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COMMENTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI

Ultimo Aggiornamento: 04/03/2012 22:30
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04/03/2012 22:17
 
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CAPITOLO TREDICESIMO


PAOLO SARÀ GIUDICE SEVERO

[1]Questa è la terza volta che vengo da voi. Ogni questione si deciderà sulla dichiarazione di due o tre testimoni.
Paolo si è recato a Corinto già due volte. Ora ha in animo di recarvisi di nuovo.
Da quanto si sta accingendo a dire, il motivo, oltre quello di confermare i fratelli nella fede, è anche di fare chiarezza sulla sua vicenda.
Dalle parole con cui inizia questo tredicesimo capitolo, dobbiamo comprendere che c’è nel suo cuore un intento ben preciso: fare chiarezza secondo la legge di Dio e non secondo arbitrii umani, quali quelli che spesso si usano nelle questioni tra gli uomini.
Un uomo di Dio deve sempre agire secondo la legge. La cosa più bella del nostro cristianesimo è l’oggettività della Legge, l’oggettività della Rivelazione, l’oggettività della Verità.
Nel cristianesimo è tutto fuori dell’uomo. Nel momento in cui l’uomo si sostituisce alla verità, alla legge, alla rivelazione, si cade nel soggettivismo e questa caduta è la fine dello stesso cristianesimo.
La nostra religione per produrre frutti di vita eterna deve sempre conservare il suo carattere oggettivo. Ognuno è servo della Verità, della Legge, della Rivelazione, nessuno è padrone.
Risolvere da servi della verità le questioni che sorgono all’interno della comunità ha un significato preciso: ascoltare i testimoni al fine di evidenziare, trarre fuori la verità oggettiva, la verità storica, la verità così come essa realmente si è svolta.
Un solo testimone non è affidabile, potrebbe anche ingannare, potrebbe ingannarsi, potrebbe dire una cosa per un’altra, o per convenienza, o per errore.
Occorrono due o più testimoni al fine di cogliere la verità nella sua portata storica, nel modo così come essa è andata sviluppandosi.
Paolo, come si può constatare, ama la verità, quella di Dio e quella degli uomini e secondo la verità vuole agire. Per agire secondo verità, è giusto che prima cerchi la verità e per questo gli occorrono i testimoni oculari della storia.
È questo un grande insegnamento che lui ci offre, offre a tutti noi, sovente ammalati di troppo soggettivismo e di troppe interpretazioni personali sia della Rivelazione che della stessa storia. L’uomo di Dio deve essere perfetto in ogni cosa e non può mettere nulla di personale nelle cose della verità e che riguardano il bene di Dio e degli uomini. Attenersi alla legge del Signore è principio di vera sapienza e di saggezza santa.
Attenersi alle leggi di Dio equivale a cercare solo la verità in sé. Chi cerca la verità in sé è uomo giusto, onesto, può arrivare anche ai vertici della santità cristiana, che ha come suo naturale fondamento proprio la ricerca e l’amore della verità: verità del cielo, verità della terra.
Chi non cerca la verità della terra, di sicuro non cercherà la verità del cielo. Chi falsifica la verità della terra lo fa, perché ha già falsificato la verità del Cielo.
È facile sapere se un uomo ama la verità del cielo, è sufficiente osservarlo come si comporta con la verità della terra. Se lui la cerca con passione, con amore, con spirito di intelligenza e di sapienza, in lui si può innestare la vera ricerca della verità del cielo. Se invece nulla accade di tutto questo, ma, al contrario, ci si comporta con la verità della terra con ambiguità, superficialità, sotterfugi, negazione, trasformazione, alterazione è il segno manifesto che si è già nella falsità per quanto riguarda le cose del cielo.
Da questi uomini che uccidono la verità della terra bisogna sempre guardarsi, mettere molta attenzione, essere prudenti oltre misura, perché potrebbero domani, se non lo hanno già fatto, stravolgere anche la nostra verità.
[2]L'ho detto prima e lo ripeto ora, allora presente per la seconda volta e ora assente, a tutti quelli che hanno peccato e a tutti gli altri: quando verrò di nuovo non perdonerò più,
Qui Paolo mostra tutta la sua fermezza nel combattere il male, il peccato nella Chiesa di Dio.
I Corinzi lo accusavano di essere fermo e forte per mezzo delle Lettere, blando e debole di presenza.
Paolo confuta questo loro giudizio superficiale, ambiguo e privo di qualsiasi fondamento storico, con il dire loro che questa volta non avrebbe più perdonato, non in assenza, lontano da coloro che avevano peccato, non avrebbe perdonato da vicino, stando in mezzo a loro, dinanzi a coloro che avevano commesso il peccato.
Egli è uomo forte. È forte perché il dono della fortezza, che è dono dello Spirito Santo, abita e dimora in lui.
Può un uomo di Dio negare il perdono ai peccatori? Può dire per Lettera che non avrebbe più perdonato, una volta che fosse andato a Corinto.
Alla domanda si risponde che mai può essere negato il perdono al peccatore, se questi si pente con il proposito vero di non peccare più.
Gesù ci ha insegnato la legge del perdono. Per essere cristiano, il perdono deve essere dato sempre, a condizione però che il peccatore sia pentito e abbia espresso il proposito fermo di non peccare più.
Se quelli che, nella comunità di Corinto, hanno peccato si sono pentiti e hanno chiesto il perdono, Paolo è obbligato a perdonarli. Li deve perdonare in virtù dell’oggettività del cristianesimo e della sua verità. La nostra verità è infatti sopra i nostri sentimenti e anche sopra i nostri risentimenti, le vedute personali, le possibilità o non possibilità di dare perdono, oltre ogni debolezza e fragilità che potrebbe esserci nel nostro cuore e nel nostro spirito.
Se non partiamo dall’oggettività della Legge, di ogni Legge, mai potremo stabilire delle norme precise di comportamento che valgano per ogni cristiano, sia esso apostolo di Cristo Gesù o fedele laico, che vive la sua fede nella più assoluta semplicità.
Anche Paolo deve attenersi a questa legge, anche lui è obbligato a perdonare quanti hanno peccato.
Se lui afferma che non perdonerà più, ciò significa che nel suo spirito ha già avvertito il non pentimento, la non reale volontà di conversione; ha sentito l’ostinazione nel male, il desiderio di perseverare in esso.
Quando non c’è il pentimento e il reale proposito di smetterla con il peccato, allora il perdono non si può dare. Non perché non si vuole darlo, ma perché non si può. Manca il soggetto capace di poterlo ricevere.
Questo spiega anche l’eternità dell’inferno. L’inferno è eterno perché la morte sigilla il nostro stato finale di amicizia o di inimicizia con Dio.
Se la morte ci troverà nello stato di inimicizia con Dio, noi non possiamo più pentirci; la rovina eterna sarà la nostra sorte per sempre.
Da morti non possiamo più chiedere perdono al Signore. Da morti non c’è più pentimento salutare. C’è solo un pentimento di tormento e di disperazione eterna.
Se Paolo perdonasse in assenza di pentimento e di proposito di non peccare più, non sarebbe debole o fragile; sarebbe semplicemente non vero, poiché vivrebbe non in conformità alla legge di Cristo Gesù, il quale vuole che si perdoni sempre, in seguito a pentimento; ma che non si conceda il perdono, se non si è pentiti, se si rimane operatori di iniquità.
Se non si può dare il perdono, si può sempre pregare perché il Padre voglia loro concedere il perdono. Le condizioni perché il Padre lo conceda sono sempre le stesse: pentimento, richiesta di perdono, proposito di non farlo più. È questa la legge divina del perdono. L’ha vissuta Cristo sulla croce, deve viverla ogni suo discepolo.
[3]dal momento che cercate una prova che Cristo parla in me, lui che non è debole, ma potente in mezzo a voi.
Se Paolo agisse diversamente da come ha agito Cristo Gesù, sarebbe questo un segno che Cristo non abita in lui, non dimora in lui.
La prova che è Cristo che agisce e parla in lui è data dal fatto che, in ogni cosa, egli agisce ed opera secondo la legge di Cristo, secondo la stessa modalità del suo Signore.
Cristo non può avere che una sola legge, un solo modo di agire, una sola regola di vita: la verità del Padre che dimora in lui.
Come possiamo noi comprendere se in un cristiano dimora Cristo, oppure Cristo è assente da lui? Attraverso le decisioni che egli prende. Se prende decisioni in tutto conformi al Vangelo di Gesù, Gesù è dentro di lui ed opera in lui. Se prende decisioni non evangeliche, poiché sono contro la verità o in assenza di verità, è il segno manifesto che Cristo non abita in lui. Lui è sicuramente senza Cristo.
La decisione, la parola, la giustizia secondo Cristo attesta che Cristo è in colui che agisce. Una decisione, una parola, un atto di giustizia non secondo Cristo attesta e rivela che Cristo non è in colui che agisce.
Questo vale anche per la verità che uno proferisce, annunzia, predica. Se un uomo di Dio predica una parola diversa, con un significato diverso, annunzia una parola alterata, contraffatta, camuffata, in costui certamente Cristo non abita, può avere abitato un tempo, ma in questo momento di sicuro non abita più.
Che molti uomini di Chiesa oggi hanno una parola non conforme a verità è il segno che Cristo è lontano da loro.
Se Cristo non è in loro, loro non possono agire secondo Cristo, secondo verità, nella santità di una parola di giustizia che deve coinvolgere i cuori in un cammino di vera penitenza e di conversione al Vangelo della salvezza.
Chi è Cristo Gesù? È il forte, anzi è l’uomo più forte, è l’Uomo-Dio che è stato mandato per distruggere il regno di Satana e ridurre lo stesso Satana all’impotenza, all’inazione, avendogli tolto ogni potere di morte eterna che lui esercitava sugli uomini.
Se in Paolo vive e parla Cristo Gesù, anche la sua parola sarà forte, sarà un giudizio secondo verità, con una punizione secondo verità.
Da specificare e da precisare che la punizione nella Chiesa è sempre medicinale, mai vendicativa. Essa serve solo per far prendere coscienza a colui che ha mancato che bisogna camminare sempre nella legge del Vangelo, bisogna sempre seguire la via del bene e della verità del Vangelo.
[4]Infatti egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi che siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio nei vostri riguardi.
Quella di Cristo non è debolezza o fragilità di peccato, non è neanche debolezza del suo corpo.
La crocifissione di Cristo Gesù non è un evento che riguarda solo il corpo di Cristo o la sua umanità. La crocifissione è del Figlio dell’Altissimo, il quale nella sua essenza è Uomo e Dio, vero Uomo e vero Dio, nell’unità dell’unica persona, la seconda della Santissima Trinità.
Chi è stato crocifisso sul legno non è stata l’umanità di Cristo, ma è stato Cristo, il Figlio eterno del Padre, il Verbo che si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. È lui che è stato crocifisso, ma è stato crocifisso nella sua umanità.
Questa puntualizzazione merita di essere sempre ricordata, altrimenti facciamo di Cristo un Uomo e un Dio, ma non un Dio-Uomo, l’Uomo-Dio. La nostra fede confessa che sulla croce non c’è stata sola l’umanità, c’è stato Cristo Gesù, il quale però fu crocifisso nella sua umanità, ma fu crocifissa la Persona del Verbo Unigenito del Padre. Questa la verità su Cristo Gesù.
L’Uomo-Dio, la seconda persona della Santissima Trinità, essendo in tutto uguale a Dio, può essere definita debole, o si può dire che Cristo è stato crocifisso a motivo della sua debolezza?
Assolutamente no. Si deve invece dire che egli ha assunto nella sua natura umana tutta la fragilità e debolezza dell’uomo, ma è una debolezza di annientamento, di impoverimento volontario, per insegnare a noi tutti come ci si dive comportare dinanzi all’uomo che vuole che noi rinneghiamo e abbandoniamo il Signore della gloria.
Come lui si annientò per il compimento della volontà del Padre, così per lo stesso compimento al terzo giorno si è rivestito di tutta la sua potenza ed è risorto dai morti.
Come Cristo si è spogliato, anche Paolo si è spogliato. Cristo si è spogliato per amore della sua potenza divina sulla croce, Paolo quotidianamente si spoglia della sua forza per amore del Vangelo.
Potrebbe usare la forza, ma si fa debole, infermo, povero, piccolo, umile dinanzi al mondo intero e questo per amore di Cristo, perché Cristo sia accolto, amato, lodato, benedetto, servito, ascoltato.
C’è una volontà di Dio che ci chiama ad essere deboli, umili, pazienti e caritatevoli; ma c’è anche una volontà di Dio che ci chiama ad essere forti, risoluti, decisi nelle cose sue, nella verità del Vangelo.
Poiché Paolo è in Cristo e Cristo agisce in lui, egli, che finora si è mostrato debole per amore dei Corinzi, ora, per lo stesso amore che porta verso di loro, deve mostrare che agisce in lui tutta la potenza di Dio.
Chi sa veramente quando bisogna essere deboli e quando invece occorre essere forti? Solo Dio può deciderlo, ma è l’uomo a doverlo attuare.
Come fa l’uomo a conoscerlo e ad attuarlo? Solo in un modo: facendo sì che Cristo cresca in Lui, fino a divenire con lui una cosa sola, un solo cuore, un solo spirito, una sola anima, una sola morte e una sola risurrezione.
Più Cristo cresce nel cristiano, più il cristiano conosce la volontà di Dio in ordine alla situazione concreta, più avrà la divina energia per comportarsi con fortezza quando il Signore comanda fortezza e debolezza, cioè svuotamento di sé, che è cosa più forte ancora di quando si usa la fortezza, quando è il momento di usare la debolezza.
[5]Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi? A meno che la prova non sia contro di voi!
Ognuno deve saper in ogni istante se è nella fede, oppure da essa è caduto.
Paolo invita i Corinzi a mettersi alla prova, a fare cioè un serio esame di vita, per scoprire se la vera fede ancora abita in loro.
Come si fa questa prova di fede? Non certamente esaminandoci sulle verità della stessa fede, sulle verità che crediamo e su quelle che non crediamo.
Questa per Paolo non è una prova di fede, non è neanche un esame di fede.
La vera prova si ottiene esaminandosi per scoprire se Cristo abita in noi e come vi abita. Se Cristo abita in noi, egli deve abitare con la debolezza della sua croce e con la potenza della sua risurrezione.
La vera prova della fede si ha allora quando un cristiano è capace di annientarsi come Cristo Gesù, di spogliarsi di se stesso, perché tutto l’amore di Cristo abiti in lui e lo spinga fino al dono totale della sua vita.
La prova della fede si ha quando nel nostro annientamento per amore, per avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, risultiamo vincitori, senza peccato, anzi crescendo di virtù in virtù, fino alla completa perfezione della sua verità e del suo amore nel nostro cuore.
Come si può constatare la prova della fede non è razionale, della mente; è una prova di vita, è la prova della vita di Cristo Gesù nella nostra vita.
Se la nostra vita manifesta in ogni sua piccola parte la vita di Gesù, con un comportamento simile al suo in tutto, noi siamo nella fede; se invece Cristo non abita in noi, perché la nostra vita non si vive sul suo modello, è il segno che noi siamo caduti dalla fede.
Questa prova si fonda su un principio, in verità, assai semplice. Se c’è dell’acqua nel terreno, il terreno si inzuppa, diviene fertile, fa germogliare la vegetazione, produce frutti per l’uomo.
Se invece nel terreno non c’è acqua, esso diviene arido e tutto ciò che vi si pianta non germoglia, non produce frutti, non giova all’uomo. Anzi, se c’è una qualche forma di vita, nel terreno arido secca, muore. Senza acqua esso si trasforma in deserto.
Così dicasi per ogni altra realtà creata. Se c’è in un luogo, essa manifesta la sua presenza, agendo secondo la sua specifica natura.
Se Cristo abita in un cuore, egli deve operare alla maniera di Cristo, secondo la sua specifica natura, che è insieme umana e divina, anche se senza confusione, ma anche senza separazione, secondo la legge che regna nell’Unione Ipostatica di Cristo e che fu definita nel Concilio di Calcedonia nel 451 d.C.
Come “produce” Cristo? Agendo secondo la sua debolezza e la sua potenza. Con la sua debolezza si sottomette alla croce, alla mortificazione, all’annientamento di sé, con la sua potenza vince la croce, l’umiliazione, l’annientamento attraverso il grande amore e l’obbedienza perfetta per il Padre suo che è nei cieli.
Se Cristo è veramente nel cristiano, se abita in lui, egli deve produrre questi frutti. Se non li produce, è il segno che Cristo non è nel cristiano. Poiché la fede è nell’abitazione di Cristo in noi, se Cristo non abita in noi, noi siamo senza fede.
Se non li produce, la nostra fede è solamente razionale, conoscitiva, ma non vitale. È come se l’acqua esistesse, sapessimo che esiste, sappiamo anche dov’è e come trovarla, ma di essa non ci saziamo, morendo di sete.
A che serve sapere che l’acqua esiste, se poi non ce ne serviamo, non ci dissetiamo, se poi l’acqua non produce in noi secondo la sua specifica natura che è quella di ridare vita al nostro corpo riarso? A che ci serve sapere che l’acqua è fonte di vita, se poi non permettiamo che essa agisca in noi e ci vivifichi?
Con questa prova di fede, ognuno può sempre sapere se Cristo è in lui. Se in lui agisce, Cristo è in lui; se in lui non agisce, Cristo non è in lui. Se Cristo non è in lui, lui è senza fede.
Una fede che non trasforma tutta intera la nostra vita, che non produce i frutti di Cristo in noi, è una fede morta, anche se concettualmente essa è perfetta. È perfetta come un cadavere. Ha tutto ma non ha la vita. Presto si decompone e diventa cenere.
Ecco perché San Giacomo dice: la fede senza le opere è morta. È morta perché non vivifica l’uomo che la possiede.
[6]Spero tuttavia che riconoscerete che essa non è contro di noi.
Ognuno la prova della fede la può fare per se stesso, ma anche può farla per gli altri.
Paolo invita i Corinzi a farla, questa prova di fede, non solo per se stessi, ma, se vogliono, anche sulla sua persona.
Un buon contadino non solo sa osservare i suoi campi e i suoi raccolti, ha un occhio esperto capace di misurare la fertilità anche dei campi degli altri.
Il campo è sempre campo, anche se cambia la natura specifica del terreno, che può essere di diverse qualità. La prova di verità è sempre la stessa: la sua umidità, la sua produttività.
Come buoni agricoltori anche i Corinzi possono fare la prova della fede di Paolo. Basta osservare la vita di Paolo e cogliere in essa i segni dell’abitazione di Cristo Gesù in lui.
Se Paolo è capace di annientarsi, di umiliarsi, di vivere pienamente i sentimenti di Cristo sulla croce, con la stessa intensità di amore e di obbedienza; se nulla, ma veramente nulla, lo distoglie dall’obbedienza a Dio; se niente lo ferma, neanche il carcere o le verghe; se è disposto a salire fisicamente sulla croce per subire il suo attestato di obbedienza a Dio e in questa obbedienza rimane nella pazienza e nella sopportazione di Cristo, è il segno che in Paolo Cristo abita realmente, veramente.
Se tutto questo Paolo non lo ha vissuto, non lo vive, se la sua è solo una fede a parole, anche la sua fede è morta, egli, cristianamente parlando, è un cadavere eccellente, perché è apostolo di Cristo Gesù, ma è un apostolo cadavere, poiché non abita in lui il principio vitale che è Cristo e che lo rende vivo ed operante sempre.
Assieme alla prova della fede, perché uno sia riconosciuto secondo quello che è, occorre anche la rettitudine di coscienza, la volontà di rendere testimonianza alla verità, la libertà da ogni falsità, la grande capacità di dire sì, sì, no, no. Dire il sì se è sì; dire il no se è no.
Molti non hanno questa rettitudine di coscienza e il sì lo fanno diventare no e il no sì. È questa una delle più grandi confusioni che regnano oggi all’interno delle comunità cristiane, in questi campi di Dio che non sono produttivi, eppure si dichiarano abbondanti di frutti.
Paolo chiede che facciano la prova della fede su di lui, chiede però l’obiettività, l’onestà, la sincerità, la verità. Essi devono riconoscere la qualità dell’esame fatto. Se in lui abita Cristo, devono dirlo pubblicamente e se in lui Cristo non abita anche questo deve essere detto apertamente.
L’invito di Paolo a riconoscere e a proclamare la verità sulla sua fede è motivata dal fatto che quando nel cuore di un uomo regna il peccato, non solo si è incapaci di fare la prova della fede, ma anche si è nell’impossibilità di riconoscere e di confessare la verità.
Il peccato ci rende completamente ciechi, spiritualmente parlando. Non vediamo il bene, non lo confessiamo, non lo proclamiamo, al suo posto invece vediamo lo stesso peccato che è dentro di noi e questo peccato proclamiamo e gridiamo.
Se la verità abita in noi, siamo capaci di scorgere la verità ovunque essa si trovi; se invece la verità non abita in noi, noi siamo incapaci di riconoscerla, al suo posto vediamo il peccato e pensiamo secondo il peccato che abita nel nostro cuore.
Da qui nasce l’urgenza e la necessità di togliere il peccato dal nostro cuore, di svestirci di esso, per rivestire Cristo, la sua verità, il suo amore, la sua obbedienza, la sua umiltà, la sua croce e la sua risurrezione.
[7]Noi preghiamo Dio che non facciate alcun male, e non per apparire noi superiori nella prova, ma perché voi facciate il bene e noi restiamo come senza prova.
In questo versetto abbiamo il ragionamento opposto. La prova della fede prima era legata a Cristo Gesù, ora invece essa viene unita all’assenza in noi del peccato.
Chi crede in Cristo non pecca. Chi crede in Cristo è santo. Anche questa via si deve percorrere per provare la nostra fede.
Se Cristo abita in noi, egli deve agire dentro di noi secondo tutta la potenza della sua santità. Ora, in se stessa, prima che perfezione nell’amore, nella fede e nella speranza, prima che configurazione perfetta a Cristo Gesù nella sua vita e nella sua morte, la santità è assenza di peccato dentro di noi.
Se Cristo è nel nostro cuore, la sua potenza di santità deve farci puri, immacolati, senza peccato; la sua potenza di verità deve renderci veri, senza menzogna, senza ipocrisia; la sua potenza di amore deve far sì che noi siamo capaci di amare Dio sempre, in ogni momento della nostra vita.
Se questo non avviene è il segno che Cristo non abita vitalmente in noi, perché non ci conduce di virtù in virtù e di amore in amore, fino al trionfo dell’amore e della verità di Cristo in noi.
Veramente è necessaria questa prova nella fede? Veramente è utile alla comunità sapere chi è con Cristo e chi non lo è e secondo quale misura lo è.
Può vivere una comunità nella serenità e nella pace, se i suoi membri ogni giorno si misurano nella prova della fede?
Sarebbe questo un grave pericolo. La prova non ha importanza, non è neanche necessaria, non si deve neanche fare.
Questo è importante e si deve fare: ognuno si deve impegnare a distruggere il male che è dentro di lui; ognuno deve mettere tutta la sua buona volontà affinché solo il bene di Cristo dimori nel suo cuore e questo bene cresca fino alla perfezione.
Non conta sapere chi è con prova di fede e chi è senza prova, o chi nella prova è risultato con fede e chi senza fede, conta una sola cosa: che il cristiano si decida una volta per sempre ad abbandonare il male, si decida con tutta la fermezza che è nel cuore di Cristo Gesù a compiere tutto il bene di Cristo in lui.
Quando si fa il bene e si evita il male, non c’è più chi è inferiore e chi è superiore. C’è un cuore che vuole raggiungere la perfezione di Cristo e questo basta per essere di Cristo, questo basta perché la fede sia viva e vitale dentro di noi.
Come si può constatare Paolo libera la comunità cristiana, e soprattutto i cuori, da ogni possibile malinteso, da ogni minima rivalità, dal più piccolo confronto che si potrebbe operare in essa, dividendo gli uomini e classificandoli per prova di fede.
Nella comunità deve regnare solo la verità di Cristo, il suo amore, la sua perfezione. Il resto potrebbe venire dal maligno per turbare i cuori e metterli nell’angoscia, nello scoraggiamento, nell’abbattimento, nella tristezza del loro spirito.
Vivendo questa regola di vita tutto diviene più facile, più lineare, più cristiano. La volontà di vincere il peccato, la decisione di fare tutto il bene è sufficiente perché si sia di Cristo Gesù. Così si può crescere fino all’abbattimento del peccato nel nostro corpo e nella nostra mente, così si può raggiungere la perfetta configurazione a Cristo Gesù, che è la nostra chiamata.
La santità cristiana è specifica, puntuale, perfetta. Non è solo fare il bene ed evitare il male. Essa è invece conformazione, configurazione a Cristo Gesù nella vita e nella morte, sulla croce, nel sepolcro e dopo il sepolcro.
[8]Non abbiamo infatti alcun potere contro la verità, ma per la verità;
In questo versetto è racchiuso il più grande principio operativo che deve sempre sostenere e guidare l’apostolo nel suo cammino di evangelizzazione dei popoli; animarlo nella cura pastorale di quanti già aderiscono a Cristo Gesù; liberarlo da tutte le interpretazioni soggettive del Vangelo; conservarlo nella pura realtà della Rivelazione.
Ogni apostolo di Cristo Gesù è servo della verità e tutto dipende dalla sua fedeltà nell’essere servo della Parola del Signore. Ciò esige da lui assoluta libertà da sentimenti personali, da moti o stati d’animo particolari; chiede che ci si spogli da ogni volontà propria perché solo la volontà di Dio si annunzi, si proclami, si insegni, si doni.
Per l’apostolo vale solo un principio: non quello che lui vuole, ma quello che il Signore vuole. Questo significa non avere alcun potere contro la verità, averlo invece per la verità.
Se si esamina la storia della Chiesa ci si accorge che ogni divisione, ogni scisma, ogni separazione è avvenuta perché non si è osservato questo principio e alcuni uomini si sono arrogati il potere contro la verità. Costoro hanno fatto della verità una loro serva da usare per loro particolare beneficio.
Ci si potrebbe anche chiedere perché un principio così semplice, basilare, di assoluta necessità che venga osservato, possa essere così facilmente alterato e manomesso dagli uomini.
Le ragioni sono da trovarsi nel cuore. La verità e Cristo sono una cosa sola. Cristo è la verità, Cristo è il principio della nostra verità, la sua parola è tutto per noi.
Quando Cristo non abita nel cuore, quando la sua Parola non dimora in noi, perché Lui non dimora in noi a ricordarcela sempre viva e sempre attuale attraverso la luce e la sapienza dello Spirito Santo, l’uomo costituisce se stesso verità per l’altro uomo e fa della sua parola e della sua volontà il principio di verità a partire dal quale giudica le altre cose e le classifica vere, buone, false, opportune, giuste, ingiuste, sante, non sante.
Paolo può osservare questo principio perché Cristo abita in lui; lui e Cristo sono una sola vita, un solo cuore, una sola anima, una sola parola, una sola volontà, una sola missione, una sola glorificazione del Padre, un solo desiderio di salvezza, un solo martirio d’amore a favore di ogni uomo.
Non può Paolo avere potere contro Cristo, ha invece il potere a favore di Cristo. Ha il potere di farlo regnare nei cuori con la sua verità e la sua grazia; ha il potere di annunziarlo secondo la retta fede e la sana dottrina; ha il potere di testimoniarlo secondo tutta la saggezza e l’intelligenza dello Spirito Santo che dimora in Cristo e che per Cristo in Cristo e con Cristo dimora nel suo cuore.
Chi non ha Cristo nel cuore, non ha neanche lo Spirito Santo e senza lo Spirito Santo che dimora in noi non vi è possibilità alcuna che noi possiamo esercitare il potere a favore della verità.
La verità di Cristo a poco a poco ci conduce al totale rinnegamento di noi stessi, a quella continua crocifissione della nostra carne, perché solo lo Spirito e la sua Legge governi il nostro cuore e illumini la nostra anima.
Chi non mortifica se stesso, chi non lavora per la sua quotidiana crocifissione, non potrà mai essere uomo a servizio della verità, sarà sempre un padrone della verità e la trasformerà in falsità. Quando infatti un uomo da servo della verità si fa suo padrone, la verità fugge dal suo cuore e al suo posto subentra la falsità, la menzogna, l’arroganza, la cecità spirituale.
Subentra l’orgoglio della vita e la superbia che uccide ogni più piccola parte di verità nel nostro cuore e ci costituisce servi della falsità per la nostra rovina eterna e per quella di tutti coloro che si lasceranno influenzare dalle nostre parole, che hanno la parvenza della verità, mentre in realtà altro non sono che menzogne e falsità.
Nessuno nella Chiesa ha potere contro la verità. Nessuno si può sostituire alla verità. Sostituirsi alla verità equivarrebbe a prendere noi il posto di Cristo. Ma chi può prendere il posto di Cristo? Solo Cristo ha il posto di Cristo e nessun altro.
In fondo quando sulla terra qualcuno si erge contro Cristo e ne usurpa il posto, avviene ciò che è avvenuto nel cielo all’inizio del tempo, quando Lucifero avrebbe voluto prendere il posto di Dio.
Sappiamo qual è stata la sua fine. Sappiamo quale sarà la fine di tutti coloro che sulla terra vogliono prendere il posto di Cristo e farsi padroni della verità, usando ogni potere contro di essa.
Può servire la verità solo chi è umile, mite, operatore di pace, affamato e assetato di giustizia. Può servire la verità solo chi è disposto a morire in croce per la verità come il suo Maestro.
Chi non possiede queste virtù, chi non ha questo desiderio nel cuore, chi non è dotato di questa volontà di andare fino in fondo nella sequela del Maestro, non può farsi servo della verità, non può usare il potere che in qualche modo possiede a favore della verità.
Non può perché il peccato che è nel suo cuore è la negazione della verità. Il peccato è l’anti-verità, l’anti-Vangelo, l’anti-rivelazione.
In nessun caso chi si è fatto, con il peccato nel cuore, menzogna e falsità potrà mai servire la verità. Egli sempre si servirà della falsità per uccidere la verità e della menzogna per far morire il Vangelo nel suo cuore e nel cuore del mondo intero.
Tutto questo ci deve condurre ad una conclusione: chi vuole servire la verità deve cercare Cristo, desiderare Cristo, bramare Cristo, anelare verso Cristo, servire Cristo, morire per Cristo, con Cristo risorgere a vita nuova, in Cristo vivere una vita da risorti, per Cristo e con Cristo consegnarsi interamente al compimento della volontà del Padre.
Pensare che in qualche modo si possa servire la verità, rimanendo fuori di Cristo, lontano da lui, rinnegandolo e sconfessandolo con il peccato nel cuore, è pura illusione, è follia della mente, è inganno del cuore.
Questo deve indurci ad una sola decisione: chi vuole servire la verità deve tendere alla santificazione. La verità porta la santità nel cuore, la santità nel cuore porta la verità sulle labbra e nel mondo.
La santità è frutto della verità vissuta ed incarnata; la verità vissuta e incarnata ci trasforma in servi fedeli della verità. La verità che si ha nel cuore si ha anche sulle labbra; quella che è nella nostra anima vogliamo che sia anche nei cuori di tutto il mondo, di ogni altro uomo.
La verità che abita nel nostro cuore, che produce in noi un frutto di santità, produce per gli altri un frutto di missione. Più grande è la verità in noi e più ci facciamo missionari di Cristo Gesù, testimoni del suo Vangelo, araldi e banditori della Rivelazione, ambasciatori del suo regno che egli è venuto a costruire sulla terra.
Questo principio di Paolo non vale solo per la verità della rivelazione; vale anche per la verità storica.
Bisogna precisare e aggiungere: chi cerca e brama la verità, brama e cerca la verità in sé. La verità è storica e metastorica, è della terra e del cielo.
Se uno rinnega la verità della storia, come farà a ricercare la verità del cielo che è veicolata dalla verità della storia?
Oggi il mondo rifiuta la verità storica. Come è possibile pensare che esso possa in qualche modo ricercare la verità metastorica?
Nel mondo cristiano tanti sono quelli che hanno trasformato la verità evangelica, del cielo, come è possibile che costoro conservino intatta la verità storica? Immancabilmente trasformeranno anche questa, se non l’hanno già trasformata.
Tutto questo accade perché Cristo non è nel loro cuore. Quando Cristo è assente da un cuore, da questo cuore vi è assente anche la verità.
[9]perciò ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti. Noi preghiamo anche per la vostra perfezione.
La debolezza è quella di Cristo Gesù. Anche la fortezza è quella di Cristo Gesù.
Paolo si rallegra quando la passione di Cristo si vive nel suo cuore, nella sua mente, nel suo corpo. Passione che è rinnegamento di tutto se stesso, fino alla consumazione dell’intera sua vita per rendere gloria al Padre celeste.
La debolezza è sottomissione al peccato del mondo perché si manifesti in lui l’obbedienza a Dio; perché si riveli in lui tutto il suo amore per Cristo, suo Redentore e Salvatore; perché il mondo veda che lui si lascia solo guidare dallo Spirito Santo che infonde in lui sapienza e saggezza.
La debolezza di Paolo è consegna della sua vita alla morte. Cosa c’è di più debole in un uomo che la sua consegna alla morte? Ma questa consegna, operata nel nome di Cristo, è la via della salvezza, non solo della propria persona, ma del mondo intero.
Una vita consegnata per amore alla passione produce un frutto di vita eterna che raggiunge ogni cuore, ogni mente, ogni anima. Questa passione non è fuori di Cristo, è la passione di Cristo che continua ancora oggi nel nostro mondo.
Questo pensiero di Paolo noi lo conosciamo. È il corpo di Cristo che vive la passione, che sente la debolezza, e il corpo di Cristo è uno, essendo il cristiano divenuto con Cristo un solo corpo.
Quando il corpo di Cristo viene sottoposto nuovamente alla passione nella vita del cristiano, esso diventa strumento di redenzione e di salvezza per il mondo intero. Questa è la rivelazione sul corpo mistico di Cristo, apportatore di salvezza e di giustificazione per ogni uomo.
Paolo è debole, ma questa debolezza vissuta e offerta al Padre nel corpo di Cristo, dona salvezza, redenzione, giustificazione e vita eterna per il mondo intero. È questo il motivo del suo rallegrarsi e del suo gioire quando lui è debole.
La fortezza dei Corinzi invece sta nel superamento di ogni peccato, nell’abolizione dal loro cuore e dalla loro mente di ogni vizio, di ogni falsità, di ogni seduzione e trascinamento nel male.
Un cristiano è forte quando percorre la via della verità nel compimento della volontà di Dio, che gli comanda di osservare i comandamenti, e in modo del tutto speciale, le beatitudini che Cristo Gesù ha proclamato solennemente ai suoi discepoli sulla santa montagna.
I Corinzi fino al presente non si sono manifestati per nulla forti, anzi si sono lasciati coinvolgere dal male, cadendo in una molteplicità di tentazioni, che hanno realmente compromesso la stabilità della comunità nella fede, nella speranza, nella carità.
Se non fosse stato per l’energia e la fermezza apostolica di Paolo, la comunità di Corinto si sarebbe trasformata in un covo di divisioni, di dissensi, di superbia e di ricerca di se stessi, anziché segno e manifestazione nel mondo della carità di Cristo con la quale egli vuole abbracciare ogni uomo perché si converta e creda al Vangelo della salvezza.
Paolo vuole che tutto questo non accada più. Per questo i Corinzi sono invitati, esortati ad essere forti, di fede chiara ed inequivocabile, di un amore a prova di ogni tentazione, di una speranza che sa andare oltre il momento presente per pensarsi già nel Cielo assisi alla destra del Padre, nella gloria di Cristo Gesù.
I Corinzi saranno veramente forti quando regneranno in essi le stesse virtù che furono la perla preziosa di Cristo Signore: la mitezza e l’umiltà del cuore.
Con la mitezza ognuno mette la sua causa delle mani di Dio, dopo aver vissuto di giustizia perfetta. Con l’umiltà invece pone la sua vita tutta intera nelle mani del Signore e da lui si lascia condurre per vie che solo il Signore conosce e che a nessun altro è lecito conoscere.
Poiché la via è personale, come personale è la mozione dello Spirito, ognuno che cammina per le vie di Dio pensa solamente a compiere bene ciò che il Signore gli chiede, pregando perché tutti gli altri possano rispondere a Dio allo stesso modo che ha risposto lui.
Paolo qui ci viene in aiuto, dicendoci esattamente che lui prega per la perfezione di tutti loro, cioè dell’intera comunità di Corinto e non solo: per l’intera Chiesa di Dio e per ogni altro uomo che deve fare il passaggio dalla falsità alla verità e dall’ignoranza di Dio ad una conoscenza chiara e perfetta del suo mistero.
Cosa è la preghiera per gli altri per il raggiungimento della perfezione se non la richiesta esplicita e formale al Padre dei cieli che mandi la sua luce perché ognuno possa conoscere la via sulla quale il Signore vuole introdurlo; che doni la sua grazia perché tutti possano proseguire il cammino fino al regno dei cieli?
Se questa è la via della preghiera e se ognuno prega per l’altro, potrà mai uno scadere nella piccolezza del suo spirito che lo porta ad essere geloso, invidioso, di malumore sol perché l’altro sta camminando sulla via che il Signore ha tracciato per lui?
Se uno prega perché l’altro raggiunga la perfezione, prega perché possa rispondere alla chiamata di Dio con sapienza, saggezza, fortezza e temperanza.
Sappiamo noi per che cosa il Signore ci chiama? No! Non lo sappiamo. Potrebbe anche chiamarci per qualcosa di straordinariamente grande, che superi immensamente il carisma dei nostri fratelli o che voglia porre un uomo al primo posto nella comunità.
Quando si prega per la perfezione degli altri a questo bisogna immediatamente pensare: che l’altro possa essere chiamato ad un posto di preminenza, possa essere elevato in dignità e quindi scavalcarci nel nostro posto già acquisito nella comunità dei credenti.
Se uno prega per la perfezione dell’altro, ha il cuore disposto ad accogliere quanto il Signore si accinge ad operare a favore di tutti i suoi figli. Chi prega per la perfezione dell’altro non è geloso, non è invidioso, non è crucciato, non si perde mai di animo, si inabissa nel cammino della fede non per emulare gli altri, ma per il compimento di quanto il Signore desidera e per il quale lo ha rivestito di potenza dall’alto.
Chi prega, vuole che l’altro risponda a Dio; ma rispondendo a Dio, potrebbe anche essere messo al posto di chi sta pregando. Chi prega sa tutto questo ed è già preparato perché l’altro cresca e lui invece diminuisca.
È questa la sapienza del Vangelo, l’intelligenza dello Spirito Santo che regge la Chiesa di Cristo Signore e la conduce di verità in verità fino alla perfetta oblazione di sé a beneficio del mondo intero.
Chi prega è nella disposizione ottimale di accogliere la volontà di Dio in se stesso, negli altri, negli altri anche in ciò che riguarda la propria persona.
Il Signore potrebbe, a causa della nostra preghiera che facciamo per gli altri, perché possano raggiungere la perfezione, chiederci di fare spazio agli altri perché siano essi a governare, reggere e condurre la comunità cristiana, o a svolgere un particolare ministero, finora esercitato da noi.
L’uomo di Dio sa tutto questo, si prostra dinanzi al Signore, chiede il rinnegamento di se stesso, domanda una obbedienza sollecita e pronta alla sua volontà, chiede di potersi mettere a servizio del nuovo talento di cui la comunità è già stata arricchita.
La via dei santi è questa totale disponibilità a Dio perché faccia di loro ciò che è a lui gradito. Essi sono nelle sue mani. La loro vita è stata consegnata a Lui. Spetta ora a Lui suscitare nuovi operai per la sua messe e dare loro i doni che sono più necessari perché il campo di Dio sia coltivato secondo arte ed intelligenza, con l’uso di tutta l’esperienza possibile, che ci consente di operare santi e sani discernimenti a favore di chi confida in quel campo per ottenere un beneficio consistente al fine di avere la forza di andare avanti sulla via che deve domani condurci nel regno dei cieli.
[10]Per questo vi scrivo queste cose da lontano: per non dover poi, di presenza, agire severamente con il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere.
Paolo preferisce scrivere ai Corinzi, mettendo sul candelabro la verità di Cristo che deve illuminare la loro vita.
Quando si è lontani, si pensa solo al ristabilimento della Verità nei cuori. In certo qual modo ci si dimentica delle persone che hanno tradito la verità, o che l’hanno svenduta al mondo e agli uomini.
Inoltre, Paolo spera che questa lettera basti perché ogni cosa ritorni nel Vangelo.
Di presenza invece avrebbe potuto agire con severità, prendendo anche delle decisioni contro coloro che avevano agito male. Decisioni che avrebbero potuto creare dolore nei cuori e tanta amarezza.
Paolo non vuole questo. Lui vuole che la verità trionfi nella comunità di Corinto.
Il Signore non gli ha dato il potere di distruggere, di allontanare, di punire, di scacciare dalla comunità le persone che hanno trasgredito il comandamento di Cristo e hanno indotto altri a fare la stessa cosa.
Il Signore gli ha dato solo il potere di edificare. Questa è la sua missione. Questo deve essere sempre il rapporto che deve unire l’apostolo alla comunità e la comunità all’apostolo.
Egli deve edificare il regno di Dio nei loro cuori. Essendo il regno di Dio Cristo Gesù, egli deve operare perché Cristo sia formato in ogni cuore.
Cristo è la Parola, Cristo è la Verità, Cristo è la Sapienza, Cristo è la Saggezza, Cristo è la Vita che dal cielo è disceso sulla terra. Cristo si è consegnato a lui, al pari di tutti gli altri suoi apostoli, perché lo formino nei cuori del mondo intero.
Paolo ha deciso di edificare Cristo attraverso la via dell’amore, ma anche della fermezza nel ribadire la verità, nel proclamarla e nel predicarla secondo tutta la sua interezza.
Egli non vuole, perché Cristo non lo è stato, essere uno che distrugge colui che ha distrutto Cristo. Il giudizio di distruzione eterna avverrà dinanzi a Dio nell’ultimo giorno, quando ognuno si presenterà al cospetto del Padre per essere giudicato in ogni sua opera compiuta mentre era nel corpo sia in bene che in male.
Ora è il tempo della conversione, del pentimento, del ritorno alla casa del Padre con un cuore nuovo, dopo aver peccato, dopo aver rinnegato il Giusto e il Santo che è Cristo Gesù.
Paolo è convinto che sia sufficiente, per questo, la fermezza nel ribadire la verità di Cristo. È convinto che una semplice Lettera sia capace di poter operare tutto questo.
Questo non significa che non abbia il potere di allontanare dalla comunità. L’apostolo del Signore ha anche questo potere, ma è sempre in vista della edificazione di Cristo nei cuori, non per una più grande distruzione di chi ha peccato, o per l’abbandono del peccatore nelle mani di satana fin da ora, fin da questo tempo.
È una metodologia, questa, che sempre dobbiamo osservare, praticare, vivere con scrupolosa attenzione.
L’altro, finché è nella carne, è sempre nella reale possibilità di peccare, di tradire il Signore, di svenderlo al mondo. Quando questo accade, cosa deve fare l’apostolo del Signore?
Deve mettere ogni attenzione a che l’altro ritorni a Cristo, si lasci conquistare nuovamente dalla sua verità, trasportare dalla sua Parola, conquistare dal suo Vangelo.
Se l’altro preferisce percorrere, nonostante l’amore appassionato dell’apostolo verso di lui, vie di menzogne e di falsità, se ne assuma tutta la responsabilità dinanzi a Dio.
Della perdizione di un cristiano deve essere solo responsabile il cristiano e mai colui che è stato preposto alla sua edificazione in Cristo Gesù.
Perché questo avvenga, è necessario che l’apostolo di Gesù sia fermo nella verità, deciso nell’annunzio, forte nella proclamazione del Vangelo, amorevole nel riprendere, caritatevole e accogliente verso il peccatore pentito.
Deve altresì mettere ogni attenzione pastorale, affinché, attraverso le sue parole a favore della verità, emerga che l’annunzio è solo in difesa di Cristo, non in distruzione di coloro che hanno offeso e calpestato Cristo Gesù.
L’apostolo del Signore è il difensore delle esigenze di Cristo Gesù e del suo Vangelo. L’uomo le ascolterà e deciderà se aderire nuovamente a Cristo, oppure se allontanarsi definitivamente da Cristo e consegnarsi fin da questa vita alle tenebre eterne che poi lo attendono nell’altra vita per sommergerlo per sempre.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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