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COMMENTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI

Ultimo Aggiornamento: 04/03/2012 22:30
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24/02/2012 18:45
 
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CAPITOLO DODICESIMO


GRANDEZZA DEI DONI RICEVUTI DA DIO

[1]Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore.
Paolo rivela, ora, qualcosa di unico. Ciò di cui parla è una grazia così particolare, così rara, che solo a poche anime è stata concessa.
Il tema del vanto e della sua convenienza è stato ampiamente trattato. Paolo lo riprende per ribadire che certe cose avrebbe voluto che fossero rimaste per sempre sepolte nel suo cuore.
Per il Vangelo le ha vissute, per il Vangelo le sono state donate e ora che la causa del Vangelo lo richiede, lui è pronto a parlarne, anche se con un certo timore e una certa apprensione, come se, rivelandole, o manifestandole, in qualche modo queste potessero perdere di valore.
Ci sono certe cose che devono essere sepolte nel cuore; più le si tiene nascoste e più valore hanno per noi. Come certi tesori nascosti nelle viscere della terra.
Il Vangelo vuole, però, che il tesoro venga dissotterrato; vuole che ciò che è nel cuore e che vi giace da lungo tempo, venga portato alla luce, perché la fede di tutti si rafforzi, se è debole; se è morta, riprenda a vivere.
Anche la manifestazione delle grazie particolari che Dio ha concesso alla sua anima divengono pertanto un atto di carità, il più grande atto della carità di Paolo, dopo il dono dello stesso Vangelo.
Le visioni e le rivelazione sono le manifestazioni che Dio fa o di sé, o della sua verità, o delle cose celesti ad un uomo che rimane nel suo corpo. Quando riceve una rivelazione, o una visione da parte dell’Onnipotente, a meno che non si tratti di sogni rivelatori, l’uomo possiede sempre la coscienza di sé, l’intelligenza, la volontà, la scienza.
Egli è nel possesso delle sue facoltà mentali e rimane nel suo corpo. Le riceve da perfetto uomo, da perfetto uomo le accoglie, se ne serve secondo il loro significato o il contenuto di salvezza, le comunica anche agli uomini se per gli uomini esse sono state date.
Differente è invece il caso di Paolo. Certamente durante la sua vita egli ha avuto altre rivelazioni, altre visioni, alcune di queste sono riportate negli Atti, sono visioni e rivelazioni di apparizione del Signore nel sonno, nel silenzio della notte.
Di queste rivelazioni e visioni sia il Nuovo Testamento, che l’Antico sono pieni. Sono queste la via ordinaria attraverso la quale Dio parla all’uomo, si manifesta, gli si rivela per comunicargli la sua volontà. Ciò che il Signore vuole lo manifesta con precisione al suo servo e questo lo esegue con puntuale precisione.
Era Dio però che dal Cielo scendeva sulla terra – per così dire – e manifestava se stesso all’uomo che rimaneva sulla terra, nel suo corpo, nei suoi pensieri, nella sua anima.
[2]Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio fu rapito fino al terzo cielo.
Cosa succede ora? Non è Dio che discende sulla terra, è l’uomo che sale in cielo.
È questo il rapimento spirituale, o l’estasi. Quando c’è il rapimento, o l’estasi spirituale, l’uomo è come se non fosse più nel suo corpo. O meglio, c’è il suo corpo sulla terra, ma l’anima è come se fosse nel cielo.
Qui Paolo non dice come questo rapimento spirituale sia avvenuto, se con il corpo, o fuori del suo corpo. Dice bene, perché nel rapimento l’anima è tutta assorta in Dio, vede Dio faccia a faccia, lo contempla così come egli è, da spirito a spirito, lo contempla però secondo la misura della grazia che il Signore le ha concesso.
Mentre è tutta rapita in Dio, essa è nella pienezza della sua vita. Il corpo non le serve per vedere, per sentire, per ascoltare, per toccare. Non servendole, non sa se è nel corpo, o fuori del corpo, non lo può sapere, perché essa sta vivendo tutte le funzioni che avrebbe vissuto se fosse stata nel corpo, ma le sta vivendo in una maniera eterna, come le vivono i giusti al momento della risurrezione finale, quando anche con il loro corpo si trovano nel cielo e contemplano Dio faccia a faccia, lo vedono così come egli è.
Il terzo cielo, secondo la mentalità del tempo, era l’abitazione stessa di Dio. Dio porta per un momento Paolo nella sua dimora, nella sua casa, nella sua abitazione. Gli mostra la sua gloria, gli fa vedere se stesso e il suo regno di luce, di verità, di carità, di bellezza infinita.
In questo versetto è come se non parlasse di se stesso. Parla di un uomo in Cristo che lui conosce. È come se avesse timore a parlare di se stesso, di sciupare una grazia così grande.
Dice anche il tempo in cui è avvenuta la visione: quattordici anni fa. È assai difficile poter identificare l’anno in cui questa visione è avvenuta. Essa non è però l’inizio del suo incontro con Cristo. Allora rimase sulla terra con il suo corpo, rimase nel suo corpo, lo attestano i suoi occhi che rimasero ciechi dalla visione della luce che si sprigionava dalla croce di Cristo Gesù nella gloria del cielo.
[3]E so che quest'uomo se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio
Ripete il concetto già espresso nel versetto precedente. Questo per ribadire la verità del suo racconto, ma anche l’impossibilità di dire qualcosa di più esatto circa il modo come questo rapimento è avvenuto.
Ricorda Paolo il fatto, ma non il modo del fatto. Non potrebbe ricordarlo, perché esula dalle conoscenze umane che si hanno in questi casi. La nostra esperienza è completamente tagliata fuori in simili occasioni, o circostanze.
[4]fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare.
Paolo non ricorda ciò che ha visto. Ricorda invece ciò che ha udito. Ciò che ha udito non è possibile poterlo ripetere.
Non perché non ricordi ciò che ha udito, ma perché non ci sono parole umane per descrivere ciò che ha visto.
Se lo dicesse con parole umane, quello che ha udito perderebbe di valore, di importanza, di senso, di significato.
Se lo dicesse con parole umane, sarebbe una pura sublimazione di ciò che esiste già sulla terra.
Ora invece tra la terra e il cielo non c’è confronto, non c’è paragone, non c’è similitudine alcuna. Il cielo è il cielo e la terra è la terra, anche se attraverso le cose della terra, per analogia, possiamo in qualche modo solo immaginare ciò che c’è nel cielo, ciò che è Dio nella sua divinità ed eternità.
Non è lecito pronunziare non perché Dio non vuole che si pronunzino, ma perché pronunziandole si trasformano in cose sublimi, ma non rimangono cose celesti così come Paolo le ha ascoltate.
Noi possiamo pensare al Coro degli Angeli e alla melodia del Cielo.
Come essa è ascoltata e come viene trasmessa? C’è la stessa differenza che c’è tra il cielo e la terra. Ciò che è ascoltato non è trasmesso. Non può essere trasmesso perché una gola umana, per quanto possa essere usata come strumento della voce del cielo, rimane sempre imperfetta.
E così vale puro per l’orecchio che ascolta. Per quanto possa essere fine, perfetto, rimane sempre uno strumento della terra. Gli sarà sempre difficile poter udire le cose del cielo.
Le cose del cielo sono tutte spirituali, come spirituale è la Melodia o il Coro degli Angeli. L’anima che l’ascolta, l’ascolta con il suo spirito, con la sua anima e rimane come rapita, come se per un attimo fosse nel cielo.
Il Signore però vuole che anche noi godiamo in certo qual modo di quel canto e ce lo fa gustare. Noi scopriamo la straordinaria potenza di ciò che avviene, esso entra nel nostro cuore come un dono spirituale di Dio e lo converte, lo attira a sé, lo convince ad una più grande e perfetta conversione, lo sprona ad un amore incondizionato verso il cielo.
I frutti spirituali del canto sono più efficaci che lo stesso suono ascoltato. Il canto è spirituale, come canto spirituale penetra attraverso il nostro orecchio nel nostro cuore, penetrando porta i doni del cielo. I doni del cielo sono celesti e operano secondo la loro dimensione di verità e di grazia, il suono invece che noi ascoltiamo proviene da una gola umana e giunge ai nostri orecchi sotto forma di suono anch’esso umano.
Per ascoltare ciò che ascolta colei che trasmette la Melodia dovremmo anche noi essere rapiti come lei nel cielo e udire con l’orecchio dell’anima, che è percezione immediata, senza la mediazione del corpo, la bellezza e la verità del coro degli Angeli che lodano il loro Dio e Signore.
[5]Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze.
Paolo vuole essere lasciato fuori da questa rivelazione. Lui l’ha riferita perché obbligato dall’amore per il Vangelo.
Ora che tutto è stato detto, è giusto che lo si dimentichi, non se ne faccia un motivo di orgoglio o di vanto.
D’altronde tutto questo è solo grazia di Dio. Non ci sono meriti sulla terra per avere un tale dono. Se Dio lo concede, il motivo è uno solo: la causa del Vangelo, la perseveranza nella missione, la fortezza nella testimonianza alla verità.
Paolo ne aveva veramente bisogno di questa visione celeste. Doveva essere rafforzato in modo che la sua testimonianza a Cristo fosse senza difetti, senza tentennamenti, senza dubbi o incertezze, senza esitazioni.
Fosse sempre vera, attuale, puntuale, efficace, reale, giusta, perfetta, santa.
Perché il suo cuore fosse indiviso per Cristo, il Signore lo avvolse di questa visione che è rimasta sempre fissa dinanzi agli occhi della sua mente e che era divenuta per lui l’unica ragione del suo vivere e del suo morire.
Udire le meraviglie che avvolgono la gloria del Cristo Crocifisso nella gloria del cielo, ha cambiato il suo cuore, la sua anima, la sua mente, la sua intelligenza, i suoi pensieri e i suoi sentimenti.
Tutto egli ora stima una spazzatura, un rifiuto, una cosa da gettare via; libertà, questa, dalle cose della terra necessaria per gustare nel cielo la gloria del Cristo risorto.
Di ciò che il Signore ci ha concesso per pura grazia nessuno deve osare vantarsi, sarebbe un togliere a Dio ogni gloria, ogni benedizione, ogni ringraziamento.
Tuttavia un uomo, anche se avvolto da una così grande luce nel cuore, luce vista e udita nella sua bellezza divina, rimane pur sempre un uomo, un essere fatto di carne, nella cui carne si vive tutta la debolezza dell’umanità.
Di questa debolezza Paolo si può vantare perché essa è solo sua, è della sua natura concepita nel peccato, nata nel peccato e nel peccato cresciuta.
Ora lui non è più nel peccato; è, tuttavia, nella debolezza che lui sente ogni giorno sopra le sue spalle. Con questa debolezza vive e cammina, lavora e si affatica.
Ma la grazia di Dio è più forte della sua debolezza e riesce sempre a dominarla a causa dell’amore di Cristo che è in lui e che lo spinge sempre in avanti nella testimonianza da rendere al Vangelo della salvezza.
Delle debolezze ci si vanta per un solo motivo: per far risplendere la straordinaria forza di Dio, capace di vincerle tutte. Se in Paolo non ci fosse stata la forza di Dio, o come lui dice, la grazia di Dio, anche lui sarebbe stato sommerso dalle sue debolezze. Invece la grazia di Dio in lui è cresciuta oltre misura e non c’è debolezza umana che non venga sconfitta, superata, resa all’impotenza, perché non facesse da ostacolo nella missione ricevuta da Paolo di portare il Vangelo della salvezza ad ogni creatura.
[6]Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato, perché direi solo la verità; ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me.
Manifestare ciò che la grazia di Dio ha compiuto in noi, in certo senso, è anche un dovere del cristiano.
È dovere perché si mostra la potenza della sua grazia che è stata efficace in noi e la si mostra perché altri si aprano alla fede e credano nella possibilità reale di poter vincere ogni umana debolezza e fragilità.
Paolo però preferisce un altro metodo, più lineare, più semplice, più consono alla sua natura.
Questo metodo passa attraverso la constatazione dell’altro. È l’altro che deve vedere e ascoltare. Ascoltando e udendo deve arrivare ad una convinzione saggia, o almeno a porsi una domanda intelligente: perché Paolo è così, perché riesce nelle difficoltà, perché supera le sofferenze, perché è così discreto, perché ogni giorno è sulla breccia?
È forse perché dotato di una natura straordinaria, infaticabile, inarrestabile, irresistibile? Una natura fuori del comune?
No di certo! La sua natura è avvolta dalla debolezza e dalla fragilità che è proprio di ogni natura umana.
Se, allora, non è questione di natura particolare, il motivo è da ascrivere solamente al Signore e alla sua grazia.
Paolo vuole che si arrivi alla grazia di Dio per sapienza, per intelligenza, per deduzione, per quel lavorio dello spirito che è nell’uomo e che deve essere sempre stimolato nella ricerca della verità, nella comprensione del mistero.
Attraverso questa via è possibile fare la differenza con se stessi. Se si è di buona volontà, si può anche chiedere il segreto del progresso spirituale e dell’amore sempre più grande che muove una persona verso Cristo Gesù e l’attuazione del suo regno tra gli uomini.
Siamo chiamati a farci sugli altri un giudizio secondo verità. Tutti siamo obbligati a questo. È la via santa per la conoscenza del mistero che avvolge una persona.
È sufficiente porsi una domanda assai semplice: perché dietro quella persona le anime accorrono e da noi fuggono? È per motivi umani? È per motivi miracolistici? O per motivi soprannaturali?
Perché le sue parole convertono e le nostre radicano di più nel peccato coloro che ci ascoltano? C’è un motivo, una ragione? Qual è?
Perché Paolo è infaticabile, irresistibile, fermo, forte, non ambiguo, non compromesso, non distratto, sempre vigile per la causa del Vangelo? Perché il suo cuore è ancorato in Cristo e la sua anima avvolta sempre dalla più pura verità? Perché la sua sollecitudine per le chiese è a prova di sofferenza indicibile?
Basta sapersi dare una risposta nella sapienza dello Spirito Santo che deve sempre abitare in un cuore cristiano, e troveremo le cause dei nostri fallimenti.
Poiché lo Spirito di Dio non abita in noi, la sua sapienza non ci aiuta a porre queste domande al nostro spirito e la nostra intelligenza non è in grado di darsi una risposta adeguata.
Si chiede e ottiene risposta secondo verità solo colui nel quale è lo Spirito del Signore, solo colui nel quale è il desiderio di amare più intensamente il Signore.
Quando nel cuore c’è questo desiderio, allora lo Spirito di Dio viene in nostro aiuto e con il sostegno della sua saggezza ci poniamo le domande, ci diamo le risposte giuste e nel nostro cuore entra e dimora la verità.
[7]Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia.
È sempre facile che un uomo si insuperbisca per tutto ciò che il Signore opera in lui di grande, di santo, di sublime.
La superbia è nella sua essenza la negazione di Dio. Un uomo di Dio non può mai montare in superbia, cesserebbe di essere uomo di Dio, non sarebbe più neanche uomo.
La grandezza divina che ha avvolto Paolo è straordinaria oltre ogni misura. Occorre che vi sia una debolezza nella sua carne altrettanto grande che bilanci questa grandezza e in qualche modo la faccia anche dimenticare, la tolga dal nostro spirito, la conservi nei recessi più reconditi dell’anima, dalla quale come in un silenzio eterno faccia sgorgare il fuoco di carità e di amore che è necessario a Paolo per andare avanti.
Questa è la legge dello spirito ed anche la legge dello Spirito Santo. Grandezza divina e umiliazione umana devono andare insieme, più grande è la manifestazione di Dio e più grande ancora dovrà essere l’umiliazione degli uomini.
Questa è la regola. Le forme storiche, la concretezza dell’umiliazione è differente da persona a persona.
Nessuno sa quali sono le vie scelte da Dio per aiutare i suoi servi a mantenersi nella più grande umiltà dinanzi a Lui, umiltà necessaria perché lui possa compiere l’opera della salvezza del mondo.
Paolo qui parla di spina nella carne, di inviato di satana per schiaffeggiarlo, molti hanno voluto tentare a decifrare questo linguaggio oscuro e misterioso.
Tutti costoro sappiano che sono pure e semplici illazioni della loro mente. Ciò che Paolo vuole che resti velato, deve restare velato per sempre.
Se avesse voluto manifestare ciò che realmente lo tormentava, lo schiaffeggiava, lo avrebbe detto. Perché non lo ha detto? Perché questa è una cosa personalissima, appartiene alla storia dell’uomo con il Signore, non appartiene alla storia dell’uomo con l’uomo. Le vie dell’umiliazione non sono oggetto di rivelazione. Si rivela e si manifesta la regola che governa il rapporto dell’uomo di Dio con Dio e con se stesso, al fine di non montare in superbia, ma non si svela e non si rivela il come concretamente questo è avvenuto.
Su questo dobbiamo dire che molti sono gli errori che si commettono, quando si vuole entrare in un’anima, violando i suoi misteri e i suoi segreti.
Anche nelle biografie dei santi dobbiamo avere sempre quel timore sacro, riverenziale, di non aggiungere e di non svelare cose che non appartengono all’esemplarità cristiana, perché sono strettamente dell’anima.
Anche di Cristo si dicono alcune cose, altre cose vengono taciute. Ciò che è oggetto di rivelazione e che è utile alla salvezza del mondo, lo si è detto; ciò che appartiene alla sua relazione personale con il Padre, con lo Spirito Santo, o con alcune persone come la Madre sua, San Giuseppe, sono taciute.
Si pensi che di Cristo si conosce solo la vita pubblica. Gli altri anni sono avvolti dal mistero e dal segreto.
Ecco allora che vale la regola di Paolo: ognuno deve giudicare l’altro per quel che vede e per quel che sente, ma non per quel che immagina, suppone, vorrebbe che fosse avvenuto.
Su questo non si raccomanda mai la discrezione. Meglio tacere omettendo, che dire esagerando, o rivelando cose che non ci appartengono.
Essendo la prova personale, uno potrebbe anche essere indotto nell’errore di giudicarsi superiore o inferiore all’altro in ragione della diversità della prova che subisce o patisce.
Gli inganni e le astuzie di satana per la rovina dei credenti sono estremamente sottili. Spetta ad ognuno lasciarsi muovere e guidare dallo Spirito Santo perché nel nostro dire nulla sia aggiunto e nulla tolto di ciò che appartiene solo alla rivelazione, all’esemplarità, che è giusto che venga offerta per la salvezza dell’uomo.
[8]A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me.
Paolo non vuole convivere con questa spina nella carne, con questo inviato di satana che lo schiaffeggia.
Prega il Signore perché lo liberi, perché lo allontani da lui.
È giusto pregare il Signore che ci liberi da una condizione che deve conservarci nell’umiltà dinanzi a lui?
Chi prega fa sempre una cosa buona, anzi ottima. Se non si pregasse, si cadrebbe facilmente nel peccato dell’orgoglio, nella presunzione di essere così forti da poter da soli superare la prova che il Signore ci ha mandato.
La preghiera è sempre la giusta via di mettersi e conservarsi in umiltà dinanzi a Dio. Chi prega vede la sua reale condizione, la sua fragilità, sa la forza della prova, sa anche che potrebbe rimanere vittima di essa. Prega chi si conosce nella sua debolezza, chi sa le forze della sua anima, chi ha sperimentato la resistenza del suo spirito.
La preghiera serve anch’essa a conservarci in umiltà. Sappiamo che da un momento all’altro potremmo cadere e ci rivolgiamo al Signore che ci liberi dalla prova.
Paolo chiede al Signore non che lo aiuti a superare la prova, ma che lo liberi da questa spina nella carne, da questo inviato di satana che deve schiaffeggiarlo. Perché?
Il perché bisogna cercarlo nelle regole spirituali che sempre bisogna tenere presenti quando si tratta di ingaggiare la lotta contro il male.
Il male è sempre un nemico irriducibile, non lo si potrà mai sconfiggere una volta per tutte. È sempre accovacciato alla nostra porta, sempre pronto a farci cadere in tentazione.
Gesù stesso, nel “Padre nostro”, ci ha insegnato a chiedere al Signore che ci liberi dal male, ma anche che non ci faccia cadere nella tentazione.
Paolo, sapendo che c’è sempre il rischio di cadere nel peccato, chiede al Signore che lo liberi dal male, volendo sempre e comunque rimanere nella grazia di Dio, nella sua verità, nel suo amore.
Vivere con una spina continua nella carne significa essere giorno e notte esposti alla tentazione; significa trovarsi sempre nel pericolo di rinnegare il Signore, di allontanarsi da lui.
Questo Paolo lo sa, conosce il rischio che sta correndo e per questo prega il Signore, lo prega per ben tre volte, lo prega cioè con insistenza, con fede, con perseveranza, lo prega ininterrottamente, lo prega sempre.
[9]Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.
Il Signore, che non prova mai l’uomo al di sopra delle sue forze, gli risponde che per resistere ed essere vincitore su questa spina nella carne, su questo inviato di satana, basta solo la sua grazia. Aggiunge anche che la sua potenza si manifesta pienamente nella debolezza.
Quanto il Signore dice, non vale solo per Paolo, vale per ogni uomo che ha iniziato un cammino spirituale e vuole raggiungere la perfezione cristiana.
Perché il Signore non lo libera, perché vuole che rimanga per sempre in quella condizione, perché gli suggerisce che gli è sufficiente la sua grazia?
La potenza di Dio si manifesta sempre nella debolezza e si manifesta pienamente. Possiamo dire che questa forma è proprio dell’agire di Dio.
Dio vuole che in ogni circostanza appaia sempre chiaro che è lui che agisce e opera nell’uomo. Questo rendimento di gloria non sarebbe in nessun modo possibile se l’uomo, anche in piccolissima parte, fosse nella condizione di potersi attribuire a sé qualcosa. Tutto è Dio che lo opera e questo deve sempre apparire nella realtà delle cose. L’uomo è debole, Dio è forte; il Dio forte agisce nella debolezza dell’uomo. Così si manifesta la straordinaria potenza dell’uomo.
Se questo non appare chiaro, Dio non opera. Il Signore non condivide con nessuno la sua gloria.
Ciò che è suo, deve apparire chiaramente che è suo. Dio che è dell’uomo deve rivelarsi come appartenente all’uomo. Dell’uomo è la debolezza, di Dio è la fortezza. Che l’uomo sia debole deve essere da tutti constatato e così deve essere anche per il Signore. Tutti devono constatare che solo Dio è all’opera e non l’uomo e questo in modo evidente, chiaro, manifesto, palese.
Perché Paolo deve rimanere con questa spina nella carne e confidare sempre nella potenza della grazia di Dio? Perché il Signore non lo libera?
La grandezza di Paolo è estremamente alta e sublime. Ciò che il Signore gli ha fatto udire, i doni di cui lo ha arricchito, la grazia particolare che sempre lo assiste, la pienezza della verità di Dio di cui è ricolmo, ogni altra manifestazione di Cielo che si è posata su di lui lo espongono seriamente al pericolo della superbia.
Dio sa il cuore dell’uomo, conosce la sua superbia, il suo orgoglio, la sua concupiscenza, sa che è facile avere un momento di debolezza attraverso la quale si potrebbe rovinare tutto.
Paolo neanche per un momento deve essere lasciato fuori prova. Ogni momento di Paolo è di Dio. Se Dio lo lascia un momento solo, facilmente egli potrebbe, a causa della straordinaria ricchezza con la quale Dio lo ha rivestito, insuperbirsi, elevarsi contro Dio, prendere il suo posto.
Non dimentichiamo che nel cielo si è ribellato contro il Signore l’angelo più bello, più splendente, più luminoso. L’angelo che era luce, portatore di luce radiosa. Quell’angelo che risplendeva al di sopra di ogni altro angelo, da qui il suo nome, Lucifero, che significa portatore di luce. Proprio lui cadde nel peccato di superbia e precipitò nell’inferno.
Se l’angelo è caduto in questo peccato, anche l’uomo vi può cadere a motivo dei grandi doni di cui Dio lo ha rivestito.
Il Signore non vuole che Paolo cada. Egli è uno strumento eletto per portare il Vangelo ad ogni uomo sulla terra. Se cade Paolo cade tutto il Vangelo, cade il regno di Dio, viene meno la missione evangelizzatrice nella Chiesa.
Il Signore gli mette un freno potentissimo: una spina nella carne, un angelo di satana vicino a sé perché lui sperimenti sempre la sua fragilità, la sua debolezza, si ricordi sempre che anche lui è impastato di miseria e di peccato. Questa è la carne dell’uomo.
Il Signore però lo rassicura. Lui non cadrà, non sarà vinto, non subirà sconfitte. Accanto alla grande tribolazione nella carne c’è una grande grazia di Dio che è sufficiente per poter vincere il male, senza essere liberato da esso.
Questo ci deve insegnare che non sempre noi siamo liberati dal male che incombe su di noi, anche se noi lo vorremmo e per questo preghiamo insistentemente il Signore. Non possiamo essere liberati a motivo della grandezza e della magnificenza dei doni spirituali di cui siamo stati arricchiti e questi doni servono alla causa del Vangelo.
Tutto ciò che avviene in noi e attorno a noi, è sempre governato dalla luce potente della saggezza e dell’intelligenza dello Spirito Santo. Dio sa come siamo fatti, sa di che cosa siamo impastati, conosce il nostro presente, il passato e il futuro.
Sa quali vie dobbiamo percorrere se vogliamo restare fedeli a Lui e portare a compimento la missione che ci ha assegnato.
L’uomo deve pregare e poi affidarsi totalmente a Dio. Nella preghiera chiede la liberazione, nella preghiera riceve la risposta, nella preghiera ottiene la grazia di rimanere vittorioso nonostante che il male lo rivesta come l’aria riveste un corpo.
Dopo la preghiera l’anima trova la sua pace. Il Signore infonde sempre la sua pace quando l’anima si affida a Lui. Paolo è fiducioso nel Signore. Accetta la sua debolezza, sapendo che questa sarà vinta dalla potenza di Dio.
Bisogna allora che ci educhiamo alla preghiera, che ad essa formiamo. La preghiera è via di pace e di vittoria; è via per accettare lo stato di tentazione nel quale un uomo si trovi e deve trovarsi a motivo della missione che gli è stata affidata e dei doni di cui è stato arricchito.
Liberarsi dalla debolezza, o dalla spina della carne, potrebbe equivalere a liberarsi dalla missione e dai doni ricevuti. Poiché tutto ciò serve al regno di Dio e alla sua diffusione tra gli uomini, è giusto che l’apostolo di Cristo si metta in preghiera, si prostri dinanzi a Dio e chieda luce e forza, grazia e pace, amore e verità per continuare il cammino.
[10]Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.
Paolo conosce se stesso, sa quanto lui vale: niente. Se lui è qualcosa lo è per grazia di Dio.
Se riesce a superare ogni cosa, la supera per grazia di Dio; se tutto offre a Cristo, può offrirlo per grazia di Dio.
Tutto in lui opera la grazia di Dio. Da parte sua lascia ogni spazio alla grazia di Dio perché questa possa agire in lui con potenza, con forza, con perseveranza, per compiere ogni disegno che Dio ha scritto che deve essere compiuto per mezzo di lui.
Solo di questo si può vantare: di essere infermo, oltraggiato, percosso, di essere nelle necessità e nelle angosce. In queste cose si manifesta tutta la debolezza della sua natura, tutta la fragilità, il niente.
In queste cose, se Dio non fosse con Lui, la sua natura prenderebbe il sopravvento e agirebbe da nemico di Dio e di Cristo Gesù, agirebbe con violenza, in modo peccaminoso; reagirebbe facendo del male agli uomini, o semplicemente facendo il male.
Invece nella sua natura non regna più la legge antica dell’occhio per occhio e del dente per dente, ma regna la legge di Cristo Gesù, legge di misericordia, di perdono, di amore. Legge che vuole che ogni cosa sia offerta a Cristo Gesù per la redenzione dei cuori.
Poiché in lui agisce ed opera la legge di Cristo, egli può gridare: quando sono debole, è allora che sono forte.
Perché Paolo è forte quando è debole? Perché tutta la grazia di Dio agisce in lui, tutta la misericordia di Dio si manifesta attraverso di lui, tutta la verità di Dio si riflette nella sua parola e tutto l’amore di Cristo per mezzo di lui si riversa nel mondo.
Se Paolo non fosse debole, cioè non fosse perseguitato, percosso, umiliato, oltraggiato, non fosse nelle angosce e nelle necessità, attraverso di lui non si potrebbe manifestare Dio, la sua verità, il suo amore, la sua misericordia, la sua bontà, il suo perdono, la sua volontà di salvezza e di redenzione.
Egli sarebbe forte, perché nel possesso di se stesso, ma questa fortezza sarebbe la più grande delle debolezze. Nella fortezza dell’uomo Dio non si manifesta e l’uomo rimane così come egli è: uno strumento vano che non porta salvezza in questo mondo, un essere inutile a Dio e agli uomini. Poiché per mezzo di lui Dio non può dare la sua benedizione all’umanità intera.
Come si può intravedere, Dio agisce solo nella debolezza e nel niente dell’uomo, nell’umiliazione e nella mortificazione della sua natura. Nella pochezza del suo corpo e del suo spirito egli si rivela, si manifesta, agisce, opera, salva.
Dio vuole che in nessun momento l’uomo possa pensare che è lui a fare qualcosa. Se questo avvenisse il Signore perderebbe la sua gloria e non potrebbe più agire per mezzo del suo inviato, del suo strumento, del suo apostolo, del suo messaggero, del suo ambasciatore.
Perché Dio possa agire è necessario che l’inviato di Dio constati nella sua carne la vanità del suo essere e delle sue operazioni. Questo avviene proprio nella debolezza e nella fragilità. Quando l’uomo sperimenta il suo niente dinanzi a Dio, Dio manifesta il suo tutto. Dio che è il forte, l’onnipotente, può agire solo nella debolezza, nella fragilità, nel niente dell’uomo.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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