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OSSERVAZIONI SULLE SPECIE ANIMALI

Ultimo Aggiornamento: 02/02/2017 13:50
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11/02/2012 22:44
 
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Entomologi sfatano l’altruismo negli animali: «solo l’uomo ne è davvero capace»

Uno degli sforzi maggiori del riduzionismo neodarwiniano è quello di sottolineare come le grandi qualità che contraddistinguono l’essere umano siano rilevate anche negli animali. Egli quindi non sarebbe diverso da essi, nessuna unicità, nessuna superiorità, nell’uomo. E’ soltanto un “nient’altro che”, come impone la formula d’obbligo del riduzionista perfetto.

Ad esempio per molto tempo si è insistito dicendo chel’altruismo, grande virtù umana, sia tranquillamente osservabile anche nel regno animale. Ma le cose non stanno affatto così e gli evoluzionisti (quelli seri, ovviamente) sempre più sottolineano come invece l’uomo sia l’unico essere sulla terra a saper essere davvero altruista, ovvero a saper agire per pura gratuità senza alcun vantaggio per sé. Solo l’uomo può seguire la grande novità portata da Gesù, che non è solo quella di amare il prossimo (questo lo avevano già detto altri grandi uomini prima di lui), ma addirittura l’amore verso il proprio nemico«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,43-48).

Nel 2006, seppur ancora tenendo stretto il determinismo riduzionista, lo si è ammesso dopo una ricerca dell’Istituto Max Planck: «Anche gli scimpanzé si aiutano, ma solo se gli serve, per esempio per procurarsi il cibo. Se però li si mette in condizioni di arrivare al cibo senza l’ aiuto di un partner, non facilitano l’ altro nell’ ottenere anche lui un po’ di cibo, nemmeno se loro sono già sazi». Nessun vero altruismo, dunque. Recentemente ne ha parlato anche il genetistaEdoardo Boncinelli, a commento di un saggio (“Superorganismo”, Adelphi 2012) pubblicato da due entomologi, Hölldobler e Wilson, i quali hanno sfatato i luoghi comuni sull’insetto eusociale più citato, la formica. Il formicaio è infatti un superorganismo composto da esseri strettamente imparentati tra loro dal punto di vista genetico. «Comportarsi correttamente», spiega Boncinelli, «è utile alla colonia ma anche, seppur indirettamente, ai singoli componenti della stessa». Insomma, il fine ultimo della cooperazione è la sopravvivenza individuale, una forma mascherata di “egoismo”. I due autori sono più netti nel loro volume: «Gli insetti sociali sono rigidamente governati dall’istinto, e lo saranno sempre. Gli esseri umani sono dotati di ragione e hanno culture in rapida evoluzione. Noi umani siamo capaci di introspezione e possiamo trovare  il modo per tenere a freno i nostri conflitti autodistruttivi».

L’uomo svetta su tutta la creazione, non si interessa solo di se stesso, non rischia la vita solo per il suo parente biologico, ma anche per l’estraneo o addirittura per il nemico. In esso, spiega il celebre darwinista spagnolo Francisco J. Ayala«il comportamento morale non è del tipo di quelle reazioni automatiche di altruismo biologico come si hanno in certe api, formiche e presso altri imenotteri [...], il comportamento morale in quanto tale non esiste nemmeno in forma iniziale in esseri non umani». E conclude: «Siamo molto diversi biologicamente dalle scimmie qui sta la base valida per uno sguardo religioso sull’uomo come creatura speciale di Dio, e per una coscienza di che cosa ci renda squisitamente umani» (F.J. Ayala, “L’evoluzione, lo sguardo della biologia”, Jaca Book 2009, pag. 157-233)

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13/03/2012 23:52
 
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Francesco Agnoli qualche tempo fa diceva che c’è un chiaro progetto antiteista che«non si rassegna a negare Dio», ma vuole «ridurre l’uomo ad un elemento della natura, equivalente ad un sasso o un albero; ridurlo via via a frutto del Caso, a un “esito inatteso”, a una “eccezionale fatalità”, a un aggregato di materia senz’anima, a un meccanismo geneticamente determinato». Negare Dio ha sempre significato negare l’uomo e la sua unicità: ecco che i neodarwinisti, strumentalizzando il darwinismo, lo hanno quindi tentato di livellare alla scimmia, informando che il nostro patrimonio genetico è condiviso al 99% con lo scimpanzé, ma evitando di dire che per l’80% è  in comune con un verme di 1 mm (Caenorhabditis elegans), il 50% è condiviso invece con il dna della banana, e abbiamo lo stesso numero di geni della gallina. Secondo i riduzionisti, dunque, saremmo per l’80% dei vermi e per il 50% delle banane.

Vale la pena comunque notare i risultati di studi in cui gli scimpanzé vengono confrontati con i bambini, come ad esempio quello appena pubblicato circa la cultura cumulativa: i ricercatori hanno addestrato scimpanzé a risolvere dei puzzle e poi a dimostrare le tecniche ad altri scimpanzé. Ma essi non hanno imparato, al contrario di un gruppo di bambini della scuola materna. Affermano: «Gli scimpanzé possono imparare gli uni dagli altri, ma la loro conoscenza non sembra accumularsi e diventare più complessa nel corso del tempo», e questa è una «caratteristica degli esseri umani, che ha dato luogo a realizzazioni come i computer e la medicina moderna». Concludono basiti gli studiosi: «Le differenze tra gli esseri umani e le altre specie sono in realtà più forti di quanto avessimo immaginato prima di avviare questo test». 

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13/03/2012 23:56
 
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Sottolineare la differenza tra l’uomo e l’animale è sempre più necessario

Esiste oggi una forma di animalismo sfrenato che è davvero deleteria. Non si parla certo di chi difende e protegge gli animali dalla inutile violenza, cosa di grande valore e sensibilità, ma l’accusa è verso quella forma di fanatismo che diventa un vero accanimento verso l’uomo, ritenuto “cancro del pianeta”, un ritorno al panteismo o alla devozione di una Terra Madre (Gea). Ovviamente la componente laicista della società ne approfitta per diffondere il riduzionismo dell’uomo all’animale, si veda ad esempio il pensiero di Singer, Dawkins, Zapatero, Hack, Veronesi. Proprio quest’ultimo ha parlato qualche giorno fa di scimmie come «nostri fratelli e sorelle». Il loro scopo è sempre lo stesso: denigrare la Creatura per negare il Creatore. Contro questo isterico eco-animalismo si è scagliato di recente il filosofo laico Fernando Savater.

E’ evidente che oggi, purtroppo, difendere l’eccezionalità dell’uomo viene oggi visto come unadiscriminazione diretta degli animali, un preludio per una loro discriminazione. Ma questa è una deduzione folle e completamente ingiustificata: esistono tantissimi cattolici vegani, vegetariani e ambientalisti e con maggiore sensibilità di altri circa le sorti del Creato. Cattolici che si battono per interrompere le crudeltà verso i suini e cattolici che propongono l’ambientalismo blu, altri invece che preferiscono usare il loro tempo per assistere gli uomini, i bambini, gli anziani e gli ammalati. Ognuno fa il suo, senza nessuno fondamentalismo, senza voler paragonare l’uomo all’animale (anzi, solo certi animali, quelli più teneri) o estendere loro i diritti umani. Questa è pura antropomorfizzazione.

In proposito, il filosofo Tommaso Scandroglio ha ottimamente commentato una recente vicenda giudiziaria tra alcune orche e i proprietari di tre grandi parchi acquatici americani. Gli avvocati di Peta (People for Etichal Treatment of Animals) hanno trascinato in giudizio questi ultimi perché le orche sono ridotte in schiavitù dato che sono state tolte dal loro ambiente naturale, sono costrette a nuotare in piccole vasche e obbligate – come se fossero lavori forzati – ad esibirsi per il divertimento di noi uomini. Questo cozzerebbe con il 13° emendamento della Costituzione americana che vieta la schiavitù e i lavori forzati. Le orche, dicono, non devono essere lese nella loro libertà “personale”, ma devono far ritorno nell’Oceano. I giudici hanno tuttavia respinto la richiesta stabilendo che l’emendamento si applica solo agli esseri umani: «Nella storica frase “We the people…” (“Noi, il popolo…”) nessuno alludeva alle orche». Attenzione: certamente ci sono situazioni in cui in questi parchi acquatici gli animali vengono maltrattati, e quindi è opportuno vigilare come fanno questi attivisti, ma è la strategia usata ad essere assurda, proprio in quanto si è tentato di difendere gli animali paragonandoli agli uomini.

 

Il filosofo ha fatto alcune considerazioni molto interessanti da cui abbiamo preso spunto per smontare questa ideologia fanta-ecologista disumana, nel vero senso della parola.

1) PERCHE’ SOLO ALCUNI ANIMALI? PERCHE’ NON LE PIANTE?  “Le orche hanno dei diritti”, dicono. E’ possibile essere d’accordo, ma a patto che per non discriminare nessuno dovremmo riconoscere dei diritti non solo ai tenerissimi panda, ma anche a pulci, zecche, pidocchi, ragni, piccioni, topi, scarafaggi, formiche, mosche, zanzare ecc. Ma anche i batteri appartengono al regno animali, dunque se l’animale vale quanto l’uomo dovremmo smettere di curarci l’influenza o l’HIV? Bisognerebbe che questi militanti smettessero anche di girare a piedi o in auto per le loro battaglie, dato che ogni loro movimento comporta il massacro di milioni di animali (sotto le scarpe, sul parabrezza ecc.). E perché poidiscriminare le piante? Questi fanatici, aggressivi verso chi non è vegetariano, fanno scorpacciata di vegetali, anche se è dimostrato che vi sia in essi attività neurologica e, addirittura, gli ortaggicomunicherebbero tra loro lanciandosi richieste di aiuto. Magari quando scorgono in lontananza Michela Brambilla o Margherita Hack? Il diritto delle piante dove va a finire?

2) ESTENDERE LORO ANCHE DIRITTI MINORI? Se le orche hanno diritto alla libertà ciò comporta necessariamente riconoscere riconoscere loro anche diritti minori o di pari importanza: diritto di compravendita, di voto, alla pensione, di coniugio, etc. Tutte modalità attraverso cui la libertà di un individuo si esprime e che quindi non possono essere negate.

3) RICADUTE TRAGICOMICHE? Se la sentenza americana avesse avuto esito positivo le ricadute sarebbero state tragicomiche: obbligo di tutti i possessori di bocce in vetro contenenti pesci rossi di sversare il contenuto in mare o nel lago. Anche cardellini, fringuelli, pappagalli e canarini avrebbero vistoaprirsi le porte delle loro gabbiette a motivo di questo animalesco indulto (per entrambe le specie ovviamente il risultato sarebbe stato la morte improvvisa dato che sono animali domestici). Da qui ovviamente il divieto perpetuo di trasmettere il cartone animato Gatto Silvestro perché il canarino Titty dietro le sbarre avrebbe sicuramente configurato apologia di reato. Infine il dubbio: forse che anche l’amato cane Fido implicitamente ci chiede di lasciarlo in mezzo ad una strada per ritornare libero allo stato brado condizione originaria dei suoi lontani progenitori, piuttosto che restare legato ad un guinzaglio impacchettato in un maglioncino rosso. Però se lo facessimo saremmo di certo travolti dall’ira di una pletore di animalisti convinti. Insomma ci troveremmo tra due fuochi: Fido libero o ridotto in schiavitù ma non abbandonato? Un’altra domanda: ama di più i pesci o i pappagalli chi li tiene nell’acquario/gabbietta o chi li lascia liberi nel loro ambiente?

4) AVERE DEI DIRITTI COMPORTA DEI DOVERI Se vogliamo estendere agli animali i diritti destinati agli uomini, questa stessa libertà per forza di cose comporterà delle responsabilità. Da che mondo è mondo se io uomo uso male della mia libertà dovrò pagarne le conseguenze: libero di andare in giro in auto, ma se investo una persona me ne assumerò le conseguenze anche legali. La dolce Tilly, una di queste cinque orche, in passato ha sbranato ben due dei suoi addestratori. Nulla di scandaloso: ci sarà pur un motivo se questi cetacei in inglese sono conosciuti con l’appellativo di killer whales. Essendo in America però la nostra Tilly si meriterebbe un’immensa sedia elettrica. In Italia, a Livorno, un branco di cani ha sbranato in questi giorni un camionista, padre di famiglia. Un cane non randagio, addomesticato e “amico dell’uomo” ha massacrato un bimbo di 9 anni nel 2008, nel 2009 la stessa sorte è toccata a un bimbo di un anno, pochi mesi fa un neonato è morto dopo l’aggressione del cane dei genitori. Di fronte a tutto questo, chi invocasse la scriminante “l’animale è innocente perché è l’istinto ad averlo costretto ad agire così”, entrerebbe in palese contraddizione:  se è l’istinto a presiedere alle azioni degli animali, allora dobbiamo concludere che i loro atti sono determinati da madre natura e quindi non sono liberi, come quelli umani. Ma allora significa che cagnolini e orche sono schiavi dell’istinto. E dunque, che senso ha berciare tanto nel difendere i loro diritti “umani” di libertà? Oppure vale anche il contrario: dato che si vuole ridurre l’uomo ad un animale sociale, come la formica o la scimmia, perché non esigiamo che il trattamento di impunità riservato agli animali sia esteso anche agli assassini della nostra specie?

In questo periodo storico in cui ci si batte così tanto per valorizzare le differenze quando si parla di omosessualità, esiste una violenta oppressione verso chi valorizza la differenza tra uomini e animali o, nel campo umano, tra maschi e femmine. Un altro incredibile paradosso

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24/04/2012 15:44
 
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Studio su “Science”:

nessun altruismo rilevato tra scimpanzé

Tra noi e gli altri primati la differenza nel Dna è minima, si aggira dall’1% al 2%.  Questo piccolo argomento sostiene i neopositivisti come Telmo Pievani, dà loro forza e coraggio per andare avanti, per urlare al mondo che«l’uomo non è nientr’altro che…», cioè la classica formula del riduzionista perfetto.

La cosa divertente è che i nostri amici riduzionisti evitano sempre di dire checome spiega il dott. Giuliani, oltre al98% di geni in comune con lo scimpanzé, noi abbiamo il95% di similitudine di geni con il ratto, un po’ meno geni con la fragola, per l’80% il nostro Dna è  in comune con un verme di 1 mm (Caenorhabditis elegans) mentre per il 50% è condiviso con quello della banana. Abbiamo lo stesso numero di geni della gallinae la nostra composizione atomica non è differente da un ficus. Pare abbastanza evidente, dunque, che l’uomo “non si spiega” nei suoi geni.

La seconda tesi riduzionista sostiene che l’uomo non sia differente dallo scimpanzé, in quanto anche quest’ultimo ha capacità sociali, di cooperazione, di altruismo ecc. Pochi mesi fa parlavamo di un libro recentemente pubblicato di due entomologi, Hölldobler e Wilson, i quali hanno sfatato i luoghi comuni sull’insetto eusociale più citato, la formica. E’ risultato infatti evidente, come è normale nella conservazione della specie, che il fine ultimo della cooperazione animale è la sopravvivenza individuale, dunque una forma mascherata di “egoismo”. Hanno concluso con una banalità pazzesca, ma che oggi scandalizza i riduzionisti: «Gli insetti sociali sono rigidamente governati dall’istinto, e lo saranno sempre. Gli esseri umani sono dotati di ragione e hanno culture in rapida evoluzione. Noi umani siamo capaci di introspezione e possiamo trovare  il modo per tenere a freno i nostri conflitti autodistruttivi»Francisco J. Ayala, fra i più celebri darwinisti viventi, scrive in un suo libro: «il comportamento morale non è del tipo di quelle reazioni automatiche di altruismo biologico come si hanno in certe api, formiche e presso altri imenotteri [...], il comportamento morale in quanto tale non esiste nemmeno in forma iniziale in esseri non umani». 

Nei giorni scorsi il docente di Biologia Evoluzionistica e Comportamentale presso l’Università di St. Andrews, in Scozia, Kevin Laland, ha commentato i risultati di uno studio pubblicato su “Science“ di cui avevamo già parlato su UCCR. I ricercatori hanno addestrato scimpanzé, cebi cappuccini e scimmie del Sud America a risolvere un “puzzle-box” e poi a dimostrare le tecniche ad altri scimpanzé. Ma essi non hanno imparato, al contrario di un gruppo di bambini della scuola materna.  Il biologo ha affermato«I bambini hanno risposto al test come a un esercizio sociale, cercando insieme la soluzione, guardando e copiando le azioni dei vicini, e impartendo istruzioni. In certi casi abbiamo assistito a azioni di generosità, in cui i bambini condividevano i premi ricevuti. Ci saremmo aspettati degli atti di altruismo anche da cebi e scimpanzé, perché erano presenti gruppi di madri e figli, ma non ne abbiamo avuto riscontro». Anzi, sottolinea Laland, «abbiamo visto madri rubare i premi ai figli. Al contrario dei bambini, scimpanzé e cebi si relazionavano al puzzle in modo solitario, cercando di risolvere la prova per ottenere cibo solo per se stessi»Nessun atto di generosità, dunque, come era prevedibile, ma nemmeno si è vista la cooperazione. Ma non era il pilastro della tesi riduzionista?

 

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15/01/2013 17:44
 
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La psicologia evolutiva
e le storielle sulla mente umana

 
 
di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica
 

Probabilmente tutti conoscono i divertenti racconti in cuiRudyard Kipling descrive la nascita delle caratteristiche di vari animali, come la gobba del cammello, le macchie del leopardo, le pieghe della pelle del rinoceronte. Sono le famose“Just So Stories” (“Storie Proprio Così”): termine che è giunto a indicare una spiegazione narrativa non verificabile e non falsificabile di qualsiasi fatto biologico o culturale.

Sappiamo bene che le narrazioni selezioniste del neodarwinismo spesso non sono altro che delle “just-so stories”, basate sull’unico indimostrabile assunto che ogni data caratteristica biologica sia un adattamento evolutivo, vale a dire un tratto che si diffonde nella popolazione perché fornisce un vantaggio riproduttivo. Si è abusato molte volte di tale concetto –  soprattutto nella letteratura divulgativa di stampo darwinista – poiché esso offre spiegazioni facili su ogni tipo di problema biologico, anche in mancanza di convincenti prove scientifiche a favore.

C’è da dire che, in linea di massima, i biologi evolutivi sono oggi abbastanza cauti nella costruzione di spiegazioni adattive… con un’unica ragguardevole eccezione: quando si tratta di dar conto delle caratteristiche specifiche dell’Uomo. Stephen Jay Gould osservava, nel 1978, che la tentazione di spiegare la mente umana in termini di questa o quella “just-so story” evolutiva era così grande da far spesso sorvolare allegramente sulla mancanza di prove a sostegno. Gould criticava in particolare l’ambizione dellasociobiologia di voler rintracciare le radici di ogni comportamento umano in un lontano passato evolutivo – uno scopo non semplice da realizzare, data l’intrinseca difficoltà di separare i fenomeni culturali da quelli biologici. Va detto che le mire della sociobiologia sono davvero elevate (uno dei padri fondatori della disciplina, Robert Trivers, ebbe a dichiarare che “prima o poi le scienze politiche, la legge, l’economia, la psicologia, la psichiatria e l’antropologia saranno tutte branche della sociobiologia”), e non appare molto probabile che possano essere deflesse dalla constatazione che le procedure sono scientificamente poco corrette.

Uno dei paradigmi su cui si fondano le speculazioni darwiniste sulla natura umana è il concetto che la mente sia una collezione di moduli software “programmati” dalla selezione naturale quando i nostri antenati vagavano per le savane pleistoceniche. “Scopri quali siano e come siano stati plasmati dall’evoluzione i moduli che la compongono, e avrai cominciato a capire davvero come funziona la mente”: tale è l’ambizione dellapsicologia evolutiva. Come i sociobiologi, però, anche gli psicologi evolutivi tendono a fare eccessivo affidamento su inverificabili storie di adattamento evolutivo, senza con ciò portare alcun significativo contributo alla effettiva comprensione dei meccanismi mentali (occorre ricordare che le lucide analisi sul linguaggio di Noam Chomsky e sulla percezione visiva di David Marr furono condotte a prescindere da considerazioni selettive-adattive).

La panoramica delle correnti speculazioni evolutive su comportamento sessuale, capacità mentali, religione e arte, che lo psicologo e biologo David Barash propone nel suo ultimo libro (“Homo Mysterious: Evolutionary Puzzles of Human Nature”), non fa altro che confermare la persistente mancanza di cautela scientifica in questi campi di studio. Secondo Anthony Gottlieb, che ha recensito il libro di Barash su “The New Yorker”, l’autore –  lungi dal portare convincenti prove a favore delle tesi selezioniste della sociobiologia e della psicologia evolutiva – riesce soltanto a mostrare in maniera del tutto involontaria quanto facilmente si vendano ancora oggi le “just-so stories” sull’Uomo. Insomma, questo libro ottiene unicamente l’effetto di dimostrare quanto siamo ancora lontani dal poter dire qualcosa di conclusivo sull’evoluzione della mente.

Gottlieb prende per esempio in esame ciò che l’autore dice a proposito della religione. Secondo Barash, il sentimento religioso deve essere stato vantaggioso per gli uomini primitivi, oppure deve essere derivato da qualche altro tratto vantaggioso. Per esempio,potrebbe essere stato un effetto collaterale della curiosità umana sulle cause dei fenomeni naturali, o del nostro desiderio di socializzazione; o forse le credenze e le pratiche religiose aiutavano le persone a stare bene con gli altri, a essere meno egoisti, o a sentirsi meno soli e più appagati. Ebbene, Barash non aderisce esplicitamente a nessuna di queste ipotesi, e tuttavia riesce a trarne la conclusione che è “altamente probabile” che la religione abbia avuto origine da un qualche meccanismo selettivo-adattivo. È convinto, inoltre, che la selezione naturale sia responsabile della “persistenza” del fenomeno religioso nelle società umane… dimostrando così di essere poco aggiornato sul tema, non solo dal punto di vista scientifico ma anche da quello sociologico: oggi, come non mai, esistono decine di milioni di non credenti, e in diverse nazioni la religione è diventata un aspetto del tutto marginale della vita. In realtà, non appare molto probabile che una narrazione selezionista sia in grado di spiegare il fenomeno della secolarizzazione della società.

Il problema dei tentativi di ricostruzione della comparsa della mente a partire da “materiali” pleistocenici – osserva Gottlieb – è che bisognerebbe prima sapere di quale “attrezzatura” mentale gli uomini primitivi già disponevano. Insomma, sebbene si possa sempre raccontare una storia plausibile su come un qualche comportamento abbia aiutato i primitivi cacciatori-raccoglitori a sopravvivere e riprodursi, non è dato sapere se quello stesso comportamento sia invece comparso precedentemente e per ragioni del tutto diverse. Chiaramente, dunque, la storia raccontata non avrebbe niente di scientifico– sarebbe solo un’interessante speculazione dal sapore scientifico. Lo stesso Darwin era consapevole di questo rischio: scrivendo a proposito delle suture ossee incomplete nel teschio dei neonati (le “fontanelle”), il naturalista inglese notava che se ne potrebbe dedurre che si tratti di una caratteristica evolutasi in modo adattivo, vale a dire di un adattamento evolutivo atto a facilitare il passaggio attraverso lo stretto canale del parto. Invece no, anche uccelli e rettili, che nascono da uova, hanno le loro suture del cranio incomplete: è un fenomeno legato allo sviluppo dello scheletro, non alle modalità della nascita. Per quanto concerne i tratti mentali umani, poi, si aggiunge un’ulteriore difficoltà, chiaramente insormontabile: la vita interiore dei nostri antenati ha lasciato veramente pochi fossili!

Ma perché allora, si chiede Gottlieb, gli psicologi evolutivi insistono a ricercare le radici evolutive del comportamento umano, se – come abbiamo visto – si tratta di un tentativo tanto scientificamente inaffidabile? La domanda è destinata a rimanere senza risposta. In teoria, infatti, tale compito potrebbe rivelarsi di qualche utilità se le storie adattive elaborate potessero fornire indicazioni mai notate prima riguardo a determinati schemi comportamentali. Il guaio è che ciò si verifica raramente, se non mai. Per esempio, uno studio condotto circa trent’anni fa da due psicologi canadesi, Martin Daly e Margo Wilson, suggeriva che è più probabile che un genitore abusi di un figliastro che di un figlio naturale, a causa del fatto che i nostri lontani antenati avrebbero avuto una discendenza maggiore prendendosi più cura dei figli biologici. Ancora oggi qualcuno esalta questa ricerca come un trionfo della psicologia evolutiva. Eppure, non di trionfo si tratta, ma di vero e proprio fiasco: uno studio della Columbia University del 1998, che ha preso in esame una grande quantità di fattori di rischio relativi alla violenza sui minori, ha dimostrato che la presenza di un patrigno o di una matrigna non costituisce un campanello d’allarme significativo (eccettuato il caso di violenza sessuale sulle figliastre da parte del patrigno; ma questa circostanza particolare non venne considerata da Daly e Wilson). Con buone pace di tutte le grandi e piccole storie che si possono narrare al riguardo, da “Amleto” a “Cenerentola”, da “David Copperfield” ai racconti sui nostri ignoti antenati delle caverne.

Gli psicologi evolutivi, per la verità, indicano altri studi che ritengono di utilità pratica. Qualcuno pensa che le strategie di accoppiamento potrebbero aiutare a spiegare perchéi maschi giovani siano molto più violenti delle donne anziane. Questa considerazione ha in effetti spinto alcuni ricercatori a classificare l’età degli assassini che si verificano in tutto il mondo. Certamente una mappatura del genere potrebbe tornare utile in futuro, chissà. L’idea selezionista alla base è, naturalmente, che i giovani maschi dell’Età della Pietra avrebbero avuto i migliori risultati riproduttivi accettando rischi legati alla competizione per guadagnarsi una compagna e per salire di livello nel gruppo. Fatto sta che non ci vuole una laurea in psicologia evolutiva per capire che la polizia commetterebbe un grave errore se decidesse di fare una retata in una casa di riposo per anziani, andando alla ricerca dell’accoltellatore in una rissa da discoteca.

Due ricercatori della Kansas University hanno poi affermato (in un lavoro pubblicato su una rivista scientifica on-line che i manuali scritti da affermati playboy dimostrano come le intuizioni della psicologia evolutiva possano essere efficaci nella vita reale (o quanto meno, in un nightclub). Non c’è dubbio che la ricerca sul campo in questo settore vada avanti alacremente. E’ interessante osservare che Barash, alla fine del libro, pone l’accento sul fatto che la nostra mente mostra un’ostinata predilezione per le spiegazioni semplici che potrebbero essere false. Vero; ma allora bisognerebbe aggiungere che questa inclinazione è complementare ad un altro aspetto della psicologia umana, vale a dire una passione smodata per la certezza di aver trovato la chiave esplicativa di tutto. Forse, nota ironicamente Gottlieb in conclusione alla sua recensione, esiste una spiegazione evolutiva anche per tali propensioni.

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18/12/2013 00:17
 
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Frans De Waal e il tentativo
della “morale negli animali”

Frans De WallIl dogma riduzionista-naturalista “noi siamo i nostri geni” è stato ormai abbandonato, sostituito da qualche tempo da un’altra convinzione dogmatica: “noi siamo il nostro cervello”. Messi da parte i genetisti, ecco fare spazio ai neuroscienziati per sostenere che il libero arbitrio è un’illusione, che la coscienza è un epifenomeno del cervello e che la morale è un mero prodotto neuronale. Il tutto ovviamente per evitare di attribuire all’essere umanoun’eccezionalità davvero fastidiosa da sopportare per i negatori del Creatore.

In questa nuova impresa non ci sono solo neuroscienziati, ma anche etologi come Frans De Waal il quale ovviamente ha interesse a sostenere che «la morale non nasce con la religione ma è innata», cioè presente negli animali e sopratutto nei primati, i quali addirittura «distinguono tra bene e male e reagiscono alle ingiustizie». Una esagerazione, fortunatamente ridimensionata subito sotto: «non dico che gli scimpanzé o i bonobo siano esseri morali, ma hanno tutti gli ingredienti di base senza i quali noi umani non potremmo avere una morale». Più l’intervista prosegue e più le affermazioni si spogliano di sicumera:«Non possiamo sapere cosa sentono gli animali», rettifica per la terza volta. «Quello che possiamo fare è misurare come reagiscono in alcune situazioni».

Ovvero si interpretano (spesso arbitrariamente) le reazioni animali da un punto di vista umano, cioè l’antropomorfismo. Un semplice gioco di deduzioni probabilistiche che nulla a che vedere con il metodo scientifico, alla pari di chi chiacchiera con il suo gattino perché “lui mi capisce”. Verso la fine un’altra precisazione: «La morale umana non riguarda solo me e te o le persone che conosciamo, ma si applica a chiunque nello stesso modo. Questo richiede un certo livello di astrazione, delle regole generalizzate. In questo senso la morale umana è speciale: noi discutiamo i principi del nostro sistema etico e cerchiamo di giustificarli, mentre le scimmie antropomorfe non lo fanno», sempre ammesso che abbiano e seguano un sistema etico. Non manca una critica a Richard Dawkins e al suo “gene egoista” che De Wall considera addirittura«un messaggio antidarwiniano».

In pratica l’etologo olandese riduce la morale umana all’empatia, alla cooperazione e al prendersi cura degli altri. E’ ovvio allora che concluda che «la cooperazione e l’armonia sociale sono state sempre un vantaggio per la nostra specie, molto prima che nascessero le moderne religioni, ovvero circa duemila anni fa». La religione, dunque, avrebbe semplicemente«rinforzato il sistema». Al di là della validità scientifica, anche volendo prendere per vero il punto di vista di De Waal, occorre constatare che si tratta di una lettura originale della storia umana che conferma come nell’uomo vi sia una naturale inclinazione al bene, alla relazione e alla cooperazione e che la religione, in particolare il cristianesimo, ha valorizzato spiegandone l’origine: siamo tutti fratelli, ci ha detto Gesù Cristo, poiché figli di un unico Dio. Aggiungendo però un insegnamento unico«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”». Questo lo dicevano anche gli antichi greci. Ma, aggiunge Gesù: «io vi dico:amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 43-48).

Non esiste alcuna specie animale che ama i suoi nemici o che ha un concetto di vera gratuità. La cooperazione e la cura verso la propria prole di cui parla De Waal hanno un senso nell’evoluzione e nel mantenimento del gene mentre quella verso gli estranei si chiamagrooming: io faccio a te così tu farai a me. E’ sempre per un ritorno personale (come è stato scoperto nelle formiche) che si muove l’animale e non potrebbe essere così dato che «il comportamento morale in quanto tale non esiste nemmeno in forma iniziale in esseri non umani» (F. Ayala, “L’evoluzione”, Jaca Book 2009, p. 157). L’altruismo è soltanto apparente, si tratta sempre di una forma di egoismo. Non a caso una importante scuola di biologi evoluzionisti, guidati anche da Marc Hauser, sostiene essere più interessante notare le differenze tra animali e uomo piuttosto che rimarcare le (poche) analogie.

L’etologo De Wall riconosce il fallimento dell’ateismo moderno nell’aver usato come argomento principale l’aggressione ai credenti e alla religione. «Con la loro pretesa di essere razionali», ha accusato, «il loro disprezzo per l’intreccio storico fra scienza e religione e la loro disponibilità ad inimicarsi anche i credenti moderati, i neo-atei finiscono per cadere nella parte dogmatica dello spettro. La loro posizione è stata particolarmente dannosa al dibattito sull’evoluzione. Chi ascolterà i biologi che sostengono quanto sia ben documentata l’evoluzione se la prima cosa che esce dalle loro bocche è: “sei un idiota”? Per di più, l’ateismo è una posizione vuota. Tutto quello che fa è sostenere che Dio non esiste, mentre lascia senza risposte domande come: cosa fare con la nostra vita, dove trovarne il significato, perché siamo qui e come metterci in connessione con la società umana nel suo insieme». Il suo approccio è invece più soft: focalizzarsi sugli aspetti positivi per rendere inutile la religione:«L’ateismo», ha scritto nel suo recente volume “Il bonobo e l’ateo”«dovrà essere combinato con qualcos’altro, qualcosa di più costruttivo che la sua opposizione alla religione, per essere rilevante per la nostra vita. L’unica possibilità è quella di abbracciare la morale come naturale per la nostra specie».

Ecco dunque svelato che il tentativo riduzionista di concepire la morale umana come fattore puramente naturale serve alla causa ateista più che a quella scientifica. Ancora una volta si abusa della scienza per negare Dio. Un tentativo contro la scienza e contro lo stesso Charles Darwin, secondo il quale, invece, «un essere morale è un essere in grado di paragonare le sue azioni e le sue motivazioni passate e future e di approvarle o disapprovarle. Non abbiamo ragioni di supporre che qualcuno degli animali inferiori abbia queste capacità» (C. Darwin,“L’origine dell’uomo e la selezione naturale”, Newton Compton 2007, p.88).


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24/06/2014 22:52
 
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Le scimmie hanno il senso del tempo?

Gli esperimenti non chiariscono la questione.

Ma l’evoluzionismo obbliga a dare una risposta affermativa, anche se gli esperimenti dimostrassero il contrario.

L’evoluzionismo, che con la sua desinenza in -ismo non va confuso con l’idea di evoluzione, è quella deformazione del pensiero scientifico che tende a spiegare in termini di evoluzione (darwiniana) ogni aspetto della realtà assurgendo così ad ideologia. La cosa fu ben chiara aTheodosius Dobzhansky che nel 1973 scrisse una frase che sarebbe stata ripetuta innumerevoli volte divenendo un vero slogan: «in biologia niente ha senso se non alla luce dell’evoluzione».

 E anche l’intelligenza degli scimpanzé viene studiata cercando di capire come questa caratteristica si sia sviluppata in grado, non in qualità, per giungere fino a Homo sapiens. Dell’argomento se n’è occupata Le Scienze riprendendo un articolo intitolato “A New Frontier in Animal Intelligence” pubblicato sulla versione in inglese Scientific American. L’articolo in italiano riprende fedelmente il titolo originale “La nuova frontiera dell’intelligenza animale“, rendendo disponibile anche a chi non legge l’inglese i contenuti sull’argomento. Quel che emerge è il fatto che certi animali, in particolare lo scimpanzé, sono in grado di compiere quelli che si chiamano “viaggi nel tempo“, cioè delle esperienze in cui ci si immagina nel passato o nel futuro, fatto che consente di elaborare comportamenti in previsione di certe situazioni.

A far scoprire queste proprietà è stato il comportamento di quella che è  una vera e propria star delle scimmie, lo scimpanzé Santino noto per la sua abitudine di scagliare pietre contro i visitatori, la fama acquisita è testimoniata dal fiorire di un merchandising intorno al fenomeno:

Come testimoniato nell’articolo sul Times e da quello ben più importante su Scientific American, Santino avrebbe cambiato il nostro modo di vedere gli scimpanzé mostrando la loro capacità di elaborare un pensiero premeditato, infatti essendosi accorto che quando preparava le pietre da lanciare lasciandole in un determinato posto queste gli venivano sottratte, lo scimpanzé ha iniziato a nasconderle da un’altra parte. Da questo i ricercatori hanno tratto delle conseguenze riportate nell’articolo su Le Scienze:


Se un animale, grazie alla memoria episodica, può immaginare se stesso mentre in passato interagiva con il mondo – come Santino quando ricorda di non essere riuscito a colpire un uomo che l’aveva visto con una pietra in mano – è ovvio che potrebbe anche essere in grado di immaginare se stesso nel futuro in uno scenario simile, e pianificare di conseguenza il proprio comportamento….

La capacità di rappresentare se stessi e le proprie azioni con l’occhio della mente – sia nel passato che nel futuro – è quello che gli scienziati chiamano viaggio mentale nel tempo.

 Queste sono le conclusioni a cui è giunto lo psicologo Thomas Zentall dell’Università del Kentucky, ma non tutti sono d’accordo, infatti nello stesso articolo su Le Scienze leggiamo:

Lo psicologo Thomas Suddendorf, dell’Università del Queensland, sostiene che, nonostante “i tentativi ingegnosi per dimostrare la memoria episodica o la simulazione del futuro negli animali non umani, ci sono pochi segni che gli animali agiscano con la flessibile lungimiranza così caratteristica degli esseri umani”.

Ma proprio un collega di Suddendorf che ne condivideva l’opinione avrebbe recentemente rivisto le sue posizioni, il riferimento è a Michael Corballis, psicologo dell’Università di Auckland, che all’inizio di quest’anno ha capito che aveva torto, che gli animali possono fare viaggi mentali nel tempo, ma il fatto sorprendente è che non esiste nessuna prova sperimentale l’ha indotto a cambiare idea.

La prova che gli ha fatto cambiare idea non arriva dall’osservazione del comportamento degli animali, ma dalla misura dei loro cervelli.

“Il viaggio mentale nel tempo ha basi neurofisiologiche che risalgono molto indietro nell’evoluzione, e non può essere – come hanno sostenuto alcuni, me compreso  - una caratteristica esclusiva degli esseri umani”, scrive Corballis.

Il motivo per cui Corballis ha cambiato idea è nel fatto che le basi neurofisiologiche sono indietro nell’evoluzione e il viaggio mentale quindi “deve” appartenere in misura minore anche agli animali.

La dinamica del cambiamento d’idea di Corballis rappresenta un caso in cui la teoria prende il sopravvento sulla realtà, un’applicazione della massima hegeliana per la quale “Tanto peggio per i fatti se non si accordano con la teoria”.

In contrapposizione con tanta evoluzionistica certezza molto giusta appare la conclusione dell’articolista di Scientific American, lo psicologo Justin Gregg:

…forzando lentamente il coperchio della scatola nera della mente animale, gli scienziati continueranno a non essere d’accordo su quali forme si vedono emergere dal buio.

Per quanti sforzi potranno fare le neuroscienze, per quante conclusioni possano essere tratte dai dogmi evoluzionistici, la mente, anche quella più semplice degli animali, resterà una scatola nera.



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10/04/2015 18:52
 
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Nel 2001, quando lo scienziato Alexei Erchak (del Massachusetts Institute of Technology) ha inventato un nuovo tipo più efficiente di LED, non sapeva ancora di copiare una tecnologia che certe farfalle africane utilizzano da 30 milioni di anni.
I LED (da "light emitting diodes", diodi ad alta emissione di luce) sono quei puntini luminosi, verdi giallo o rossi, che segnalano se il computer è acceso, se il cavo Internet è collegato, eccetera; nell'elettronica hanno decine di altre applicazioni comuni, perché consumano poca energia.


Ma i LED attuali hanno un difetto: la maggior parte della luce che producono non "esce" ma resta confinata nel LED stesso, difetto che gli addetti ai lavori chiamano "bassa efficienza di estrazione di luce", e che impedisce per ora di usare questi ritrovati per ampie illuminazioni di ambienti.
Perciò il professor Erchak del MIT ha escogitato un cristallo fotonico a due dimensioni, consistente in una griglia triangolare bucherellata sullo strato superiore del LED: questa struttura, battezzata "riflettore di Bragg", migliora l'estrazione di luce dal diodo.

Ora due studiosi della Exeter University, Pete Vukusic e Ian Hooper, hanno scoperto che una vistosa farfalla africana, la Princeps nireus, ha sulle ali dei "riflettori di Bragg".
Le scaglie delle ali sono cristalli fotonici pigmentati e fluorescenti che emettono un intenso colore blu e verde-blu.
La fluorescenza naturale delle farfalle sarebbe molto più debole se il pigmento non fosse collocato in una zona dell'ala che appare regolarmente bucherellata.
I buchi, minuscoli cilindri vuoti, impediscono che la fluorescenza sia "intrappolata" nella struttura o emessa lateralmente.
Le scaglie della farfalla africana dispongono anche di una sorta di "specchio" nello strato inferiore, che riflette tutta la fluorescenza verso l'alto.
Una copia esatta dei "riflettori di Bragg".

La diversità, spiega Vukusic, "sta nel fatto che la farfalla non ha i diodi semiconduttori e non produce la sua propria energia radiante: il che in un certo senso la rende doppiamente efficiente.
Ma il sistema che 'estrae' la luce dalle ali del Princeps Nireus non è solo un'analogia; è lo stesso identico design del LED".
Aggiunge il professore: "quando afferri l'architettura fotonica a disposizione di quella farfalla, cominci a capire l'eleganza con cui la natura ha composto le cose" (2).
Considerazione da dedicare ai darwinisti.
Che credono che tali splendide strutture siano il risultato del caso (di cieche modifiche casuali del patrimonio genetico) "premiate" dalla selezione naturale, nella "competizione per l'esistenza".
Caso e necessità e l'ansia competitiva avrebbero prodotto i riflettori di Bragg naturali, di un insetto che esisteva -senza evolversi- già trenta milioni di anni fa.


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21/04/2015 16:50
 
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Secondo i darwinisti la distribuzione geografica delle specie animali confermerebbe la teoria darwiniana della discendenza comune perchè esisterebbe una congruenza tra la distribuzione delle specie e la geografia dei continenti. Vale a dire che esistono specie ,per esempio in Africa ma non in America. In realtà non sempre è cosi , anzi spesso non è cosi'. Per esempio le scimmie catarrine sono presenti in Africa e in America meridionale. I reperti fossili dimostrano che le scimmie catarrine hanno vissuto in America da circa 30 milioni di anni. Ma l'America si è separata dall'africa circa 120 milioni di anni fa e l'America è isolata dall'oceano atlantico dall'africa da circa 80 milioni di anni. Ammesso che le scimmie sono discese da un antenato comune come hanno fatto le scimmie dell'africa ad arrivare in America, dato che in America esse ci sono da soli 30 milioni di anni?


E' un rebus che anche gli evoluzionisti si pongono. Si pensa che una coppia di scimmie o una scimmia gravida hanno attraversato l'oceano attraverso una specie di zattere fatte da tronchi d'albero o altre aggeggi simili, ma la distanza che avrebbero dovuto percorrere era molto alta: tra le coste dell'africa e quelle dell'America c'è una distanza di 2500 chilometri: come hanno fatto a percorrerla, è assolutamente improbabile che sia avvenuto tenuto conto che gli organismi dei mammiferi richiedono molto cibo ed acqua
dolce per sopravvivere, essendo organismi ad alto metabolismo. Primatologhi eminenti si sono chiesti come è possibile che queste scimmie abbiano raggiunto l'America dall'Africa. Ma siccome sono legati alla teoria della discendenza comune di tipo evoluzionistico affermano che dato il lungo tempo a disposizione l'improbabile si è verificato. Ma non è questo un modo
scientifico di ragionare. Ci sono anche però altri piccoli primati africani che non hanno mai colonizzato l'America. E dire che per questi esseri più piccoli sarebbe stato più facile viaggiare in tronchi d'albero ma non l'hanno fatto. Anche questo fatto viene considerato casuale dai darwinisti. Ma ci sono tanti altri casi .ci sono, per esempio lucertole e roditori in sud America, l'arrivo di api, lemuri e altri mammiferi in Madagascar, fossili di elefanti su molte isole, comparsa di rane d'acqua dolce in numerose isole isolate oceaniche. E tanti altri esempi. Perchè ci sono iguane nelle isole Fiyi mentre i loro parenti stretti sono nel nuovo mondo? Cosi' i darwinisti sono costretti ad supporre che è accaduto l'improbabile pur di non abbandonare la teoria della discendenza comune. Ma ripeto, questa non è buona scienza.


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23/06/2015 19:42
 
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     Meccanismi utili "sfortunati" e sistemi inutili che si affermano.

A questo punto del nostro percorso, nasce una considerazione: se è così facile evolvere strutture e sistemi, ci si domanda come mai tale fenomeno sarebbe avvenuto per organi particolarmente complessi (ali, occhi, etc.) e non per altri adattamenti che sarebbero stati di indubbio vantaggio evolutivo e sarebbero stati molto più facili da realizzare.

La vista ha una sua indubbia utilità e nonostante la sua complessità si è diffusa in tutto il regno animale. Ma allora perché altri sistemi, anche meno complessi, ma decisamente "vantaggiosi" non hanno avuto la stessa "fortuna"?

 

L'omeotermia
Un esempio può essere l'omeotermia, raggiunta solo da uccelli e mammiferi (da tutte le specie delle due classi), ma non evoluta da alcuna altra specie; eppure tutti gli altri vertebrati hanno sistema circolatorio, un normale metabolismo cellulare che può produrre energia e quindi calore, manca solo un meccanismo di regolazione, sì complesso ma non più di altri sistemi che le varie classi possiedono.

Eppure l'omeotermia avrebbe permesso dei vantaggi incredibili nell'affermazione e nella diffusione per le classi che l'avessero raggiunta.

Dall'altro lato abbiamo invece il caso di sistemi molto complessi ma non assolutamente necessari o, quanto meno, che sarebbero stati più facilmente ed "economicamente" sostituibili da altri molto meno complessi.

Il sonno
Un esempio è fornito dal sonno: durante il suo svolgimento avvengono una serie di processi importanti (processi di consolidamento della memoria, risposte immunitarie, ecc.), ma perché non si sono evoluti sistemi che li rendessero non necessari o ridotti (come nei delfini) dato che il dormire espone l'animale a rischi notevoli, fa perdere tantissimo tempo utile che, nella continua "lotta per la sopravvivenza" sarebbe stato estremamente utile recuperare?

Il Limulus
Altro caso: il limulo, una specie di granchio corazzato che vive sulle coste dell'Atlantico e di cui abbiamo già accennato nei capitoli sulla paleontologia. Essere "primitivo", cugino degli antichissimi trilobiliti (estinti da milioni di anni), è considerato un fossile vivente, presente in strati fossili da 300 milioni di anni (e sempre uguale). Di recente s'è scoperto che gli gli occhi del Limulus, di notte, aumentano il loro potere visivo di un milione di volte.

Il processo si attiva con ritmo circadiano ogni ventiquattr'ore mediante un delicatissimo processo attivato dai quanti di luce che colpiscono gli occhi apportando sottili mutamenti nei canali ionici dei fotorecettori nelle membrane cellulari. Non sono affatto occhi "primitivi". Al contrario: sono più sofisticati degli apparecchi elettronici a visione notturna usati per scopi militari. Ciò che vediamo in natura è uno scoppio di fantasia progettistica (1).

Ma non è questa l'unica stranezza della vista del Limulus: qual è lo scopo di questo sofisticatissimo meccanismo? Non serve a proteggere l'animale o a catturare prede poiché il limulo è corazzato -non teme quindi insidie da alcun predatore- e non è predatore. Gli occhi gli servono solo per tre settimane l'anno quando, insieme a decine di migliaia di suoi simili, sciama sulle spiagge a riprodursi e grazie ai suoi occhi straordinari distingue al buio le femmine. Ma per ottenere questo risultato vi sarebbero altri modi assai più economici: basterebbe un odore.
E inoltre le femmine hanno anch'esse la visione notturna, di cui non si servono mai, perché aspettano che siano i maschi a trovarle. La selezione naturale ci insegna che quando qualcosa non serve più, si perde. Il dimorfismo sessuale viene spiegato proprio in questo modo. Negli ungulati (cervi, daini, renne, ecc.) ad esempio, alle femmine non servono le corna -necessarie ai maschi nelle annuali lotte per l'accoppiamento- e così le femmine nel tempo hanno perso le corna o le hanno ridotte. Questi casi sono ordinari in natura. Ma allora perché le femmine del limulo avrebbero mantenuto queste strutture così complesse ed inutili per milioni di anni? Una minima mutazione genetica avrebbe reso inutilizzabili questi complessissimi occhi, ma la selezione non avrebbe svantaggiato gli individui femmina mutanti, poiché le femmine non hanno bisogno della visione notturna amplificata.

***
(1) Maurizio Blondet, Darwin alle corde? tratto da Il Timone, n. 10 Novembre/Dicembre 2000.


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08/12/2015 19:35
 
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Crediamo ancora di essere grossi scimpanzé
per il 98% dei geni in comune?

ScimpanzèE’ vero, condividiamo il 98% dei nostri geni con le scimmie antropomorfe. Peccato che questa informazione non venga usata strettamente nell’ambito evolutivo, come si dovrebbe invece fare, ma per anni è stata strumentalizzata per fini riduzionistici, ovvero filosofici: l’uomo non è nient’altro che -celebre formula lessicale del riduzionismo- una scimmia poco più evoluta, perciò la creatura non ha nulla di speciale e quindi non esiste alcun Creatore.

Questa è l’estrema sintesi dell’ateismo scientifico (anche se platealmente non esiste più) che abusa dell’evoluzione biologica per cercare di sostenere conclusioni teologiche. Nessuno nega che vi sia una parentela evolutiva con i primati, ma è indubbio che l’uomo abbia misteriosamente ed improvvisamente effettuato un salto ontologico (non soltanto quantitativo, dunque) rispetto ai suoi antecedenti, che lo rende unico, irriducibile, un sistema complesso dove i componenti sono tutti connessi e interdipendenti e il sistema non è dato dalla somma delle parti. Altrimenti non si spiegherebbero tante altre informazioni, fortemente nascoste dai riduzionisti di professione, come quella che abbiamo anche il 90% dei geni in comune con i coralli mariniabbiamo parecchi geni uguali a quelli delle ostriche, il 95% dei nostri geni sono simili a quelli della fragola, l’80% del nostro Dna è in comune con un verme di 1 mm (il Caenorhabditis elegans), mentre per il 50% è condiviso con quello della banana. Abbiamo lo stesso numero di geni della gallina e la nostra composizione atomica non è differente da un ficus. Dunque saremmo scimmie poco più grosse, ma anche grandi ostriche, coralli, topi, fragole e per metà anche delle banane. Se non si vuole cadere nel ridicolo bisognerebbe comprendere che evidentemente l’uomo “non si spiega” nei suoi geni.

Sembra però non tenerlo in considerazione purtroppo Danilo Mainardi, famoso etologo e divulgatore scientifico italiano, nonché presidente onorario dell’Unione Atei Agnostici Razionalisti (insieme a Odifreddi, Nonna Papera e al Gabibbo). In un recente articolo contro la sperimentazione sugli scimpanzé, Mainardi ha infatti sostenuto che essi soffrono tanto quanto l’uomo poiché abbiamo il 98% dei geni in comune con loro. Eppure, Mainardi lo sa bene, l’uomo condivide anche il 97,5% di DNA con il ratto, perché allora non invoca il divieto di ogni tipo di sperimentazione anche sui topi, bloccando quindi tutta la ricerca scientifica e farmacologica (senza contare che anche gli ortaggi “soffrono”)? Perché probabilmente si è più interessati, per motivi filosofici, a umanizzare sui media soltanto le scimmie antropomorfe, per i motivi ateologici ricordati poco sopra. Non a caso tutti coloro che si battono pubblicamente per concedere diritti umani agli scimpanzé sono contemporaneamente militanti anti-teisti, come ad esempio il bioeticista Peter Singer e l’ex zoologo Richard Dawkins.

E’ comunque possibile e giusta una sperimentazione etica, senza sofferenza o sofferenza prolungata per gli animali, così come hanno ribaditoin questi anni i più autorevoli scienziati e ricercatori internazionali, come anche laicissimi divulgatori scientifici, da Gilberto Corbellini e Michele De Luca fino al vegetariano Umberto Veronesi. Posizioni, quelle dell’animalismo radicale e del riduzionismo ateologo, che andrebbero abbandonate secondo i colleghi di Mainardi, come ha spiegato Enrico Alleva, già presidente della Società Italiana di Etologia e direttore del Reparto di Neuroscienze comportamentali all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, o il neuroscienziato Vittorio Gallese.

Condivisibile l’intervento di qualche mese fa dell’epistemologo Mauro Ceruti, docente di Filosofia della scienza all’Università Iulm di Milano, che ha criticato la divulgazione scientifica che sui quotidiani diffonde i miti del “gene dell’intelligenza”, del “gene della fedeltà” ecc. «Penso a quante volte si continui a dare un’immagine addirittura falsa e fuorviante degli sviluppi più interessanti della genetica. Quasi ogni giorno leggiamo della scoperta del gene dell’intelligenza o del talento musicale o dell’aggressività o di qualunque altra caratteristica si voglia enfatizzare». Ed invece, ha proseguito il filosofo, «la scienza richiede l’elaborazione di una cultura in grado di concepirne il senso e di utilizzare appieno le sue straordinarie potenzialità, superando le barriere che frammentando le conoscenze frammentano il reale, rendono incapaci di considerare il ‘contesto’ e il ‘complesso’, rendono incoscienti e irresponsabili dinanzi alle conseguenze delle nostre azioni proprio perché diamo arbitrariamente per scontato di essere capaci di prevederle e di controllarle»«Per inerzia», invece, «anche da parte di molti suoi comunicatori, il modo in cui la scienza viene rappresentata è tornato positivista fuori tempo massimo, per così dire, ignorando come ormai da più di un secolo la scienza abbia cambiato paradigma abbandonando l’idea di essere autosufficiente. Anche nel campo dell’epistemologia permangono vive le tendenze riduzioniste, secondo le quali il compito della scienza sarebbe quello di scoprire in modo oggettivo, assoluto, un codice semplice nascosto dietro l’’apparente’ complessità del mondo».

Nel 2007, sempre il noto filosofo italiano, elogiò il proficuo dialogo tra scienza e fede, criticando oltre ai creazionisti anche i «tenaci oppositori che ritengono che i sostenitori di una visione scientifica dovrebbero essere necessariamente atei, ed anzi fare opera di proselitismo per condurre le persone “infantili” alla “maturità”. Così, il biologo inglese Richard Dawkins e il movimento dei “nuovi atei” auspicano che le persone “ragionevoli” dicano basta alle religioni, giudicate “nocive” al “pensiero indipendente”. Parlano di autosufficienza della scienza in virtù di una presunta “maturità”, e mettono sotto tiro anche le tradizioni umanistiche. Ma tali affermazioni rischiano di danneggiare soprattutto le scienze, perché entrano in collisione col loro pluralismo, con la loro libertà di interrogazione»


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25/06/2016 16:19
 
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L’ontologica differenza tra l’uomo e l’animale,
ne parla il filosofo Sergio Givone

scimmia uomo 

di Sergio Givone*
*ordinario di Filosofia ed estetica presso l’Università degli Studi di Firenze

da “Luce d’addio. Dialoghi dell’amore ferito” (Olschki 2016)

 

Baghdad, Mosul e Damasco hanno poco a che fare con Orlando, Parigi e New York. Ma è sempre la stessa violenza? Si, è sempre la stessa. Cambiano i modi e le forme del suo manifestarsi, ma in fondo… Questo fondo è ciò che da sempre si è deciso chiamare l’animo umano, è lì che va stanata se vogliamo capirci qualcosa. Lì abitano le ossessioni e i fantasmi che la generano. A cominciare dall’idea demoniaca che solo la violenza possa eliminare la violenza e portare la pace.

Lo schema è il seguente. Poiché l’altro e il diverso minacciano la nostra identità, invece di mettere in questione questa pretesa identità preferiamo opporci all’altro, al diverso, allo straniero. Fino al loro annientamento. Sperando così di ricompattare l’identità sociale a rischio di disgregazione. Ma a essere innescata è una spirale che sancisce il trionfo della violenza, non la sua limitazione. Lo si vede tanto nelle faide tribali quanto nelle guerre fra gli Stati, come nel caso del terrorismo.

Tutto ciò fa pensare che la violenza sia una pulsione connaturata all’essere umano e che le occasioni scatenanti possano essere molteplici, praticamente infinite. Ma dire che la violenza appartiene all’uomo per natura si presta a più di un equivoco. Che cos’è infatti “natura” per l’uomo? E’ la sua provenienza. E’ l’antica selva da cui proviene e in cui è stato forgiato il suo carattere, il suo peculiare modo di essere. Non a caso la nostra origine è posta in quello che si chiama stato di natura. Ossia lo stato dove vige una sola legge: uccidere o essere uccisi. E dove homo homini lupus.

C’è però da dubitare che la nostra origine sia davvero quella. Con ciò non si vuole assolutamente mettere in discussione l’evoluzione della specie. Ma alzare lo sguardo su un piano di ordine superiore, il piano etico. Bisogna farlo, non si può non farlo, dal momento che l’uomo è bensì natura, ma anche cultura. Ebbene, se immaginiamo la vita dell’uomo nello stato di natura (e non è poi così difficile, visto che l’uomo nello stato di natura ricade sempre di nuovo, oggi come ieri, e lo dimostra proprio la violenza di cui è capace), dobbiamo concludere che quello stato non è affatto originario. Noi non siamo fatti per esso (“fatti non foste per vivere come bruti”). Non siamo fatti per uccidere o essere uccisi. Siamo fatti per altro. In una parola: per essere quelli che dovremmo essere, ossia creature capaci di moralità.

Lo dimostra una semplice considerazione. L’uomo che si comporta come nello stato di natura non è un uomo. E’ un animale selvaggio, una bestia, un mostro, ma non un uomo. Ancor più dell’antropologia, la metafisica aiuta a far luce su questo tratto fondamentale dell’essere umano. Nello stato di natura l’uomo appare spaesato e perso. Come precipitato in un mondo che non è il suo. La violenza lo degrada. Qualsiasi atto di violenza lo svilisce, lo rende indegno. Non così l’animale. La vita dell’animale è pura violenza. Ma l’animale che aggredisce e uccide poi torna in pace con se stesso e con il suo mondo. Al contrario nell’uomo non c’è violenza che si lasci ricomporre senza strascico. Tanto che l’uomo, dopo aver ucciso, arriva a profanare il cadavere della sua vittima: lo ha fatto Achille su Ettore e lo fa chiunque partecipi ad un genocidio. Ed è proprio questo di più, questo eccesso a evidenziare la contraddizione. A questo proposito la metafisica parla di una decaduta e di una natura originalmente integra, a significare l’abdicazione dell’uomo alla propria umanità.

Allora la violenza da dove viene? Dobbiamo scendere ancora più a fondo in quel fondo senza fondo che è l’anima dell’uomo. Per trovare che cosa? Per trovare ciò per cui l’uomo è davvero fatto, per trovare la vera origine dell’uomo. L’uomo non è fatto per fare il male. L’uomo è fatto per fare il bene o il male. E se è fatto per fare il bene o il male, questo vuol dire che l’uomo si trova originariamente, in ogni momento della sua vita a scegliere: fra il sì e il no, fra l’essere e il non essere, fra la vita e la morte. E’ il momento vertiginoso della libertà. Vertiginoso perché non è che esperienza del nulla, come ben sa chi non è da nulla costretto, a nulla vincolato, ma nondimeno deve scegliere, deve decidere.


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08/09/2016 09:57
 
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Tutti gli esseri viventi producono l'energia che serve loro per svolgere le loro funzioni dalla degradazione di molecole complesse in altre più semplici; attraverso i cosiddetti processi catabolici: l'energia che viene prodotta attraverso questi processi ,solo per un quarto del totale viene utilizzata per fare lavori utili, il resto viene disperso in calore, che viene rilevato in un aumento della temperatura interna. In particolare gli animali si dividono ,riguardo alla produzione di calore, in animali a sangue caldo ed animali a sangue freddo.


Gli animali a sangue caldo sono essenzialmente i mammiferi e gli uccelli: essi producono una temperatura interna costante che si aggira sempre sui 36-37 gradi ,indipendentemente dall'ambiente esterno, gli altri animali: insetti, rettili, anfibi e tutti gli altri invertebrati hanno una temperatura interna dipendente dall'ambiente esterno e quindi la loro temperatura interna oscilla grandemente, a seconda gli ambienti in cui vivono. I mammiferi e gli uccelli sono quindi in grado di regolare la loro temperatura interna, solitamente ad un livello più elevato dell'ambiente in cui vivono e questo perchè rilasciano più calore dal loro metabolismo, attraverso il flusso di sangue nella pelle, aumentano la produzione di sudore, ansimano, producono brividi, abbattono il grasso. Sono quindi chiamati endotermi (producono calore dentro di loro). Dal momento che sono in grado di mantenere la loro temperatura interna stabile, sono anche chiamati omeotermi. Questo richiede un alto tasso metabolico a riposo e sono quindi anche chiamati tachimetabolici. Gli insetti, i rettili. i pesci e gli anfibi non sono in grado di mantenere costante la loro temperatura interna e ricevono il calore dall'esterno: sono chiamati quindi ectotermi; dal momento che la loro temperatura è variabile sono anche chiamati poichilotermi: per fare questo essi non hanno bisogno di un metabolismo molto intenso e sono chiamati anche animali bradimetabolici. Ci sono vantaggi e svantaggi di essere a sangue caldo o a sangue freddo. Gli animali a sangue caldo sono in grado di procurarsi il cibo o difendersi dai predatori in ambienti a temperatura più ampia di quelli a sangue freddo pechè la loro temperatura interna non dipende dall'ambiente esterno: inoltre sono in grado di avere un cervello più complesso che necessita, per funzionare, di una temperatura costante. Tuttavia, per mantenere una temperatura interna che è superiore a quella esterna, devono ottenere più cibo, da cinque a dieci volte di più di quelli a sangue freddo. Gli animali a sangue caldo sono paragonabili ad una macchina ad alto consumo energetico  perchè devono usare più energia per mantenere alta la loro temperatura interna. In ultima analisi quindi essi sono inefficienti dal punto di vista energetico. Gli animali a sangue freddo invece sono più in sintonia col loro ambiente. L'evoluzione degli animali a sangue freddo verso quelli a sangue caldo sarebbe come far evolvere una macchina a temperatura interna che dipende dall'ambiente esterno ad una a temperatura controllata. Le teorie evoluzionistiche attuali per questa evoluzione sono molto semplicistiche; si può dire che tutte le forme di vita, dai bacteri alle amebe, hanno qualche sistema di termoregolazione, altrimenti non potrebbero vivere. Soltanto che i meccanismi della termoregolazione sono diventati più sofisticati. Come si sono potuti evolvere, pur mantenendo la capacità di poter vivere egualmente? Gli animali a sangue caldo tendono a dare più calore di quelli a sangue freddo: bisogna spiegare il meccanismo che c'è alla base di questa evoluzione. Sembra, da ultime ricerche che gli animali a sangue freddo hanno meno mitocondri. Sembra però che gli animali a sangue caldo  hanno il disaccoppiamento delle proteine (UCP) e sembrano ridurre la quantità di energia che viene utilizzata che si trasforma invece in calore. La tiroide è presente anche negli invertebrati  ma la funzione della tiroide negli animali a sangue caldo sarebbe di attivare questi UCP e aumentare la produzione di calore. La produzione e il controllo dell'ormone tiroideo è irriducibilmente complesso e richiede la capacità di sopravvivenza naturale perchè avere troppo o troppo poco ormone è dannosissimo per sopravvivenza. Questo è un punto molto importante che dovrebbe essere affrontato dai biologi evoluzionisti. Gli animali a sangue caldo ,per mantenersi in vita devono mantenere la loro temperatura interna entro certi limiti, affinchè funzionino bene gli enzimi e le membrane cellulari. Come fanno gli animali a sangue freddo a sopravvivere, per le variazioni, anche molto ampie della temperatura esterna? I biologi evoluzionisti dovrebbero affrontare anche questo problema. Sembra che per le principali funzioni metaboliche gli animali a sangue freddo hanno diversi sistemi enzimatici specifici che sono in grado di funzionare a temperature diverse per consentire la sopravvivenza. Per cui quando si tratta di geni che codificano i processi metabolici gli animali a sangue freddo hanno più geni di quelli a sangue caldo e in particolare specifici geni che producono enzimi che funzionano a varie temperature. Quindi mentre gli animali a sangue freddo stavano evolvendo in quelli a sangue caldo avrebbero dovuto perdere molti geni che consentivano la sopravvivenza con varie temperature. Come questi animali avrebbero potuto sopravvivere mentre perdevano questi geni ed entravano in una fase di transizione che determina una perdita di flessibilità metabolica e lo sviluppo di una maggior quantità di calore con capacità di termoregolazione è un altro enigma che i biologi evoluzionisti devono affrontare. Anna Gauger  ha acutamente notato:" il potere esplicativo della biologia evolutiva è inversamente proporzionale al suo rigore". Se noi siamo istruiti non solo di come la vita appare ,ma anche come funziona il concetto di evoluzione sarebbe molto diverso da come appare oggi




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20/01/2017 23:59
 
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L'evoluzione di una nuova specie in tempo reale


 


Introdotti nel lago di Costanza appena 150 anni fa, gli spinarlli che vivono in quelle acque stanno subendo un processo di differenzazione molto rapido che offre ai ricercatori l'opportunità di osservare in tempo reale i cambiamenti genetici legati alla nascita di una nuova specie


 Se gli episodi verificati di evoluzione neodarwiniana non si trovano basta inventarseli.


Il caso dello spinarello svizzero.


Lo spinarello introdotto nel lago di Costanza 150 anni fa è dunque evoluto in una una nuova specie, così afferma il titolo di un articolo apparso su Le Scienze online “L’evoluzione di una nuova specie in tempo reale“.


 


E così finalmente abbiamo un caso di evoluzione avvenuto in tempo reale e potremo capire quali sono stati i meccanismi con i quali è avvenuta.


Ma non è così, la realtà è che non c’è stata nessuna evoluzione, se non nell’immaginazione di chi ha scritto l’articolo. Quello che è veramente successo è che lo spinarello ha subito una “ricombinazione” dei suoi cromosomi, in pratica ha rimescolato quello che già aveva:


L’analisi genetica degli spinarelli condotta dai ricercatori ha ora mostrato che ne esistono due forme, una propria delle acque lacustri e l’altra che frequenta prevalentemente i corsi d’acqua e i canali che vi affluiscono, benché la specie sia stata introdotta nel Lago di Costanza solo 150 anni fa. “E’ stato del tutto inaspettato scoprire una simile divergenza delle specie in un lasso di tempo così breve, dal momento che questi spinarelli si incrociano nello stesso periodo e negli stessi siti”, ha detto Marques.


La differenziazione genomica delle due forme – hanno scoperto i ricercatori – è concentrata principalmente in una regione con un basso tasso di ricombinazione (la ricombinazione è il processo in cui i cromosomi dei due genitori si scambiano alcuni geni) ed è raggruppata intorno a geni che controllano tratti fenotipici collegati alle caratteristiche dell’ambiente.


C’è una differenziazione ma non sono comparsi nuovi caratteri, più o meno è sempre la stessa storia della Biston betularia, la farfalla usata per dimostrare l’evoluzione ma che non si è mai evoluta e ha solo spostato la sua popolazione dalla prevalenza della forma chiara a quella della forma scura.


Si può parlare di evoluzione solo perché la definizione di evoluzione è stata modificata per considerare tale anche ciò che non lo è:


“cambiamento delle frequenze alleliche nelle popolazioni attraverso le generazioni. L’esatta definizione del termine resta tuttavia una materia controversa. “


E così l’evoluzione, che tutti intendiamo come la comparsa di nuove caratteristiche, altro non è che il rimescolamento delle stesse preesistenti. Anche se, molto onestamente, chi studia l’evoluzione per sua ammissione non ha ancora capito cosa stia effettivamente studiando. Però, anche se non hanno capito esattamente cosa sia l’evoluzione hanno idee molto decise sull’argomento. Diverso è invece il concetto di speciazione, per il quale vale la seguente definizione:


il processo che porta alla nascita di una o più specie discendenti a partire da una specie originaria.


E a sua volta la definizione di specie è:


Nel tempo la specie è stata definita in diversi modi. La definizione più comune è oggi quella “biologica”. In base alla nozione biologica di specie, una specie è un gruppo di individui interfecondi, isolato riproduttivamente da altri gruppi simili.


Insomma la speciazione si ha quando due gruppi originariamente interfecondi non lo sono più. Qualcosa di molto diverso dall’evoluzione. Al massimo si potrebbe quindi dire che gli spinarelli del lago di Costanza hanno perso la loro interfecondità divenendo due specie distinte. Ma a quanto pare neanche quello come affermato su Le Scienze:


Anche se allo stato attuale non si può parlare di due specie distinte, osservano Marques e colleghi, questo appare il loro destino in tempi abbastanza brevi: un destino che offre agli studiosi l’opportunità di osservare in tempo reale un esempio di speciazione.


Se di evoluzione non si parla anche la speciazione “appare” solo un pronostico. Ma qualcuno leggendo l’articolo dirà che esistono casi verificati di evoluzione in atto.


Niente evoluzione quindi, niente speciazione.




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02/02/2017 13:04
 
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L’etologo Desmond Morris:
«Mi sbagliavo, l’uomo non è una “scimmia nuda”»

scimmia nuda morrisDopo aver passato la vita a ridurre l’uomo alla scimmia, il celebre etologo darwinista-marxista Desmond Morris sembra oggi aver cambiato idea: «Gli esseri umani sono molto meglio di quanto si creda».

Il prof. Morris è uno scienziato sui generis, appassionato di zoologia quanto di sociobiologia, docente di etologia ma anche critico d’arte, surrealista in particolare. In una recente intervista ha fatto un’affermazione che condividiamo in toto: «Sapere alla perfezione un lato della scienza non basta. Difatti, le grandi scoperte sono arrivate quasi per caso». Un inno all’uomo multitasking, come lo chiama lui. L’intellettuale medioevale, come diciamo noi, cioè interessato di tutto e non settorializzato, iper-specializzato, curioso invece di quel che lo circonda ed interprete della realtà seppur partendo, chiaramente, dal suo settore di competenza.

In questa intervista ha anche manifestato un certo cambio di pensiero«All’inizio della mia vita, tra guerre e genocidi, ero terrorizzato dalla nostra razza. Perciò mi misi a studiare gli animali. Ho capito che mi sbagliavo. Così, passai ad analizzare gli uomini. Sono molto meglio di quanto credessi, hanno uno spirito collaborativo eccezionale, una creatività impareggiabile».

Certo, riflessioni un po’ scontate oggi. Niente di così profondo o sconvolgente, effettivamente. Bisogna capire però da dove partiva Morris: ateo ma non particolarmente militante, fissato con l’immortalità (teorizzò l’«interferire geneticamente con l’imperativo biologico che ingiunge al nostro meccanismo di rinnovamento cellulare di diventare progressivamente meno efficace per poter vivere per sempre»), riduzionista fino al midollo, ha definito l’uomo una “scimmia nuda” (Bompiani 2003), convinto che bastasse trasferire il suo cervello nel corpo (involucro) di un altro uomo per «ricominciare da capo e godermi un altro po’ di questo nostro piccolo, affascinante pianeta» (D. Morris, intervista su Repubblica, 10/4/2008).

Toccò il vertice quando sembrò respingere l’etica cristiana in quanto contrastante con l’istinto biologico: «i pii luoghi comuni di preti e uomini politici suggeriscono che dovremmo amare tutti gli uomini allo stesso modo, che dovremmo trattare gli estranei come fratelli. Dal punto di vista biologico, non siamo assolutamente programmati per agire in questo modo. Se ci comportiamo come se questa inclinazione tribale non esistesse, essa tornerà a tormentarci nelle forme più deleterie. Se la accettiamo, possiamo tentare di attenuarla» (D. Morris, Lo zoo umano, Mondadori 2005, p. 85).

Oggi, da quel che afferma, non sembra esserne più tanto convinto. C’è qualcosa di “eccezionale” e di “impareggiabile” (parole sue) nell’essere umano, impossibile ridurlo ad una scimmia senza peli. Proprio la famosa “scimmia nuda” di Morris è stata citata (e criticata) da un suo collega -seppur ben più rinomato-, il biochimico premio Nobel Ernst Chain«Ogni speculazione e relativa conclusione circa il comportamento umano disegnato sulla base delle teorie evolutive darwiniane da parte degli studi etologici degli animali -in particolare quelli sui primati- devono essere trattate con la massima cautela. Può essere divertente descrivere il nostro prossimo come “scimmia nuda”, e una piccola sezione di pubblico può anche godere della lettura circa il confronto tra il comportamento delle scimmie e quello umano: ma questo approccio – che, tra l’altro, non è né nuovo né originale- in realtà non porta molto lontano».

Infatti, ha proseguito Chain, «non abbiamo bisogno di essere esperti zoologi, anatomisti e fisiologi per riconoscere che esistono alcune somiglianze tra la scimmia e l’uomo ma, sicuramente, sono molto più interessati le differenze. Le scimmie, dopo tutto, a differenza dell’uomo, non hanno mai prodotto grandi profeti, filosofi, matematici, scrittori, poeti, compositori, pittori e scienziati. Esse non sono ispirate dalla scintilla divina che si manifesta in modo evidente nella creazione spirituale dell’uomo e che, in fin dei conti, lo differenzia irriducibilmente dagli animali» (E.B. Chain, “Social Responsibility and the Scientist in Modern Western Society”, Perspectives in Biology and Medicine, Spring 1971, Vol. 14 No. 3, p. 368).

 


[Modificato da Credente 02/02/2017 13:05]
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02/02/2017 13:07
 
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Frans De Waal e il tentativo della “morale negli animali”



Frans De WallIl dogma riduzionista-naturalista “noi siamo i nostri geni” è stato ormai abbandonato, sostituito da qualche tempo da un’altra convinzione dogmatica: “noi siamo il nostro cervello”. Messi da parte i genetisti, ecco fare spazio ai neuroscienziati per sostenere che il libero arbitrio è un’illusione, che la coscienza è un epifenomeno del cervello e che la morale è un mero prodotto neuronale. Il tutto ovviamente per evitare di attribuire all’essere umano un’eccezionalità davvero fastidiosa da sopportare per i negatori del Creatore.


In questa nuova impresa non ci sono solo neuroscienziati, ma anche etologi come Frans De Waal il quale ovviamente ha interesse a sostenere che «la morale non nasce con la religione ma è innata», cioè presente negli animali e sopratutto nei primati, i quali addirittura «distinguono tra bene e male e reagiscono alle ingiustizie». Una esagerazione, fortunatamente ridimensionata subito sotto: «non dico che gli scimpanzé o i bonobo siano esseri morali, ma hanno tutti gli ingredienti di base senza i quali noi umani non potremmo avere una morale». Più l’intervista prosegue e più le affermazioni si spogliano di sicumera: «Non possiamo sapere cosa sentono gli animali», rettifica per la terza volta. «Quello che possiamo fare è misurare come reagiscono in alcune situazioni».


Ovvero si interpretano (spesso arbitrariamente) le reazioni animali da un punto di vista umano, cioè l’antropomorfismo. Un semplice gioco di deduzioni probabilistiche che nulla a che vedere con il metodo scientifico, alla pari di chi chiacchiera con il suo gattino perché “lui mi capisce”. Verso la fine un’altra precisazione: «La morale umana non riguarda solo me e te o le persone che conosciamo, ma si applica a chiunque nello stesso modo. Questo richiede un certo livello di astrazione, delle regole generalizzate. In questo senso la morale umana è speciale: noi discutiamo i principi del nostro sistema etico e cerchiamo di giustificarli, mentre le scimmie antropomorfe non lo fanno», sempre ammesso che abbiano e seguano un sistema etico. Non manca una critica a Richard Dawkins e al suo “gene egoista” che De Wall considera addirittura «un messaggio antidarwiniano».


In pratica l’etologo olandese riduce la morale umana all’empatia, alla cooperazione e al prendersi cura degli altri. E’ ovvio allora che concluda che «la cooperazione e l’armonia sociale sono state sempre un vantaggio per la nostra specie, molto prima che nascessero le moderne religioni, ovvero circa duemila anni fa». La religione, dunque, avrebbe semplicemente «rinforzato il sistema». Al di là della validità scientifica, anche volendo prendere per vero il punto di vista di De Waal, occorre constatare che si tratta di una lettura originale della storia umana che conferma come nell’uomo vi sia una naturale inclinazione al bene, alla relazione e alla cooperazione e che la religione, in particolare il cristianesimo, ha valorizzato spiegandone l’origine: siamo tutti fratelli, ci ha detto Gesù Cristo, poiché figli di un unico Dio. Aggiungendo però un insegnamento unico«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”». Questo lo dicevano anche gli antichi greci. Ma, aggiunge Gesù: «io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 43-48).


Non esiste alcuna specie animale che ama i suoi nemici o che ha un concetto di vera gratuità. La cooperazione e la cura verso la propria prole di cui parla De Waal hanno un senso nell’evoluzione e nel mantenimento del gene mentre quella verso gli estranei si chiama grooming: io faccio a te così tu farai a me. E’ sempre per un ritorno personale (come è stato scoperto nelle formiche) che si muove l’animale e non potrebbe essere così dato che «il comportamento morale in quanto tale non esiste nemmeno in forma iniziale in esseri non umani» (F. Ayala, “L’evoluzione”, Jaca Book 2009, p. 157). L’altruismo è soltanto apparente, si tratta sempre di una forma di egoismo. Non a caso una importante scuola di biologi evoluzionisti, guidati anche da Marc Hauser, sostiene essere più interessante notare le differenze tra animali e uomo piuttosto che rimarcare le (poche) analogie.


L’etologo De Wall riconosce il fallimento dell’ateismo moderno nell’aver usato come argomento principale l’aggressione ai credenti e alla religione. «Con la loro pretesa di essere razionali», ha accusato, «il loro disprezzo per l’intreccio storico fra scienza e religione e la loro disponibilità ad inimicarsi anche i credenti moderati, i neo-atei finiscono per cadere nella parte dogmatica dello spettro. La loro posizione è stata particolarmente dannosa al dibattito sull’evoluzione. Chi ascolterà i biologi che sostengono quanto sia ben documentata l’evoluzione se la prima cosa che esce dalle loro bocche è: “sei un idiota”? Per di più, l’ateismo è una posizione vuota. Tutto quello che fa è sostenere che Dio non esiste, mentre lascia senza risposte domande come: cosa fare con la nostra vita, dove trovarne il significato, perché siamo qui e come metterci in connessione con la società umana nel suo insieme». Il suo approccio è invece più soft: focalizzarsi sugli aspetti positivi per rendere inutile la religione: «L’ateismo», ha scritto nel suo recente volume “Il bonobo e l’ateo”«dovrà essere combinato con qualcos’altro, qualcosa di più costruttivo che la sua opposizione alla religione, per essere rilevante per la nostra vita. L’unica possibilità è quella di abbracciare la morale come naturale per la nostra specie».


Ecco dunque svelato che il tentativo riduzionista di concepire la morale umana come fattore puramente naturale serve alla causa ateista più che a quella scientifica. Ancora una volta si abusa della scienza per negare Dio. Un tentativo contro la scienza e contro lo stesso Charles Darwin, secondo il quale, invece, «un essere morale è un essere in grado di paragonare le sue azioni e le sue motivazioni passate e future e di approvarle o disapprovarle. Non abbiamo ragioni di supporre che qualcuno degli animali inferiori abbia queste capacità» (C. Darwin, “L’origine dell’uomo e la selezione naturale”, Newton Compton 2007, p.88).



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02/02/2017 13:50
 
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Scienziati affermano che l’uomo è uomo e la scimmia è scimmia



Tempo fa il filosofo laico Raymond Tallis ha scritto un articolo interessante contro il biologismo«Il mondo accademico è attualmente in preda a un’epidemia, uno strano e preoccupante biologismo, che ha anche catturato l’immaginazione popolare. Scienziati e filosofi credono che nulla di fondamentale separi l’umanità dall’animalità». Questo biologismo, secondo Tallis -uno che è membro della  British Humanist Association e ha firmato nel 2010 una lettera aperta contro la visita di Benedetto XVI nel Regno Unito- si manifesta in due modi: «uno è l’affermazione che la mente è il cervello o l’attività del cervello», l’altro è «l’affermazione che il darwinismo spiega non solo come l’organismo dell’Homo sapiens sia nato, ma anche ciò che motiva il comportamento delle persone giorno per giorno», ovvero il riduzionismo genetico 


Tallis indica nuovi studi e nuovi libri che sempre più contrastano queste visioni neopositiviste, chiedendosi se queste pubblicazioni siano «un indicatore del fatto che questo potente edificio filosofico stia iniziando a cadere a pezzi, ci aspetta «un futuro migliore in cui il compito di cercare di dare un senso a ciò che siamo non venga ostacolato da uno scientismo riduttivo che ci identifica con l’attività del cervello evolutosi per servire il successo evolutivo? Spero di sì». Chiude poi ovviamente da laico: «Anche se non siamo angeli caduti dal cielo, non siamo solo macchine neurali. Né siamo meramente scimpanzé eccezionalmente intelligenti».


Come spiegava Francesco Agnoli qualche tempo fa su questo sito, c’è un chiaro progetto anti-teista che «non si rassegna a negare Dio», ma vuole «ridurre l’uomo ad un elemento della natura, equivalente ad un sasso o un albero; ridurlo via via a frutto del Caso, a un “esito inatteso”, a una “eccezionale fatalità”, a un aggregato di materia senz’anima, a un meccanismo geneticamente determinato». Negare Dio ha sempre significato negare l’uomo e la sua unicità: ecco che i neodarwinisti, strumentalizzando il darwinismo, lo hanno quindi tentato di livellare alla scimmia, informando che il nostro patrimonio genetico è condiviso al 99% con lo scimpanzé, ma evitando di dire che per l’80% è  in comune con un verme di 1 mm (Caenorhabditis elegans), il 50% è condiviso invece con il dna della banana, e abbiamo lo stesso numero di geni della gallina. Secondo i riduzionisti, dunque, saremmo per l’80% dei vermi e per il 50% delle banane.


Vale la pena comunque notare i risultati di studi in cui gli scimpanzé vengono confrontati con i bambini, come ad esempio quello appena pubblicato circa la cultura cumulativa: i ricercatori hanno addestrato scimpanzé a risolvere dei puzzle e poi a dimostrare le tecniche ad altri scimpanzé. Ma essi non hanno imparato, al contrario di un gruppo di bambini della scuola materna. Affermano: «Gli scimpanzé possono imparare gli uni dagli altri, ma la loro conoscenza non sembra accumularsi e diventare più complessa nel corso del tempo», e questa è una «caratteristica degli esseri umani, che ha dato luogo a realizzazioni come i computer e la medicina moderna». Concludono basiti gli studiosi: «Le differenze tra gli esseri umani e le altre specie sono in realtà più forti di quanto avessimo immaginato prima di avviare questo test». Caspita, ci volevano proprio degli scienziati per fare questa incredibile deduzione! Chi lo dice ora a Telmo Pievani che è stato messo un altro tassello per l’emancipazione dell’uomo dalla scimmia?



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