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COMMENTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI

Ultimo Aggiornamento: 04/03/2012 22:30
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15/02/2012 21:37
 
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LO SPLENDORE DEL GLORIOSO VANGELO DI CRISTO

I Santi: chi sono? Nella Scrittura Santo è il Signore. Dio è definito il Santo di Israele. Gli Angeli, in Isaia, lo proclamano: Santo, Santo, Santo. Nel Levitico, Dio stesso si definisce: Santo. “Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo”. La natura di Dio nel Nuovo Testamento si rivela invece come carità. “Dio è carità. Chi è nella carità è in Dio e Dio in lui”. La carità è amore. Il santo si deve definire da Dio, non dalle umane concezioni, e neanche a partire da quelli che lungo il corso della storia hanno amato e che la Chiesa ha canonizzato, elevandoli agli onori dell’altare. Santo è colui che ama, che ama Dio e in Dio ama ogni uomo. Santo è colui che ascolta Cristo Gesù e in Cristo riversa il suo amore per il Signore e per il mondo fino alla morte e alla morte di croce. Santo è colui che è mosso perennemente dallo Spirito Santo. Poiché la mozione dello Spirito è personale, la santità è anche personale, personale è la via sulla quale è posto e personale è il luogo dove deve accogliere l’amore di Dio per riversarlo sui suoi fratelli. Per tutti deve essere posto a fondamento un solo principio: la santità non è isolamento, solitudine, ricerca della condizione ottimale per poter essere con Dio. La santità è dono della propria vita a Dio e ai fratelli. Ma è dono secondo il comando di Cristo, le beatitudini, è dono secondo la mozione dello Spirito Santo, l’ascolto attuale di Dio. La santità è un servizio d’amore, di salvezza, di redenzione. Il santo non vive per se stesso, vive per Cristo che è morto per lui, vive per i fratelli, morendo per loro, perché siano condotti alla verità nella carità. Il santo è uno che prende il mondo su di sé e secondo le modalità che lo Spirito di volta in volta gli comunica, lo porta e lo conduce a Dio. Se non c’è questo orientamento verso il mondo da salvare, non c’è neanche orientamento verso Dio. Se Dio che vive nel cielo la santità eterna ha avuto come principio del suo amore l’orientamento verso l’uomo da salvare, tant’è che il suo Figlio Unigenito si è fatto uomo, per redimere l’uomo, morendo per lui, non si vede come possa esserci santità se non in questo unico movimento, movimento in Dio, in Cristo e nello Spirito per l’uomo da condurre nel cielo. Gesù stesso definisce il cristiano luce del mondo e sale della terra. La luce si consuma per illuminare, il sale si scioglie per dare sapore. Si consuma e si scioglie nel mondo per portare in esso la luce eterna di Dio e la sapienza dello Spirito Santo. Questa è la missione del cristiano e la consumazione fino alla propria morte in questa missione è la santità.
Ciò che manca aggiungerlo. Se questa è la santità, bisogna allora togliere dai nostri occhi la miopia spirituale e ogni altra chiusura delle mente e del cuore, che ci impedisce di amare Dio e i fratelli alla maniera di Cristo Gesù. Bisogna quotidianamente operare perché si cresca nelle sante virtù, aggiungendo ciò che manca e perfezionando ciò che si è acquisito, ciò che già si possiede. È questo un vero cammino di ascesi, di crescita spirituale. È anche un cammino che bisogna sempre verificare, in modo da avere una scienza, una conoscenza del proprio stato spirituale il più possibile perfetta. L’esame di coscienza, l’analisi del proprio stato spirituale sulle cadute nei peccati mortali e sulla convivenza con quelli veniali, che non si distruggono dal nostro cuore, anzi che si cullano e sovente anche si incrementano, dovrebbero essere di per sé due mezzi sufficienti a farci sapere dove siamo spiritualmente e il progresso finora raggiunto. Una cosa deve essere ritenuta vera: se non si progredisce, si regredisce e se non si espellono dal cuore i peccati veniali, mai potremo vincere del tutto i peccati mortali. Se non si acquisiscono le virtù cardinali che sono la forma e la misura secondo la quale bisogna vivere le virtù teologali, non si faranno mai passi in avanti per il raggiungimento della perfezione cristiana. Ciò significa che non si sta divenendo santi, non si sta cioè vivendo di amore per il Signore e per i fratelli. Ogni peccato è una carenza di amore e ogni virtù che non si conquista è un abbandono della nostra vita al peccato e al vizio, al non amore, alla non santità, al non servizio, alla non missione.
Fidarsi? Fino a che punto? L’uomo di Dio vive in questo mondo, vive in mezzo ai suoi fratelli. Fino a che punto bisogna fidarsi degli altri? Si può mettere la propria vita nelle mani degli altri? Si può essere certi che la nostra missione riuscirà, avvalendoci degli aiuti degli altri e lavorando con loro con fiducia cieca? Di Gesù è detto che lui non si fidava di nessuno. Egli conosceva il cuore di tutti. Sapeva cosa c’era in ogni uomo. Non si fidava, perché il cuore dell’uomo non era capace di comprenderlo, di sostenerlo, di aiutarlo, di incoraggiarlo nella sua missione. A tal proposito ci sono due episodi che meritano di essere ricordati: quando rimane a dodici anni nel tempio, quando Pietro lo invitò a non andare a Gerusalemme. Maria è santissima, purissima, immacolata. Non conosce il peccato, il suo cuore è puro. Ma non conosce tutta la vastità della missione del Figlio, non sa qual è la volontà attuale del Padre su di Lui. La volontà del Padre è sempre attuale, si vive oggi per l’oggi e domani per il domani. Cosa vuole oggi il Signore da noi? Questo nessuno lo sa, se non il cuore di chi cerca il Signore, di chi lo ama e vuole fare la sua volontà. Il Signore è diretto nel comunicare la sua volontà. A volte però si serve anche dei profeti. Pietro non sa la volontà di Dio, non solo non la sa, gli riesce anche difficile accoglierla. Maria l’accoglie perché santissima. Pietro non l’accoglie, perché ancora non è santo. Fidarsi degli altri è mettere la propria vita nelle loro mani. La vita ognuno deve metterla nelle mani di Dio. È Lui che parla al cuore e alla coscienza della persona; è Lui che ispira il singolo e lo muove; è Lui che lo cerca e lo investe di una missione. Gli altri tutto questo non lo sanno, non riescono a comprenderlo, potrebbero con la loro parola farci allontanare dalla volontà di Dio, divenendo per noi dei satana, dei tentatori. Quando è in gioco la missione personale, allora la fiducia non si può accordare a nessuno. Nessuno può divenire il governatore, il timoniere della nostra missione e della nostra vita. La prudenza in questo deve essere somma, la più alta.
Improvvisare è antievangelico. Il santo cammina sempre nel compimento della volontà di Dio. La volontà di Dio cerca, compie, nella volontà di Dio vive. Ora è giusto che ogni cosa sia fatta con il tempo, sia fatta a tempo, sia svolta nel tempo. Il tempo dice preparazione dell’opera, esecuzione materiale di essa, accompagnamento della stessa dopo che è stata posta in essere. Qui ci perdiamo quasi tutti. La nostra è una fretta, una superficialità, una estemporaneità che fa sì che tutto alla fine diventi un aborto, un’opera posta in vita, ma che muore all’istante, a volte, ancor prima di essere posta in vita. Chi vuole coltivare un campo, deve prima di tutto esaminare il campo, deve sapere quale tipo di seme quel campo riesce a portare a maturazione. Deve conoscere anche i tempi della semina. Se non si conosce il campo e si ignorano i tempi della semina, il lavoro che in esso si profonde è perduto in partenza. Se uno semina il grano in estate invece che in autunno o in primavera, a seconda della qualità del grano, quel seme muore, anche se nasce non produce frutti. E così se il campo è arido, non c’è alcuna possibilità di irrigazione, non si vanno a piantare alberi che hanno bisogno di acqua e a volte di molta acqua. Inoltre il terreno va sufficientemente preparato, va purificato da ogni erba cattiva, va arato e spianato. Infine viene in esso posto il seme, ma non è ancora finita. Bisogna seguire il seme in ogni fase della sua crescita e finché il frutto non è raccolto, bisogna sempre temere che qualcosa possa distruggerlo, possa attaccarlo, che possa essere anche rubato. Così è del lavoro spirituale. Tutto deve essere preparato antecedentemente, tutto deve essere fatto a tempo, tutto deve essere seguito poi con la più grande delle attenzioni. Un solo attimo di disattenzione può mandare in fumo tutto un lavoro di un anno e anche di molti anni. La pastorale non si improvvisa e neanche il lavoro nella vigna del Signore si fa con superficialità.
Offerta, o spilorceria? I Corinzi hanno organizzato una colletta in favore della Chiesa di Gerusalemme, Chiesa povera, provata dalla carestia. Questa colletta è stata preparata, è stata organizzata. Ora bisogna portarla a maturazione, a fruttificazione. Come? Bisogna che ogni giorno ognuno vi lavori, vi presti attenzione, vi metta buona volontà, faccia qualche sacrificio, rinunzi a qualcosa per amore. D’altronde se la colletta è opera di amore, frutto di carità, la carità è qualcosa che investe tutta la persona, la investe perennemente e non in un solo istante, o in una sola opera. Tutta la vita deve essere concepita come un dono d’amore, tutta la vita deve essere impostata sulla regola dell’amore e della carità. La prima impostazione è quella del nostro spirito, della nostra mente. Questa non si deve chiudere in se stessa, si deve aprire agli altri. La seconda impostazione è l’accoglienza della verità della fede nel nostro cuore, nel nostro spirito: l’opera di carità non è un impoverire noi per arricchire gli altri, ma è una seminagione per un prodotto più abbondante. Come il contadino per seminare il grano si priva di una parte di esso, ma per poter avere grano per un altro intero anno, così dicasi dell’opera di carità materiale. Ci si priva di qualcosa, ma per avere un frutto di benedizione celeste che ci aiuta a vivere per tutta la vita. La rinunzia sarà proporzionata alla raccolta. Chi rinunzia con larghezza, con larghezza raccoglierà e chi rinunzia con ristrettezza, con ristrettezza raccoglierà. Ma questo è un principio di fede, non è un principio razionale. L’esempio è visibile a tutti. Ma non tutti sono capaci di entrare in questa fede e iniziare l’opera della carità con larghezza, nella gioia, di buon cuore, profondendo a pieni mani, sapendo che il Signore ci ricompenserà secondo la misura che gli abbiamo offerto.
La fede è tutto, la fede nella provvidenza. Nell’opera di carità la fede è tutto. Cosa significa mettere la fede a fondamento dell’opera di carità? Significa essenzialmente questo: Dio è il Creatore dal nulla di tutte le cose. Lui è il datore di ogni bene all’uomo, bene spirituale, bene materiale, bene del corpo, bene dell’anima, bene nel tempo, bene nell’eternità. Dio non ha bisogno della terra per dare da mangiare al suo popolo, come non ha bisogno della medicina per fare stare bene un corpo. La sua Parola è onnipotente e creatrice. Dio concede l’abbondanza ad un cuore per saggiarlo, per provarlo nei suoi sentimenti. Se il cuore si apre alla condivisione, alla comunione, se è largo nel dare sia i doni spirituali che quelli materiali, Dio lo benedice e quanto ha seminato nel campo dei fratelli come carità, Egli lo moltiplica perché abbondi ancora di più. Se invece il cuore si chiude, Dio si ritira dall’uomo e tutto è messo nelle mani della creatura. Questa sperimenterà la non benedizione di Dio, anche la sua vita diventerà difficile. Potrà godere di un bene materiale in più, ma gli mancheranno tutti quei beni spirituali, l’ultimo dei quali sarà la mancanza del paradiso, terminando la sua vita nell’inferno eterno, a causa della chiusura del suo cuore agli altri. Inoltre c’è un’altra prospettiva dalla quale dobbiamo partire, per comprendere la gravità di ogni chiusura al bene e alla condivisione. I beni di Dio sono donati perché vengano dati agli altri. Noi siamo solo degli amministratori. Possiamo prendere per noi ciò che prendeva il bue mentre trebbiava il grano. Il resto è del padrone, cioè di Dio, il quale lo elargisce secondo l’abbondanza della sua misericordia. Quando non si dona agli altri il dono di Dio, si commette un furto, ci si appropria di ciò che non è nostro. Si è ingiusti. Si commette peccato dinanzi a Dio, si compie una ingiustizia nei confronti dei fratelli. Infine, ed è questa l’ultima annotazione, la misura della larghezza del dono di Dio che ricade su di noi, siamo noi ad offrirla al Signore. Più largo è il nostro cuore, più grande è la benedizione di Dio che discende su di noi. Questo è già stato detto e qui vale solo confermarlo, ribadirlo con fermezza.
La carità non è privazione, ma ricchezza. Anche di questo si è già parlato con dovizie di particolari e di spiegazioni teologiche. Una cosa deve essere ribadita, riaffermata: l’elemosina è vera seminagione nel campo di Dio. Se vera seminagione per una fruttificazione abbondante, la carità non è privazione, ma ricchezza; non è impoverimento, ma ricerca di crescere ed abbondare in tutto ciò che è necessario per vivere con dignità su questa terra. Da qui nasce l’esortazione ad essere ricchi per ogni generosità, abbondanti per ogni opera buona, generosi in tutto, sapendo che la nostra generosità è un deposito nel tesoro del cielo, presso il quale possiamo sempre attingere ciò che serve per il nostro quotidiano sostentamento. Infine piace concludere con una verità, sovente ignorata. Chi fa la carità e risolve realmente un problema ai suoi fratelli, nel momento in cui lui avrà bisogno, il Signore non risponde dal cielo, donando quanto si è dato, risponde invece risolvendo il nostro problema. Non è quello di Dio un intervento quantitativo – tanto quanto - bensì un intervento di soluzione del problema. Noi abbiamo risolto al Signore che vive nel povero un suo problema, un suo assillo, il Signore risolverà un nostro problema, un nostro assillo. Con una differenza: il problema da noi risolto costava poco o niente in termini di quantità, il nostro invece è quantitativamente enorme. Questa è la differenza, questo è anche il risultato di ogni opera di carità fatta con cuore grande, aperto, ricco in misericordia, senza paura, senza esitazione, senza ostentazione, senza secondi fini, fatta semplicemente, nel nascondimento, nella riservatezza. Il cristiano lo deve sempre ricordare: il Signore arricchisce noi per essere noi ricchi di misericordia; il discepolo di Gesù manifesta la magnificenza di Dio; la carità ricevuta si trasforma in lode e benedizione di Dio.
Carità: servizio sacro. L’opera di carità bisogna considerarla come una piccola morte, esercizio necessario per prepararci alla morte totale, che è il dono della nostra vita per la salvezza dei fratelli. San Paolo considera la carità come un servizio sacro, una liturgia d’amore per la salvezza dell’anima, dello spirito e del corpo dei nostri fratelli. Cosa è la liturgia eucaristica se non il memoriale della passione, morte e risurrezione di Gesù? Ma che cosa è la passione, morte e risurrezione di Gesù se non il dono della sua vita per noi? Cosa è la carità se non un dono di vita? All’inizio di un aiuto per la vita dei fratelli; alla fine, se si cresce nell’amore di Cristo, la carità si trasforma in una nostra morte e non più in un dono fuori di noi, per la vita dell’intera umanità. In questo senso è una vera liturgia, un’azione sacra, fatta dal cristiano in Cristo, ma anche da Cristo nel cristiano. La carità è la celebrazione della nostra santa messa, messa personale, sacrificio di morte, per la risurrezione dell’umanità intera. Bisogna allora creare una nuova mentalità, una mentalità di fede, una mentalità in cui si crede nella verità centrale del cristianesimo – il dono di Cristo all’umanità, il dono di Cristo che il Padre ci ha fatto – e la si fa diventare nostra stessa forma di vita, di esistenza, di relazionarci, di presentarci dinanzi ai fratelli. L’altro, vedendo un cristiano, deve vedere in lui uno che è disposto a dare la sua vita, l’intera sua esistenza per la sua vita spirituale, salvezza dell’anima, ma anche sostegno al suo corpo, perché, in quanto strumento dell’anima, aiuti lo spirito a camminare sempre verso il regno dei cieli. In ordine alla carità materiale c’è da aggiungere che un nostro piccolissimo atto di morte, una nostra rinunzia, produce un bene grande nel mondo, perché dona speranza a molte persone, infonde coraggio agli smarriti di cuore e li orienta verso Dio.
Preghiera e moltiplicazione di affetto. San Paolo vede ogni cosa in Dio e tutto trasforma in un rendimento di grazie. Anche nel dolore e nella sofferenza egli è sempre con la sua mente fissa in Dio, a partire dal quale legge ogni cosa, interpreta la sua vita, le dona un significato di verità, la orienta tutta verso il bene dei suoi fratelli. Ogni evento viene santificato attraverso la preghiera; ogni evento viene esposto agli altri secondo la verità di Dio perché possano viverlo in santità, giustizia e in rendimento di grazie, ma anche in affetto e in carità degli uni verso gli altri. Oggi invece assistiamo ad una mortificante immanenza. Non si vedono più le cose in Dio, non si vede Dio nella storia degli uomini; non si vede la sua giustizia, non si vede la sua misericordia, non si vede la sua carità. Chi ama l’uomo deve aiutarlo ad innalzare lo sguardo verso il cielo, vedere Dio e invocarlo; deve anche dirigere lo sguardo verso i fratelli, per benedire il Signore che li ha messi sulla nostra strada come un dono della sua misericordia. Dobbiamo moltiplicare il nostro affetto per loro, mettendo la nostra vita a loro disposizione per la loro salvezza eterna.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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