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COMMENTO DELLA LETTERA AI GALATI

Ultimo Aggiornamento: 20/09/2018 14:56
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21/12/2011 22:21
 
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vv. 4, 1-2. Paolo approfondisce l’idea della maggiore età dei Galati e del loro diritto all’eredità della salvezza in qualità di figli liberi, servendosi di un nuovo paragone tratto dall’ambito giuridico. In questo caso il termine di confronto è dato da un minorenne destinato a diventare erede. Finché dura il tempo della minor età "egli non si distingue in nulla dallo schiavo, benché sia possessore (potenziale) di tutto". Non gli spetta il diritto di disporre del suo patrimonio, ma è soggetto "a tutori e amministratori fino al termine stabilito dal padre".

v. 3. L’esempio desunto dal campo giuridico viene applicato alla storia della salvezza, a noi. "Noi", cioè giudei e pagani, nel tempo della nostra minore età, eravamo ridotti in schiavitù sotto "gli elementi del cosmo". Che cosa si vuol dire con ciò? Una risposta a questa difficile e dibattuta questione la troveremo nel commento a 4,8-11, perché là il contesto offre buoni spunti a questo scopo.

vv. 4-5. Ma la precedente condizione persistente del nostro asservimento appartiene ormai al passato. Infatti nel frattempo è accaduto qualcosa di decisivo che è detto "termine stabilito dal padre". La scadenza che segnò la fine del nostro asservimento agli elementi del mondo fu la venuta "della pienezza del tempo", in cui Dio inviò suo Figlio. La "pienezza del tempo" di cui si parla qui è il compimento dell’epoca precedente, del tempo dell’attesa, cioè del tempo della promessa e della legge. Ma poiché l’invio del Figlio è anche il compimento del tempo della promessa, qui "pienezza del tempo" significa più che una semplice scadenza da calendario; il compimento è il colmo della misura: viene introdotta direttamente nella storia l’attività salvifica di Dio; nell’avvenimento storico del Gesù terrestre Dio compie la sua azione escatologica. L’invio del Figlio da parte del Padre è un’azione unica e storica: il Figlio fu generato da una donna e sottoposto alla legge. Così Paolo sottolinea la vera e autentica umanità del Figlio. Dicendo che Cristo fu "sottoposto alla legge" e che "nacque da una donna" si vuol mettere in risalto il fatto che egli divenne uomo tra gli uomini e giudeo e, come tale, sottoposto alla legge. La sorte del Figlio aveva un preciso scopo salvifico: "affinché riscattasse quelli che si trovavano sotto la legge". Il nesso con il v.3 farebbe piuttosto attendere che si dicesse: "affinché riscattasse quelli che si trovavano sotto gli elementi del cosmo". Ora l’apostolo invece scrive "sotto la legge" per farci capire che esiste un’intima connessione tra il dominio della legge e il potere degli elementi del cosmo (cfr. 4,8-10). Il vero fine salvifico di Dio è la concessione della figliolanza, qui espressa con uiothesìa, che è propriamente un termine tecnico giuridico (adozione), ma che nella letteratura cristiana dei primi tempi si usa solo per rapporti religiosi (Rm 8,15.23; 9,4; Ef 1,5). L’"essere ammesso nella condizione di figlio" (uiothesìa, adozione) concede i pieni diritti di figlio, benché non vi sia alcuna figliolanza fisica. Soprattutto concede il diritto di accedere all’eredità del padre. La uiothesìa è un puro dono di grazia. Se nel paragone la realtà confrontata corrispondesse perfettamente al termine di confronto si dovrebbe leggere "affinché da minorenni diventassimo maggiorenni". Ma la maggiore età consiste proprio, concretamente, nell’idoneità ad accedere all’eredità della promessa. A questo scopo occorre essere figli; non ha importanza l’età. L’ammissione, per grazia, dei battezzati alla condizione di figli produce in loro una relazione nuova, intima e del tutto personale con Dio, come spiegherà il v.6.

v. 6. La questione se la ricezione dello Spirito da parte dei credenti sia la conseguenza della loro figliolanza o se viceversa la figliolanza sia la conseguenza della ricezione dello Spirito, deve essere risolta nel primo senso; l’ammissione alla condizione di figli, avvenuta nel battesimo, comporta anche il dono dello Spirito fatto ai figli. La figliolanza è la base della ricezione dello Spirito. Ciò che preme a Paolo è questo: constatare una equiparazione dei figli con il Figlio nella loro relazione esistenziale con Dio, la quale viene comunicata in continuità dallo Spirito del Figlio. Essi stanno in rapporto del tutto intimo-personale con Dio perché lo Spirito concesso loro nel battesimo grida a Dio nei loro cuori: "Padre!", come può fare soltanto il Figlio. Così lo Spirito dischiude e rende possibile una nuova relazione con Dio che Paolo qualifica come rapporto tra padre e figli. A che cosa pensa l’apostolo parlando del "gridare" dello Spirito? Forse a certe esperienze della Chiesa primitiva, come la glossolalia con le sue prime esclamazioni spontanee e inarticolate (1Cor 14) e alla preghiera dei cristiani in genere in quanto è suggerita dallo Spirito. Lo Spirito grida nei credenti a Dio "abbà". Questa invocazione è espressione del rapporto dell’uomo con Dio inteso in senso del tutto personale-intimo. In essa si manifesta la relazione filiale con Dio, che ai battezzati è resa accessibile dallo Spirito. In tal modo il cristiano per mezzo dello Spirito viene incluso nella famiglia di Dio (Rm 8,15-16; Ef 2,18). Con ciò è ora definitivamente chiarito dall’apostolo quale Spirito i Galati hanno ricevuto un tempo attraverso l’accoglienza della predicazione della fede, quand’essi diventarono cristiani.

v. 7. Ora da questa figliolanza dei credenti l’apostolo trae la conseguenza per il singolo cristiano: "Dunque tu non sei più schiavo, ma figlio". L’apostolo non dice minorenne, ma schiavo, probabilmente dando uno sguardo retrospettivo al "quando eravamo schiavi degli elementi del cosmo" (v.3). Quello che era uno schiavo è diventato un figlio libero, che quindi può anche accedere alla piena eredità. Ciò oltrepassa di molto l’enunciato di 3,29. Ivi i credenti sono chiamati "seme di Abramo" ed "eredi in conformità della promessa" e vengono immessi nel contesto della promessa che risale fino ad Abramo; in 4,6-7 invece si rivela loro la figliolanza divina, e ciò che i figli di Dio ereditano è tutta la salvezza escatologica (Rm 8,17). Ciò che veramente importa a Paolo è di mostrare ai Galati che a loro, in quanto credenti battezzati, viene donata da Dio l’eredità della salvezza, e perciò un rivolgersi da parte loro al giudaismo è superfluo. Il nome di Dio si trova, accentuato, alla conclusione della pericope perché egli è l’autore di tutta l’opera della salvezza.

d) Rinnovato appello alla saggezza dei Galati (4,8-20)

8Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono; 9ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? 10Voi infatti osservate giorni, mesi, stagioni e anni! 11Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo 12Siate come me, ve ne prego, poiché anch’io sono stato come voi, fratelli. Non mi avete offeso in nulla.13Sapete che fu a causa di una malattia del corpo che vi annunziai la prima volta il vangelo; 14e quella che nella mia carne era per voi una prova non l’avete disprezzata né respinta, ma al contrario mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù. 15Dove sono dunque le vostre felicitazioni? Vi rendo testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati anche gli occhi per darmeli. 16Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità? 17Costoro si danno premura per voi, ma non onestamente; vogliono mettervi fuori, perché mostriate zelo per loro. 18È bello invece essere circondati di premure nel bene sempre e non solo quando io mi trovo presso di voi, 19figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! 20Vorrei essere vicino a voi in questo momento e poter cambiare il tono della mia voce, perché non so cosa fare a vostro riguardo.

I Galati quando erano pagani si trovavano in una schiavitù religiosa. Se ora dopo aver conosciuto il vero Dio ed essere stati conosciuti da lui, vogliono rivolgersi al giudaismo, finiscono per passare dalla vecchia schiavitù a una nuova, peggiore di quella antica. Se ciò accadesse, Paolo avrebbe faticato invano per loro.

v. 8. Il passato pagano dei Galati è il tempo dell’età minorenne quando erano asserviti agli elementi del cosmo, cioè servivano ancora gli idoli, perché non conoscevano ancora il vero Dio. Se Paolo designa gli dèi come esseri che "per natura loro non sono dèi", egli non vuole presumibilmente contestare la loro esistenza, ma la vera natura divina. Per l’apostolo essi sono probabilmente identici ai demoni, della cui realtà egli non dubita.

vv. 9-10. I Galati hanno conosciuto il vero Dio, perciò il cosmo perde il suo falso fascino e la sua pretesa di schiavizzare l’uomo. La debolezza e la miseria degli elementi del cosmo viene smascherata; la conoscenza del vero Dio include necessariamente in sé la convinzione che le potenze del cosmo non possono arrecare la salvezza. La connessione della mancanza di conoscenza di Dio con la caduta nel falso fascino del cosmo si trova già espressa nell’Antico Testamento, specialmente nel profeta Osea. La mancanza di conoscenza di Dio è molto spesso connessa con l’apostasia e l’idolatria. Perché Israele non ha la retta conoscenza di Dio adora Baal (Os 4,10), offre sacrifici a questo idolo (Os 11,2) e profetizza in suo nome (Ger 2,8). La vera conoscenza di Dio crea la distanza tra Dio e gli elementi del cosmo e crea libertà nei loro confronti. Ma l’apostolo si corregge nel suo modo di esprimersi: "o, più esattamente, voi siete conosciuti da Dio". Il senso di questa frase è il seguente: la vera conoscenza di Dio è un dono di grazia fatto agli eletti di Dio, tra i quali ci sono anche i Galati da quando sono diventati cristiani. "Anche questa terminologia, secondo cui Dio ‘conosce’ l’uomo (Ger 1,5) o il popolo d’Israele, è veterotestamentaria: cfr. Rm 11,2, con Am 3,1. Essa indica l’elezione, quindi un agire o comportarsi di Dio nei confronti dell’uomo" (Noetscher). Poiché dunque, Dio con la loro chiamata ha elargito ai Galati la vera conoscenza di se stesso, è tanto più sorprendente e incomprensibile che essi "ora" ritornino nuovamente ai "deboli e miseri elementi" e ancora vogliano servire ad essi in condizioni di schiavi. Il dedicarsi dei Galati alla vita regolata dalla legge è per loro una rinnovata dedizione agli "elementi del cosmo", benché essi certamente non vogliano più ricadere nel culto degli idoli. Tuttavia è un asservimento agli "elementi del cosmo". Ma dove si trovano le connessioni tra la vita conforme alla legge e l’asservimento agli "elementi del cosmo"? Paolo specifica il rinnovato servizio dei Galati agli elementi del cosmo dicendo soltanto: "voi osservate giorni e mesi e tempi e anni" (v.10). Purtroppo non dice di più. Ma, dato che i suoi avversari erano giudeocristiani giudaizzanti, si deve seguire una traccia che riconduca al protogiudaismo, e per questa via si giunge a un risultato. C’era infatti nel protogiudaismo specialmente tra gli apocalittici e gli esseni di Qumran, una "devozione calendaristica" che stava non ai margini, ma al centro della convinzione di fede religiosa. Tra il tanto materiale disponibile a questo riguardo, scegliamo per brevità un solo testo. In Hen. aeth. 82,4.7-10: "Il sole cammina nel cielo entrando e uscendo attraverso le porte per trenta giorni... I luminari, i mesi, le feste, gli anni e i giorni me li ha mostrati e rivelati Uriel, al quale il Signore di tutta la creazione per amor mio ha dato potere sulla schiera del cielo... Questa è la legge delle stelle, che ai loro posti , nei loro tempi, feste e mesi tramontano. Questi sono i nomi dei loro capi, che sorvegliano affinché sorgano nei loro tempi, che le conducono ai loro posti, nei loro ordini, tempi, mesi, periodi di dominio e alle loro stazioni". Il collegamento della Torà con il calendario non si ha solo in gruppi o figure che stanno ai margini del giudaismo, ma proprio nel giudaismo stesso, poiché la Torà stessa prescrive le celebrazioni delle feste, per le cui date il calendario era appunto normativo, e in particolare modo la stretta osservanza del precetto del sabato. Sussiste dunque un’affinità tra religiosità della Torà e religiosità calendaristica. Ma perché Paolo respinge così radicalmente questa religiosità? Molto probabilmente perché all’osservanza religiosamente motivata di giorni, mesi, tempi e anni andavano congiunti certi pericoli: un culto superstizioso degli astri, giacchè gli astri determinano il calendario e molto facilmente potevano essere scambiati per "dèi". Dunque per i Galati il passo dagli astri che regolano il calendario agli "dèi che in realtà non sono dèi" era breve.

v. 11. "Temo di essermi affaticato invano per voi". Paolo si riferisce al tempo in cui aveva annunciato ai Galati il vangelo. Tuttavia l’apostolo non si rassegna del tutto, e prosegue rivolgendo un nuovo appello ai Galati (4,12-20) e richiamandoli ai tempi del suo lavoro missionario presso di loro.

v. 12. Diventare come l’apostolo vuol dire imitare l’esempio che egli stesso ha dato ai Galati. E questo esempio è consistito nella vita "senza-legge" che egli ha condotto tra loro nel tempo in cui li evangelizzava. Quando annunciò il vangelo in un territorio completamente pagano egli era diventato ciò che scrive in 1Cor 9,21: "Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge". Egli viveva tra i Galati non come un giudeo, ma come un pagano: ora chiede ai Galati di fare la stessa cosa. Nel periodo in cui Paolo visse tra i Galati come un pagano e non come un giudeo, essi non si sono minimamente scandalizzati per la sua vita ‘senza-legge’ e non l’hanno diffamato e disprezzato come fanno ora i suoi avversari giudaizzanti.

v. 13. Durante il suo primo soggiorno in Galazia (At 16,6) Paolo ha annunciato loro il vangelo "in seguito a una debolezza della carne" cioè a causa di una malattia. Per un uomo come Paolo tutto diventa occasione favorevole quando si tratta di annunciare il vangelo.

v. 14. La malattia di Paolo sarebbe potuta diventare per i Galati un motivo per respingerlo e scacciarlo dal territorio; essa era una tentazione nella quale potevano facilmente cadere. Ma essi non hanno sputato davanti all’apostolo in segno di rifiuto o per difendersi dagli spiriti maligni della sua malattia e non hanno sputato neppure davanti al vangelo che egli annunciava loro. Lo stato fisico dell’apostolo e il Cristo crocifisso che egli annunciò loro, sembravano proprio adattarsi bene l’uno all’altro e formare in certo modo un’unità. I Galati accolsero Paolo "come un messaggero di Dio", anzi, di più, come Gesù Cristo stesso. Dunque, vuol dire Paolo, i Galati non avrebbero potuto accogliere un angelo o Gesù Cristo stesso meglio di come essi un tempo accolsero lui, missionario malato.

v. 15. I Galati si proclamarono beati e fortunati per la sua comparsa e la predicazione dell’apostolo presso di loro. Per lui sarebbero stati disposti a strapparsi gli occhi e a darglieli. Ciò può essere detto in senso figurato o anche in riferimento alla sua malattia. Se così fosse, la malattia di Paolo durante la sua missione in Galazia sarebbe consistita in un’affezione agli occhi. Ad ogni modo, come risulta dal v.14, sembra che la malattia di Paolo comportasse qualcosa che poteva suscitare disgusto e ripugnanza.

v. 16. Paolo non può credere di essere diventato nemico dei Galati perché ha annunciato loro la verità, quella stessa che ha formulato in 3,1: ha rappresentato al vivo davanti ai loro occhi Gesù Cristo crocifisso. Certamente questa verità includeva in sé anche la dottrina della libertà del cristiano dalle opere della legge, e quest’ultimo punto - "la verità del vangelo" - era diventata la pietra d’inciampo per i Galati, da quando i giudaisti avevano insegnato loro il contrario. Proprio di loro riprende a parlare di nuovo nel v. seguente.

v. 17. Secondo Paolo non può essere stato l’annuncio della verità a renderlo estraneo ai Galati: di questo allontanamento sono responsabili i suoi avversari i quali fanno la corte ai Galati con cattive intenzioni. "Il verbo zeloùn fa capire che Paolo ha visto nella condotta dei suoi avversari una vera e propria sommossa" (Guettgemanns). La cattiva intenzione del loro corteggiamento dei Galati mira a mettere male tra loro e Paolo. "Vogliono escludervi" significa che gli avversari di Paolo vogliono escludere i Galati dal privilegio del vangelo libero dalla legge e separarli da Paolo e dalle altre comunità etnicocristiane per poterli isolare e poi legarli più facilmente a sé. Gli avversari di Paolo vorrebbero avere per sé la benevolenza che i Galati un tempo avevano dimostrato in misura illimitata all’apostolo. Paolo scrive ciò alle comunità della Galazia perché capiscano il gioco dei suoi avversari.

v. 18. L’apostolo non rifiuta le premure dei Galati, purché non siano smancerie, ma vero amore che viene dimostrato al missionario e pastore d’anime. Inquadrato nel contesto il v. ha il senso implicito di un invito: "Rimanete nella vostra premura di un tempo per me! Allora rimarrete anche nella verità del vangelo!"

v. 19. Paolo un tempo ha generato i Galati fra i dolori e adesso nuovamente soffre per loro le doglie del parto: essi sono i suoi figli spirituali. Egli interpreta il suo lavoro missionario come paternità e maternità spirituale (1Ts 2,7-8.11; 1Cor 4,15). Solo quando Cristo avrà assunto presso i Galati una forma molto più stabile e la comunità sarà del tutto rafforzata nel vangelo, i dolori apostolici del parto avranno raggiunto pienamente il loro scopo spirituale. Essi non hanno ancora compreso l’essenza del cristianesimo, non l’hanno ancora riconosciuto come religione della croce. L’apostolo lotta perché ciò avvenga per loro, e Cristo diventi completa realtà. Poiché in questo processo spirituale si tratta anche di una conoscenza e di un giudizio, dell’"istinto" cristiano, che i Galati non possiedono ancora, il significato della preposizione en che precede umìn è propriamente ambiguo: sia nei Galati sia anche tra loro, nella comunità, Cristo deve anzitutto acquistare la sua vera forma. Finché ciò non avviene, perdurano i dolori del parto dell’apostolo.

v. 20. Paolo vorrebbe essere personalmente presso i Galati e cambiare la sua voce, perché è in imbarazzo a loro riguardo. L’apostolo vede i Galati su una strada che devia dalla verità del vangelo e ciò gli procura grandissima pena; non sa come uscirne, cioè quale sia il modo migliore per riguadagnare i Galati a Cristo. Ma questa pena e imbarazzo sono anche determinati dalla grande lontananza fisica dai Galati: egli vorrebbe essere di persona accanto a loro. Così potrebbe parlare in modo tutto diverso, molto più efficace e approfonditamente. La voce della madre preoccupata sarebbe più convincente per i Galati, se l’apostolo fosse personalmente tra di loro. La comunicazione epistolare non annulla la distanza interna ed esterna tra Paolo e i Galati. Sembra che l’apostolo abbia esaurito tutte le sue risorse perché conclude: "non so più che fare con voi".

e) L’affermazione della Scrittura (4,21-31)

21Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non sentite forse cosa dice la legge? 22Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. 23Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera, in virtù della promessa. 24Ora, tali cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due Alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar 25- il Sinai è un monte dell’Arabia -; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. 26Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre. 27Sta scritto infatti:
Rallegrati, sterile, che non partorisci, grida nell’allegria tu che non conosci i dolori del parto, perché molti sono i figli dell’abbandonata, più di quelli della donna che ha marito. 28Ora voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. 29E come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava quello nato secondo lo spirito, così accade anche ora. 30Però, che cosa dice la Scrittura? Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col figlio della donna libera. 31Così, fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera.

Paolo si sente spinto dalla necessità di escogitare ancora qualcosa per convincere i Galati e riprende il tema "legge e promessa" sulla base della Scrittura, andando però oltre 3,6-18 in quanto prende particolarmente in considerazione il punto di vista della libertà del cristiano. A questo scopo la storia di Abramo viene interpretata ricorrendo all’esegesi allegorica della Scrittura.

v. 21. La comprensione storico-salvifica-profetica della Scrittura mette in questione la comprensione puramente legalistica della Scrittura. "Comprendere la legge, non è solamente osservare tale o talaltra prescrizione particolare, ma, alla luce delle Scritture, discernere il ruolo negativo o puramente preparatorio che essa aveva in rapporto a Gesù Cristo" (Bonnard). Ciò distingue radicalmente la comprensione cristiana della Scrittura da quella giudaico-rabbinica. I Galati non hanno ancora capito come bisogna leggere e ascoltare la Torà: infatti essi, di fatto, non ascoltano e non obbediscono. Ne vedono solo i molti precetti e divieti, sui quali forse vengono istruiti dagli avversari di Paolo, ma non capiscono che la torà dice molto di più di quanto appare da una semplice lettura fondamentalistica.

v. 22. I due figli di Abramo sono Ismaele, nato da Agar, e Isacco, nato da Sara (Gen 16,15; 21,2-9). Le due donne erano di ceto diverso: Sara era libera, Agar era schiava.

v. 23. Questi due figli di Abramo non sono solo diversi tra loro per madre, ma anche per tipo di nascita. Infatti Ismaele è stato generato secondo la "carne", Isacco invece è figlio della promessa. Abramo si accostò ad Agar per il desiderio naturale di un erede fisico (Gen 16,1-4), ma a Sara in base a un’implicita promessa di Jahvè, che sembrava incredibile (Gen 17,15-19; 21,1-7). Quindi Isacco è un dono della potenza sovrana di Dio, la quale non è vincolata alle condizioni naturali. Nel v.28 il termine epanghelìa (= promessa) viene nuovamente ripreso nell’affermazione che i credenti in Cristo sono "figli della promessa" come Isacco. La promessa contiene quindi anche l’elemento della libera scelta di Dio, il quale può far nascere ad Abramo figli liberi dove vuole. Nell’agire di Dio per grazia è ogni volta attivo il principio della promessa, che è secondo lo Spirito e non secondo la carne. La "promessa" di Dio ad Abramo relativa ad Isacco fu fatta (implicitamente) già in vista del futuro salvifico (Rm 4,16-22). Quindi anche le due madri dei due figli di Abramo hanno un’importanza più profonda, come Paolo sta per spiegarci. Esse sono (anche) figure allegoriche; però questo loro significato si può riconoscere solo alla luce della fede in Cristo.

v. 24. Quanto sta scritto nella Genesi sui due figli di Abramo e sulle loro madri ha per Paolo un senso allegorico. Queste due donne significano i due Testamenti. Veramente, in base al testo della Genesi, le due figure di donne non accennano affatto alla Gerusalemme attuale o alla Gerusalemme di lassù. Questo nesso è stabilito solo da Paolo. Il racconto di Agar e di Sara può essere da Paolo usato in questo modo solo perché per lui da lungo tempo - in base alla sua convinzione di fede - è cosa certa che l’esistenza sottoposta alla legge è un’esistenza da schiavi.

v. 25. Il monte Sinai è in Arabia e quindi ci si può chiedere che cosa abbia a che fare con la Gerusalemme attuale. A questa obiezione geografica risponde mettendo in relazione, con la sua visione allegorica, il monte Sinai con la Gerusalemme attuale: "veramente il monte Sinai si trova in Arabia, ma esso corrisponde (nella mia visione allegorica) alla Gerusalemme attuale".Che cosa autorizza a questa corrispondenza allegorica? Paolo risponde: "Perché Gerusalemme si trova con i suoi figli in condizioni di schiavitù" finchè rimane sotto il dominio della legge, il quale ebbe origine al Sinai. Che Gerusalemme si trovi con i suoi figli in condizione di schiavitù sarà energicamente negato da ogni ebreo. In Gv 8, 33 sta scritto: "Noi siamo seme di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno". La Gerusalemme, centro spirituale del giudaismo non è schiava dei Romani, ma della legge, e questa schiavitù al tempo di Paolo perdurava ancora. Ma è anche probabile che dicendo la "Gerusalemme attuale" si voglia indicare la città come centro spirituale non del giudaismo, bensì del giudeocristianesimo, i cui esponenti radicali si appellavano a Gerusalemme considerandola il capoluogo più autorevole del cristianesimo e del vero vangelo. Contro di loro Paolo richiama l’attenzione sulla vera Gerusalemme dei cristiani, che è la nostra vera madre.

v. 26. Infatti, contrapposta alla Gerusalemme "attuale" c’è una Gerusalemme che è "in alto", cioè accanto a Dio, in cielo. La "Gerusalemme di lassù" è per Paolo il mondo del Risorto e dell’Innalzato, dal quale trae origine la salvezza escatologica per i credenti, il che, in Gal 4,26, è espresso nella proposizione relativa "che è nostra madre". La maternità della Gerusalemme di lassù si attualizza nella concreta attività salvifica del Risorto nella comunità cristiana. Questa Gerusalemme del cielo è la madre dei credenti nati per la libertà e non dei giudaisti che si attengono alla legge. E grazie al lavoro missionario, questi credenti nati liberi sono già diventati più numerosi; la loro madre (Cristo) non è rimasta infeconda, ciò che l’apostolo comprova espressamente con la Scrittura nel v. seguente.

v. 27. La promessa di Is 54,1 ha questo significato: Sion è "raffigurata come una donna, che è stata abbandonata dal marito e perciò non genera più figli. Con la fine dell’esilio Jahvè ritorna a Sion a capo degli esuli; Sion ha di nuovo il suo sposo e i suoi figli" (Ziegler). Nella comunità cristiana, nel suo divenire e crescere, Paolo vede adempiuta la parola del profeta.

v. 28. Ora Paolo non argomenta più, ma dichiara: "Voi fratelli, siete come Isacco figli della promessa!".Isacco fu generato secondo lo Spirito; così anche i Galati, quando furono battezzati (3,2).

v. 29. La storia si ripete. Come allora Ismaele perseguitava Isacco (Gen 29,1) così ora i giudei perseguitano le comunità cristiane. Anzi, forse si parla dei giudaisti cristiani che perseguitano, con discorsi, sospetti e calunnie maliziose Paolo. Cosa si deve fare "adesso" in questa situazione concreta in Galazia? Paolo lo dice ai Galati nel versetto successivo ancora con una parola della Scrittura.

v. 30. All’"Ismaele" che ora in Galazia "perseguita" il vangelo e il suo predicatore Paolo, si deve fare opposizione. La Scrittura ordina: "Scaccia la schiava e suo figlio! Perché il figlio della schiava non deve assolutamente ereditare assieme al figlio della libera". Con questo comando della Scrittura i Galati sono esortati inequivocabilmente a scacciare l’"Ismaele" che si è intromesso tra loro, ossia i giudaisti cristiani.

v. 31. Il versetto costituisce la deduzione conclusiva dell’intera pericope 4,21-30, la quale è anche una conclusione delle due interpretazioni scritturistiche dei vv. 22-27 e 29-30.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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