lui stabilito in quell'occasione col popolo di Milano sono, da questo punto di vista, paradigmatici, anche perché egli era giunto all'episcopato dalla carriera politica e, nella sua costante lealtà verso l'Impero, non rifiutò l'impegno politico a favore di esso quando, per due volte, nel 383/4 dopo la morte di Graziano e nel 386/7, sì recò come ambasciatore in Gallia presso l'usurpatore Magno Massimo per scongiurarne l'invasione dell'Italia e l'attacco al giovane Valentiniano II.

Ambrogio, che disapprovava il ricorso allo Stato per punire colpe interne alla Chiesa e che, nello stesso 386, poco dopo lo scontro per le basiliche, ruppe la comunione con i Vescovi della Gallia, colpevoli di aver sollecitato il braccio secolare contro gli eretici Priscillianisti, non esitò ad opporsi alla corte di Milano quando questa, in nome della libertà di culto, impose la consegna agli Ariani, "omeisti", di una basilica cattolica, la Porziana (forse San Vittore al Corpo o San Lorenzo) e, più tardi, anche della Nova, che si trovava dentro le mura, in prossimità dell'attuale Duomo Lungi dal rappresentare, come ha sostenuto qualche moderno, lo scontro fra due comunità rivali, esistenti da tempo a Milano, la vicenda che culminò con l'occupazione, da parte di Ambrogio e del popolo milanese a lui fedele, delle basiliche, nacque solo dopo la venuta a Milano, come ospite della corte (l'imperatrice Giustina, madre dell'imperatore, era filoariana) di Mercurino Aussenzio, vescovo "omeista" di Durosturum, dell'illirico, deposto da Teodosio, e con la richiesta imperiale, nel 385 e poi agli inizi del 386, della cessione di una basilica agli ariani, in nome della libertà di culto e con la minaccia della pena di morte

La ricostruzione che Ambrogio dà della successione dei fatti è contenuta in due lettere dello stesso Ambrogio, quella a Valentiniano II, del marzo 386 (ep. 75 Faller = 21 Maur.) e quella alla sorella Marcellina (ep. 76 Faller = 20 Maur.) dell'aprile dello stesso anno, oltre che nel suo Sermo contra Auxentìum.

Nella lettera a Valentiniano c'è il rifiuto di Ambrogio di discutere la questione nel Consistorium, alla presenza dell'imperatore, dopo aver scelto, come Aussenzio, dei giudici; Ambrogio rifiuta, dichiarando che egli non può mettersi a questionare nel Palazzo, perché egli non cerca né conosce gli intrighi del Palazzo, e citando una disposizione di Valentiniano I, secondo cui, in questioni riguardanti la religione, i sacerdoti devono essere giudicati solo da sacerdoti. Nella lettera a Marcellina, che, essendo confidenziale, ci dà della vicenda una versione molto colorita, dopo la sua felice conclusione, Ambrogio ricorda che, nel periodo immediatamente precedente alta Pasqua del 386, l'ordine di requisizione riguardava ormai due basiliche (la Porziana e la Nova) e che egli aveva risposto che un Vescovo non può consegnare un Tempio che appartiene a Dio, rendendosi colpevole di traditio; quando il prefetto dei pretorio cercò di persuaderlo a ritirarsi almeno dalla Porziana, il popolo protestò; durante la settimana santa, dopo gli incidenti scoppiati nella basilica Nova quando gli incaricati dell'imperatore avevano cercato di stendere le "cortine" per indicare la requisizione, la corte tentò di scoraggiare il popolo, colpendo con multe altissime i commercianti, ma riuscì solo ad aumentare la tensione e la protesta popolare.

Il mercoledì santo (1 aprile del 386), mentre la basilica Nova era assediata dalle truppe e Ambrogio si trovava bloccato col popolo nella Vetus, una parte dei soldati avvertirono l'imperatore che lo avrebbero ubbidito solo se lo avessero visto assistere con i cattolici alle sacre funzioni e si unirono al popolo che occupava le basiliche. La corte parlò in quel l'occasione di usurpazione e presentò Ambrogio come untyrannus, ma il giovedì santo, mentre Ambrogio leggeva il libro di Giona, l'imperatore dette all'improvviso l'ordine di togliere il blocco: "Allora compresi - conclude Ambrogio, riprendendo il libro di Giona - che il Signore aveva ucciso il verme antelucano, affinché tutta la città fosse salva". Di queste vicende fu testimone Agostino, che era venuto a Milano nel 384, su richiesta della corte, inviato come maestro di retorica dal prefetto di Roma, Simmaco, che sperava probabilmente di mettere in imbarazzo, con l'aiuto del brillante oratore manicheo, il suo amico e avversario Ambrogio e che dovette restare deluso dalla conversione di Agostino e del suo abbandono della professione.

Della vicenda della controversia per le basiliche Agostino parla appena nelle Confessioni, che resta soprattutto la storia di un'anima, a cui i grandi avvenimenti, non solo politici ma anche ecclesiali del Suo soggiorno a Milano, fanno soltanto da sfondo: "Il popolo devoto vegliava in Chiesa, pronto a morire col suo Vescovo, Tuo servo. Là passava le sue ore in preghiera mia madre, tra le più zelanti nel vegliare" (IX ,7). significativo il fatto che Agostino, che non sembra dar molta importanza, per la sua conversione, ai suoi incontri personali con Ambrogio, da quello iniziale, in cui quest'ultimo lo accolse con benevolenza (V, 13), a quelli frequenti, per le strade, in cui il Vescovo si congratulava con lui per la pietà della madre (VI, 2), alle note attese sulla soglia di Ambrogio intento a leggere (VI, 3), ricordi invece con commozione i suoi incontri pubblici col Vescovo, in mezzo al suo popolo: quando lo ascoltava con assiduità, "mentre conversava pubblicamente" (V, 13), o quando "lo ascoltava con gioia nei suoi discorsi al popolo, mentre spiegava che la lettera uccide, ma lo spirito vivifica" (VI, 4), o, infine, quando, non ancora convertito, piangeva a dirotto durante il canto degli inni (IX, 7), al tempo, appunto, della occupazione delle basiliche.

La lotta per le basiliche fu una lotta per la libertà e il popolo di Milano la visse accanto al suo Vescovo. In questa intensa atmosfera umana e religiosa maturò e si concluse la conversione di Agostino.

 

Bibliografia

M. Sordi, Milano al tempo di Agostino, in AAVV, Agostino a Milano: il Battesimo, 22/24 aprile 1987, Milano/Palermo 1988 p. 3 sgg.

M. Sordi, I rapporti di Ambrogio con gli imperatori del suo tempo, in AAVV, Nec timeo mori, Milano 1998, p. 107 sgg.

Per una recente impostazione diversa del problema N. B. Mc Lynn, Ambrose of Milan, Berkley - Los Angeles 1994, p. 170 sgg.

© Il Timone - n. 22 Novembre/Dicembre 2002

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31/03/2012 23:52
 
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La svolta di Costantino

 

di Marta Sordi

 

Anno 312: l'imperatore Costantino, in lotta contro il rivale Massenzio, si converte al Cristianesimo dopo la visione di una croce e della scritta "Con questo segno vinci". Fu conversione sincera o dettata da opportunismo?

 

Negli anni '30 del secolo scorso e, poi, per molti decenni ancora, la "questione costantiniana", sollevata dal Gregoire e dalla sua scuola, attirò l'attenzione degli studiosi e divenne addirittura uno dei temi fondamentali, per il settore antico, del Congresso Internazionale di Storia del 1955: si sostenne, intatti, da parte di alcuni, che la svolta del 312/3 non fu opera di Costantino, ma, semmai, di Massenzio e di Licinio; che Costantino non si convertì allora al Cristiapesimo e che la sua presunta conversione a Ponte Milvio fu un'invenzione degli scrittori cristiani della sua corte, Lattanzio ed Eusebio, accettata per opportunismo dall'imperatore negli anni dello scontro definitivo con Licinio; che il segno da lui adottato in quella occasione era un simbolo solare e non cristiano e che egli rimase un adoratore del Sole per molti anni ancora.

Oggi questa impostazione è in gran parte superata e uno studio recente sottolinea anzi l'importanza del rifiuto da parte di Costantino, implicito nel silenzio di tutte le fonti, dell'ascesa in Campidoglio nelle celebrazioni del 29 ottobre del 312 e della sostituzione, inaugurata da Costantino, dell'adventus al trionfo: il nuovo cerimoniale, ripreso poi dagli imperatori cristiani, con l'assunzione dei caratteri del trionfo, ma senza il tradizionale rendimento di grazie a Giove Ottimo Massimo e con la valorizzazione degli incontri col senato e col popolo e della publica laetitia, è la conferma, a mio avviso importante, del rapporto che già prima di Costantino i Cristiani avevano assunto nei riguardi dì Roma, di accettazione piena della sua tradizione politica e militare e di rifiuto totale della sua tradizione religiosa. Questo atteggiamento si ritrova in Ambrogio e caratterizzerà l'impero romano-cristiano. La spiegazione che le fonti cristiane contemporanee, Lattanzio nel De mortibus persecutorum ed Eusebio nella Storia Ecclesiasticae nella Vita di Costantino (di cui molti, ma sembra a torto, hanno contestato l'autenticità), danno dell'improvvisa trasformazione dell'atteggiamento di Costantino nella campagna del 312, resta certamente l'unica possibile: anche se nelle vicende di quei giorni avessimo soltanto il racconto dell'anonimo panegirista pagano del 313, dovremmo ammettere che, nel corso della campagna contro Massenzio, qualcosa di eccezionale era avvenuto nella religiosità di Costantino e che egli aveva abbandonato il paganesimo tradizionale, mostrando anzi un fastidio così aperto verso gli dei, che il retore evita di nominarli in sua presenza, ed era passato ad un misterioso Dio supremo, creatore e provvidente, nel quale si poteva in qualche modo riconoscere il summus deus dei filosofi e della religione solare, ma che non poteva essere identificato semplicemente con quello. La stessa reticenza imbarazzata sì trova nella iscrizione dell'arco elevato in onore dell'imperatore dal senato e dal popolo romano nel 315 (instinctu divinitatis) e nel linguaggio del cosiddetto editto di Milano del febbraio 313, impostato nella ricerca di un linguaggio comune, che potesse essere accolto da una religione monoteistica e da un paganesimo "monoteizzante", di natura filosofica e solare e potesse essere sottoscritto dal pagano Licinio e dal cristiano Costantino: quidquid est divinitatis in sede celesti (Lattanzio, De mort. 48).

Nell'incontro dì Milano, che doveva risolvere i massimi problemi politici dell'impero, le decisioni da prendere per prime sono quelle che riguardano ladivinitatis reverentia, affinché "qualsiasi divinità ci sia nella sede del cielo, possa essere placata e propizia a noi e a tutti coloro che sono posti sotto il nostro comando": alla base di questa impostazione c'è evidentemente la tradizione romana della pax deorum, l'alleanza con la divinità.

Caratteristica dì Costantino è invece la condizione posta al collega pagano per un accordo, la concessione della libertà religiosa, secondo cui il diritto della divinità di essere adorata come vuole fonda nei singoli la "libera potestà di seguire la religione che ciascuno avesse voluto"; essa capovolge la concezione dell'editto di Serdica, che Licinio aveva suggerito al morente Galerio, presentando la tolleranza come un perdono concesso dalla clemenza imperiale ad un errore, e rovescia addirittura, a favore del Cristianesimo, i tradizionali rapporti fra religioni, affermando che, proprio per assicurarsi l'alleanza della divinità, gli imperatori concedono "ai Cristiani e a tutti la libertà di seguire la religione che vogliono.

Nominando per primi i Cristiani e isolandoli rispetto agli altri, il cosiddetto editto dì Milano toglie in un certo senso al paganesimo il suo carattere di religione di Stato e prepara la strada alla proclamazione del Cristianesimo a nuova religione dell'impero romano: ciò che avverrà in modo esplicito solo con Teodosio, e dopo la rinuncia da parte di Graziano alla carica di Pontefice Massimo.

Per comprendere la svolta costantiniana credo sia necessario liberarsi del pregiudizio moderno della pura strumentalizzazione politica della religione e tenere conto invece dell'importanza che la scelta della divinità, dell'alleanza col Dio più forte cui affidare l'impero, aveva assunto, sulla linea dell'antica concezione della pax deorum, nella mentalità romana dal III secolo in poi. Se tenessimo conto esclusivamente dell'interesse politico contingente, la scelta di un simbolo cristiano (croce, monogramma di Cristo o croce monogrammatica) e la proclamazione dell'alleanza col Dio dei Cristiani apparirebbero incomprensibili e controproducenti: l'esercito delle Gallie, che Costantino guidava contro il "tiranno" Massenzio, era in gran parte pagano e pagani erano il senato e il popolo di Roma, che Costantino intendeva "liberare". La scelta, imprevedibile, fu dunque religiosa: o, meglio, fu politica, ma nel senso di "politica verso la divinità". Lo rivela il racconto che Costantino stesso dette ad Eusebio della sua conversione e che leggiamo nella Vita Costantini (1, 27): secondo questa versione l'imperatore, all'inizio della campagna contro Massenzio, era preoccupato per le arti magiche a cui quest'ultimo faceva ricorso ed era convinto che fosse impossibile vincerlo senza l'aiuto divino. Egli cercava dunque un dio che lo aiutasse, nella consapevolezza che gli dei della Tetrarchia, Giove ed Ercole, non erano stati capaci di aiutare Galerio e Severo, e che solo suo padre, Costanzo Cloro, che aveva onorato per tutta la sua vita il dio sommo, lo aveva avuto alleato sempre. Egli invocò perciò il dio di suo padre, chiedendo di rivelargli chi fosse e di stendergli la sua destra: fu allora che egli vide nel cielo, al di sopra del sole, un trofeo della croce fatto di luce, con la scritta: "Con questo vinci".

Ciò che colpisce nella versione di Costantino, e che un cristiano non aveva interesse a inventare, è che egli ammette di essere stato fino al 312 un adoratore del Sole, come suo padre, e di avere sentito la sua conversione al Cristianesimo come il superamento di una religiosità incompleta, non come il rinnegamento dì una religione falsa. Nella visione il "dio dai molti nomi" aveva assunto il nome e il simbolo di Cristo: questo spiega perché, fino al 320, i simboli solari non scompaiano dalle monete di Costantino.

 

Glossario:

Costanzo Cloro (250-306). Padre di Costantino, adottato (203) da Massimiano e nominato cesare, gli fu assegnata la Gallia. Divenne Augusto nel 305.

Massenzio (ca 280-312). Imperatore romano. Figlio di Massimiano, fu eletto imperatore dai pretoriani nel 305 in opposizione a Costantino. Sconfitto da quest'ultimo a Verona e poi a Roma (312), presso Ponte Milvio, annegò nel Tevere mentre tentava di fuggire.

Licinio (250-325). Imperatore romano. Nominato Augusto (308), per ottenere il dominio su tutto l'Oriente sì alleò con Costantino e insieme a lui promulgò a Milano l'editto di tolleranza verso i cristiani (313). Venuto in lotta con Costantino, fu ripetutamente sconfitto, confinato e poi ucciso.

Galerio (ca 250-311). lmperatore romano. Nel 293 viene nominato cesare per l'Oriente, con Costanzo, da Diocleziano. Divenuto augusto nel 305, dovette lottare con Massenzio, Costantino e Massimino, che pretendevano la dignità imperiale. Autore di un editto di tolleranza verso i cristiani (311), muore nello stesso anno.

 

Bibliografia:

M. Sordi, Il Cristianesimo e Roma, Bologna 1965, p. 377 sgg.

M. Sordi, I Cristiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano 19953, p. 134 sgg.

A. Fraschetti, La conversione da Roma pagana a Roma cristiana, Bari 1999.

 

© Il Timone - n. 20 Luglio/Agosto 2002

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31/03/2012 23:54
 
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I chiodi della croce

 

di Marta Sordi

 

Le vicende che portarono al ritrovamento della Croce e dei chiodi utilizzati per inchiodare Gesù. Ecco come sarebbero stati utilizzati. E che cosa si conserva a Milano. lì ruolo di Elena, madre di Costantino.

 

La tradizione riguardante il ritrovamento della Croce di Cristo risale certamente al IV secolo dopo Cristo, ma attraverso fasi successive: Eusebio di Cesarea conosce i lavori compiuti sotto Costantino sul Calvario, ma non parla del ritrovamento della croce; nessun accenno alla croce come reliquia troviamo nell'Itinerarium Burdigalense, del 333 d.C., mentre ne parlano tutti i pellegrinaggi in Terra Santa, dal 380 in poi: il ritrovamento deve essere pertanto avvenuto fra il 333 e il 380 circa.

Di esso parla, come avvenuto sotto Costantino, Cirillo, vescovo di Gerusalemme, in una lettera scritta all'imperatore Costanzo nel 351, secondo il quale la grazia divina concesse il ritrovamento "a colui che cercava la pietà" (P.G. XXXIII, 351 p. 1166).

L'uso del maschile sembra escludere l'attribuzione ad Elena del ritrovamento, che attribuisce invece ad un ignoto convertito "cercatore della pietà"' non esclude peraltro, che il ritrovamento fosse avvenuto durante gli scavi voluti da Elena, a cui attribuiscono il ritrovamento Ambrogio nel 395 (De Obitu Thedosii, 41 sgg), Paolino nel 397 nella lettera a Sulpicio Severo (Ep. 31), e Rufino nel 402 (H. E., 1,7 sgg), oltre, naturalmente, la tradizione posteriore. Con i chiodi della croce Elena forgiò, secondo Ambrogio, un morso e una corona; secondo Rufino, un morso e un elmo.

Il confronto tra le tre versioni permette di stabilire che esse dipendono da una tradizione unica, ai cui particolari Ambrogio si limita ad alludere, con un accenno al miracolo che permise il riconoscimento, fra le croci trovate sul Calvario, di quella di Cristo, mentre Rutino, che scrive dopo Ambrogio e non dipende da lui, riferisce ampiamente il miracolo, permettendoci addirittura di capire l'oscura allusione di Ambrogio. Rufino, che riferisce la sua versione nel contesto di una narrazione storica, sembra più attendibile di Ambrogio nei riguardi della versione originaria: pertanto, quando Rufino, seguito Socrate, Sozomeno e Teodoreto, dice che Elena utilizzò i chiodi della croce ritrovata per un morso per il cavallo di Costantino e per un elmo che proteggesse il figlio in guerra, possiamo concludere che questi erano i doni della madre a Costantino nella versione originaria, probabilmente posteriore, peraltro, al 351 e alla lettera di Cirillo, e che la sostituzione della corona all'elmo è una variante di Ambrogio.

Non c'è dubbio però che Ambrogio non ha inventato la corona: il suo è un discorso ufficiale, tenuto davanti alla corte di Milano e ai soldati ed egli sta parlando di una corona reale, quella che Teodosio aveva portato e di cui può dare una descrizione precisa, un diadema ornato di gemme, con un cerchio di ferro più prezioso di ogni gemma, perché proveniente dalla croce della divina redenzione: una corona-diadema, antenata della famosa corona "ferrea", che è in realtà una corona d'oro, composta da sei pezzi uniti da cerniere e ornati di gemme, con all'interno un circolo di ferro, ritenuto dalla tradizione uno dei chiodi della croce.

Possiamo stabilire dunque due fasi nella tradizione dei doni di Elena a Costantino: la versione secondo cui uno dei chiodi era stato utilizzato per l'elmo dell'imperatore sembra nata all'interno della dinastia costantinide, probabilmente sotto Costanzo, forse dopo il 351, e ne riflette l'ideologia: il significato simbolico dell'elmo, da usare in guerra, come il morso del cavallo, riflette la mentalità di Costantino, che aveva posto il monogramma della croce sull'elmo nelle sue monete e nel quale appare connaturata l'idea di alleanza con la divinità. Nella versione di Ambrogio, invece, con la trasformazione dell'elmo in corona, il motivo della croce ritrovata non è più collegato con Costantino e con la sua dinastia, ma, al di là dell'apostasia dell'ultimo Costantinide, Giuliano, con tutti i successori cristiani di Costantino. Il racconto dell'inventio crucis, che occupa l'ultima parte del De Obitu Theodosii rappresenta così la legittimazione, nel pensiero di Ambrogio, dell'imperatore cristiano e costituisce il vero argomento dell'intero discorso, in modo da fare di esso una sintesi della "teologia politica" del IV secolo: la redenzione dell'impero, ottenuta da Elena col dono divino dei chiodi trasformati l'uno in morso, l'altro in corona.

Forte di quei doni, Costantino fidem trasmisit ad poteros reges (ib. 41). Ambrogio sviluppa nei paragrafi successivi il principio che sta alla base della grande svolta: "Agì sapientemente Elena che pose la croce sulla testa dei re, affinché la croce di Cristo sia adorata nei re" (ib. 48). Corona-diadema e morso erano stati, già nell'antica Grecia, simboli del potere; in Ambrogio la trasformazione dei chiodi in corona e in morso fonda un nuovo rapporto del potere con Dio e con i sudditi. Il motivo del potere come servizio, caro alla miglior tradizione romana, anche se spesso tradito nella prassi, riemerge con un significato nuovo: il potere, in quanto tale, coronato e nello stesso tempo frenato dai simboli della Passione di Cristo, riceve la sua autentica legittimazione nell'atto stesso in cui accetta di rimanere nei limiti impostigli da Dio e non diventa arbitrio. La corona di cui Ambrogio parla era una vera corona, realmente esistente e visibile a Milano al momento del discorso funebre per Teodosio e a Milano si trovava, secondo un cronista medioevale, la corona ferrea al tempo di Teodorico. A Milano si trova ancora il "Santo Chiodo", che la tradizione ritiene il morso donato da Elena a Costantino e di cui abbiamo notizia come esistente ab antiquo sin dal 1389. Milano è la capitale scelta da Valentiniano I nel 364, dopo la parentesi giulianea e il breve regno di Gioviano, come potior Augustus. Con la scelta di Milano come capitale dell'impero va collegato, a mio avviso, l'arrivo a Milano dei chiodi della croce: l'imperatore poteva facilmente ottenere la preziosa reliquia. La tradizione costantinopolitana poneva fra i riti di fondazione della città da parte di Costantino l'inserimento di frammenti della croce nella statua posta sulla corona di porfido nel foro della città, perché ne assicurassero la protezione, come narra Sozomeno.

É dunque probabile che la decisione di utilizzare due dei chiodi della croce vada strettamente collegata con la decisione di Valentiniano I di fare di Milano la capitale della sua dinastia e dell'impero romano-cristiano.

 

Bibliografia:

Marta Sordi, La tradizione dell'inventio crucis in Ambrogio e Rufino, Riv. St. della Chiesa in Italia, 46, 1990 p. 1 sgg.

Marta Sordi, Dall'elmo di Costantino alla corona ferrea, in AAVV, Costantino il Grande, Macerata 1993, p. 883 sgg.

Marta Sordi, L'impero romano-cristiano al tempo di Ambrogio, Milano 2000, p. 16 sgg.

 

© Il Timone - n. 16 Novembre/Dicembre 2001

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31/03/2012 23:55
 
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SAGGISTICA

La Chiesa non ha ucciso la cultura antica: un pamphlet dello storico Jean Dumont smonta i pregiudizi

Primi cristiani, non talebani

di Maurizio Blondet

Non furono sovversivi e nemmeno fondamentalisti. Una dura polemica con la Nuova destra francese

Si facevano crescere le barbe. Odiavano le istituzioni. Distruggevano le splendide statue pagane. Bruciavano i libri degli antichi poeti. I primi cristiani furono i talebani della classicità? "Incompatibili con la civiltà", li ha definiti Louis Pauwels, il celebre redattore culturale del Figaro: una massa sottoproletaria e ignorante che finì per distruggere l'Impero Romano. È una polemica che conduce in Francia il "Grece", il gruppo culturale di destra, neopagano, guidato da Alain de Benoist (un nouveau philosophe "nero"). 
E' questa la "leggenda nera" originaria contro il cristianesimo: i primi cristiani sarebbero stati dei sottoproletari sovversivi, che fecero tabula rasa della splendida cultura classica, e precipitarono il mondo nella barbarie oscurantista del Medio Evo. Jean Dumont, storico francese noto per avere smentito con gli argomenti la più famosa leggenda nera, quella secondo cui la Spagna cattolica avrebbe sterminato gli indios d'America (vedasi il suo Il Vangelo delle Americhe, pubblicato dalla Effedieffe nel 1992), smentisce anche questa. Con dati di fatto sorprendenti. 
Nei primi due secoli (la nuova fede era ancora clandestina e perseguitata) si fecero cristiani membri del più nobile patriziato di Roma. Come Acilio Glabrione, console nel 91 d.C. e martire sotto Domiziano (sotto la sua villa furono scavate le catacombe clandestine di Priscilla). La celebre martire Domitilla era figlia di Flavio Clemente, della famiglia dei Flavii che aveva dato a Roma tre imperatori, Vespasiano, Tito e Domiziano. Di più. Gli scavi nella necropoli sotto l'attuale basilica di San Pietro hanno scoperto numerose tombe di grandi famiglie della politica imperiale, le cui successive inumazioni testimoniano il passaggio dei loro membri al cristianesimo. Persino i Giulii, cioè i discendenti di Cesare (e di Augusto) erano diventati cristiani attorno al 200 dopo Cristo. E i Valerii, gens patrizia che aveva tra i suoi antenati Valerio Messala Corvino, amico di Ovidio e tra i vincitori di Azio nel 31 a.C. 
Cristiani così, di famiglie che dell'Impero incarnavano il potere, e la cultura e la ricchezza, non potevano essere sovversivi. I primi cristiani si arruolavano in massa nelle legioni, in tempi in cui chi poteva scansava il servizio militare (nell'esercito il culto di Cristo rivaleggiava col culto di Mitra, militare per eccellenza); anche i pagani ostili riconoscevano la lealtà patriottica dei cristiani. Nel secondo secolo in ogni chiesa di pregava, attesta Tertulliano, perché l'imperatore avesse "lunga vita, regno tranquillo truppe valorose, un Senato fedele, un popolo leale". San Gerolamo s'era fatto eremita nel deserto, apparentemente rifiutando i beni e i comodi della civiltà. Ma quando Roma fu devastata dai Visigoti di Alarico nel 410, scrisse disperato: "La gloriosa luce del mondo si è spenta, quando la capitale del nostro impero fu presa. L'intero universo e la civiltà sono periti". 
Tanto meno i cristiani furono "fondamentalisti" nel senso in cui i talebani (e l'islam in generale) distruggono ogni memoria delle civiltà precedenti, in quanto tenebra demoniaca. Per Giustino, padre della Chiesa che scrive verso il 150, "il Verbo ha fatto intendere la verità tra i greci e per bocca di Socrate". Clemente d'Alessandria sostiene: "La filosofia è il Testamento che Dio ha dato ai greci". La Chiesa non pretese di cacciare nell'oblio il grande passato classico. Al contrario. Innestò il ramoscello di Cristo sull'antica quercia di Platone e Aristotele, di cui si riconobbe tributaria. Fu un superbo sforzo culturale, iniziato da Paolo fariseo e civis romanus, e concluso mille anni dopo da Tommaso d'Aquino. 
E' utile ricordare queste cose. Perché se Dumont polemizza con la "Nouvelle droite" francese, il fondo della sua polemica è diretto anche verso una tendenza presente nel cristianesimo di oggi che vorrebbe "purificare" il messaggio cristiano "originale" (con una profonda matrice giudaica) da tutti gli apporti greci e romani, ossia della filosofia e del diritto. Che vogliono "Gerusalemme" senza però "Roma". Ma la Chiesa -ci dice Dumont - ha volutotenere insieme Roma e Gerusalemme: separare l'ebraismo cristiano dalla sua romanità, questo appunto è il "fondamentalismo" che ha sempre voluto e saputo evitare, sapendo che esso porta alla barbarie irrazionalista.

Jean Dumont, La Chiesa ha ucciso l’Impero romano e la cultura antica?, Effedieffe, Pagine 60. Lire 10.000

© Avvenire - 3 Novembre 2001

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31/03/2012 23:57
 
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Caro san Paolo... Caro Seneca...

 

di Marta Sordi

 

E’ possibile che l’Apostolo delle genti e il potente ministro neroniano si siano conosciuti? Tracce di un probabile scambio di lettere tra due grandi del passato.

 

Sono usciti a Milano, nel 2001, presso l’editrice Vita e Pensiero, gli Atti del convegno su "Seneca e i Cristiani", tenuto presso l’Università Cattolica nell’ottobre del 1999. Nel corso del Convegno è stato ripreso in esame, con conclusioni diverse, il problema dell’epistolario fra Seneca e Paolo, di cui Maria Grazia Mara ha ribadito, sulla linea dell’opinione più largamente diffusa, il carattere apocrifo, mentre io, sulla base di nuove ricerche avviate nell’Istituto di Storia Antica dell’Università Cattolica, ho proposto di riaprire tutta la questione.

Gli argomenti in base ai quali ho ritenuto di dover rimettere in discussione la natura apocrifa dell’epistolario, della quale io stessa non dubitavo nei miei studi precedenti, sono innanzitutto due: il primo nasce dalla datazione alla fine del I secolo, o agli inizi del II secolo d.C., di un’iscrizione funeraria di Ostia (C. XIV, 566), rivista per me da un insigne epigrafista, il compianto prof. G. Susini dell’Università di Bologna, dedicata dal padre, M. Anneo Paolo, al figlio M. Anneo Paulo Petro; la presenza di membri certamente cristiani, forse liberti, nella famiglia degli Annei, è la migliore conferma di quei rapporti che già altri indizi (Paolo aveva conosciuto il fratello di Seneca, proconsole di Acacia, al tempo della denuncia a lui mossa a Corinto dal capo della sinagoga locale, e fu poi, con ogni probabilità, assolto, nel suo primo processo romano, dal prefetto del pretorio Afranio Burro, amico e collaboratore di Seneca), lasciavano supporre.

Il secondo motivo è la dimostrazione, fornita con validi argomenti da I. Ramelli, del carattere tardivo di due lettere dell’epistolario, quella relativa all’incendio del 64 e l’ultima, ambedue veramente apocrife, aggiunte al documento da una mano estranea: eliminate queste lettere cadono a mio avviso gli argomenti che inducevano ad affermare il carattere apocrifo dell’intera raccolta e il problema deve essere riaperto.

Le dodici lettere rimaste, alcune datate con i consoli ordinari e con quelli suffetti, un uso che cessa col III secolo d.C., appartengono tutte al periodo fra il 58 e il 62, al periodo, dunque, in cui, come affermava s. Gerolamo, che credeva all’autenticità dell’epistolario, Seneca era ancora potente. Dal punto di vista linguistico, i grecismi sono tutti contenuti nelle lettere di Paolo, mentre la traduzione, da parte di Seneca, horrore divinodel paolino phobos theou, sembra escludere la presenza di un falsario cristiano, che avrebbe certamente tradotto timor Dei.

Seneca appare nelle sue lettere come un pagano e parla apertamente degli dei, anche se mostra di conoscere le lettere di Paolo ai Galati, ai Corinzi e agli Achei (i Corinzi?) e di apprezzarne le idee morali e la dottrina, impegnandosi, nel frattempo, a migliorare il difettoso latino di Paolo. Il contenuto non apertamente religioso e il carattere di scambio privato di lettere fra amici giustifica l’ignoranza che i Cristiani ebbero di questo epistolario fino a san Gerolamo: esso è giunto, in effetti, tra le opere di Seneca, non fra quelle di Paolo.

Escluso ogni interesse teologico dell’epistolario, esso potrebbe avere invece, se riconosciuto autentico, un grande interesse storico: innanzitutto esso conferma il periodo della prima prigionia romana di Paolo, 56/58 d.C., risultante dalle fonti migliori relative alle procuratele di Antonio Felice e di Porzio Festo in Giudea; esso permette inoltre di cogliere il momento preciso della svolta anticristiana del governo neroniano, che, se coincide con la svolta generale del 62, trova nell’ostilità della giudaizzante Poppea, sposata in quell’anno dall’imperatore, la sua causa immediata. L’accenno ripetuto all’indignatio della domina per l’allontanamento di Paolo dal giudaismo, con la reticenza comprensibile di un falsario ma ben giustificabile in un contemporaneo, rivela da parte di chi scrive la conoscenza di fatti (il filogiudaismo di Poppea), che noi conosciamo solo da Flavio Giuseppe, ma che nessun autore cristiano poteva inventare. L’epistolario sembra inoltre presupporre un rapporto che non riguarda solo Seneca e Paolo, ma alcuni dei loro amici e seguaci, Lucilio, amico di Seneca, Teofilo, il cavaliere romano a cui Luca dedica il suo Vangelo.

Nella I lettera Seneca ricorda a Paolo un colloquio avvenuto tra lui e Lucilio negli horti Sallustiani, a cui erano presenti quidam disciplinarum tuarum comites: il rapporto non riguarda dunque solo due persone, ma due ambienti, quello cristiano e quello che faceva capo all’ancora potente ministro di Nerone; i convertiti romani al Cristianesimo, presenti anche nella corte neroniana (come risulta del resto anche dalla lettera ai Filippesi, in cui si parla di Cristiani della casa di Cesare) e i seguaci dello Stoicismo romano.

Sono proprio questi rapporti che inducono a non sottovalutare e a non confinare nella leggenda ciò che emerge dall’epistolario, l’esistenza, cioè, di un dialogo in atto fra gli ambienti dello stoicismo romano di età neroniana e la prima predicazione cristiana.

Contatti spesso verbali sono stati riscontrati tra gli scritti neo testamentari e, specialmente, tra le lettere paoline e gli Stoici dell’opposizione neroniana, Musonio Rufo, che Giustino martire proclama martire del logos seminale, Persio, lodato anche da Agostino. Ma è ancora a Seneca e al suo ambiente che ci riporta la tragedia senechiana Hercules Oetaeus, che, se non è di Seneca, è certamente di uno stoico a lui vicino e che rivela, pur essendo sicuramente l’opera di un pagano, quella stessa conoscenza del Cristianesimo, piena di ammirazione e di simpatia, e troviamo nell’epistolario fra Seneca e Paolo.

Il rispetto e l’ammirazione che gli Stoici romani ebbero per la figura di Cristo emerge del resto anche in altri autori dello stesso I secolo: Silio Italico rivela nei Punica un ripensamento della croce, che da strumento infamante diventa glorioso martirio e simbolo di vittoria sulla morte per Attilio Regolo, il più grande eroe romano.

Prima di Silio è ancora e soltanto Seneca che attribuisce a Regolo la morte in croce.

Io credo, pertanto, che l’attribuzione ad un falsario dell’epistolario fra Seneca e Paolo, debba essere almeno ripensata: né può essere ritenuta una prova di falsità il fatto che Paolo non si presenti esplicitamente come Apostolo (sta scrivendo ad un pagano) né che, semplice cittadino romano, riveli un rapporto di amicizia con il potente ministro di Nerone. Ad Efeso, secondo gli Atti degli Apostoli, egli era divenuto amico degli asiarchi, le più alte autorità locali della provincia d’Asia: ciò rivela la sua indubbia capacità di stabilire dei rapporti, nel suo servizio del Vangelo, anche con i potenti della terra.

 

Bibliografia

 

Marta Sordi, I rapporti personali di Seneca con i Cristiani, in Seneca e i Cristiani, a cura di A. P. Martina, Milano 2001, p. 113 sgg.

I. Ramelli, L’epistolario apocrifo Seneca-San Paolo, in Vetera Christianorum 34, 1997, p. 1 sgg.

I. Ramelli, La Chiesa di Roma e la cultura pagana: echi cristiani nell’Hercules Oetaeus?, in Rivista di Storia della Chiesa, 52, 1998, p. 11 sgg.

L. Cotta Ramosino, Il supplizio della croce in Silio Italico, in Aevum 73, 1999, p. 93 sgg.

 

© Il Timone - n. 18 Marzo/Aprile 2002

 

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31/03/2012 23:59
 
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Pietro a Roma

di Marta Sordi

Il Principe degli Apostoli venne a Roma, vi fondò la Chiesa e ivi morì nel 64 d.C. Da allora il vescovo di Roma è successore di Pietro. Le prove storiche della presenza del Principe degli Apostoli nella capitale dell’impero.

La scoperta, sia pure contestata da alcuni, di un frammento del Vangelo di Marco in un papiro in lingua greca di Qumran (il famoso 7Q5), databile dal punto di vista della scrittura a prima del 50 d.C. e proveniente, sembra, da Roma, ha riproposto il problema storico del momento della prima venuta di Pietro a Roma, che la tradizione cristiana, presente in autorevoli fonti del II secolo (Papia di Gerapoli, Clemente di Alessandria, citati da Eusebio e lreneo) collocava all’inizio del regno di Claudio (nel 42, secondo il Chronicon di Eusebio) e associava alla composizione, appunto, del Vangelo di Marco: quest’ultimo avrebbe scritto su richiesta degli stessi Romani, tra cui cavalieri e Cesariani (questa precisazione è nella traduzione latina di un frammento di Clemente) che avevano ascoltato la predicazione di Pietro e volevano quaee dicebantur memoriae commendare.

La data indicata da Eusebio (42 d.C.) corrisponde assai bene alla data indicata dagli Atti degli Apostoli (12,17) in cui Pietro, liberato dalla prigionia di Erode Agrippa I, "se ne andò in un altro luogo".

Agrippa fu re della Giudea dal 41 al 44 e "l’altro luogo" degli Atti riecheggia un passo di Ezechiele (12,3), che indica Babilonia. E Babilonia è Roma anche nella  Petri 5,13. La presenza di Cesariani e cavalieri fra gli ascoltatori di Pietro a Roma nel 42 sembra convalidata da alcune delle "chiese domestiche" ricordate dalla Lettera ai Romani di Paolo (che io ritengo databile al 54): in essa si parla di cristiani "della casa di Narcisso" (ib. 16,11). il più famoso dei collaboratori e liberti di Claudio, e di Cristiani "della casa di Aristobulo" figlio di Erode di Calcide (inviato più tardi da Nerone a governare la piccola Armenia): ad ambedue, ma specialmente a Narcisso, si adatta l’epiteto di Cesariani. Per quel che riguarda i cavalieri, era certamente un cavaliere il kratistos (latino egregius) Teofilo a cui è dedicato il vangelo di Luca.

Al 42/43 risale anche la conversione ad una superstitio externa, che è sicuramente il Cristianesimo, di una donna di famiglia senatoria, Pomponia Grecina (Tacito, Ann. XIII, 32).

Un ricordo della presenza di Pietro a Roma presso uomini della classe dirigente romana resta anche, mescolato a notizie del tutto leggendarie, negli apocrifi Atti di Pietro (composti, sembra, in Asia Minore alla fine del II secolo), in cui ospite di Pietro è il senatore Marcello: Marcello è il nome del personaggio, di probabile rango equestre, che nel 36/7, dopo la destituzione di Pilato e di Caifa, il legato di Tiberio, L. Vitellio, lasciò a Gerusalemme, al posto del governatore, da lui rinviato a Roma (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XVIII, 89) e la cui presenza, se la mia cronologia interna degli Atti degli Apostoli è esatta, assicurò la pace alla Chiesa nelle zone controllate dai Romani.

L. Vitellio, amico e collaboratore di Claudio, si trovava a Roma con i pieni poteri nel 42/43 mentre l’imperatore era assente per la spedizione in Britannia e, essendosi già occupato dei Cristiani per conto di Tiberio durante la sua missione a Gerusalemme, poteva essere interessato, anche per motivi politici, a conoscere gli sviluppi della "setta" che aveva conosciuto a Gerusalemme o che ora ritrovava a Roma.

lo credo pertanto che la richiesta a Marco di mettere per iscritto la predicazione di Pietro a Roma da parte di membri della classe dirigente romana possa essere nata anche dalla volontà di conoscere meglio la natura della nuova "setta" giudaica e di valutarne la eventuale pericolosità politica. Le informazioni raccolte dovettero tranquillizzare i collaboratori di Claudio: da questo momento e fino al 62 sappiamo da Flavio Giuseppe (Antichità Giudaiche XX, 199 sgg) che i Romani impedirono ogni violenza contro i Cristiani in Giudea, e sappiamo dagli Atti degli Apostoli che, direttamente o indirettamente, li favorirono a Cipro, a Corinto, ad Efeso.

Di questa prima comunità romana fondata da Pietro sappiamo quello che ci dice Paolo nella Lettera ai Romani del 54. Lodata per la sua "fede nota in tutto il mondo", essa si riuniva, come rivela il cap. XVI della stessa Lettera, in case di privati, convertiti dal paganesimo o dal giudaismo, e sembra essere rimasta estranea fino all’arrivo di Paolo (nel 56, secondo la mia cronologia, nel 60 secondo quella corrente) alla vita della numerosissima comunità giudaica della capitale: ciò sembra doversi ricavare dall’incontro di Paolo a Roma con i notabili ditale comunità nel 56 (At 28,17 sgg).

L’Ambrosiaster, che scrive nel IV secolo, dice che i Romani susceperunt fidem Christi, ritu licet iudaico e ciò è pienamente comprensibile se il Cristianesimo era venuto a Roma, attraverso Pietro, direttamente da Gerusalemme.

Il carattere giudaizzante della più antica comunità romana si riflette nei suoi più antichi scrittori, Clemente Romano e il Pastore di Erma, e nell’uso che essi fanno dell’Antico Testamento e degli stessi apocrifi giudairi Non sembra invece che a Roma ci siano stati conflitti sulla circoncisione e sulla reciproca frequentazione tra convertiti dal giudaismo e convertiti dal paqanesimo: questo era nello stile di Pietro, che fin dalla conversione del centurione Cornelio sapeva che la circoncisione non doveva essere imposta ai pagani e che, più tardi, ad Antiochia, aveva liberamente frequentato i pagani convertiti fin che non erano arrivati i seguaci di Giacomo ad impedirlo. Proprio questo comportamento di Pietro, che fu contestato da Paolo (Gal 2,10 sgg) e che sembra dettato da una scelta pastorale, quella di non provocare scontri con le comunità giudaiche della diaspora, spiega sia l’assenza di conseguenze per i Cristiani, della espulsione dei Giudei da Roma nel 49, sia i conflitti e le divergenze che subito si verificarono a Roma al momento dell’arrivo di Paolo, che adottò invece la linea, per lui consueta, di avvicinare subito la comunità giudaica.

Lo stile di Pietro è invece quello che Tacito coglie in Pomponia Grecina, così riservata nella sua professione di fede, da motivare con il lutto per l’amica Giulia il suo mutamento di vita, e così coraggiosa da sfidare l’ira di Messalina.

Pietro tornò certamente a Roma (la sua la Lettera ne attesta la presenza nella capitale tra la fine del 62 e gli inizi del 64 e presuppone, con l’accenno della possibile incriminazione dei cristiani come Cristiani, la svolta neroniana del 62) e vi morì — io credo — insieme a molti cristiani di Roma, nella persecuzione seguita all’incendio del luglio 64. lI confronto tra Tacito (Ann. XV, 44) e la lettera di Clemente Romano ai Corinzi (1,5) èmolto significativo e fa pensare ai giuochi dati da Nerone: forse quelli del 13 ottobre del 64, come ha suggerito Margherita Guarducci

Bibliografia

Marta Sordi, Il Cristianesimo a Roma, Bologna 1965.

Marta Sordi, I Cristiani e l’impero romano, Milano 1995.

L. Bianchi, Roma: il monte di Santo Spirito tra Gianicolo e Vaticano, Roma 1999.

C. R Thiede, Simon Pietro dalla Galilea a Roma, Milano 1999.

Articoli

Marta Sordi, La prima comunità cristiana e la corte di Claudio, in Cristianesimo e istituzioni politiche, a cura di E. Dal Covolo e R. Ugione, Roma 1995, pp. 15 ss.

Marta Sordi, L’ambiente storico culturale greco-romano della missione cristiane del I secolo, Roma 1998 (Ricerche storico-bibliche), pp. 217 ss.

Marta Sordi, L’incendio neroniano e la persecuzione dei Cristiani nella storiografia antica, in Neronia, V, ColI. Latomus, Bruxelles 1998, pp. 105 ss.

© Il Timone - n. 12 Marzo/Aprile 2001

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01/04/2012 15:10
 
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Considerazioni sul martirio

di Marta Sordi

I caratteri dei martiri cristiani dei primi secoli. Rispetto dell’autorità politica, ma sopra ogni cosa l’amore per Cristo e per la Chiesa. E la certezza di una vita eterna.

Nei tre secoli fra Tiberio e Costantino a persecuzione dei Cristiani non fu costante e, spesso, non provocata dallo Stato, ma, specialmente in ambiente asiatico, da sollecitazioni popolari: il senatoconsulto su cui la persecuzione si fondava era estremamente generico, in quanto era nato dal rifiuto di una proposta di Tiberio nel 35 di riconoscere la liceità del culto di Cristo: la notizia di Tertulliano, che parla di questa proposta e del senatoconsulto che ne segui (Apol. V,2), non è un’invenzione apologetica, perché dà anzi alla condanna dei Cristiani un fondamento giuridico ineccepibile, la libera decisione dell’organo (il senato) a cui spettava, ancora in età giulio-claudia, il riconoscimento della liceità di un culto. Il primo imperatore che applicò il senatoconsulto fu però Nerone, dopo la svolta del 62 d.C., con cui ruppe con la tradizione del principato giulio-claudio e dette un’impronta autocratica e teocratica al suo governo.

Nel l° secolo i martiri furono numerosi sotto Nerone (specie dopo l’incendio del 64: Tacito parla di una multitudo ingens) e sotto Diocleziano, nel 95, che mise a morte per ateismo e costumi giudaici, cioè per cristianesimo, anche l’aristocrazia romana, fra cui Flavio Clemente e Acilio Glabrione. I loro nomi ci sono noti però solo dalle fonti pagane (Cassio Dione), perché la letteratura cristiana sui martiri nacque, con forme varie (lettere di una Chiesa all’altra, Atti processuali, Passiones) solo nel ll secolo. Si è molto discusso sull’origine di questa letteratura, sulle forme da essa assunte, sui modelli da cui ebbe origine: io ritengo che il testo più antico sia la lettera della Chiesa di Smìrne a quella di Filamel (ambedue in Asia) sul martirio di Policarpo, vescovo di Smirne, databile — io credo — al 155 d.C. sotto Antonino Pio. Ciò che caratterizza questo testo è il fatto che esso è un documento certamente ecclesiale e da leggere ai fedeli. E e, nello stesso tempo, un documento chiaramente polemico, teso a dimostrare quale è il vero martirio, il martirio secondo il Vangelo, in contrasto con una mentalità nuova che stava diffondendosi tra i Cristiani dell’Asia Minore e che stava per sfociare nell’eresia montanista.

All’esempio di Policarpo viene contrapposto, infatti, fin dall’inizio, il caso di un certo Quinto Frigio, che, con imprudenza e arroganza, si era autodenunciato come cristiano e poi, davanti alle minacce e ai tormenti, era arrivato all’apostasia, "dimostrando a tutti che non ci si deve esporre ai tormenti e alla morte per amore del pericolo". L’arroganza provocatoria dell’autodenuncia sarà il comportamento preferito dal Montanismo, insieme al rifiuto dell’autorità statale e alla pretesa di una nuova rivelazione profetica.

Opponendosi a questa mentalità, Policarpo ribadisce, davanti al proconsole d’Asia, il rispetto che i Cristiani sono abituati a mostrare alle autorità stabilite da Dio e gli autori della lettera lo esaltano come "il maestro apostolico e profetico più degno di ammirazione dei nostri tempi". La lettera diventa così una dimostrazione, attraverso il comportamento del martire e gli avvenimenti stessi, di quello che, secondo la coscienza ecclesiale, deve essere il martirio e del significato che la venerazione dei martiri ha per i Cristiani: non culto idolatrico che soppianta il culto di Cristo, ma manifestazione dell’amore per quelli che, di Cristo, sono stati "discepoli e imitatori

La Chiesa comincia con questa lettera ad approfondire il tema del martirio, rispondendo sia alla nascente eresia montanista, che lo cercava nello spirito delle rivolte giudaiche del I e II secolo e in conflitto con l’impero, sia alle accuse, che cominciavano a diffondersi anche tra i pagani, di rozza idolatria. Al di là della forma letteraria, che, come si e già detto, è diversa nei documenti autentici a noi giunti del Il e del III secolo, il martirio, cioè a testimonianza del martire, si presenta sempre come un dialogo col suo giudice, che cerca di convincerlo all’abiura, minacciando la pena di morte e, poi, pronunziando la condanna.

Segno inconfondibile di autenticità è proprio la figura del giudice, che, nei documenti, pressoché contemporanei ai fatti, è quasi sempre ostile (fa eccezione il prefetto del pretorio Tigidio Perenne, che condannò il martire Apollonio) ma non è mai un sadico, come negli Atti manipolati in età tarda.

Nei dialoghi a noi conservati la testimonianza, implicita nella confessione stessa di Cristianesimo, riguarda innanzitutto Cristo, ma è spesso arricchita di toccanti accenti personali ("È il Re che mi ha salvato" dice Policarpo; "E il Figlio di Dio annunciato dai profeti e Maestro di buoni insegnamenti", dice Giustino); la concezione della divinità; la vita eterna e la sopravvivenza dell’anima dopo la morte; la moralità dei Cristiani; l’atteggiamento dei Cristiani di fronte alla società e allo Stato. Il carattere comune a tutti i martiri è il coraggio davanti alla morte; quasi tutti accettano la condanna con un Deo gratias; la libertà di parola (la parresia)che essi mostrano, nasce dalla certezza con cui la fede è vissuta. Nella chiesa antica, che pure teorizzò, con Giustino, la possibilità di un’adesione inconsapevole a Cristo, non c’è posto per un Cristianesimo anonimo, che rifugge dalla proclamazione pubblica della propria fede.

La Chiesa antica, che condannò nel Montanismo la ricerca imprudente del martirio, condannò anche gli astuti sotterfugi con cui, comprando certificati attestanti un sacrificio agli dei che non era mai avvenuto, molti Cristiani tentarono di sottrarsi, sotto Decio, alla condanna e ritenne sempre che la confessione del martire davanti ai tribunali e ai poteri del mondo fosse un fattore essenziale per la diffusione del Cristianesimo.

C’è un ultimo aspetto che ritengo degno di attenzione: il sentimento della libertà e della dignità umana, caratteristico dei martiri e che accomuna il senatore romano Apollonio, condannato in seguito ad una denuncia sotto Commodo nel 185, e la giovane matrona cartaginese Perpetua, condannata in Africa sotto Settimio Severo nei primi anni del III secolo: tale sentimento scaturisce da un modo nuovo di amare la vita. Al prefetto del pretorio che gli domanda se c’è in lui una volontà di morte, Apollonio risponde: "Volentieri vivo, ma l’amore della vita non mi induce ad avere paura della morte, perché niente è più prezioso della vita eterna, che è l’immortalità dell’anima che in questa vita ha vissuto bene". E Perpetua, in nome della libertà per cui accetta di morire, rivendica il suo diritto di scendere nell’arena senza subire il travestimento di sacerdotessa di Cesare, e quando, lanciata in aria da una vacca infuriata, si accorge che le si è strappata la tunica e si sono scompigliati i capelli, li riordina e sistema la veste, perché non è conveniente che una martire soffra con i capelli disciolti, "come se fosse in lutto nel momento della sua gloria".

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"Quando Policarpo si presentò al proconsole, rinnovata caldamente sua professione di fede, sprezzò le cruente imposizioni del giudice. proconsole tentava di spingerlo a bestemmiare il Signore e gli ripeteva: ‘Pensa all’età che hai, se non badi a tutto il resto. Questa ti vecchiaia non potrà affrontare supplizi che spaventano anche i giovani! Devi giurare per Cesare e la sua fortuna e dire: morte agli empi'. Policarpo allora, con le labbra semichiuse, e, come se non lui stessi ma un altro parlasse in lui, quasi senza articolare la voce, percorse con lo sguardo tutto il popolo empio e profano presente nell’arena. Trasse quindi un sospiro dal profondo del cuore e, mirando la maestà del cielo, disse: ‘Muoiano gli empi'". [Martirio di san Policarpo secondo l’antica versione latina, IX]

© Il Timone - n. 14 Luglio/Agosto 2001

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Chiesa: da "domestica" a pubblica

di Marta Sordi

Il cammino che porta l’impero romano a considerare la Chiesa come realtà pubblica. In mezzo a persecuzioni e a riconoscimenti. Anche del Primato del vescovo di Roma.

L'età apostolica è l’epoca delle chiese domestiche: i viaggi dei missionari apostolici all’interno dell’impero e la loro permanenza, più o meno prolungata, nelle comunità da Loro fondate, rendeva necessario un servizio di ospitalità, che fu esercitato da privati, per Io più laici. Gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo ricordano spesso i nomi di questi generosi cristiani, uomini e donne, che misero la Loro casa a disposizione della Chiesa: Lidia, la mercantessa di porpora a Filippi (At 16,5), Giasone a Tessalonica (ib. 17,5), Aquila e Priscilla, a Corinto, poi ad Efeso ed infine a Roma (At 18; Rm 16), Tiranno, maestro di scuola, a Efeso (At 19,9); Mnasòne di Cipro a Cesarea (ib. 21,16), Ninfa a Laodicea (Col 4,15), Filemone, presumibilmente a Colossi, in Frigia (Fil 1,1-2), i vari gruppi del cap. 16 della lettera ai Romani.

Nelle lettere paoline sono frequenti i saluti per collaboratori e per "la chiesa che si trova nella loro casa". Una formula di questo tipo, ma in latino e con la sostituzione al greco ekklesia del latino collegium, si trova in una serie di iscrizioni del II secolo, prevalentemente, ma non esclusivamente, di Roma, relative ad un collegium quod est in domo Sergiae Paulinae: si tratta, chiaramente, di un collegio funerario destinato agli schiavi e ai liberti dei Sergi Paulli, una famiglia senatoria romana, con grandi possedimenti anche in Asia Minore e fabbriche di mattoni in Italia.

Ciò che appare interessante è che il collegio in questione, che, diversamente dagli altri collegi funerari a noi noti, non porta l’indicazione di nessuna divinità pagana (le iscrizioni di schiavi o liberti della stessa Sergia Paullina con dediche a divinità pagane non portano la menzione del collegio), risaliva al padre della matrona, L. Sergio Paulo, figlio del proconsole di Cipro convertito da Paolo (At 13) fra il 46 e il 48 d. C.

L’ipotesi che il collegium che era nella casa di Sergia Paullina tosse in realtà una chiesa domestica cristiana appare legittima, tanto più che, nel II secolo, la famiglia dei Sergi Paulli appare imparentata, per via matrimoniale, con la famiglia degli Acilii Glabriones, un cui membro, console nel 91, fu messo a morte nel 95 da Domiziano "per ateismo e costumi giudaici", cioè per cristianesimo, nella stessa persecuzione in cui perì Flavio Clemente e tu esiliata Flavia Domitilla. In prossimità della tomba di famiglia degli Acilii Glabriones e in un terreno di proprietà di questi ultimi furono scavate e catacombe di Priscilla a Roma, il cui nome sembra da collegare ad una donna della gens Acilia.

Le iscrizioni relative al collegium di Sergia Paullina potrebbero essere così non solo alcune tra le più antiche testimonianze epigrafiche del cristianesimo a Roma, ma anche la più antica testimonianza in latino (e non in greco) di una chiesa locale romana e della sua organizzazione: il collegio ha un tesoriere (arcarius) che presuppone una cassa (arca) per le offerte, ed ha dei maiores minores, che potrebbero indicare i sacerdoti e i laici. L’uso di maiores per indicare dignità ecclesiastiche è noto infatti nel tardo latino cristiano.

Con la fine del II secolo cessò la copertura che la proprietà privata dava alla Chiesa e questa uscì dalla clandestinità, rivendicando la proprietà dei luoghi di riunione, di culto, di sepoltura: questo fu reso possibile dalla tolleranza di fatto dei Severi e dal riconoscimento concesso da questi, senza bisogno di autorizzazioni particolari, alle associazioni a scopo religioso (i collegia religionis causa: Dig. 47,22,1).

La descrizione che Tertulliano dà, nel cap. 39 dell’Apologetica, della vita delle comunità cristiane, ricalca deliberatamente, anche nella terminologia usata, l’organizzazione di tali collegia, al punto che l’offerta per il tondo comune, che Giustino mezzo secolo prima presentava come settimanale, diventa, come nel rescritto Severiano, mensile: l’unica differenza è che le offerte servivano, non per i banchetti, ma per aiutare i bambini e i vecchi privi di mezzi, e per seppellire i poveri.

All’epoca dei Severi, soprattutto di Severo Alessandro, la Chiesa appare ben conosciuta e rispettata: l’imperatore stesso assegnò con un arbitrato alla Chiesa di Roma un’area (forse quella di S. Maria in Trastevere) ad essa contesa da un collegio di tavernieri (popinarii) ed additò come modello da seguire la probatio dei sacerdoti cristiani. Condannato come religione illecita a livello individuale il Cristianesimo era, di fatto, riconosciuto paradossalmente come Chiesa.

Questa situazione cambiò con la persecuzione di Valeriano, che, dopo il fallimento della persecuzione di Decio, si rese conto che, se l’impero voleva combattere il Cristianesimo, ormai presente nei più alti livelli dello Stato, doveva colpire la Chiesa e nominò esplicitamente nei suoi editti i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, distinguendo il clero dai laici, le insignes personae (senatori e cavalieri) dai semplici fedeli.

Questo riconoscimento in negativo permise a Gallieno, figlio e successore di Valeriano, di riconoscere ufficialmente, per la prima volta, il Cristianesimo come religione lecita: non era più possibile ormai, se si voleva riportare la pace, tornare ad un’ambigua situazione di tatto. La lettera a noi conservata da Eusebio, con cui Gallieno estendeva nel 262 all’Egitto, da poco riconquistato, i benefici dell’editto generale del 260, era rivolta al vescovo di Alessandria in quanto autorità legittimamente riconosciuta dall’impero e lo invitava a far rispettare, in nome dell’editto, i suoi diritti, ricuperando i beni confiscati della Chiesa.

L’impero aveva preso atto della Chiesa, con le sue strutture e la sua gerarchia: lo rivela, una decina di anni dopo Gallieno, l’arbitrato di Aureliano, a cui i Vescovi d’Asia si rivolsero per la restituzione della "casa della Chiesa di Antiochia", occupata dallo scismatico Paolo di Samosata. Aureliano rispose che la chiesa doveva essere data a coloro che erano riconosciuti dal Vescovo di Roma e da quelli d’Italia. Questa è forse la più antica testimonianza, da parte di un impero pagano, dei primato del Vescovo di Roma.

 


 

Ricorda

"Le persecuzioni avvennero realmente, e i martiri furono numerosi ma lo scontro non fu quasi mai a livello politico: né da parte dei cristiani, che continuarono per lo più ad affermare, anche durante I persecuzioni, il loro lealismo verso la stato romano e a proclamarsi buoni cittadini di tale stato, né da parte dell’impero, che non avvertì quasi mai nei cristiani un pericolo per la sua sicurezza e che si ridusse se spesso ad essere il braccio secolare del fanatismo religioso delle folle e di una cultura intollerante". [Marta Sordi, I cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 1984, p. 10]

Bibliografia

- Marta Sordi, I cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 1984, p. 10.

- August Franzen, Breve storia della Chiesa, Queriniana, Brescia 1970.

- K. Bihlmeyer — H. Tuechle, Storia della Chiesa. L’antichità cristiana, l° vol., Morcelliana, Brescia 1986.

- Pietro Cantoni — Marco lnvernizzi, Guida introduttiva alla storia della Chiesa, Mimep Docete, Pessano (Ml) 1994.

© Il Timone - n.13 Maggio/Giugno 2001

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01/04/2012 15:12
 
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Leone I Magno. Grandissimo tra i grandi

di Alberto Azzimonti

Così definito da Pio XII, è il primo Papa a meritare l’appellativo di Magno. Difende l’unità della Chiesa, afferma il Primato di Roma, spendendosi senza riserve nell’opera pastorale per il bene spirituale e materiale dei fedeli.

Leone è il primo papa nella storia della Chiesa ad affermare energicamente l’autorità e la supremazia anche giurisdizionale del vescovo di Roma nei confronti delle altre sedi patriarcali. In mezzo a controversie cristologiche, invasioni barbariche, difficoltà amministrative e a uccisioni di imperatori, erige la cattedra di Pietro a guida autorevole sia in campo dottrinale che in quello civile, dove incomincia a sostituire l’ormai sempre più traballante Impero Romano d’Occidente che cadrà, infatti, nel 476. Nell’enciclica Aeterna Dei sapientia di Giovanni XXIII, Leone è descritto come persona paterna dallo spirito pratico, sempre pronto all'azione. È inoltre acclamato "dottore dell’unità Chiesa". Leone nasce tra il 390 e il 400 probabilmente in Tuscia, l’attuale Toscana.

Il suo prestigio, a con la vasta conoscenza della teologia e della retorica, gli fa meritare la carica di diacono al servizio dei papi Celestino I e Sisto III, divenendo pedina fondamentale nel combattere le eresie nestoriana e pelagiana. Sul finire del 439, l’imperatore Valentiniano III gli affida una delicata missione in Gallia quale mediatore nella contesa sorta tra il governatore locale Albino e il potente comandante militare Ezio. Ma, mentre attende con successo alla missione, viene improvvisamente eletto successore di Pietro in contumacia, in seguito alla morte di Sisto III. L’avvenimento ha dello straordinario perché se spesso le elezioni papali avvenivano in mezzo a contrasti e a veri e propri tumulti popolari, per Leone tutto si svolse in assoluta concordia e con consenso unanime.

Tanto che il popolo romano attese pazientemente addirittura 40 giorni il suo ritorno dalla Gallia. Viene consacrato vescovo di Roma il 29 settembre 440, data che ogni anno avrebbe celebrato come la sua vera natività. Si impegna da subito nel mantenere integra la dottrina della fede contro le varie eresie, riordina la liturgia e rafforza l’organizzazione ecclesiastica, non dimenticando la cura pastorale sia della comunità romana sia della Chiesa universale, cui si dedica alacremente per favorirne la crescita spirituale (numerose sono le sue omelie e lettere al riguardo giunte sino a noi). In seguito all’invasione dell’Africa settentrionale da parte dei Vandali (439), molti appartenenti alla setta eretica dei manichei ivi presenti si rifugiano a Roma, dove incominciarono un’intensa predicazione della loro dottrina. Papa Leone li contrastò prontamente, riuscendo ad ottenere dall’imperatore Valentiniano III una costituzione (19 gennaio 445) che bandisce la setta dall’impero.

Deve intervenire con tutta la sua autorità anche ad Arles, dove il vescovo locale Ilaria aspirava a trasformare la sua cattedra in un patriarcato indipendente da Roma. Un sinodo presieduto dal Papa ne annulla tutte le disposizioni. Importante è in questo caso un decreto dell’imperatore Valentiniano III indirizzato al governatore delle Gallie, nel quale stabilisce che i diritti giurisdizionali del Papa sono riconosciuti senza alcuna restrizione anche da parte dello Stato. Pertanto ogni decisione della sede apostolica ha anche forza di legge.

La più grave e insidiosa eresia dottrinale sorta durante il pontificato di Leone è introdotta dal monaco bizantino Eutiche, il quale afferma e sostiene che le due nature di Gesù Cristo sono talmente intime, che la parte divina sovrasta e assorbe completamente quella umana. Quindi Gesù era vero Dio ma non vero uomo (eresia monofisita). Nei sinodo di Costantinopoli dei 448, Eutiche viene subito condannato. il patriarca Flaviano, che presiede l’assise, spedisce una relazione ai Papa, il quale risponde con la famosa Epistola dogmatica ad Flavianum del 13 giugno 449, in cui espone magistralmente l’esatta dottrina della doppia natura di Cristo nell’unica persona.

Eutiche, però, non si arrende e con l’appoggio di tutte le sue influenti amicizie convince l’imperatore orientale Teodosio il a convocare un nuovo sinodo a Efeso (449). Alla prima sessione, presieduta dal patriarca di Alessandria Dioscoro, Eutiche viene dichiarato inaspettatamente ortodosso e Fiaviano, a cui non è permesso di leggere l’Epistola dogmatica, viene maitrattato al punto che tre giorni dopo muore. La protesta di Leone verso quello che definì il "latrocirio di Efeso" è immediata. Grazie all’interessamento della nuova imperatrice Pulcheria (succeduta al defunto Teodosio II) e di suo marito Marciano, viene convocato un concilio ecumenico per dirimere definitivamente la questione.

il Concilio di Calcedonia deil’8 ottobre 451 è il più importante dell’era patristica della Chiesa sia per le decisioni dottrinali prese, che per la quantità dei padri conciliari presenti. il monofisismo di Eutiche viene definitivamente condannato. L’Epistola dogmatica è letta e accettata da tutti i padri conciliari, i quali riconoscono che "attraverso Leone Pietro ha detto queste cose".

L’episodio più noto dei pontificato di Leone è sicuramente l’alt imposto ai barbaro Attila. In quel periodo gli Unni avevano già invaso il nord Italia, senza che l’imperatore Valentiniano III riuscisse a fermarli. Ormai puntavano decisamente verso Roma. Leone gli si fa incontro sulle sponde del Mincio nei pressi di Mantova indifeso, confidando solo "nell’aiuto del Cielo, il quale mai abbandona i buoni nelle loro disgrazie". Non si sa quale sia stato l’argomento decisivo, fatto sta che "il flagello di Dio" decide di interrompere la sua corsa e di ritirarsi fino oltre il Danubio.

Purtroppo non ottiene lo stesso successo con l’altro re Vandalo Genserico il quale, approfittando dei gravi disordini politici ai vertici dell’impero, sbarca ad Ostia per saccheggiare Roma. Leone, anche questa volta, è l’unico in grado di affrontarlo. Ottiene almeno che durante la razzia della città nessuna persona venga ferita o uccisa.

Tutto questo non fa che accrescere ancora di più il suo prestigio, tanto che è il primo Papa a essere sepolto dopo la sua morte (avvenuta il 10 novembre 461) nei portico della basilica di 5. Pietro. Papa Sergio i nel 688 ne trasporta i resti all’interno della basilica, mentre Papa Benedetto XIV il 15 ottobre 1754 proclama Leone Dottore della Chiesa.

Ricorda

"Alla seduta inaugurale del Concilio di Calcedonia (451) vi è subito una dimostrazione del ruolo preminente del romano Pontefice. Infatti, il legato del Papa si oppone alla partecipazione al Concilio del vescovo di Alessandria Dioscoro: ‘Abbiamo con noi le istruzioni del beato ed apostolico vescovo della città dei romani [Leone I], il quale è capo di tutte le chiese'L’affermazione che dice essere il vescovo di Roma ‘capo di tutte le chiese'; pronunciata solennemente dinanzi a tutti dal legato pontificio, non scandalizza i presenti, e nessuno quindi contesta, neppure il Patriarca di CostantinopoIi". [Gianpaolo Barra, Il Primato di Pietro nella storia della Chiesa, Mimep-Docete, Pessano 1995, p. 75].

Bibliografia

Lucio Casula, La Cristologia di San Leone Magno, Edizioni Glossa, Milano, 2000.

Pio XII, Sempiternus Rex Christus, 1951

Giovanni XXIII, Aeterna Dei, 1961

 


 

Nome: Leone

Data nascita: tra il 390 e il 400

Elezione: 29 settembre 440

Durata del pontificato: 21 anni 1 mese 13 giorni

Data morte: 1° novembre 461

Sepolto: Basilica di S. Pietro

Festa: 10 novembre

Posizione cronologica: 45

© Il Timone - n. 11 Gennaio/Febbraio 2001

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01/04/2012 15:14
 
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Il primo Vaticano

di Ilario Coppa

Una delle innumerevoli conferme della credibilita` storica dei Vangeli. La casa di Pietro, a Cafarnao, prima abitazione del Principe degli Apostoli. E' il primo Vaticano. Si trova sulle rive del lago di Genesaret (o di Galilea, o di Tiberiade) una delle innumerevoli conferme della credibilita` storica dei Vangeli. Parliamo della casa di Pietro, il Principe degli Apostoli, che e` stata localizzata dal francescano Virgilio Corbo - una vera autorita` in materia di archeologia cristiana - una trentina d'anni orsono nel villaggio di Cafarnao, dove Pietro abitava e Cristo era ospitato nella sua casa. L'annuncio del ritrovamento fu dato da papa Paolo VI il 29 giugno 1968. Quando il Pontefice si era recato, quattro anni prima, pellegrino in Terra Santa, giunto a Cafarnao, qualcuno, mostrandogli il luogo dove si riteneva avesse abitato Pietro, gli aveva indicato argutamente che quello era il primo Vaticano. I dubbi sono ormai fugati. E il merito va ai padri francescani, archeologi di prima linea. Esplorando i resti di un antico santuario bizantino del V secolo a due passi dal lago, sotto l'impianto ottagonale della chiesa, fu ritrovata la "domus ecclesiae", l'inconfondibile casa-chiesa che per prima al mondo fu dedicata a san Pietro, nel luogo stesso in cui l'Apostolo visse e fece coabitare il Maestro per almeno un anno della sua vita pubblica. Il santuario bizantino aveva ricoperto il locale dove si riunivano i giudeo-cristiani, i primi cristiani della Palestina, ebrei praticanti che riconoscevano in Gesu` il Figlio di Dio e in Pietro il suo testimone piu` autorevole e il capo dei suoi seguaci. Proprio quel locale, fatto unico in tutto il villaggio, aveva il pavimento intonacato in battuto di calce, tipo di decorazione ritenuta ai tempi piu` preziosa del mosaico, segno della particolare venerazione cui fu fatto oggetto quel luogo. Ma poi, sulle pareti, graffiti antichissimi in aramaico, siriaco, greco e latino, identificati chiaramente come invocazioni a Cristo stesso e al principe degli Apostoli. E poi oggetti, resti di lucerne, una lampada erodiana, una pentola, tutti datati ai tempi della Chiesa primitiva. Gli scavi archeologici hanno in sostanza confermato quanto le testimonianze dei pellegrini dei primi secoli ci hanno tramandato. Una di loro, Egeria, che si reco` in Terra Santa quando era ancora vivo sant'Ambrogio, lascio` un preziosissimo diario nel quale descriveva i luoghi visitati; e tra questi, la "casa dell'Apostolo Pietro". Soltanto un secolo dopo, un altro importantissimo "giornale di viaggio", scritto da un anonimo piacentino, descriveva la basilica costruita sulla casa di san Pietro. Si trattava del santuario bizantino, di forma ottagonale, scavato poi da padre Corbo. Alla sua morte, il benemerito frate-archeologo, che dissotterro` con le sue mani la "domus ecclesiae" di Cafarnao, e` stato sepolto tra le rovine di quell'ambiente a cui aveva ridato luce. Dunque, il racconto dei vangeli, e specialmente quello di Marco, vero segretario del Principe degli Apostoli, il primo umile "segretario di Stato", trova un'altra conferma storica. Vi sono persino i resti di un'imponente sinagoga del V secolo, costruita sulla base della precedente, certo meno grandiosa, ma frequentata da Gesu`, che vi pronuncio` il discorso sul pane di vita che troviamo nel sesto capitolo di Giovanni. Dunque non sono favole quelle che riguardano san Pietro, il villaggio dove abitava, i miracoli che vi compi` il Maestro. Una conferma della credibilita` storica dei vangeli, della attendibilita` di questi racconti, degna di considerazione. La fede cattolica poggia su un fatto, storicamente documentabile, che puo` negare solo che rinuncia a ragionare.

Bibliografia

STANISLAO LOFFREDA, Cafarnao, Ed. Studio Biblico Francescano, Gerusalemme.

PIA COMPAGNONI, Il Paese dello splendore, IPL, Milano.

GALBIATI, ACQUISTAPACE e ALTRI [a cura di], Guida alla terra Santa.

Il Timone - n. 1 Maggio / Giugno 1999
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01/04/2012 15:16
 
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In principio era il Primato

di Alessandro Nicotra

Alla fine del primo secolo la Chiesa era strutturata gerarchicamente e il Vescovo di Roma ne era a capo. Una prova.

N on sono pochi, anche tra i cattolici, quelli che mettono in dubbio il Primato della Chiesa romana, basato sul mandato che Cristo stesso affidò a Simon Pietro: "E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa" (Mt 16,18). Eppure, esistono documenti extrabiblici che attestano e testimoniano come, sin dalla fine del primo secolo, nelle comunità cristiane fosse viva la consapevolezza di una Chiesa strutturata gerarchicamente, con al vertice il vescovo di Roma, ovvero il Papa. La prova sta in una lettera di Papa Clemente I, scritta sul finire del primo secolo, pervenutaci sia attraverso il Codice Biblico Alessandrino (V sec.), sia attraverso il Codice Greco 54 (XI sec.), custodito a Gerusalemme. Ecco i fatti. Nella comunità di Corinto alcuni fedeli avevano sollevato una sedizione contro i capi della Chiesa locale e l'eco di tali disordini, sfociati nella ingiusta rimozione di alcuni presbiteri, era arrivata sino alla Chiesa di Roma, che stava subendo la persecuzione di Domiziano. La lettera di Clemente I si riferisce proprio a questa persecuzione, da poco terminata quando il Papa mette mano allo scritto, per giustificare il fatto di "aver troppo tardato a dirimere alcune questioni che sono in discussione tra voi". Come potrebbe dirimere alcunché - ci domandiamo chi non ha la necessaria autorità? E perchè mai dovrebbe farlo il vescovo di Roma, se ha gia i suoi bravi problemi dovuti alle continue persecuzioni? La Chiesa di Corinto, oltretutto, si trovava molto lontana da Roma, ma evidentemente il Papa avverte il suo intervento come un dovere. Dovere che, a nostro avviso, nasce dalla consapevolezza di sedere sulla cattedra di Pietro e di possedere, per ciò stesso, una indiscussa autorità sulla Chiesa universale. 
Sta di fatto che il vescovo di Roma, sicuro di essere ascoltato, richiama all'ordine i ribelli e li ammonisce, ricordando loro la responsabilità che hanno di fronte a Cristo: "Ma se qualcuno non obbedisce a ciò che per nostro tramite Egli [Cristo] dice, sappiamo che si vedrà implicato in una colpa e in un pericolo non indifferente. Noi però saremo innocenti di questo peccato". Il richiamo all'obbedienza da parte del Papa è significativo al pari delle minacce spirituali riservate a chi disobbedisce. Siamo di fronte, indubbiamente, ad un gesto di correzione fraterna da parte di chi deve confermare i suoi fratelli nella fede, ma anche alla consapevolezza della propria responsabilità sulla Chiesa intera. Da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, IV, 23, 11) sappiamo che tale avvertimento pontificio venne accolto, ascoltato e messo in pratica, con ciò confermando 1'autorità normativa e disciplinare di chi aveva pronunciato tale monito. Che importanza ha per noi questo documento? Enorme. Se da un lato ci dimostra che sin dalle origini e persino in comunità fondate direttamente dagli apostoli (Corinto) esistevano dissidenti e teste calde, d'altro lato questa epistola riveste il valore di prova che alla Chiesa di Roma e al suo Vescovo veniva riconosciuto il Primato sia giuridico che di governo rispetto alle altre chiese.

Bibliografia

Gianpaolo Barra, Il Primato di Pietro nella storia della Chiesa, Mimep Docete, Pessano (MI) 1995 . 
Francesco Gligora - Biagia Catanzaro, Storia dei papi da san Pietro a Giovanni Paolo Il, 2 voll., Panda edizioni, Padova1989. 
Enciclopedia Cattolica, voce Clemente I, vol. III, coll. 1809-1815.

Il Timone - n. 3 Settembre / Ottobre 1999
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01/04/2012 15:17
 
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Il Primato di… Ireneo

di Giovanni Ferrario


Nato in Oriente, vescovo in Occidente, fin dal secondo secolo afferma il Primato della Chiesa di Roma. Accettato da tutto l' ecumene cristiano. Una testimonianza preziosa che conferma la verità cattolica.

"A questa Chiesa infatti, per la sua più forte preminenza è necessario che convenga ogni Chiesa, cioè i fedeli che da ogni parte [del mondo] provengono; ad essa, nella quale da coloro che da ogni parte provengono fu sempre conservata la tradizione che discende dagli Apostoli". 
È con questa definizione che Ireneo, vescovo di Lione, verso la fine del II secolo parla del primato della Chiesa di Roma, nella sua famosa opera in cinque libri Adversus Haereses
L'importanza di questa testimonianza sul primato romano, riconosciuto sin dalle origini della Chiesa, va ricercata sia nel periodo in cui viene scritta sia, soprattutto, nello spessore del suo autore. 
Nato probabilmente intorno al 135-140 vicino a Smirne, in Oriente, Ireneo ebbe come maestro il vescovo di questa città, Policarpo, il quale vantava di essere stato discepolo proprio di Giovanni l'Evangelista. Ancora giovane, per motivi a noi ignoti, si trasferì a Lione, in pieno Occidente, dove divenne prima presbitero del vescovo Potino e successivamente, alla morte di questi, vescovo. 
Una prima peculiare caratteristica balza subito all'occhio. Figlio dell'Oriente (allievo di Policarpo), Ireneo rappresenta, durante la sua vita, la Chiesa d'Occidente. Si può affermare, quindi, che il vescovo di Lione racchiude in sè quelli che il papa Giovanni Paolo II chiama "i due polmoni della Chiesa". 
A Ireneo interessa intrecciare il concetto di supremazia della Chiesa di Roma con quello della sua universalità. La supremazia di Roma viene spiegata riconoscendo la sua grandezza, la sua notorietà, ma soprattutto il fatto che sia stata fondata dagli Apostoli Pietro e Paolo. In realtà, il principale motivo sembra essere proprio la presenza a Roma delle tombe dei due Apostoli e principalmente quella di Pietro, eletto da Cristo quale fondamento della sua Chiesa. 
L'universalità della Chiesa di Roma risulta chiara a Ireneo analizzando la lista dei dodici successori di Pietro, da Lino (primo successore) a Eleuterio (175-189). Questi vescovi di Roma infatti, il cui compito era quello di trasmettere la genuina tradizione apostolica, appartengono, tranne quattro di origine romana, a diversi luoghi del mondo cristiano (Grecia, Siria, Epiro, Aquileia,...). 
Possiamo dire quindi che già nel II secolo dopo Cristo, cioè nel periodo più vicino alla comparsa del cristianesimo, il primato della Chiesa di Roma veniva riconosciuto in tutto il mondo cristiano, sia d'Oriente che d'Occidente. La Chiesa di Roma, ed essa sola, era la Chiesa universale. Tra le tante voci che si levano ad affermarlo, quella autorevole di Ireneo racchiude in sè una particolare importanza. Egli infatti, come già ricordato, appartiene sia all'Oriente, dove ebbe la sua formazione, che all'Occidente, dove svolse il suo mandato pastorale.

Bibliografia

Gianpaolo Barra, Il Primato di Pietro nella storia della Chiesa, Mimep Docete, Pessano (MI) 1995

Margherita Guarducci, Il Primato della Chiesa di Roma, Rusconi, Milano 1991

Pietro Cantoni - Marco Invernizzi, Guida introduttiva alla storia della Chiesa, Mimep-Docete, Pessano (MI) 1994.

Il Timone - n. 9 Settembre/Ottobre 2000
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01/04/2012 15:56
 
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PERCHE' IL CRISTIANESIMO PRIMITIVO VINSE?

Uno degli ultimi studi, abbastanza dettagliato, di autori russi, tradotto in lingua italiana, sul problema dei rapporti tra cristianesimo primitivo e schiavitù, è quello contenuto nel libro di E.M. Staerman e M.K. Trofimova, La schiavitù nell'Italia imperiale (Editori Riuniti 1975). Si tratta del cap. IX.

Su questo aspetto piuttosto controverso della storiografia, molti dei tanti studi di quest'ultimo mezzo secolo, apparsi in Russia, sono stati mediati in Italia soprattutto da due autori marxisti, A. Donini e M. Craveri, che tendevano a prediligere, seppure in maniera problematica, le tesi della scuola mitologica. Direttamente, attraverso traduzioni o studi specifici, o indirettamente, attraverso le loro opere storiche, sia Donini che Craveri ci hanno fatto conoscere il pensiero di R.J. Vipper, S.I. Kovaliov, S. Tokarev, I.A. Kryvelev, J.A. Lencman, A.B. Ranovic, ecc.

Il lavoro di Staerman-Trofimova non si discosta dalla scuola mitologica per i contenuti espressi (viene negato ad es., sulla scia di A. Harnack, che Gesù Cristo sia mai stato un "riformatore sociale"); ma se ne discosta per il modo con cui s'indaga un fenomeno così dibattuto come quello del cristianesimo primitivo. Nel senso cioè che si comincia a guardare il rifiuto cristiano dell'attività politica non come una forma di estraniazione dal reale, ma come "un'espressione di protesta"(p.278), seppur in negativo, contro l'alienazione della vita sociale e politica. L'anachoresis (ritirarsi, allontanarsi) viene vista addirittura come "una forma di lotta di classe"(p. 277).

Dicono i due autori: "nell'Egitto del periodo ellenistico e di quello romano, l'anachoresis favorì la disgregazione dell'economia del paese". Nei documenti di duemila anni fa vi sono descritti "molti casi di fughe di schiavi e di poveri contadini che si ponevano sotto la protezione del tempio, separandosi definitivamente dai loro padroni"(p.277).

Si badi, i due autori non vogliono attribuire al cristianesimo primitivo la scelta esistenziale di fuggire "materialmente" verso i deserti o altri luoghi poco accessibili, come ad es. fecero gli esseni di Qumran (ciò avverrà solo con la nascita del fenomeno monacale, dopo la svolta costantiniana). Essi infatti si rendono conto che il cristianesimo fu soprattutto un fenomeno urbano. Il cristianesimo -questa la loro tesi- va considerato "anacoretico" solo in senso "figurato", in quanto, pur sviluppandosi nelle città, esso mostrò un rifiuto radicale per l'attività politica e sociale tradizionale e ufficiale. Si trattò di una fuga dalla realtà più "morale" che "fisica", anche se ciò comportò il rifiuto concreto, nell'ambito della vita cittadina, di determinate attività. "La predicazione della sottomissione alle autorità terrene tendeva a dimostrare il loro ruolo insignificante rispetto a valori di ordine più elevato"(pp. 322-23).

I due autori non si nascondono che la decisione di adottare l'anachoresis può non essere stata il frutto spontaneo della originaria coscienza del cristianesimo, ma una scelta forzata, dolorosa e progressiva, in quanto è probabile che "inizialmente nel cristianesimo prevalse un'impostazione dei problemi scopertamente sociale che solo successivamente venne sostituita da quella morale"(p. 304). Senonché questa rimane solo una loro felice intuizione: nel testo non viene assolutamente sviluppata, anzi, se vogliamo, viene ripetutamente smentita, come se gli autori temessero di allontanarsi troppo da quella che nella prima metà degli anni '70 era ancora l'interpretazione marxista prevalente sulla questione in esame.

Viceversa, la nostra preoccupazione sta proprio nel cercare di avvalorare tale intuizione, mostrando, nella critica di alcune parti del capitolo in oggetto, quali aspetti vanno considerati decisamente superati nello studio del cristianesimo primitivo.

* * *

Qui anzitutto andrebbe sgombrato il campo da un equivoco. Nel complesso della storia delle religioni sono sempre esistite prese di posizione radicali che hanno determinato una "fuga dalla realtà": farne un elenco sarebbe superfluo. L'ultima, di cui hanno parlato i media, è stata quella, finita tragicamente, di David Koresh (USA). Tuttavia, non s'è mai visto che queste esperienze abbiano rappresentato una vera spina nel fianco dei sistemi dominanti, o abbiano addirittura contribuito al loro crollo. Se e quando ciò è avvenuto si è trattato di una pura coincidenza, in quanto per la rovina del sistema hanno giocato un ruolo determinante fattori ben più consistenti, di cui quelli religiosi spesso non sono stati altro che un riflesso o un sintomo.

Gli esseni, p.es., scelsero volontariamente di ritirarsi nel deserto, ma il Battista, che proveniva da quell' ambiente, ad un certo punto si accorse che bisognava superare la posizione élitaria della sètta e avvicinarsi alle "masse", per poter incidere sulla realtà. E gli esseni scelsero il deserto dopo aver costatato il fallimento di molti tentativi di liberarsi dal dominio dello straniero e dal collaborazionismo interno.

Lo stesso si potrebbe dire dei primi cristiani: essi scelsero "l'invito alla rassegnazione" non tanto -come dicono i due autori russi- per "contrapporre la personalità alla società esistente"(p.278), quanto piuttosto perché videro fallire clamorosamente un'esperienza di tipo politico-rivoluzionario, quella appunto del Cristo. Certo, nella teologia paolina è evidente il contrasto tra personalità e società. Si tratta però di capire il motivo per cui un "ripiego" del genere abbia avuto così tanta fortuna. Anche perché -a ben guardare- la contrapposizione della pura interiorità alla mera esteriorità non è mai stata tipica del cristianesimo, in nessun momento storicamente rilevante. Essa è stata propria invece delle religioni orientali (di matrice indo-buddista), oppure delle filosofie che in un certo qual modo si riallacciano a quelle religioni, come lo stoicismo, l'epicureismo ecc. Persino gli esseni avevano una precisa organizzazione comunitaria. Lo stesso paolinismo sarebbe inconcepibile senza una forte attività sociale e propagandistica.

* * *

Pare quindi difficile da condividere la pretesa dialettica, individuata dai due autori russi, fra la scelta cristiana della rassegnazione, da un lato, e la consapevolezza d'una critica radicale al sistema, dall'altro. "I primi cristiani -essi dicono- rifiutarono decisamente il sistema di valori accettato in quella stessa società, pur invitando alla sottomessa esecuzione di quanto venisse loro richiesto dall'ordinamento esistente". Si trattò, in sostanza, di "una peculiare forma di rivolta contro quell'autorità"(p.280).

Ciò che non convince, in questa tesi, non è solo l'idea che un movimento cristiano possa essere nato sulla base del valore della rassegnazione (quale "plebaglia" avrebbe mai potuto convincere?), ma anche che si possa parlare di una vera e propria "sottomessa esecuzione" della volontà del potere costituito. Uno studio approfondito del cristianesimo primitivo ci mette davanti a un fatto incontrovertibile e a un problema la cui soluzione per il momento si può solo ipotizzare.

Il fatto incontestabile è costituito dalle persecuzioni cui il cristianesimo è andato soggetto sino alla svolta costantiniana del 313, con l'editto di tolleranza di Milano. Il problema è quello di cui sopra abbiamo parlato. Ci si chiede: il cristianesimo ha forse posto "in primo piano la vita interiore dell'uomo" perché ha reagito in modo parziale e riduttivo alle proposte innovative del Cristo, oppure perché questo era l'insegnamento del suo fondatore? La prima realtà a tradire il messaggio di Cristo, spoliticizzandolo al massimo, non è forse stata la comunità cristiana? Il vero fondatore del cristianesimo -come ritengono molti esegeti aconfessionali- non deve forse essere considerato Paolo di Tarso?

Ai due storici russi non interessa però affrontare criticamente questo problema, ma dimostrare in che modo si è data la priorità alla "soggettività". In questo senso, tuttavia, pare limitativo sostenere che, siccome il cristianesimo preferì l'interiorità etico-religiosa, vanno rifiutati taluni suoi princìpi, come p.es. l'identità tra azione e intenzione, la remissione dei peccati, la superiorità della grazia sulla legge, l'invito ad amare i propri nemici, ecc. Il fatto che il cristianesimo abbia politicamente tradito il messaggio di Cristo, non implica, di per sé, che si debba rifiutare tutto quanto esso ha affermato sul piano pre-politico. Non si capisce perché il principio dell'amore universale debba essere visto come una conseguenza della rassegnazione.

Qui non si deve assolutamente dimenticare che il cristianesimo ha vinto la sua battaglia contro l'integralismo dello Stato romano quasi unicamente con gli strumenti dell'etica sociale e della morale personale. Politicamente, infatti, esso rivendicava soltanto il regime di separazione tra Stato e chiesa. Che poi, a partire dal 313, esso abbia affermato, in Oriente, il cesaropapismo e, in Occidente, il papocesarismo, questo è un altro problema. Non si può dare un giudizio di insufficienza alla "morale cristiana" in sé, solo perché, ad un certo punto, si è imposto un nuovo integralismo politico-ideologico, che ha poi usato quella morale per scopi tutt'altro che democratici o umanitari.

E' dunque vero che il cristianesimo, coi suoi princìpi etico-religiosi, non ha fatto altro che riconfermare i rapporti di sfruttamento esistenti, ma è anche vero ch'esso, tali rapporti, li ha subìti in maniera traumatica per almeno due secoli, ed è altresì vero ch'esso ha contribuito a una loro modificazione formale di non poco rilievo, quale è stata quella del passaggio dallo schiavismo al colonato e al servaggio.

Il cristianesimo primitivo è sempre stato un movimento attivo e propositivo; lo era molto di più dell'ebraismo, politicamente attivo solo in Palestina (almeno fino alla rivolta del 132 d.C.), mentre nel resto dell'impero romano, a causa del proprio settarismo, esso era tenuto costantemente ai margini della vita pubblica: di qui l'interesse particolare degli ebrei per l'affermazione economica, considerata come forma di riscatto sociale. Il cristianesimo (che sapeva dividere la religione dalla politica) era molto più attivo anche rispetto alle religioni orientali, che praticamente non ponevano mai i loro princìpi in un contrasto irriducibile con l'integralismo dello Stato romano.

* * *

E' singolare come i due autori russi non si siano accorti che se veramente il Cristo avesse predicato i contenuti del Nuovo Testamento, non avrebbe mai fatto, al tempo dell'imperatore Tiberio (che Tertulliano, mentendo, considerava "filo-cristiano"), una fine così tragica, così caratterizzata dal movente politico. Quindi delle due l'una: o il Cristo era un politico rivoluzionario, e allora i vangeli mentono; oppure non lo era, e allora la sua morte in croce non ha senso. Sostenere, come ha fatto Engels, che "a causa delle premesse storiche [il cristianesimo] non volle realizzare in questo mondo la trasformazione sociale"(in Per la storia del cristianesimo primitivo), è come dire che il cristianesimo non poteva nascere che così, cioè così astratto, così idealistico, così rinunciatario: il che non ci aiuta affatto a capire come esso sia effettivamente nato, né, tanto meno, come abbia potuto vincere.

Rispetto alle tesi di Engels, che praticamente fecero da battistrada a tutta la scuola mitologica sovietica, è ormai giunto il momento di affermare, con sicurezza, che non solo il Cristo operò un tentativo insurrezionale a carattere popolare, ma anche che i tempi, per organizzarlo, erano maturi, in quanto, da un lato, la forma statale della repubblica romana era entrata in dissoluzione e stava per essere sostituita da quella imperiale, ancora incerta sul da farsi (in Italia la rivolta popolare di Spartaco aveva definitivamente messo in luce le contraddizioni insostenibili del governo repubblicano); dall'altro, tutte le rivolte giudaiche che si succedettero dal 66 al 135 d.C. attestano che l'esigenza di una resistenza popolare armata, per una liberazione nazionale, era fortissima nella coscienza delle masse ebraiche.

In questo senso sbagliano i due autori suddetti a ritenere vero o verosimile il comando di Gesù di pagare le tasse a Cesare, così come è stato formulato in Mc 12,17. Pur prevedendo il regime di separazione, tale comando non poteva assolutamente riflettere le preoccupazioni del Cristo, sia perché ogni riferimento positivo alla divinità, nelle sue parole, va considerato come una reinterpretazione della comunità cristiana, sia perché un politico rivoluzionario non ritiene mai che le tasse allo straniero debbano essere permanentemente pagate.

E' assurdo pensare che in un'epoca di ferventi ribellistici il cristianesimo sia nato predicando "la paziente sottomissione con cui il Cristo ha sopportato le persecuzioni dei governanti" e che tale sottomissione va considerata come "la glorificazione di valori diversi da quelli dominanti"(p. 283). Effettivamente il cristianesimo apostolico predicava questo, ma è altrettanto evidente che l'idea di rassegnazione doveva riflettere una forte crisi della prassi di liberazione, una censura o una cattiva interpretazione dell'esigenza di tale prassi. Solo di fronte a una grande possibilità di liberazione reale, venuta meno, si poteva giungere a elaborare un pensiero così pessimista, così spiritualista e, in fondo, così astruso.

Ma c'è di più. Se veramente il cristianesimo avesse predicato il valore della rassegnazione alla stessa stregua dello stoicismo, non si capisce perché esso abbia voluto puntare le sue forze sul lavoro missionario e non si sia accontentato di rimanere circoscritto entro una dimensione più privata o più ristretta. Lo "stoicismo" del cristianesimo non avrebbe avuto alcuna possibilità di vincere quello filosofico ufficiale se non avesse avuto un messaggio qualitativamente diverso da trasmettere. La stessa religione siriana del Sol invictus, pur avendo una grandissima popolarità nell'impero romano, non mise mai in discussione il primato filosofico dello stoicismo prima e del neoplatonismo dopo.

In realtà i primissimi cristiani erano convinti che la rassegnazione non andasse considerata come fine a se stessa, né come strumento per salvaguardare l'ordine costituito, e neppure come atteggiamento per il futuro regno dei cieli. La rassegnazione era vissuta con soddisfazione perché si era convinti in un ritorno più o meno immediato del Cristo. Il torto dei proto-cristiani è stato appunto quello di credere che al fallimento del progetto rivoluzionario elaborato dal Cristo potesse porre rimedio solo il Cristo stesso, nella pienezza, questa volta, dei suoi poteri.

Quando la speranza di un'imminente parusia trionfale del Cristo è venuta meno (soprattutto dopo la distruzione di Gerusalemme), i cristiani, per superare la rassegnazione stoica, hanno dovuto concentrare tutte le loro energie su un aspetto che lo stoicismo non aveva mai preso in considerazione: l'assistenzialismo nei confronti delle categorie sociali più deboli (poveri, malati, orfani, vedove...). E' stato questo che ha permesso al cristianesimo di ottenere vasti consensi, anche se la sua ideologia, alla fine del II secolo, si stava sempre più trasformando in un'arma a difesa non degli schiavi (ai quali si chiedeva di non emanciparsi socialmente), bensì dei ceti medi e medio-bassi (piccoli proprietari, artigiani, commercianti al minuto, professionisti di medio livello ecc.), i quali, rendendosi conto di avere scarse possibilità di carriera o di ampliare i propri possessi, temevano di finire in condizioni analoghe a quelle dei coloni o dei liberti.

* * *

Le differenze che Staerman e Trofimova pongono tra stoicismo e cristianesimo non sembrano sufficienti a chiarire i motivi della vittoria di quest'ultimo. Il cristianesimo -essi dicono- proponeva rapporti diversi costruiti "sui princìpi dell'uguaglianza e dell'amore"(p.284). Ma questo anche lo stoicismo lo affermava: basta leggersi le Lettere che Seneca scrisse a Lucilio. Seneca, Epitteto e Aulo Gellio consideravano lo schiavo uguale per dignità all'uomo libero.

Dov'era quindi la differenza dal cristianesimo? Proprio in questo, che lo stoicismo si limitava a sostenere l'uguaglianza e l'amore universale senza però far nulla per metterli in pratica. "Seneca... che predicava virtù e astinenza -dice Engels-, era il primo intrigante alla corte di Nerone"(in Bruno Bauer e il cristianesimo primitivo).

Ben pochi filosofi stoici o neoplatonici sono diventati cristiani. Difficilmente un filosofo si sarebbe lasciato martirizzare per le proprie idee o, tanto meno, per delle idee religiose. Seneca parlò sempre in modo ammirevole dei suoi schiavi, ma non ne liberò neanche uno e si guardò bene dall'invitarli a condividere il suo regime di vita; inoltre non fece mai nulla per sbarazzarsi delle sue immense ricchezze. Meglio di lui si comportò l'ex-schiavo Epitteto, che però non uscì dai limiti dell'individualismo.

Andava dunque spiegato meglio il motivo per cui "il cristianesimo soddisfaceva, in misura maggiore che non lo stoicismo, le aspirazioni sociali degli uomini"(p.285).

Il secondo aspetto che i due suddetti autori sostengono è il seguente: "la dottrina cristiana prometteva una unione con Dio non prevista dall'insegnamento stoico con la sua razionale legge universale che regola il mondo"(p.285). Ora, non è forse vero che esistevano altre religioni misterico-orientali che predicavano la medesima cosa? Eppure nessuna di esse trionfò sullo stoicismo, che rimase l'ideologia ufficiale dell'impero sino al neoplatonismo: ideologia, questa, più integralista perché più anticristiana, essendosi diffuso il cristianesimo, nel III secolo, assai ampiamente. Le religioni popolari pagane, che fecero in un certo senso da pendant allo stoicismo, furono quella mitriaca e quella della grande madre di tutti gli dèi. Lo stoicismo quindi avrebbe potuto vincere la sua battaglia contro il cristianesimo, attraverso il misticismo e il democraticismo di queste due religioni soteriologiche. Ma non vi riuscì. Perché?

Il motivo è lo stesso di prima: erano le tracce di ebraismo presenti nel cristianesimo che gli impedivano d'identificarsi con lo stoicismo non meno che con le religioni orientali. Lo spirito contestativo, la capacità organizzativa, la sensibilità per i bisogni sociali, l'idea di un dio che fa la storia con il suo popolo e altre cose ancora, portarono l'ideologia di Paolo a un trionfo senza precedenti. Essa fu il frutto di un enorme sforzo di conciliare sul piano sociale e culturale ciò che apparentemente sembrava inconciliabile: il senso ebraico del collettivismo e dello storicismo con il senso greco-romano dell'universalismo e dell'individualismo.

Certo, questa sintesi non può essere considerata come l'unica possibile, poiché Paolo rinunciò all'istanza politica di liberazione (questo fu il senso della sua "conversione" sulla strada di Damasco), ma essa va comunque considerata come un tentativo assolutamente originale per quei tempi, che nessuna filosofia pagana o religione orientale sarebbe mai stata in grado di realizzare.

Quando quindi si afferma che il cristianesimo primitivo "prometteva agli uomini la salvezza, la strada della verità e non quella della conoscenza"(p.285), bisognerebbe anche specificare che tale salvezza non veniva solo "promessa" ma anche "organizzata" concretamente, seppur in forme limitate e per certi aspetti fuorvianti, nella vita sociale. Questa caratteristica differenziava il cristianesimo tanto dallo storicismo quanto dalle religioni orientali, le quali si limitavano a predicare una salvezza individuale legata a manifestazioni attive di ascesi e mortificazione della carne (che il mondo romano peraltro non apprezzò mai sino in fondo).

La loro differenza dal cristianesimo non stava dunque nel fatto che mentre a questo "mancava qualunque eccezione determinata da circostanze esteriori di vita", quelle invece erano "accessibili a pochi"(p.286) -come dicono i due autori, che dimenticano di sottolineare che tali religioni furono introdotte in Occidente dagli schiavi-, ma stava piuttosto nel fatto che il cristianesimo non riponeva la salvezza individuale in un mero sforzo moralistico di purificazione dal vizio o dal peccato.

Ma è soprattutto sul terzo aspetto che i due autori sono carenti nelle loro spiegazioni. Essi affermano che i primi cristiani s'immaginavano la liberazione "in maniera assai concreta e in un futuro molto vicino", mentre gli stoici si limitavano a disquisire "sulla loro teoria speculativa della periodica conflagrazione del mondo"(p.285). Una tesi, questa, che non chiarisce affatto il motivo per cui una religione "rassegnata" come quella cristiana avesse una carica "escatologica" così forte. Che cosa ha impedito al cristianesimo di usare la propria anachoresis in maniera analoga a quella stoica o a quella delle religioni orientali?

Qui evidentemente ci si trova di fronte a un problema di non facile soluzione. In effetti, anche pensando che nel proprio escatologismo il cristianesimo sia stato influenzato dall'ebraismo, vien comunque da chiedersi il motivo per cui esso abbia rinunciato -diversamente dall'ebraismo, che lottò strenuamente fino al 135 d.C.- all'istanza politica rivoluzionaria. Pur di non restare schiavi dei romani, gli ebrei si fecero distruggere come popolo, persero la loro nazione e non poterono più rientrare in Gerusalemme. Se si pensa che i primi cristiani erano tutti originari della Palestina, si resta davvero sconcertati nel vedere da un lato questo loro forte desiderio di liberazione politica e dall'altro questa non meno forte volontà di negare un'organizzazione del movimento in senso politico.

E' dunque molto probabile che l'esperienza della "tomba vuota", dopo la crocifissione del Cristo, sia stata inizialmente interpretata in termini esclusivamente politici, come un indizio sicuro del ritorno imminente e trionfale del Cristo, il quale avrebbe vinto tutti i nemici in una maniera relativamente facile, senza neppure il concorso delle masse popolari.

Se questa ipotesi è vera, l'idea di rassegnazione non va messa in relazione alla convinzione della immodificabilità del sistema dominante, ma piuttosto alla convinzione della assoluta inutilità dell'iniziativa politico-personale ai fini della liberazione sociale. I primi cristiani cioè ritenevano possibile la rivoluzione non per merito loro ma per merito esclusivo del Cristo "scomparso". Questo tradimento del messaggio di Cristo è stato probabilmente anche all'origine della sua tragica fine, nel senso che i veri autori della crocifissione non sarebbero stati né gli ebrei né i romani, ma gli stessi cristiani che non fecero nulla per impedirla, nella convinzione (illusoria) che il Cristo stesso, da solo, avrebbe saputo evitarla.

* * *

Il tradimento cristiano non poté ovviamente essere integrale, altrimenti oggi non ce ne saremmo neppure accorti. Esso partì dal livello politico e intaccò col tempo tutti gli altri livelli: sociale, culturale, etico..., che furono reinterpretati in chiave religiosa. E tuttavia, il cristianesimo riuscì a non assumere, grazie alle sue radici ebraiche, le sembianze di una delle tante religioni orientali.

Dunque, per concludere, ciò che i due autori suddetti non hanno ben compreso è stata la capacità contestativa del cristianesimo primitivo, che non stava tanto nell'anachoresis, quanto nell'idea di affermare un regime di separazione tra Stato e chiesa. Nessuna filosofia pagana e nessuna religione orientale aveva mai previsto una configurazione politico-istituzionale del genere.

Questo aspetto deve portarci inevitabilmente a concludere che "l'esodo degli uomini dalla vita socio-politica nella religione"(p.287), ovvero l'assenteismo nella vita politica, non avesse per i cristiani un carattere di assolutezza. "L'evoluzione spirituale dell'uomo, quale unica condizione per il suo affrancamento", venne dai primi cristiani non "contrapposta" ma "privilegiata" rispetto alle altre forme di attività. I cristiani cioè, pur non trovando "nella vita il materiale necessario per l'edificazione di valori morali"(p.287), non si ritirarono in toto dalla vita sociale. Essi, anzi, avrebbero voluto essere considerati cittadini come gli altri, ma vi erano, da parte dello Stato romano, ostacoli ideologici così grandi che praticamente non si poteva riconoscere loro questo diritto.

E' vero che il cristianesimo politicamente portò all'idea della "inevitabilità dei rapporti di costrizione"(p.286), ma è anche vero ch'esso, sul piano pratico, cercò di superare questi rapporti, affidandosi all'assistenzialismo, al volontariato, al mutuo soccorso, alle minacce morali nei confronti dei ricchi... L'uguaglianza sulla terra, anche dal punto di vista sociale, non era ritenuta del tutto impossibile, ma possibile solo come "caparra", come "anticipazione simbolica" della futura uguaglianza nel regno dei cieli. Esisteva quindi un impegno concreto per realizzare questo segno tangibile della diversità.

Tale peculiare modo di affrontare i bisogni concreti della gente fece da fondamento all'idea della separazione tra Stato e chiesa, e permise al cristianesimo d'incontrare ampi consensi tra i ceti non abbienti. Tali ceti, finché il cristianesimo risultava perseguitato, temevano certamente un peggioramento della loro situazione, ma sapevano anche ch'esso, in quel momento, offriva loro l'opportunità migliore per sopportare in maniera dignitosa la decadenza morale e l'oppressione politica dell'impero, e potevano altresì sperare che, in caso di vittoria, cioè di legalizzazione della nuova religione, la loro condizione sociale sarebbe migliorata.

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01/04/2012 16:03
 
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Atanasio (c. 296-373)

Campione dell’ortodossia contro l’Arianesimo. Nato da famiglia benestante, era egiziano per nascita e greco per educazione. Nell’eccellente scuola catechetica di Alessandria, egli venne molto impressionato dalla testimonianza dei martiri durante le ultime persecuzioni e fu profondamente influenzato da Alessandro, vescovo di Alessandria, dal quale fu consacrato diacono. Di piccola statura e di intelligenza sottile, Atanasio non ebbe alcun ruolo ufficiale durante il Concilio di Nicea (325), ma come segretario di Alessandro, le sue note, circolari ed encicliche per conto del suo vescovo, ebbero un importante effetto sul suo esito. Egli era in lucido e capace teologo, scrittore prolifico, con l’istinto del giornalista per il potere della penna, e cristiano devoto – le quali cose lo portarono ad essere apprezzato dal più vasto pubblico di Alessandria, e la grande maggioranza del clero e dei monaci d’Egitto.

Atanasio contestò Ario e gli ariani durante la maggior parte del quarto secolo. Ario insegnava che Cristo, il Logos, non fosse l’eterno Figlio di Dio, ma un essere subordinato. Queste concezioni erano un attacco alla dottrina della Trinità, alla Creazione, ed alla Redenzione. Atanasio affermava che le Scritture insegnano l’eterna figliolanza del Logos, la creazione diretta del mondo da parte di Dio, e la redenzione del mondo e degli uomini da parte di Dio in Cristo. Queste verità vengono esposte nel saggio:L’incarnazione della Parola di Dio, scritto quando Atanasio era appena un ventenne.

Alessandro morì nel 328, e su grande richiesta, Atanasio venne nominato vescovo all’età di soli 33 anni. La vittoria di Nicea rimase pregiudicata per due generazioni, ed Atanasio era il punto focale dell’attacco ariano. L’arianesimo aveva nell’impero un grande seguito, come pure le simpatie di Costanzo, il successore di Costantino nel 337. La storia della Chiesa nel quarto secolo va di pari passo con gli avvenimenti della vita e del ministero pubblico di Atanasio. Egli venne perseguito attraverso cinque esili, comprendenti 17 anni di fughe e nascondimenti, non solo fra i monaci del deserto, ma spesso in Alessandria stessa, dove era protetto dal popolo. Durante un esilio, a Roma nel 339, egli stabilì forti legami con la Chiesa occidentale, che appoggiava la sua causa. Gli anni susseguenti li passò in pace ad Alessandria.

Gli storici affermano che Atanasio, quasi da solo, salvò la Chiesa dall’intellettualismo pagano e che, per la sua tenacia e visione nel predicare un Dio e Salvatore, egli avesse preservato dalla dissoluzione l’unità e l’integrità della fede cristiana.

La vastità dei suoi scritti è impressionante. Contra gentes, una confutazione del paganesimo e De Incarnatione, esposizione dell’incarnazione e dell’opera di Cristo, furono scritti presto nella sua vita (c. 318) e sono da considerarsi parti di un’unica opera. Pure importanti scritti dottrinali sono De Decretis e Expositio fidei. Saggi polemici e storici includono: Apologia contra arianos, Ad episcopos egypti, e De Synodis. Egli scrisse molti commentari su libri biblici. Vi sono numerosi altri scritti, incluse lettere, molte delle quali sono ancora accessibili.

Egli discusse dottrine chiave come: la Creazione, l’Incarnazione, lo Spirito Santo, e la Trinità, l’opera di Cristo, il Battesimo e la Cena del Signore.

Atanasio influenzò molto il movimento monastico, soprattutto in Egitto.

(S. J. Mikolaski, in: J. D. Douglas, ed. The New International Dictionary of the Christian Church, Grand Rapids, MI: Zondervan, 1974, p. 67).

Arianesimo

Eresia che negava l’eternità di Gesù Cristo, il Figlio di Dio come il Logos. Fu condannato al Concilio di Nicea nel 325. Rimane oggi molto poco degli scritti di Ario, presbitero di Alessandria (m. 336), ma la controversia ariana (c. 318-381) fu strategica per la cristallizzazione e lo sviluppo della dottrina cristiana.

Insieme ad Eusebio di Nicomedia, Ario studiò sotto Luciano di Antiochia, le cui concezioni precorrono la cristologia ariana. Il genio di Ario fu quello di spingere la questione cristologica fino alle origini del Logos pre-incarnato.

La controversia sembra essere sorta in una disputa fra Ario ed il vescovo di Alessandria Alessandro, sebbene dopo Nicea, fu il giovane Atanasio, diacono di Alessandro, a portare avanti le  argomentazioni contro Ario e la cui difesa della Cristologia biblica a suo tempo trionfò sugli ariani nel quarto secolo.

Affermando un senso univoco di “generare” in riferimento all’essere del nostro Signore “unigenito Figlio”, Ario diceva, citando Socrate Scolastico, “Se il Padre generò il Figlio, di colui che fu generato si può affermare un inizio di esistenza; e da questo è evidente che vi fosse un tempo quando il Figlio non esisteva. Ne consegue necessariamente che egli avesse la sua sussistenza dal nulla”.

Sulla base di una certa logica di termini, la cristologia subordinazionista di Ario è coerente, ma è pure chiaramente eretica, se giudicata dalla testimonianza apostolica. Se Dio è indivisibile e non soggetto a cambiamento, allora, secondo una lettura di “generato”, qualunque cosa venga generata da Dio deve derivare da un suo atto creativo, non dall’essere stesso di Dio. Per cui esso comporta un inizio di esistenza. Il Figlio, quindi, non sarebbe coeterno con il Padre. Il Credo niceno, così, insiste che Cristo è della sostanza del Padre, non sacrificando, così né l’impassibilità di Dio, né la divinità del Figlio. Dire che il Figlio sia generato dal Padre dall’eternità non vuol dire dividere il Dio indivisibile, ma accettare la testimonianza degli Apostoli.

Cruciali per questa questione sono le dottrine della Creazione e della Trinità. A Nicea, i cristiani adottarono la dottrina che l’unico Signore Gesù Cristo dall’eternità è di un’unica sostanza con il Padre (si noti il prologo di Giovanni 1:1-18). Questo segnò la fine del periodo in cui Cristo poteva essere concepito come intermediario di Dio nella Sua opera di creazione e di redenzione. Fu così riaffermata la dottrina veterotestamentaria della creazione diretta del mondo da parte di Dio, piuttosto che il concetto greco di uno o più intermediari che collegavano il mondo a Dio, ma non Dio al mondo. Il concetto di intermediari (come nello Gnosticismo) era stato formulato per vincere l’antinomia di come Dio possa essere non generato ed impassibile, eppure agire per creare il mondo. Contro Ario, Atanasio insisteva come non vi potesse essere spazio nel pensiero cristiano per un qualsiasi essere che agisca da intermediario fra il Creatore e la creatura, e perché la redenzione è una prerogativa divina, solo di Dio in Cristo, non in qualche essere intermediario che possa redimere.

La controversia ariana si protrasse a lungo ed implicò molti complicati documenti che circolavano nel quarto secolo. Gli ariani conseguirono grande popolarità dopo il Concilio di Nicea, specialmente dopo la morte di Costantino nel 337, perché suo figlio e successore, Costanzo, era appassionato di Ario. La forza dell’insegnamento ariano venne a suo tempo dissipata, sebbene solo attraverso l’energica opposizione di Atanasio. Il credo niceno fu confermato dal Concilio di Costantinopoli nel 381.

Oggi, la cristologia che maggiormente si avvicina a quella di Ario si trova nell’insegnamento dei Testimoni di Geova, i quali negano l’eternità del Figlio di Dio, la dottrina della Trinità, e considerano il Logos come essere intermediario fra il Creatore e la creazione.

(S. J. Mikolaski, in: J. D. Douglas, ed. The New International Dictionary of the Christian Church, Grand Rapids, MI: Zondervan, 1974, p. 67).

Implicazioni ideologiche

“Nel cristianesimo trinitario ortodosso, il problema dell’uno e dei molti viene risolto. L’unità e la pluralità sono ugualmente valori ultimi nell’essere di Dio. L’unità temporale e la pluralità sono su una base di validità uguale. Non c’è quindi alcun conflitto di base fra individuo e società. L’individuo vive nella società, e nella società fiorisce come l’individuo che trova sé stesso e cresce in termini di fede cristiana coerente. Invece di un’ostilità filosofica di fondo fra l’individuo ed il governo, fra il credente e la Chiesa, fra persona e famiglia, vi è una necessaria co-esistenza. Né l’uno né i molti sono riducibili all’altro. Essi non possono cercare di obliterare l’altro, perché significherebbe un’auto-obliterazione: La fede agostiniana e calvinista, con la sua ostilità verso il subordinazionismo, comporta, se sviluppata, la possibilità per un ordinamento sociale autentico e, nella misura in cui vengono seguiti agostinismo e calvinismo, la cultura occidentale si è sviluppata sia come libertà che come ordine. Quando il subordinazionismo teologico prevale, cioè si afferma la condizione di subordinazione della seconda Persona della Trinità, sorge lo statalismo, come nella Russia bizantina (con la sua cristologia docetica), l’Anglicanesimo ed il modernismo, per citarne solo alcuni. L’uguaglianza ultima dell’uno e dei molti viene disturbata, e l’ordine della rivelazione pregiudicato. Gli imperatori romani erano intensamente consapevoli di questo fatto e, per promuovere lo statalismo,. Appoggiavano l’arianesimo ed altre concezioni subordinazioniste come essenziali per la conservazione dello stato in cui il vero ordinamento in cui la vita umana dovesse essere compresa totalmente. L’ostilità di Atanasio si fondava su questa premessa. Il Concilio di Calcedonia nel 451, affermando la piena fede trinitaria, era così la vittoria significativa che condusse alla vittoria ciò che oggi chiamiamo civiltà occidentale. Il riduzionismo è il risultato di una cristologia difettosa. Una volta che si neghi l’eterno Uno e Molti nel loro uguale carattere ultimo, esso cessa di essere il quadro di riferimento, e un Uno immanente assorbe i Molti. L’impero romano e bizantino, come lo stato moderno e le Nazioni Unite, cercò di essere l’uno immanente. Invece che al punto focale ci fosse un Uno e Molti trascendentale, che nessun ordine umano, come essere creato, poteva incorporare, l’ordinamento temporale divenne il quadro di riferimento. Fu negato l’ordinamento eterno tanto che uno umano poteva sostituirlo. Gli imperatori divini, il diritto divino dei re, si poggiava su questa premessa filosofica, e la corte bizantina sviluppò una teologia dell’imperatore e della corte”.

(R. J. Rushdoony, The One and the Many,  Fairfax, VA: Thoburn Press, 1978, p.16,17)

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28/11/2012 08:26
 
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E ROBESPIERRE DISSE: CANCELLATE I CATTOLICI VANDEANI!

Una ricerca conferma il varo nel 1793 di due leggi per la soppressione di bambini, donne in gravidanza e religiosi cattolici: pianificati campi di sterminio e metodi di uccisione di massa per annegamento

di Lorenzo Fazzini
«In base a questi documenti possiamo affermare che, in seguito alla scelta di coscienza dei deputati della Convenzione, il genocidio dei vandeani inizia con il voto del 1° agosto 1793 e viene confermato da una seconda legge il 1 ottobre dello stesso anno. Dunque fu concepito, organizzato, pianificato e messo in atto sul campo dal Comitato di salute pubblica». Ovvero, tra gli altri, da Robespierre in persona. 

Un'inedita documentazione getta nuova luce sulla cosiddetta guerra di Vandea, la repressione da parte delle forze militari della Rivoluzione francese contro gli insorti della regione occidentale dell'Esagono, accomunati dal cattolicesimo e dall'ispirazione monarchica. 

Lo storico Reynald Secher, autore già negli anni Ottanta di studi 'rivoluzionari' (in senso storiografico) sulla Vandea, ha rinvenuto negli Archives nationales di Parigi diverse testimonianze scritte, talune firmate dai capi della Rivoluzione, dai quali emerge un dato inconfutabile: la morte in massa di 117 mila vandeani non è riconducibile a strategie belliche o a repressioni militari durante una guerra civile, ma a una precisa scelta genocidaria. Tale decisione politica comprendeva finanche, come sua caratteristica consapevole, l'uccisione di donne (anche in stato di gravidanza avanzata), bambini, anziani e religiosi cattolici. 

Il frutto di queste scoperte storiografiche è condensato nel lavoro di Secher, pubblicato di recente in Francia col titolo Vandée. Du génocide au mémoricide. Mécanique d'un crime légal contro l'humanité (Cerf, pp. 438, euro 24). 

Sono molteplici gli esempi di tale strategia che Secher documenta. Uno è il dispaccio del Comitato di salute pubblica datato 10 novembre 1793, in realtà «20° giorno del secondo mese del secondo anno» in base alla nuova scansione cronologica repubblicana: «Laplanche, rappresentante del dipartimento del Calvados, annuncia che prende misure terribili per sterminare i briganti di cui ignora il numero visto i differenti rapporti che gli sono stati fatti; il numero di questi viene riferito in 80 mila da diversi emissari che hanno verosimilmente compreso nel novero dei combattenti donne, vecchi, bambini che seguono questa orda». Come a dire che per i rivoluzionari non esisteva nessuna distinzione tra civili e combattenti vandeani, tutti racchiusi nella spregevole e bellica categoria di «briganti». 

Ancora.
Una comunicazione scritta del Comitato (11 novembre 1793): «Il Comitato ha stabilito un piano per il quale i briganti devono sparire in poco tempo non solo dalla Vandea ma da tutta la superficie della Repubblica.
Rinunciate e abbandonate ogni movimento parziale.
Stringete i ranghi, assembrate le masse». Altra conferma arriva il 26 dicembre 1793 da uno scritto 'a posteriori', ovvero in seguito ad azioni belliche, del generale Westermann, in azione per conto della Rivoluzione sulla sponda destra della Loira: «Non esiste più una Vandea, cittadini repubblicani, essa morta sotto il nostro albero della libertà con le sue donne e i suoi bambini. Io sto per seppellirla nei boschi di Savenay». 

Una delle pratiche più utilizzate dalla forze 'ufficiali' per lo sterminio vandeano erano gli annegamenti, possibilmente di più persone insieme. 

Nella repressione repubblicana su larga scala Secher rintraccia una terribile affinità con le pratiche genocidarie dei totalitarismi del '900: «I membri del Comitato di salute pubblica, di fronte all'immensità dell'opera da realizzare e al tempo necessario per portarla termine, cercano soluzioni economiche 'sostenibili': visto che i modi considerati moderni hanno fallito, mettono in atto un'economia di sterminio di lunga durata. 

A Nantes, per esempio, il più grande campo di sterminio, visto che un battello sulla Loira, affondato, era irrecuperabile, si è deciso di riadattarlo come spazio per l'asfissia. L'idea è semplice e veloce: si fa salire il 'carico umano', si chiudono le aperture, e ci si 'dimentica' dell'operazione». 

La crudeltà dei rivoluzionari trova riscontro anche nelle testimonianze di quanti, soldati repubblicani, vennero in seguito messi sotto processo per le loro azioni: Pierre Chaux, 35 anni, mercante di Nantes, rende questa sua testimonianza nel processo che lo vede alla sbarra: «Accuso il comitato rivoluzionario di aver fatto annegare cinquecento bambini, i più grandi avevano forse 14 anni. Ho constatato le gravidanze di trenta donne, diverse di loro erano al 7° o 8° mese. Qualche giorno dopo queste donne erano state fatte annegare». 

Accanto al genocidio spicca la volontà di un memoricidio, cioè la volontà di fare in modo che ogni traccia di tale sanguinaria violenza venisse cancellata. I deputati della Convenzione, scrive Secher, «hanno messo in atto una politica sistematica di distruzione di tutti i documenti riguardanti il piano di sterminio. 
Sono partiti dal principio del deputato Fayot per il quale 'i vandeani non hanno il tempo di scrivere diari e così tutto questo verrà dimenticato nel tempo'». 
Ma non tutto è stato cancellato. È il caso degli atti del processo contro il deputato Carrier, cui viene imputata 'clemenza' nei confronti dei vandeani. È lui ad ammettere candidamente quando viene convocato dalla Convenzione l'8 febbraio 1794 (e gli atti del processo sono la controprova della strategia di genocidio) di aver ricevuto «l'ordine di sterminare la popolazione in maniera da ripopolare il paese il più in fretta possibile con cittadini repubblicani».

Secher sancisce: in quel caso «per la prima volta, in maniera pubblica, il principio stesso del Terrore e delle atrocità commesse in Vandea viene denunciato e i membri del comitato rivoluzionario di Nantes sono messi sotto accusa».

Fonte: Avvenire, 21/10/2012

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