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COMMENTO DELLA LETTERA AI COLOSSESI

Ultimo Aggiornamento: 20/10/2018 12:00
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28/11/2011 12:09
 
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LA LETTERA AI COLOSSESI
(Pedron Lino)

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titoli

Indice:

Introduzione

Lettura e commento

Prima parte didattica

Parte seconda parenetica

 

 

INTRODUZIONE

1) La comunità di Colossi

I cristiani di Colossi non furono portati alla fede in Cristo da Paolo. L’apostolo, nella sua attività missionaria in Asia Minore, non arrivò a Colossi. La lieta novella, da lui annunciata nelle città più grandi e nei centri commerciali, si sparse rapidamente.

I cristiani delle comunità fondate da Paolo divulgarono il Vangelo portandolo anche all’interno del paese, così che sorsero comunità cristiane non solo a Colossi, ma anche a Laodicea e a Gerapoli (2,1; 4,13.15). Gli unici dati sulla fondazione e la situazione della chiesa di Colossi si ricavano solo da questa lettera.

I destinatari della lettera provenivano dai pagani e avevano accolto il Vangelo comunicato loro da Epafra (1,7-8; 4,12-13).

Lo stato della comunità, così come appare dalla lettera, corrisponde in pieno all’immagine di una comunità ubbidiente al Vangelo degli apostoli.

2) L’occasione della lettera.

La vita e il comportamento della comunità non offrono alcun motivo di biasimo. L’autore della lettera mette in guardia i colossesi da una falsa dottrina e dai seduttori che la insegnano. Nella comunità si sono introdotti o stanno introducendosi degli uomini che chiamano la loro dottrina "filosofia" e con questa intendono l’arcana notificazione della profonda essenza divina, la retta conoscenza degli "elementi cosmici" e la via che si deve percorrere per porsi nel giusto rapporto con essi.

Gli elementi cosmici, presentati come potenti forze angeliche, determinano non soltanto l’ordine del mondo, ma anche il destino di ogni singolo uomo. Perciò l’uomo deve prestare loro venerazione cultuale e osservare le disposizioni da loro impartite (2,16-23): uno scrupoloso rispetto dei tempi sacri riservati - festività, noviluni, sabati (2,16) - come pure il rifiuto di certi cibi e di certe bevande, il cui uso è severamente interdetto (2,21).

Questa dottrina, le cui caratteristiche sono rese evidenti nel secondo capitolo della lettera con argomentazioni polemiche, potrebbe avere un influsso anche sui cristiani, perché essa promette una protezione contro le forze e le potenze cosmiche che il Vangelo sembra incapace di garantire con la concessione del perdono dei peccati.

Gli aderenti a questa filosofia probabilmente supponevano che questa dottrina potesse andare benissimo d’accordo con la fede cristiana, anzi, che proprio per questo accordo la fede avrebbe raggiunto la sua autentica pienezza. Per contrastare questa filosofia la lettera ai colossesi, fin dall’inizio, ripropone la professione di fede affidata alla comunità (1,15-20) e di lì sviluppa il suo messaggio in cui Cristo è proclamato Signore del mondo intero. In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (2,9), egli è il capo al di sopra di tutte le potenze e potestà (2,10). Egli è il capo del suo corpo, la chiesa (1,18).

Chi perciò nel battesimo è sepolto con Cristo e con lui è risorto per la fede nella potenza di Dio che l’ha risuscitato dai morti (2,12), costui ha ricevuto tutto da Cristo, ogni pienezza, il perdono dei peccati e il dono di una vita nuova (1,12-14; 2,13-15).

Il cristiano non può e non deve più mettersi al servizio degli angeli e sottostare a ordinamenti servili, perché egli è, da tempo, morto con Cristo agli elementi cosmici (2,20). Questa contrapposizione deve essere riconosciuta, in tutta la sua chiarezza, dalla comunità mediante l’ausilio della dottrina apostolica offerta nuovamente attraverso questa lettera. Da una parte Cristo, come è stato annunziato e accolto nella fede; dall’altra la filosofia riguardante gli elementi cosmici che è, in verità, soltanto un "vuoto inganno".

3) Stesura della lettera.

Paolo è prigioniero (4,3.10). In quale luogo si trovi non risulta dalla lettera. Così manca qualsiasi indicazione di datazione circa la compilazione dello scritto.

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28/11/2011 12:10
 
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LETTURA E COMMENTO

Saluto iniziale
(1,1-2)

1Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Timòteo, 2ai santi e fedeli fratelli in Cristo dimoranti in Colossi grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro!

Questo inizio reca il nome di Paolo, aggiunge il titolo di apostolo, presenta Timoteo quale secondo mittente, designa i destinatari dello scritto e rivolge ad essi il saluto con cui si augura loro grazia e pace. I due primi versetti corrispondono allo schema del formulario usato in tutte le lettere di Paolo.

v. 1. Al nome Paolo viene immediatamente aggiunto il titolo di "apostolo" che dà carattere ufficiale allo scritto diretto alla comunità. Per volontà di Dio, Paolo è stato chiamato ad essere ambasciatore plenipotenziario del Signore glorificato (Gal 1,1.15-16) e perciò parla alla comunità in forza di questa autorità che gli è stata conferita.

Accanto a Paolo è posto Timoteo, come suo aiutante e cooperatore. Il suo nome è messo accanto a quello di Paolo per testimoniare alla comunità che egli, come l’apostolo, predica e insegna lo stesso Vangelo. Timoteo ha sostenuto Paolo con instancabile fedeltà, ha trasmesso alle comunità comunicazioni e incombenze e ha richiamato di continuo alla parola di Paolo (1Cor 4,17; Fil 2,19-24).

v. 2. I cristiani di Colossi sono detti "santi" perché sono il popolo santo che Dio si è scelto, che gli appartiene in proprio e invoca il nome del Signore.

Santo è ciò che è stato sottratto dall’uso profano ed è stato messo a parte, come unica proprietà di Dio. La comunità di Dio è santa non per virtù propria, ma per elezione divina. I santi sono coloro che sono stati battezzati nel nome del Signore Gesù Cristo e che sono sotto il suo dominio (1Cor 6,11). Essi sono la chiesa, il corpo di Cristo, la cui signoria abbraccia l’intero cosmo (1,18.24). Nella singola comunità locale (4,16) come anche nel piccolo gruppo che si riunisce in una casa (4,15), è raccolto il popolo santo di Dio. La scelta di Dio, mediante la quale i credenti sono messi a parte come suoi santi, è stata da essi accolta in ubbidienza e viene ora seguita con fiducioso abbandono.

I santi sono fratelli credenti in Cristo, non per parentela naturale, ma per azione di Dio, come membri della famiglia di Dio. La formula "in Cristo" nelle lettere di Paolo indica il vivere nella sfera sovrana del Signore risorto. I fratelli in Cristo sono i cristiani che, come membra del corpo di Cristo, sono consociati in comunità. Il messaggio proclamato al mondo intero, tende a questo: "presentare ogni uomo perfetto in Cristo" (1,28). La nuova vita in Cristo significa un comportamento obbediente al Signore.

La grazia e la pace vengono da Dio, che i credenti, con piena fiducia, chiamano loro padre.

 

Rendimento di grazie
(1,3-8)

3Noi rendiamo continuamente grazie a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nelle nostre preghiere per voi, 4per le notizie ricevute della vostra fede in Cristo Gesù, e della carità che avete verso tutti i santi, 5in vista della speranza che vi attende nei cieli. Di questa speranza voi avete già udito l’annunzio dalla parola di verità del vangelo 6che è giunto a voi, come pure in tutto il mondo fruttifica e si sviluppa; così anche fra voi dal giorno in cui avete ascoltato e conosciuto la grazia di Dio nella verità, 7che avete appresa da Èpafra, nostro caro compagno nel ministero; egli ci supplisce come un fedele ministro di Cristo, 8e ci ha pure manifestato il vostro amore nello Spirito.

Paolo, all’inizio delle sue lettere indirizza un ringraziamento a Dio, padre di Gesù Cristo, per magnificarlo per tutto quello che egli ha concesso alla comunità. La lettera ai colossesi offre il più ricco sviluppo formale di ringraziamento. I vv. 3-8 formano un’unica frase di difficile comprensione.

v. 3. Anche se talvolta nella lettera si dice "noi", chi parla è solo Paolo. In tutta la lettera perciò deve essere udita la sola voce dell’apostolo, che si affatica per la comunità, che soffre per essa e per essa prega Dio. La preghiera di ringraziamento è rivolta a Dio Padre. Dio si è manifestato Padre, risuscitando Gesù Cristo dai morti (Gal 1,1). L’apostolo è sempre ricolmo di gratitudine per Dio quando, nella preghiera, volge la mente alla comunità. In ogni sua preghiera a Dio, Paolo ringrazia per tutto ciò che egli ha accordato alla comunità e intercede per essa.

v. 4. L’occasione per una preghiera colma di ringraziamento è data dalle buone notizie sullo stato della comunità.

La triade "fede, speranza e carità" si trova ripetutamente nelle lettere di Paolo. Nella formula la fede occupa sempre il primo posto. Infatti l’essere cristiano trova il suo fondamento nella fede, la quale dimostra la sua portata nella carità e nella speranza. L’espressione "in Cristo Gesù" non indica il contenuto della fede, ma l’ambito in cui la fede vive e opera. I battezzati in Cristo (Rm 6,3) sono stati inseriti nel corpo di Cristo (1Cor 12,13). Essi sono, così, sottratti al dominio del peccato, della legge e della morte e vivono d’ora innanzi in Cristo, rinati a vita nuova nell’obbedienza al Signore. L’inserimento nel corpo di Cristo è avvenuto per l’azione di Dio. La salvezza viene accolta e mantenuta nella fede.

La fede si dimostra con la carità: "la fede opera attraverso la carità" (Gal 5,6). Nell’agàpe i cristiani si prestano vicendevole servizio (Gal 5,13).

v. 5. Come la fede si fonda sull’evento di Cristo valevole una volta per sempre, come la carità operosa ha efficacia nel presente col suo volgersi a tutti i santi, così la speranza si dirige ad una pienezza non ancora realizzata. Fede e carità designano la vita cristiana della comunità, mentre la speranza indica il contenuto del messaggio, ascoltato e accolto dalla comunità.

Questa speranza abilita i cristiani alla saldezza nella fede e all’esercizio della carità verso tutti i santi. Da Paolo la speranza è strettissimamente unita alla fede. Essa non si dirige alle cose visibili, perché non abbiamo bisogno di sperare ciò che possiamo vedere (Rm 8,24-25).

Essa si fonda sulla fede, la quale, "sperando contro ogni speranza" (Rm 4,18), si affida alla promessa di Dio e non è delusa, perché essa è certa dell’amore di Dio (Rm 5,5). La fede dà alla speranza un solido fondamento, di modo che si protende in avanti e con fiducia attende il compimento della cosa sperata. La speranza tende al traguardo che ci sta innanzi, cioè all’adempimento e alla realizzazione della promessa fatta da Dio. La speranza è la destinazione fissata da Dio per l’uomo, è l’eredità preziosa depositata per lui nel posto giusto. Questo posto è il cielo. La speranza cristiana è diretta al Signore Gesù, che è assiso alla destra di Dio (3,1) e che si identifica con "la speranza della gloria" (1,27). Questa speranza è il contenuto del Vangelo (1,23). Certo, il bene prezioso di questa speranza è ancora lassù, nascosto all’occhio umano, ma diverrà palese "quando Cristo si sarà manifestato" (3,4).

Il pensiero e il comportamento dei credenti vanno orientati alle cose di lassù (3,1). Di questo celeste patrimonio della speranza la comunità ha udito parlare da lungo tempo (1,23) per mezzo dell’annuncio del Vangelo. Il Vangelo annunciato da Paolo con la parola e con lo scritto contiene la retta dottrina a cui le comunità devono attenersi e a cui possono pienamente affidarsi.

v. 6. Questa parola della verità del Vangelo è giunta alla comunità di Colossi, lì è rimasta e si è conquistata una salda posizione nella vita della comunità. C’è un accenno al carattere ecumenico dell’annuncio: in tutto il mondo il Vangelo porta frutto e dispiega la sua crescita. Non è la persona del messaggero, non è la sua abilità nel porgere che ha la parte determinante nella propagazione e nel dispiegamento del Vangelo. Ma è Dio stesso ad essere in azione, riempiendo tutta la terra del lieto annuncio.

In connessione col ringraziamento introduttivo Paolo incita nuovamente la comunità a ricercare la retta conoscenza. Con ciò si indica alla comunità come possa smascherare e ripudiare la falsa dottrina. In 3,10 ritornerà il concetto della conoscenza per sottolineare con energia che la retta conoscenza deve manifestarsi nel comportamento dell’uomo nuovo.

v. 7. La comunità di Colossi ha ricevuto l’annuncio del Vangelo da Epafra. Paolo richiama alla comunità il ricordo di ciò che ha appreso da Epafra; solo così essa sarà adeguatamente collegata all’ammaestramento nella retta dottrina che essa ha accolto e nella quale deve stabilmente permanere.

Epafra è garante che la comunità è stata istruita nella retta fede. Egli e Paolo sono servitori che Dio ha scelto e stabilito per il suo servizio. Colui che Dio ha stabilito come suo servitore non deve presentare i propri pensieri e le sue riflessioni personali, ma trasmettere esclusivamente l’annuncio che gli è stato affidato.

v. 8. Epafra ha trasmesso a Paolo notizie sull’andamento e sulla condotta della comunità. L’amore, operato dallo Spirito, riempie la vita della comunità e la rende atta a un aiuto concreto nei confronti degli altri cristiani. La bella immagine della vita dei cristiani che ne risulta, esprime anche il dovere di esercitare anche in avvenire la fede e l’amore, di tenere gli occhi fissi ai beni della speranza già custoditi nei cieli, di rimanere saldi, senza sviamenti, nel Vangelo annunciato dagli apostoli, come fu appreso fin dall’inizio.

 

Preghiera di intercessione
(1,9-11)

9Perciò anche noi, da quando abbiamo saputo questo, non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate una conoscenza piena della sua volontà con ogni sapienza e intelligenza spirituale, 10perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio; 11rafforzandovi con ogni energia secondo la potenza della sua gloria, per poter essere forti e pazienti in tutto;

v. 9. Da quando Paolo ha avuto notizie sullo stato della comunità, tra lui ed essa si è stabilito uno stretto legame. Egli prega per essa senza interruzione e con fervore. La preghiera è presentata come un essere riempiti, che Dio solo può operare. La conoscenza, richiesta per la comunità, non mira a scoprire mondi superiori, ma a conoscere la volontà di Dio. La volontà di Dio esige ubbidienza e deve essere eseguita nei fatti. Solo chi compie la volontà del Padre celeste troverà accesso al regno di Dio (Mt 7,21). La conoscenza, la speranza e l’intelligenza ricevono la loro specificazione cristiana da questo orientamento pratico che si contrappone a una concezione speculativa della sapienza. Ai credenti è stato partecipato, in larga misura, lo spirito dell’intelligenza spirituale (2,2), cioè la conoscenza del mistero di Cristo, nel quale sono racchiusi tutti i tesori della sapienza e della scienza (2,2-3).

La sapienza e l’intelligenza spirituali non sono virtù che l’uomo è in grado di conseguire con le proprie forze. Esse sono date da Dio come doni dello Spirito.

v. 10. La retta conoscenza deve tradursi in una retta condotta. In questa lettera, senza spendere neppure una parola sulla relazione della fede con le opere, è espressa l’ammonizione che la comunità cristiana deve dimostrare la sua crescita e la sua maturità mediante le opere buone.

v. 11. Per poter mantenere una condotta degna del Signore la comunità deve essere ripiena della forza di Dio. La potente forza di Dio rende atta la comunità ad ogni pazienza e longaminità. La upomonè (= pazienza) è la perseveranza incrollabile che si deve dimostrare in battaglia dove la posizione occupata deve essere tenuta contro qualsiasi attacco nemico.

La makrothumìa (= avere il cuore grande) riguarda il rapporto col prossimo e richiama la longanimità con cui si deve attendere pazientemente.

Perciò upomonè e makrothumìa indicano l’attegiamento fedele del cristiano che non si lascia smuovere per nessun motivo dalla speranza e che non si stanca di amare.

 

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28/11/2011 12:10
 
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PRIMA PARTE DIDATTICA

IL DOMINIO DI CRISTO SUL MONDO

Osanna e inno
(1,12-20)

12ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce.
13È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, 14per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. 15Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; 16poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. 17Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui.
18Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. 19Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza 20e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

Senza soluzione di continuità, la preghiera d’intercessione passa in un invito di lode. La comunità dei credenti viene invitata a glorificare Dio con la lode, mentre le si ricorda l’azione salvifica di Dio. I vv. 12-14 sono premessi all’inno a Cristo come una specie di introito, con cui si introduce il solenne inno cantato dalla comunità.

L’autore della lettera ha preso questo inno, evidentemente noto alla comunità dell’Asia minore, come punto di partenza della sua argomentazione, per convincere la comunità che Cristo ha il dominio su tutto l’universo, che egli è il capo del suo corpo, cioè della Chiesa.

Chi appartiene a questo Signore, ha ricevuto il perdono dei peccati, e in questo modo è sottratto alla dominazione opprimente delle potenze cosmiche ed è con lui risorto a vita nuova.

v. 12. Il canto va intonato con gioia. Quale frutto dello Spirito (Gal 5,22) la gioia riempie la vita della comunità e si esprime nella esultanza, in cui Dio è ringraziato perché ha realizzato le sue promesse e ha portato a compimento la salvezza (At 2,46). Il Padre è lodato perché ha operato la salvezza e la liberazione in Cristo.

I santi, alla cui sorte partecipa la comunità cristiana, sono gli angeli. La luce indica l’ambito in cui l’azione di Dio ha collocato i suoi. Già da ora Dio, nella sua imperscrutabile misericordia, ha reso i suoi capaci di condividere coi santi l’eredità celeste e di camminare nella luce.

V. 13. Ma la partecipazione all’eredità dei santi nella luce significa che Dio ci ha liberati dal dominio della tenebra e ci ha collocati nel regno del suo diletto Figlio. Contrapponendo luce e tenebra, la professione di fede della comunità cristiana proclama che è avvenuto quello scambio di potere che ha determinato profondamente la vita dei credenti. Come un re potente può strappare popolazioni dai loro luoghi di origine e trapiantarle in altri ambienti, così Dio ha sottratto la comunità al potere delle tenebre e l’ha collocata nel regno del suo Figlio diletto. Il regno di Dio, in cui i credenti sono collocati, procura ad essi la salvezza qui e adesso. Infatti essi sono già risorti con Cristo (2,12), risuscitati con lui a nuova vita (3,1-2). L’evento in cui si è effettuato lo scambio della potestà è il battesimo.

v. 14. La redenzione è la remissione dei peccati. Paolo intende il peccato come una potenza che fa il suo ingresso nel mondo con la colpa di Adamo (Rm 5,12) e da allora esercita il suo prepotente dominio sugli uomini. Ma nella croce di Cristo il suo dominio è infranto (Rm 8,3); infatti egli è diventato peccato per noi, affinché divenissimo in lui giustizia di Dio (2Cor 5,21). La remissione dei peccati è accordata nel battesimo (At 2,38). Di conseguenza l’invito alla lode contiene un chiaro riferimento al battesimo. In tal modo si indica anche in quale senso deve essere inteso l’inno che segue. A tutte le speculazioni sulla conoscenza di mondi superiori si oppone che non c’è nulla che possa superare o completare la remissione dei peccati. Infatti il regno di Dio è la dove c’è la remissione dei peccati; e con questa tutto è realmente dato, vita e beatitudine.

v. 15. Dio è invisibile (Rm 1,20; 1Tm 1,17; At 14,17; ecc.). Ma si è manifestato nella sua immagine che è il Cristo. Quale immagine del Dio invisibile, Cristo non è nel numero delle cose create, ma fa tutt’uno con il Creatore, il quale in Cristo agisce nel mondo e col mondo.

Chiamando "primogenito di ogni creatura" il Cristo preesistente, non si afferma che egli sia stato creato per primo e che così abbia dato inizio alla serie delle cose create, ma che egli ha la preminenza su tutte le creature. Egli è il Signore del creato.

v. 16. Tutto il creato deve la sua esistenza al Cristo preesistente. Tutto è stato creato per mezzo di lui. La pienezza di ciò che si intende con "tutte le cose" è precisata con l’aggiunta: tutto ciò che è nei cieli e sulla terra. Nulla è escluso, tutto è compreso, le cose visibili e quelle invisibili. Anche le forze e le potenze cosmiche sono state create in lui. Tutto ciò che si trova nel cosmo è creato in Cristo. Perciò egli è il Signore delle forze e delle potenze. Tutto è creato per lui. In questa espressione sono compendiati gli enunciati sull’origine della creazione, ma ne è anche indicato lo scopo, che non è nient’altro che Cristo. Tutto è finalizzato a Cristo.

v. 17. Egli è pro pànton, il che significa che egli, quale Preesistente, è il Signore di tutto l’universo. Il cosmo non solo è creato in lui e per mezzo di lui, ma ha anche la sua sussistenza in lui solo. Tutto ciò che esiste ha in lui solo la sua consistenza, perché lui è il Signore, il Capo del corpo, ossia di tutto il cosmo.

v. 18. Se le parole "cioè della chiesa" si considerano una glossa, allora, in connessione con la prima strofa, il concetto di "corpo" va inteso nel senso cosmologico, come abbiamo detto nel v. precedente. La concezione del cosmo equiparabile a un corpo vivente è molto diffusa nel pensiero della filosofia greca. Con la concezione del cosmo come corpo e del capo sovrapposto ad esso si dà risposta alla ricerca degli uomini che, preoccupati e impauriti di fronte alle forze del mondo, si chiedono come il mondo possa essere ricondotto al suo retto ordine: Cristo è la testa sotto cui sta il corpo del cosmo, dalla quale è guidato e tenuto unito. Solo in lui il cosmo trova base e consistenza; in altre parole, solo in lui c’è salvezza. "Cristo è quindi la risposta alla ricerca del principio che regge il mondo e lo conduce a unità, cioè, per gli ellenisti, la risposta alla ricerca della salvezza" (Schweizer). Ma ora questa enunciazione del corpo cosmico viene sottoposta dall’autore della lettera a un’interpretazione mediante la quale il concetto di "corpo" viene determinato e storicamente inteso come "la chiesa". Il Signore glorificato esercita, qui e adesso, un potere su tutto il mondo, come capo del suo corpo, che è la chiesa. La lettera dà al pensiero cosmologico ellenistico un orientamento nuovo, presentando la chiesa come il luogo in cui Cristo esercita presentemente il suo dominio sul cosmo. Cristo è il Signore dell’universo (2,10.19), ma il suo corpo è la chiesa. Cristo è il principio in quanto è il "primo nato dai morti", il primo risuscitato, e mediante lui si è prodotto l’evento escatologico, l’inizio del mondo nuovo e definitivo: quello della risurrezione. In quanto primo risorto dai morti, egli è il primogenito che garantisce la futura risurrezione dei morti (1Cor 15,20.23). Proprio perché Cristo è l’inizio e il primogenito, egli è il primo in tutto. A lui compete il primo posto nell’universo.

vv. 19-20. In Cristo abita la pienezza divina nella sua totalità (2,9). La comunità cristiana ha assunto il vocabolo plèroma dall’ambiente ellenistico, per parlare della pienezza di Dio, che decise di abitare nell’uno, che è Gesù Cristo. "In lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità" (2,9). In lui e per mezzo di lui Dio opera la riconciliazione. Con ciò si presuppone che l’unità e l’armonia del cosmo abbiano sofferto un sensibile turbamento, anzi una rottura. Fu quindi necessaria la riconciliazione che fu compiuta dall’evento di Cristo, per ristabilire l’ordine cosmico. Dio stesso per mezzo di Cristo ha compiuto quest’opera di riconciliazione. L’universo è stato rappacificato in quanto, mediante la risurrezione e l’elevazione di Cristo, cielo e terra sono stati riportati nel loro ordine stabilito dalla creazione di Dio. Ora l’universo sta nuovamente sotto il suo capo, e si è ristabilita così la pace cosmica. Questa pace, fondata da Dio mediante Cristo, ricompone in unità l’universo e mantiene salda la reintegrata creazione nella riconciliazione con Dio. Non solamente alla fine dei tempi, come è nell’aspettativa apocalittica, ma già fin d’ora la pace è entrata nell’universo e si è compiuta l’opera cosmica della redenzione (Fil 2,10-11). Quale rappacificatore del cosmo, Cristo ha assunto la sua signoria.

Poiché è il mediatore della riconciliazione, è, per ciò stesso, celebrato come mediatore della creazione, come il Signore al di sopra dell’universo, al di sopra delle forze e delle potenze. Il ragionamento di Paolo è questo: Chi appartiene a questo Signore è liberato dalla schiavitù delle potenze e dalla forza coercitiva del destino. Per Paolo Cristo è il fine di tutte le vie e di tutti i piani di Dio. Così il punto di aggancio per il rapporto della creazione con Cristo è posto nella concezione del Redentore, il quale è lo scopo di tutta la storia. La pace cosmica è stata fondata nella morte di Gesù Cristo. Il luogo in cui è avvenuta la riconciliazione è la croce di Cristo. Poiché l’evento di Cristo riguarda il mondo intero, il Crocifisso e Risorto deve essere ugualmente proclamato ad ogni popolo come il Signore (1,24-29). Chi appartiene a questo Signore è "una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" (2Cor 5,17). Se nell’inno si pone in risalto il significato universale dell’evento di Cristo, mostrandone la dimensione cosmica e parlando della salvezza universale che abbraccia l’intero creato, con ciò non si attribuisce, in alcun modo, particolare dignità e preminenza alle potenze e dominazioni. Quando si accenna a queste potenze, ciò si fa solo per proclamare il messaggio di Cristo, che è costituito capo e signore sopra ogni cosa. Agli uomini è aggiudicata la pace conseguita per mezzo di Cristo. Questa pace però agisce nell’ambito in cui Cristo domina sovrano qui e adesso: nella chiesa, suo corpo, di cui egli è il capo.

 

L’aggiudicazione e le esigenze della riconciliazione
(1,21-23)

21E anche voi, che un tempo eravate stranieri e nemici con la mente intenta alle opere cattive che facevate, 22ora egli vi ha riconciliati per mezzo della morte del suo corpo di carne, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili al suo cospetto: 23purché restiate fondati e fermi nella fede e non vi lasciate allontanare dalla speranza promessa nel vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunziato ad ogni creatura sotto il cielo e di cui io, Paolo, sono diventato ministro.

Con le parole "anche voi" si riprende il discorso per dire alla comunità che il messaggio della riconciliazione, riguardante il mondo intero, vale anche per essa. La riconciliazione si compie mediante la morte di Cristo, "nel suo corpo di carne, mediante la morte" (v.22). Ma il dono della riconciliazione include l’esigenza di rimanere saldi nella fede e di non lasciarsi distogliere dalla "speranza del Vangelo" (v.23).

v. 21. La comunità cristiana è presentata come la mèta a cui è diretto l’evento che abbraccia cielo e terra: condurre alla riconciliazione quelli che erano lontani e nemici di Dio, attrarli e collocarli sul saldo fondamento della fede e della speranza. Il tempo della perdizione è terminato con la mirabile azione di Dio e quindi ne consegue che il passato non ha più valore.

Essere estranei a Dio significa: non servirlo, adorare divinità e idoli stranieri. La lontananza da Dio comporta necessariamente che tutto l’operare degli uomini sia malvagio.

Perciò il giudaismo considera tutti i pagani immersi nella corruzione morale. Infatti l’avversione a Dio si esprime necessariamente in opere malvage (Rm 1,18-32).

v. 22. Sul buio del passato risalta tanto più luminoso il presente: "ora egli vi ha riconciliati". L’azione di Dio ha fatto spuntare la nuova èra, ha riconciliato la comunità. Perciò il passato è stato cancellato e vige soltanto il presente, segnato dalla riconciliazione (Rm 3,21). Essa è avvenuta mediante la morte di Cristo, che egli ha subìto "nel suo corpo di carne". Con l’aggiunta "di carne" il corpo è descritto come l’organismo fisico soggetto al dolore (cfr. 2,11). In tal modo il corpo di Cristo offerto alla morte è chiaramente distinto dalla chiesa, che è il corpo del Signore glorificato.

Poiché è stato uomo come noi, ha sperimentato nel suo corpo l’amarezza della morte. Ma con questa morte Dio ha operato la riconciliazione (Rm 8,3) e in questo modo è stato tolto di mezzo ciò che esisteva prima ed è subentrato l’"adesso".

L’aggiudicazione della riconciliazione divina include l’esigenza del mutamento di vita dei riconciliati. Dio ha compiuto la riconciliazione allo scopo di "farvi apparire santi e senza macchia e irreprensibili davanti a lui". Àghios e Àmomos (= santo e senza macchia) si adoperano nella lingua della liturgia per designare un animale senza macchia, messo a parte per Dio, per essergli sacrificato (Eb 9,14; 1Pt 1,19). Parastesai (= farvi comparire) è usato nel linguaggio giuridico nel senso di "presentare uno in tribunale". Noi tutti dovremo comparire davanti al tribunale di Dio (Rm 14,10), perché egli pronunci su di noi la sua sentenza (Rm 8,33-34). L’opera di riconciliazione di Dio fa in modo che i riconciliati mediante la morte di Cristo stiano davanti a lui irreprensibili.

Con l’espressione "al suo cospetto" non si pensa soltanto o soprattutto al giorno del giudizio finale, quanto piuttosto alla vita attuale del cristiano che si realizza al cospetto di Dio e viene vissuta in maniera santa, immacolata e irreprensibile. L’azione riconciliatrice di Dio ha già tutto operato; perciò la perfezione non deve essere conseguita con le proprie forze, ma deve essere accolta come grazia di Dio.

v. 23. La sola condizione che deve essere osservata, perché determinante di tutto, è questa: perseverare nella fede. Con la fede è posto il fondamento della condizione del cristiano (1,4), al quale occorre attenersi saldamente. Allora la vita della comunità sorgerà su solide fondamenta.

Come una casa è salda solo se è costruita sulla roccia (Mt 7,24-27), così la comunità, come edificio di Dio, è sorretta dal fondamento che le conferisce una saldezza incrollabile (1Cor 3,10-11; Ef 2,20; 2Tm 2,19). Come nell’inno introduttivo di ringraziamento, anche qui, accanto alla fede viene collocata la speranza come genuino contenuto del Vangelo (1,5). Anche qui la speranza è concepita come il bene sperato di cui si parla nel Vangelo. Il Cristo predicato in ogni luogo è la "speranza della gloria" (1,27), e la speranza, quale salvezza predicata, permea già il presente.

La salvezza di cui la comunità ha avuto notizia nella parola del Vangelo è predicata ad ogni creatura che è sotto il cielo. La vastità cosmica dell’evento di Cristo, sviluppata nell’inno, viene così riferita al Vangelo destinato a tutto il mondo. Poiché Cristo è il Signore al di sopra di tutto, l’annuncio gioioso deve risuonare nel mondo intero. Quando si dice che il Vangelo deve essere predicato ad ogni creatura (Mc 16,15-16) si intende a tutta l’umanità.

Questo lieto annuncio è il Vangelo insegnato da Paolo, di cui egli è servitore. La definizione di Paolo come "diacono del Vangelo" mette in risalto che compete al ministero apostolico una funzione fondamentale per la chiesa. In tal modo si stabilisce un aggancio con il brano che segue. La chiesa vive della predicazione apostolica ed è, così, vincolata all’ufficio apostolico.

 

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28/11/2011 12:11
 
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Ufficio e compito dell’apostolo
(1,24-2,5)

24Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. 25Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, 26cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, 27ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. 28È lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. 29Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza.

1Voglio infatti che sappiate quale dura lotta io devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti coloro che non mi hanno mai visto di persona, 2perché i loro cuori vengano consolati e così, strettamente congiunti nell’amore, essi acquistino in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza, e giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, 3nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza. 4Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti, 5perché, anche se sono lontano con il corpo, sono tra voi con lo spirito e gioisco al vedere la vostra condotta ordinata e la saldezza della vostra fede in Cristo.

Affermando che l’apostolo è il servitore del Vangelo (1,23), Paolo ha posto la premessa per il passaggio alla sezione seguente. In questa pericope si delinea l’importanza dell’apostolo per tutta la chiesa. La sua sofferenza torna a profitto del corpo di Cristo, cioè della chiesa, in favore della quale egli esercita l’ufficio affidatogli da Dio (1,24-25). Il mistero affidato al ministero è la proclamazione pubblica del mistero ormai svelato, del Cristo predicato ai popoli (1,26-27). Perciò Paolo mette ogni impegno nell’ammaestrare ogni uomo (1,28-29); il suo mandato universale vale perciò anche per la comunità di Colossi e di Laodicea (2,1-5).

v. 24. La sofferenza di Paolo non si contrappone al messaggio gioioso annunciato ad ogni creatura sotto il cielo (1,23). Al contrario, il dolore ricolma l’apostolo di gioia, perché lo sopporta per i cristiani. La frase: "supplisco nella mia carne a ciò che manca delle tribolazioni del Cristo" non può in alcun modo essere intesa come se nel dolore vicario di Cristo mancasse qualcosa a cui Paolo dovrebbe sopperire. Paolo e tutti gli altri testimoni del NT sostengono unanimemente che nella morte di Cristo la riconciliazione è avvenuta veramente e definitivamente e non occorre alcun completamento. La lettera ai colossesi insegna che Cristo ha cancellato i peccati con la sua morte e risurrezione (2,13-14). Gesù ha sofferto per stabilire il regno di Dio e tutti coloro che condividono la sua opera devono condividere le sue sofferenze. Paolo non pretende certamente di aggiungere qualcosa al valore propriamente redentivo della croce, a cui non manca nulla; ma si associa alle prove di Gesù, cioè alle sue tribolazioni apostoliche (2Cor 1,5; Fil 1,20). Queste prove dell’era messianica (Mt 24,8; At 14,22; 1Tm 4,1) comportano una misura prevista dal piano divino e che Paolo si sente chiamato a colmare per la sua parte.

v. 25. La grazia di Dio ha chiamato Paolo e si mostra operante nel suo servizio. Il compito del suo ufficio è di "adempiere la parola di Dio", cioè eseguire la volontà e l’ordine di Dio. La parola di Dio sarà adempiuta quando verrà proclamata in tutti i luoghi e annunciata a tutte le creature che stanno sotto il cielo (1,23).

v. 26. Il messaggio affidato a Paolo è ora meglio precisato col termine mystèrion. Ciò che esisteva dall’eternità nel disegno di Dio, ma la cui conoscenza non era accessibile agli angeli e agli uomini, ora è manifestato e annunciato (1Cor 2,7-8). E poiché la rivelazione del mistero riguarda il mondo intero, essa avviene nella proclamazione del Vangelo a tutti i popoli (1Tm 3,16).

Mystèrion corrisponde al vocabolo ebraico raz che designa la volontà escatologica di Dio, la rivelazione della conoscenza del suo piano. Il mistero di cui dà testimonianza l’annuncio cristiano non riguarda l’evento futuro, che è segretamente nascosto nel piano di Dio, ma l’opera che Dio ha già attuata. Ciò che era rimasto nascosto dall’eternità, ora è svelato e proclamato, nella parola predicata, a tutte le genti (Rm 16,25-26). Ciò che da tempi e da generazioni innumerevoli era tenuto chiuso, viene ora aperto (Ef 3,4-5). I santi a cui viene rivelato il mistero non sono gli angeli, né una stretta cerchia di carismatici, ma i credenti, "ai santi, fedeli fratelli in Cristo" (v. 2). La magnifica ricchezza del mistero che Dio volle rivelarci e che viene annunciato tra i popoli è indicato con le semplici parole "Cristo in voi (tra di voi), speranza della gloria". Non si tratta di una pluralità di misteri, come nell’apocalittica giudaica, ma di un solo mistero: Cristo, speranza della gloria. La speranza riguarda la gloria, che diviene visibile nel tempo del compimento (3,4); Cristo solo è il suo fondamento e il suo contenuto.

v. 28. L’annuncio, proclamato in tutti i luoghi, che Cristo è il Signore, è chiarito e sviluppato nell’insegnamento esortativo. "Ammonendo e istruendo" connotano l’insegnamento intensivo nella cura dei fedeli e l’istruzione. Secondo 3,16 è compito di tutta la comunità istruirsi ed esortarsi a vicenda. L’apostolo ha intrapreso ovunque questo insegnamento, sforzandosi di istruire tutti in questa dottrina. Tre volte è indicato come destinatario dell’esortazione apostolica "ogni uomo", per mettere in evidenza il carattere universale del messaggio apostolico che viene diffuso in tutto il mondo. Il fine dell’istruzione è "presentare ogni uomo perfetto in Cristo". La sapienza e la perfezione consistono nel compimento obbediente della volontà di Dio: "affinché siate perfetti e totalmente ripieni di ogni volere di Dio" (4,12). L’esigenza del "siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48) è adempiuta quando viene fatta la volontà di Dio. Chi appartiene al Cristo risorto e segue il suo comando arriverà ad essere perfetto in Cristo.

v. 29. Paolo si affatica nel trasmettere questo messaggio. La forza di Dio si manifesta efficace nell’opera del suo inviato. Solo così l’apostolo si sente capace di sopportare gli sforzi che tale missione richiede.

2,1. Le comunità cristiane di Colossi e di Laodicea stanno in contatto stretto tra di loro e sono esortate a scambiarsi le lettere apostoliche ad esse inviate (4,16).

Il grave pericolo da cui la lettera ai colossesi vorrebbe mettere in guardia (2,6-23) minaccia anche le altre comunità cristiane della regione. Benché Paolo non conosca personalmente i cristiani di Colossi e di Laodicea, tuttavia si sente responsabile anche di loro e in comunione con essi.

v. 2. La dedizione dell’apostolo a sostegno della comunità riempie il cuore dei cristiani di conforto. Con la parola agàpe viene indicato ciò che conferisce stabilità a questa coesione. L’intima coesione di tutta la comunità è fondata, mantenuta e rafforzata dall’amore, che è il vincolo della perfezione. In questa unità la comunità deve giungere "ad ogni ricchezza della pienezza della comprensione, alla conoscenza del mistero di Dio: Cristo". Cristo annunciato alle genti è il contenuto del mistero di Dio.

v. 3. La retta conoscenza della comunità dipende solo del suo legame con Cristo. Solo in lui sono fondate la sapienza e la conoscenza. Perciò sarebbe erroneo cercare fuori di Cristo o accanto a Cristo altre fonti di conoscenza: "Tutti i tesori della sapienza e della conoscenza si trovano nascosti in Cristo". Come l’indizio di un tesoro nascosto spinge a fare di tutto per trovarlo, così anche qui risuona l’invito a cercare l’unico luogo nel quale si possono trovare tutti i tesori della sapienza e della conoscenza.

Il mistero nascosto dall’eternità è ora rivelato ai santi di Dio (1,26) e viene fatto conoscere nella misura in cui Cristo è annunciato alle genti (1,27).

v. 4. Ciò che è stato detto mira soprattutto ad evitare che la comunità presti ascolto alle parole dei seduttori.

V. 5. Il pericolo non va sottovalutato. Paolo è lontano e non può essere accanto alla comunità per parlarle direttamente. Ma, benché assente con il corpo, è presente con lo spirito. Questo spirito, è l’io individuale di Paolo al quale è unito lo Spirito di Dio che gli dona la forza di unirsi alla comunità per un’azione comune. In questa unione egli si rallegra di vedere che nella comunità tutto è rivolto al bene. Tàxis è la situazione ben ordinata che la comunità presenta. Sterèoma è la saldezza, la robustezza che sorregge la fede della comunità. La fede della comunità è saldamente fondata perché è orientata unicamente a Cristo. Se la comunità si tiene stretta a lui, nessuna tentazione può realmente minacciarla: essa persevera forte e salda nella fede. Per poter smascherare e rigettare la nuova dottrina proposta dagli eretici, è necessaria la conoscenza del Vangelo proclamato da Paolo. Su questo Vangelo è posta la base sulla quale è possibile condurre la disputa contro la falsa predicazione. Il Vangelo predicato dall’apostolo costituisce la norma su cui va misurato ogni altro discorso.

 

Cristo Gesù Signore
(2,6-15)

6Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, 7ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie. 8Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.

Una comunità che è consapevole di essere legata al Vangelo apostolico è in grado di distinguere la retta tradizione dalla dottrina falsa. Perciò, prima di mettere in guardia contro la falsa filosofia, Paolo esorta nuovamente i colossesi alla perseveranza nella dottrina ricevuta e nella fede incrollabile (2,6-7). Ma poi viene esposta alla comunità l’alternativa che esige da essa una chiara e univoca decisione: o l’inganno della filosofia secondo gli elementi cosmici che sono le forze demoniache che vogliono esercitare il loro potere coercitivo sugli uomini (2,10.15) o Cristo. Con un richiamo all’inno (1,15-20) Cristo è annunciato come Signore al di sopra di tutte le dominazioni e le potestà (2,9-10). La comunità di Colossi è da lungo tempo congiunta a Cristo e perciò la decisione è già avvenuta: la loro appartenenza a Cristo è fondata nel battesimo (2,11-12). Col v.13 si cambia soggetto. Ora si parla dell’azione di Dio che fa partecipi i battezzati alla vittoria di Cristo (2,13-15).

v. 6. La comunità deve attenersi fermamente al Vangelo, così come l’ha ricevuto. Il contenuto di ciò che è stato comunicato alla comunità nella tradizione apostolica è qui espresso con le parole "Gesù Cristo il Signore". Gesù Cristo è il Signore significa che egli non è un signore tra altri signori, ma il Signore (1Cor 8,5-6).

v. 7. La condotta della comunità viene precisata in quattro participi: radicati in lui, costruiti su di lui, rafforzati nella fede, abbondanti in rendimento di grazie. Solido fondamento è solo Gesù Cristo, il Signore. Chi è radicato in lui non crollerà. La comunità troverà saldezza nella retta fede in cui è stata istruita. Con ciò è fortemente sottolineata l’importanza dell’istruzione religiosa. Solo la fede che corrisponde all’insegnamento apostolico dona quella saldezza che può sfidare tutti gli attacchi (1,28).

v. 8. È necessario che la comunità stia attenta a non lasciarsi accalappiare da coloro che vogliono sostituire il Vangelo di Cristo con la filosofia umana. Con il termine "filosofia", in questa lettera, si intende la conoscenza del fondamento dell’essenza divina del mondo, ottenuta per mezzo di una rivelazione arcana. Ad essi Paolo obietta che la loro cosiddetta filosofia è vuota e senza contenuto, in realtà non è altro che "vuoto inganno". La comunità è chiamata a scegliere tra la tradizione apostolica e la tradizione filosofica. Il contenuto delle due tradizioni è sintetizzato nell’espressione: "secondo gli elementi del mondo" e "secondo Cristo".

Stoichèia tou kosmou (= elementi del cosmo), nella lettera ai colossesi, sono entità personali, forze demoniache che vogliono esercitare il loro potere coercitivo sugli uomini (2,10.15). A questa dottrina, secondo cui gli "elementi del cosmo" determinano la vita degli uomini, e quindi bisogna riconoscere la loro pretesa potenza (2,16-23), viene contrapposta la chiara antitesi: solo Cristo è il Signore su tutto e quindi l’unico Signore sulla vita e sul comportamento della comunità. La comunità perciò non deve lasciarsi indurre a riconoscere altre autorità accanto a lui.

v. 9. L’invito a seguire Cristo senza tentennamenti è ora motivato con la ripresa dell’espressione "in lui" che nei versetti seguenti viene ripetuta come motivo dominante: in lui dimora corporalmente la pienezza della divinità (v.9); in lui siete ricolmi (v.10); in lui siete stati circoncisi (v.11); con lui siete stati sepolti, in lui siete anche tutti risuscitati (v. 12); Dio vi ha reso viventi con lui (v.13); egli ha condotto schiavi in lui, in corteo trionfale, i principati e le potestà (v.15).

All’inizio di questo ragionamento viene stabilito: "Poiché in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità". Alle domande che ogni uomo si pone: Dove trovo la pienezza e come poter essere pervaso di forza divina, la lettera risponde con un’affermazione polemica: tutta la pienezza della divinità dimora in Cristo. Perciò può divenirne pieno solo colui che appartiene a questo Signore, che è in lui, con il quale è morto e risuscitato a nuova vita. Somatikòs (= corporalmente) precisa la realtà dell’inabitazione divina. "Somatikòs designa dunque qui la corporeità, in cui Dio incontra l’uomo nel mondo in cui vive. Designa quindi propriamente la piena umanità di Gesù, non invece una umanità che sia semplice involucro della divinità" (E. Schweizer). Poiché in Cristo tutta la pienezza della divinità dimora corporalmente, egli è "il capo di ogni principato e potestà" (v. 10), il capo del corpo che è la chiesa" (1,18). Dunque chi è trasferito nel suo regno, è liberato dalle potenze che dominano il mondo e vogliono piegare l’uomo al loro giogo di schiavitù.

v. 10. Segue perciò un’immediata conclusione: "È solo in lui che voi avrete parte della pienezza". I cristiani sono ricolmi dei doni divini solo vivendo in Cristo.

v. 11. Si prosegue dicendo: "Voi siete uniti con Cristo, da tempo, mediante il battesimo". Il battesimo è qui chiamato "circoncisione non fatta da mano d’uomo", la circoncisione di Cristo. L’attributo "non fatta da mano di uomo", col quale si qualifica la circoncisione compiuta sui battezzati, avverte che quel che avviene nel battesimo è opera di Dio. "Deporre l’uomo carnale" non significa in alcun modo disprezzare la vita terrena, ma vivere nell’obbedienza al Signore: "Spogliatevi dell’uomo vecchio con le sue opere, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che viene rinnovato per la conoscenza, ad immagine di colui che l’ha creato, dove non c’è più né greco né giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero; ma tutto e in tutti è Cristo" (3,9-10). Questa retta circoncisione, che si distingue radicalmente sia dalle pratiche dei "filosofi" sia dal rito giudaico, è la "circoncisione di Cristo". Per l’uso traslato del termine "circoncisione" bisogna confrontare le espressioni profetiche sulla circoncisione del cuore (Ger 4,4; 6,10; 9,25).

v. 12. La circoncisione in Cristo che ogni cristiano ha sperimentato su se stesso, non è altro che l’essere battezzato nella morte e nella risurrezione di Cristo. Nel battesimo siamo morti e sepolti con Cristo, per cui la vecchia vita è cessata. In Rm 6 Paolo dimostra che, conseguentemente, per noi è diventato impossibile vivere ancora in potere del peccato. Il vecchio uomo è stato ormai crocifisso con Cristo (Rm 6,6). Come nel Kerigma l’accenno al sepolcro sottolinea la realtà della morte di Gesù Cristo (1Cor 15,4), così qui è ribadito che nel battesimo è avvenuta una morte reale: "Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte" (Rm 6,4). Come in Rm 6, così anche nella lettera ai colossesi, si dice che siamo morti con Cristo nel battesimo. Ma a differenza di Rm 6, e in apparente contrasto con Rm 6,4-5, si dice che la risurrezione è effettivamente già avvenuta nel battesimo: "Voi siete risorti con lui". Ciò che avverrà in futuro, in questa lettera, non è quindi chiamato la risurrezione dei morti, ma la manifestazione della vita, partecipata nel battesimo e ancora avvolta nel mistero: "La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio" (3,3). L’intima appartenenza a Cristo è già realtà; essa ha già avuto il suo fondamento nel battesimo, nel quale il cristiano è stato inserito nella morte e risurrezione di Cristo.

Tuttavia la lettera ai colossesi è ben lontana nel cadere in un entusiasmo fanatico per lo slogan: "La risurrezione è già avvenuta" (2Tm 2,18). Perché risorgere con Cristo non significa altro che ricevere il perdono dei peccati (1,13-14; 2,13).

La nuova vita con Cristo è in realtà soltanto "mediante la fede nella potenza di Dio che ha risuscitato Cristo dai morti". Se la morte-risurrezione con Cristo del battezzato sono già realizzate - "sepolti con lui" (v.12) "vi ha fatto rivivere con lui" (v.13), "se siete risorti con Cristo" (3,3) -, la pienezza della vita in Cristo è futura: "Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria" (3,4).

In sintesi: La nostra partecipazione alla risurrezione di Cristo passa attraverso tre tappe: inizia nel battesimo, compie un grande passo al momento della morte, si manifesterà pienamente solo alla fine dei tempi: "Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna" (Gv 5,28-29).

v. 13. Il cambiamento del soggetto ci fa capire che c’è una ripresa del discorso: Dio ha reso viventi con lui voi che eravate morti. La ribellione compiuta nella permanente disubbidienza connota la vita di coloro che sono senza Cristo. Essi vivono nella incirconcisione della loro carne, cioè sono pagani e atei.

Dove la "carne" dirige la vita, non ci può essere altro che peccati e morte. Ma ciò che era una volta, ora non ha più valore. L’incirconcisione, di cui Paolo fa ricordo agli etnico-cristiani, è stata eliminata dalla "circoncisione non fatta da mano d’uomo" (2,11). Nel battesimo è stato effettuato il passaggio dalla morte alla vita: Dio vi ha reso viventi con lui (2,12). I peccati, che, prima di Cristo e senza Cristo, facevano della vita una morte, sono perdonati senza eccezione. Dio ha annullato il debito e distrutto il documento su cui era registrato.

v. 14. Il chirografo, il documento scritto a mano che attesta i nostri debiti nei confronti di Dio, è la condizione di debitore in cui l’uomo si trova di fronte a Dio. Paolo afferma che Dio ha perdonato tutti i peccati e ha annullato il documento di obbligazione che era a nostro sfavore, così che non può più essere addotto a nostro carico. Dio non solo ha cancellato il debito, ma ha anche annullato il documento di obbligazione. La piena estinzione di questo documento debitorio è avvenuta quando Dio lo ha appeso alla croce. Poiché Cristo, che ha preso su di sé il peccato del mondo (Gv 1,29), fu appeso alla croce al nostro posto, il debito è definitivamente condonato. E in questo modo si chiarisce il precedente enunciato: grazie a Cristo, Dio ci ha perdonato tutti i peccati (v.13).

v. 15. Nella croce di Cristo, Dio non soltanto ha distrutto l’attestazione scritta della nostra colpa, ma ha anche trionfato sui principati e potestà. Dio ha mandato in rovina, nella croce di Cristo, le potestà e le dominazioni. Queste potenze sono vinte e quindi non possono nuocere a coloro che appartengono al vincitore. Nel corteo trionfale Dio conduce prigioniere queste potenze sconfitte, per rendere manifesta la grandezza della sua vittoria. Sono ormai potestà fiaccate, che non possono né aiutare l’uomo né esigere da lui culto e venerazione. Nel battesimo i cristiani sono trasferiti nel dominio del diletto Figlio di Dio. Perciò a loro non interessano più le potestà e le dominazioni; per essi vale soltanto Cristo, e nessuno e niente accanto a lui e fuori di lui.

 

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28/11/2011 12:12
 
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La fine delle prescrizioni
(2,16-23)

16Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: 17tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo! 18Nessuno v’impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale, 19senza essere stretto invece al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio. 20Se pertanto siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre, come se viveste ancora nel mondo, dei precetti quali 21"Non prendere, non gustare, non toccare"? 22Tutte cose destinate a scomparire con l’uso: sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini! 23Queste cose hanno una parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità e umiltà e austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la carne.

Non bisogna lasciarsi influenzare da coloro che vantano le proprie esperienze e, pieni di presunzione, vogliono emettere in giudizio sprezzante contro quelli che non tengono più in alcun conto disposizioni riguardanti il cibo, la bevanda, le feste, i noviluni, il sabato (vv. 16-19). Al contrario, chi è morto con Cristo è morto agli elementi del mondo. Perciò i loro "dogmi" e le loro ingiunzioni non lo riguardano più. Non è necessario che egli si affanni attorno alle prescrizioni che gli proibiscono questo e quello: le cose del mondo gli sono offerte come doni di Dio, per usarne in libertà (vv. 20-23).

Il brano, aspramente polemico, è tutto pervaso da allusioni alla dottrina e agli slogan della "filosofia". Colpo su colpo si staglia il ripudio dell’arrogante pretesa che i "filosofi" vorrebbero far prevalere nella comunità, e si delinea, coi loro stessi concetti, la vuotaggine della loro filosofia.

v. 16. La concezione che con l’ascesi e il digiuno l’uomo potesse servire la divinità, avvicinarsi ad essa e prepararsi a ricevere una rivelazione, era molto diffusa nel mondo antico. I motivi che inducono a tale condotta ascetica sono assai disparati. C’è chi si astiene dalla carne perché crede nella metempsicosi, altri seguono determinate idee sulla purità, altri sono guidati da una concezione dualistica del mondo che li spinge a una condotta ascetica. A questo punto i "filosofi" aggiungevano l’osservanza dei tempi sacri che vengono indicati con i termini "festa o novilunio o sabato", tre concetti che, nella medesima successione, anche nell’AT ripetutamente servono per designare i giorni riservati a Dio (Os 2,13; Ez 45,17; ecc.).

Ma il comando di osservare le festività, i noviluni e i sabati qui non trova la sua motivazione nella torà, secondo la quale il sabato è stato dato a Israele come segno della sua elezione di tra i popoli. Si desume invece che i giorni devono essere osservati a causa degli "elementi del cosmo" che guidano il corso delle stelle e che perciò prescrivono esattamente l’ordine del calendario.

In questo modo l’uomo è sottoposto, per nascita e per destino, agli elementi del cosmo e deve servirli nella mortificante osservanza di prescrizioni ascetiche riguardanti i cibi e nel rispetto di tempi particolari. I concetti desunti dalla tradizione giudaica, dei quali la filosofia si serve, sono stati quindi mescolati e alterati nel crogiolo sincretista e così posti al servizio degli elementi del cosmo e ormai sono destinati ad esprimere questo servizio.

Poiché le potenze angeliche vegliano sull’ordine del cosmo e sul corso delle stelle, si devono rispettare i tempi sacri di loro appartenenza e osservare le prescrizioni, redatte in una serie di tabù.

v. 17. Ma a questa pretesa di porre queste prescrizioni come elementi necessari alla salvezza, Paolo risponde che tutto ciò è soltanto "ombra delle cose future", ma la realtà vera e definitiva è Cristo. E poiché la realtà è soltanto Cristo, ne consegue che le apparenze umbratili hanno perduto qualsiasi diritto di esistere. Ma poiché la vera realtà, di fronte a cui le ombre devono cedere il passo, è indicata qui non con eikòn (= realtà), ma con sòma (= corpo), evidentemente l’autore della lettera ai colossesi si rifà a questo concetto: Cristo è il capo del corpo (= soma) cioè della chiesa. Perciò alla realtà, che è soltanto in Cristo, partecipa unicamente colui che, come membro del corpo di Cristo, aderisce al capo (2,19).

v. 18. La dottrina e la prassi cultuale della "filosofia" forniscono ai suoi seguaci il sentimento di una orgogliosa superiorità. I pensieri e i sentimenti di questi "filosofi" sono totalmente dominati dalla "carne". Ciò che con boria è chiamato "essere pieno", in verità non è altro che gonfia vuotaggine e immotivato senso di orgogliosa sovreminenza.

v. 19. L’alternativa "secondo gli elementi del cosmo" o "secondo Cristo" non lascia alcuna possibilità di compromesso. Chi aderisce alla "filosofia" non può, nello stesso tempo, aderire a Cristo quale capo al di sopra delle potestà e delle dominazioni. E ogni cristiano che pensi di potersi dedicare a quella dottrina deve rendersi conto che abbandona il capo, che è l’unico Signore. Nulla è più importante che appartenere fondamentalmente al capo. Poiché solo dal capo tutto il corpo riceve forza e vita. Il corpo, che dipende in tutto e per tutto dal capo, compie, sotto la sua direzione la crescita operata da Dio.

Cristo è il capo del corpo. Poiché egli è il capo al di sopra delle potestà e delle dominazioni (2,10), il cosmo trova sotto di lui, suo capo, la destinazione che gli è stata assegnata dalla creazione di Dio. Ma Paolo non si accontenta di questa asserzione. Egli precisa che il corpo, di cui Cristo è il capo, è la chiesa (1,18.24). Certo, Cristo è il capo del mondo, ma il suo corpo, a cui proviene dal capo vita e sviluppo, è la chiesa. Ciò significa che si può essere saldamente uniti al capo soltanto se si appartiene, come membro del corpo di Cristo, alla chiesa quale luogo del suo attuale dominio.

v. 20. Tutti quelli che sono morti in Cristo sono anche morti agli "elementi del cosmo". Il cristiano appartiene interamente al suo capo e qualunque altra persona o cosa non ha più potere su di lui. Certo, gli elementi cosmici esistono ancora, ma non devono e non possono più riguardare il cristiano (2,8). Egli è loro estraneo e da loro definitivamente separato. Quindi non deve lasciarsi imporre prescrizioni come se vivesse ancora sottomesso a queste realtà del mondo al quale è morto. Sarebbe una ricaduta nella schiavitù dalla quale Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi (Gal 4,3.8-9; 5,1).

v. 21. Queste prescrizioni contengono comandi rigorosi che non ammettono opposizione o obiezione alcuna. Questi dògmata (= prescrizioni) imponevano certi tabù riguardanti il toccamento di oggetti dichiarati impuri o di vivande vietate. Con la barriera eretta dal "non è lecito" viene definito il campo proibito all’asceta. Perciò egli deve osservare i divieti: Non prendere, non gustare, non toccare!

v. 22. Ma le cose esistono perché l’uomo se ne serva. Dio le ha destinate senza eccezione (pànta!) ad essere consumate dall’uomo. Perciò è giusto usarle e consumarle, invece di misconoscere, per un falso legalismo, i buoni doni di Dio. Ciò che questi maestri vogliono imporre sono unicamente prescrizioni e insegnamenti umani.

v. 23. Questa frase pare un rebus. Alcuni esegeti sono dell’opinione che la frase sia così malmessa per un’antica corruzione del testo, al punto da non consentire una sicura comprensione del contenuto.

"A comune giudizio questo versetto è considerato irreparabilmente oscuro, o perché il testo è corrotto o perché ne abbiamo perso il bandolo" (Moule). In sintesi: La prassi legalistica — anche e proprio quando esige un comportamento ascetico — conduce, alla fine, unicamente "all’appagamento della carne".

Mentre quella "filosofia" presume che mediante la venerazione degli angeli, la dedizione e l’ascesi (2,18), si possa giungere ad essere ripieni di forza divina, l’uomo rimane, in realtà, su questa strada di pietà e di prassi legalistiche, rinchiuso nel suo guscio, prigioniero della carne "vanamente tronfio del suo carnale intendimento" (2,18).

 

NOTA
La dottrina della "filosofia"

Dalle brevi citazioni e dalle parole-chiave che la lettera presenta si possono ricostruire, con una certa sicurezza, i lineamenti di questa dottrina che minaccia pericolosamente la comunità di Colossi. La "filosofia", per la quale si fa valere una venerata tradizione (2,8), consente retta conoscenza e visione. Questa conoscenza e visione riguardano gli "elementi del cosmo" (2,8.20) che sono presentati come potenze angeliche (2,18) e potestà cosmiche (2,10.15). Solo se si pone in retto rapporto con esse mediante un’ossequiosa venerazione, l’uomo può diventare partecipe della pienezza divina (2,10). Queste potenze angeliche sbarrano la strada che porta a Dio e lasciano libero il passaggio solo quando si presta loro il dovuto ossequio. L’uomo può essere riempito della pienezza di Dio soltanto se, nella venerazione degli angeli, si dimostra soggetto agli angeli e alle potestà. Egli si dimostra pronto a questo servizio prestando agli angeli venerazione cultuale e adempiendo ubbidientemente ciò che essi gli prescrivono. Egli si ritira dal mondo mediante una condotta ascetica (2,11.23), osserva i giorni e i tempi sacri stabiliti e segue le prescrizioni di non gustare e perfino di non toccare i cibi e le bevande a lui vietati (2,16.21). Così egli si comporta in conformità alle leggi, che come ordinamento del cosmo costituiscono anche il regolamento della vita umana, e si sottomette ad esse in umile prontezza al servizio. Questa dottrina, nella quale la conoscenza e la prassi legalistica sono strettamente interconnesse, dimostra un chiaro carattere sincretistico. Poiché le potenze cosmiche esercitano un dominio sul destino degli uomini, sono oggetto di venerazione. Sul cosmo regna l’unica divinità che, come plèroma (= pienezza), comprende in sé ogni cosa. I "filosofi" che propagandano questa prassi religiosa offrono una dottrina composta di elementi diversi, la quale per il rilievo dato alla conoscenza e per il giudizio negativo sul mondo, può essere qualificata come gnostica o, se si vuole essere più cauti nel giudizio, pregnostica. "La lettera ai colossesi non lascia dubbi che nella eresia di Colossi abbiamo a che fare con un genere di gnosi" (Bornkamm). "L’eresia colossese ha evidentemente questo in comune con lo gnosticismo, che essa rappresenta una specie di sincretismo tra il cristianesimo e una religiosità non cristiana della tarda antichità, di stampo speculativo" (Percy). A quei tempi si ammetteva comunemente che fosse lecito appartenere contemporaneamente a diverse comunità religiose; è quindi probabile che coloro che si mostravano aperti a questa dottrina ritenessero che anche per un cristiano fosse consigliabile non rifiutare la conoscenza che gli veniva offerta e non disdegnasse la forza ricolmante che gli era fornita dalla "filosofia". Sicuramente in questo modo non si voleva abbandonare la fede cristiana, ma assicurare ad essa un supplemento di protezione. Il perdono dei peccati concesso nel battesimo pareva loro che non desse sufficiente garanzia contro le potestà cosmiche e le potenze del destino. E quindi hanno cercato una sintesi rispondente al carattere sincretistico della "filosofia", con il considerare l’umile ossequio alle potenze angeliche come l’accesso a Cristo, che domina al di là delle potenze e delle potestà. A chi presta culto ad esse e segue le loro prescrizioni legali non solo è data sicurezza contro gli influssi dannosi che promanano da esse, ma, unicamente per questa via, viene anche dischiuso l’accesso alla pienezza divina. La conoscenza di questa sintesi tra la fede in Cristo e la venerazione degli elementi cosmici, dava ai suoi adepti la sensazione di aver conseguito la vera visione e di essere al di sopra degli altri cristiani.

La lettera ai colossesi con assoluta chiarezza dimostra alla comunità che una sintesi come questa va assolutamente esclusa. Chi aderisce alla "filosofia" ha smarrito Cristo. La decisione pone un aut aut: o "secondo gli elementi del cosmo" o "secondo Cristo" (2,8). Chi si dichiara pronto a inchinarsi servilmente agli elementi del cosmo, abbandona il capo, Cristo. Può anche illudersi di essersi elevato sugli altri mediante la conoscenza nuova acquisita, gonfiarsi e sputare sentenze dall’alto. In realtà ciò non è altro che "suo carnale intendimento" (2,18) che lo gonfia e lo insuperbisce. Quello che sembra dargli pienezza, si rivela, ben presto, come vuotaggine abissale e nullità interiore. Egli presta servizio alle ombre, che da tempo hanno dovuto recedere per la venuta della luce del Vangelo. In Cristo soltanto e non altrove abita "corporalmente tutta la pienezza della divinità" (2,9).

In lui solo si trova la pienezza, perché egli è il capo di ogni principato e potestà (2,10). Chi è stato battezzato in Cristo, chi è morto e risorto con lui (2,11-12.20) è per ciò stesso e per sempre morto agli elementi del cosmo, e quindi per lui non esiste più alcuna minaccia da parte delle potenze del destino, e gli elementi del cosmo non possono più rivendicare su di lui alcun diritto (2,20-21). Egli è liberato dalla necessità di accostarsi alle cose del mondo con quel timoroso riguardo che è richiesto dalle prescrizioni dei tabù.

I cibi e le bevande sono fatti per essere ingeriti e devono essere presi con riconoscenza quali doni di Dio.

A questa e a tutte le altre "filosofie" si contrappone un dato fondamento nella storia: il Cristo crocifisso, morto, risorto e glorificato è il Signore, accanto al quale non si possono più avere altri signori. Nella croce di Cristo Dio ha abrogato il chirografo della condanna che testimoniava contro di noi (2,14).

Dio ci ha perdonato tutti i peccati (2,13). Ma avere il perdono dei peccati significa anche essere liberi dalle potenze e potestà che nella croce di Cristo sono diventate oggetto di ludibrio e di ignominia (2,15). Chi è stato battezzato in Cristo è stato trasferito nell’ambito regale del diletto Figlio di Dio, che in qualità di Signore-Dio detiene il governo di tutto il mondo e la salvezza di coloro che gli appartengono.

Il cristiano ha ricevuto una libertà che lo abilita ad una vita nuova di obbedienza e di professione di fede. A ragione perciò si può dire: "Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose dell’alto, dove è Cristo, assiso alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose dell’alto, non a quelle che sono sulla terra" (3,1-2).

 

SECONDA PARTE PARENETICA

LA SIGNORIA DI CRISTO NELLA CONDOTTA DEI CREDENTI

Mirate alle cose dell’alto!
(3,1-4)

1Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; 2pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. 3Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! 4Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria.

Se fino a qui era stato detto che l’appartenenza al Cristo risorto e glorificato significa liberazione dalla schiavitù delle potestà e delle dominazioni, ora la nuova vita di coloro che sono risorti con Cristo viene descritta come una condotta obbediente che si attua nel dominio regale del Signore. In questo modo viene sviluppato ciò che nei primi due capitoli era già stato detto frequentemente e brevemente: la retta sapienza e la retta conoscenza si manifestano nell’adempimento della volontà di Dio (1,9-11). La riconciliazione ricevuta deve essere acquisita e conservata nella perseveranza nella fede e nell’incrollabile adesione alla speranza del Vangelo (1,21-23). "Come dunque avete ricevuto Gesù Cristo il Signore, in lui camminate" (2,6). Questa esortazione è ora concretizzata in considerazioni parenetiche. Il contenuto dei primi due capitoli della lettera è quindi strettamente connesso a quello dei due seguenti. All’inizio della parenesi si accenna quindi al battesimo come al fondamento della nuova vita e con ciò viene premessa una motivazione etica di stampo cristologico alle singole istruzioni. La vita con Cristo si attua con l’appartenenza totale al Signore e col seguirne i comandamenti.

v. 1. Il passaggio alla parenesi è segnato da un "dunque" con cui ci si collega al ragionamento fin qui sviluppato: voi siete stati risuscitati con Cristo ad una vita nuova. L’azione escatologica di Dio è già avvenuta, egli ci ha chiamati dalla morte alla vita. Dalla salvezza già concessa scaturisce l’appello ad appropriarsi di essa: "Cercate le cose di lassù". È necessario levare lo sguardo in alto per imprimere alla condotta dei cristiani una chiara direzione. Verso l’alto, cioè dove è Cristo innalzato da Dio e seduto alla sua destra. Pur nel mezzo di questo mondo i cristiani sono perciò già uniti al mondo celeste poiché il capo è lassù e i suoi aderiscono saldamente a lui in quanto sanno di essere liberi da tutto ciò che potrebbe attrarli verso il basso.

v. 2. Fronèin indica il pensare e l’aspirare da cui deve essere guidato l’agire. Esortando al pensare realistico è ripudiato qualsiasi fantasioso "entusiasmo". La retta conoscenza di Dio deve attuarsi nell’esame oggettivo di ciò che vale qui e adesso ed è conforme al suo comando. "Vera conoscenza significa sempre retta intelligenza anche riguardo alla situazione dell’uomo di fronte a Dio e verifica oggettiva e razionale di ciò che è buono, gradito e perfetto rispetto a Dio e al prossimo" (Bornkamm). Questo pensare è guidato da una "trasformazione che rinnova la mente" (Rm 12,2) e riceve dall’alto la sua caratterizzazione. Là deve essere rivolto il pensiero, perché là è la patria dei credenti (Fil 3,20-21). Questo non significa che i cristiani devono evadere dal mondo presente. Essi devono mirare a cercare le cose di lassù e intanto costruire il quotidiano in obbedienza al Signore. Per questo il loro cercare e il loro pensare è rivolto verso l’alto e non può volgersi pesantemente in basso dove l’uomo è prigioniero dei suoi pensieri ribelli e dei suoi istinti (vv.5 ss).

v. 3. Ciò che esisteva prima ora non ha più valore. La vecchia vita è stata eliminata una volta per sempre dalla morte di Cristo. L’unica determinante realtà è la vita che è stata procurata dalla potenza creatrice di Dio. Questa vita è attuale perché Dio "ci ha fatti rivivere con Cristo" (2,13). Ma questa vita è realtà solo dove è sostenuta e assunta "mediante la fede" (2,12). Con ciò si respinge decisamente la concezione fantasiosa di una salvezza già visibilmente presente in totale pienezza, della morte già scomparsa e della risurrezione totale e definitiva dei morti già avvenuta (2Tm 2,18). La vecchia vita è terminata con la morte e risurrezione di Cristo e quindi il passato non può più accampare diritti sui cristiani. La nostra risurrezione in Cristo è già iniziata nel battesimo, ma non è ancora compiuta in pienezza. Essa è nascosta con Cristo in Dio, sottratta agli sguardi umani, non percepibile ai sensi. Essa viene accolta nella fede e conservata nella tensione verso l’alto.

v. 4. La vita nuova sarà un giorno manifestata, quando Cristo apparirà nella parusia. Cristo è già ora la nostra vita; chi appartiene a lui è già passato dalla morte alla vita (Gv 5,24-25; 11,25-26 ecc.).

Ma quando Cristo comparirà alla fine dei tempi, allora sarà anche manifestato che i suoi sono con lui nella vita. La comunione con Cristo che è già iniziata nel battesimo e che riempie la vita dei cristiani, avrà la sua compiutezza nella gloria eterna.

I cristiani sono sollecitati a dare dimostrazione con la loro condotta esterna di ciò che è avvenuto, mediante la fede, in loro. Questa dimostrazione sta nella decisione pratica di "rivolgere il pensiero alle cose dell’alto e non a quelle che sono sulla terra" (v.2). Nella morte e risurrezione con Cristo, avvenuta nel battesimo, questa decisione è già avvenuta con validità vincolante; perciò nel comportamento dei credenti non c’è da fare altro che spogliarsi dell’uomo vecchio, che è morto con Cristo, e rivestirsi del nuovo, che Dio ha creato e che ha chiamato in vita nella risurrezione con Cristo.

 

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28/11/2011 12:12
 
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Rivestitevi dell’uomo nuovo!
(3,5-17)

5Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, 6cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono. 7Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. 8Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. 9Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni 10e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. 11Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. 12Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; 13sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. 14Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. 15E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! 16La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. 17E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.

Poiché i credenti nel battesimo sono morti con Cristo (2,12-13; 3,3), questo è il loro dovere: far morire le loro membra terrene (v.5). Lo svestimento del corpo della carne (2,11) avviene nello spogliarsi dell’uomo vecchio con le sue opere (3,9). Ma ad esso segue necessariamente il rivestirsi dell’uomo nuovo, che viene rinnovato per la conoscenza, ad immagine di colui che l’ha creato (v.10).

L’esortazione prosegue spiegando positivamente che cosa vuol dire rivestirsi dell’uomo nuovo. Perciò dopo due cataloghi di vizi (vv.5.8) viene esposto un catalogo di virtù e un’esortazione alla sopportazione e al perdono (vv.12-13). Nell’agàpe la vita della comunità giunge alla sua forma perfetta (v.14). La vita della comunità è descritta come pace e celebrazione di ringraziamento (v.15), accoglimento e testimonianza della parola nell’insegnamento e nel canto (v.16) e anche come attività nel nome del Signore Gesù (v.17).

v. 5. Della morte avvenuta nel battesimo con Cristo ognuno deve ora appropriarsi facendo morire le membra terrene. L’uomo agisce con le sue membra sottomettendole o all’hamartìa (= il peccato) come strumenti di ingiustizia, o a Dio come strumenti di giustizia per Dio (Rm 6,13). Dalla scelta del proprio signore dipende se le membra sono schiave del peccato o serve obbedienti della giustizia di Dio. Non si esorta a uccidere le membra corporee dell’uomo, ma i cinque vizi che sono enumerati e operano nelle membra dell’uomo. Quindi solo attraverso la morte dei vizi, in cui muore la nostra vecchia identità, può aprirsi la via alla nuova vita.

Accanto ai peccati carnali e alla concupiscenza malvagia, la pleonexìa (= brama di possedere) è indicata come un peccato di particolare gravità. La cupidigia e la brama di possesso corrompono il cuore dell’uomo, lo allontanano da Dio e lo gettano in braccio all’idolatria.

La cupidigia è idolatria. L’uomo può servire soltanto a un padrone: a Dio o a mammona (Mt 6,24). Se il suo cuore è attaccato al possesso, allora adora gli idoli e rinnega l’unico Dio.

v. 6. Come più volte, alla fine dei cataloghi di vizi, si accenna al futuro giudizio (1Ts 4,3-6; 1Cor 5,10-11; Rm 1,18-32), così anche qui si ricorda che, a causa delle azioni malvage degli uomini, sopraggiunge l’ira del giudizio di Dio.

v. 7. Un tempo anche i credenti avevano vissuto ignobilmente in questi vizi ed erano morti nei loro peccati (2,3; Ef 2,1-2). Ma la vita passata è stata eliminata con la morte, avvenuta nel battesimo con Cristo.

Perciò al posto del passato è subentrato il presente, che d’ora innanzi è il solo valido.

v. 8. I vizi da ripudiare sono elencati in un catalogo di stampo tradizionale. Con essi deve sparire qualsiasi specie di malvagità che rovina la convivenza umana (1Cor 5,8; 14,20; Rm 1,29; Ef 4,31). I sentimenti cattivi si manifestano nelle parole cattive.

v. 9. Nella comunità cristiana solo la verità ha la parola. Dio non può mentire (Eb 6,18); perciò anche il cristiano non deve mentire (Gal 1,20; 2Cor 11,31; Rm 9,1; 1Tim 2,7; ecc.). Nel contatto quotidiano con tutti bisogna conformarsi all’imperativo della veridicità assoluta.

L’immagine dello spogliarsi e del rivestirsi di un indumento era diffusa nel mondo antico e fu usata nelle religioni mistiche per spiegare l’evento che si operava con l’iniziazione. Va deposto quell’uomo vecchio il quale non solo aderisce come un vestito all’uomo, ma è l’uomo stesso. Egli deve essere abbandonato alla morte perché "il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui" (Rm 6,6). Poiché egli è già morto deve ora essere eliminato col suo modo di agire e di comportarsi che era descritto nei cataloghi dei vizi. "Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,27). "Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri" (Rm 13,14).

v. 10. Al posto dell’uomo vecchio bisogna indossare l’uomo nuovo che è fatto a immagine del suo Creatore. L’immagine di Dio è Cristo (1,15). La nuova creazione, iniziata nel battesimo, si attua così in una perenne novità: "il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno" (2Cor 4,16), La conoscenza a cui l’uomo nuovo perviene, consiste nel comprendere la volontà di Dio (1,9). L’uomo vecchio non possedeva questa conoscenza, l’uomo nuovo invece deve vivere conforme alla volontà del Creatore.

v. 11. Nella comunità di Gesù Cristo è eliminato ciò che nel mondo è causa di divisione tra gli uomini. "Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). "Tutti noi siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei o greci, schiavi o liberi" (1Cor 12,13). Con le parole "ma tutto e in tutti è Cristo" si afferma che la regalità di Cristo dischiude la pienezza della salvezza, così che Cristo è tutto in tutti. La sua regalità abbraccia ogni cosa (1,15-20). Perciò l’unità della nuova umanità può fondarsi unicamente in lui.

v. 12. La comunità è considerata come il popolo eletto, santo e amato da Dio. Come sopra sono stati menzionati per due volte cinque vizi, che devono scomparire con l’uomo vecchio (vv. 5.8), così ora vengono enumerate cinque virtù di cui bisogna rivestirsi. I cinque concetti che descrivono l’attività dell’uomo nuovo servono tutti, in altri passi, a designare l’agire di Dio o di Cristo. Nel rivestirsi delle virtù, che senza eccezione sono frutto dello Spirito, si manifesta quindi il rinnovamento che l’uomo nuovo, creato da Dio, contemporaneamente sperimenta e realizza.

Al primo posto è nominata la misericordia amorosa, al secondo la bontà, nella quale avviene l’incontro con gli uomini (Gal 5,22; 2Cor 6,6; Ef 2,7). Segue l’umiltà, nella quale l’uomo fa attenzione all’altro e nessuno pensa alle cose proprie ma a quelle altrui (Fil 2,3-4). Nella mitezza uno soccorre l’altro nel momento giusto (Gal 6,1). Nella longaminità si può pazientare a lungo e usare sopportazione (1,11).

Tutti e cinque i concetti mostrano come debba comportarsi il cristiano nei riguardi del prossimo. Deve rinunciare alla propria autoaffermazione e alla difesa dei propri privilegi, e aprirsi completamente al prossimo che necessita della sua comprensiva disponibilità e della sua azione soccorritrice.

v. 13. Qui non si allude ad una precisa situazione della comunità, ma viene espresso un ammonimento generico, che vale per qualsiasi situazione della vita comunitaria: sopportarsi a vicenda, concedere il perdono quando uno abbia rinfacciato qualcosa a un altro. Perdonarsi a vicenda come il Signore ha perdonato. L’agire del Signore è il fondamento e la direttiva dell’agire dei credenti. Col battesimo Dio concede il perdono dei peccati (2,13). Il perdono ricevuto nel battesimo deve rendere capaci di non serbare rancore e di non fare i conti col prossimo quando c’è motivo di recriminazione e di lagnanza.

v. 14. L’amore è il legame che conduce alla perfezione. Esso lega i membri della comunità e porta alla perfezione la comunione dell’unico corpo di Cristo.

v. 15. L’esortazione si conclude con un augurio di pace. Questa pace è chiamata, con singolare espressione, "la pace di Cristo". In Ef 2,14 sta scritto: "Egli (Cristo) è la nostra pace". Tutto l’uomo deve essere afferrato dalla pace di Cristo, perché "la pace di Cristo" esprime proprio l’ambito in cui il battezzato esiste come uomo nuovo. La chiamata, rivolta ai credenti con la predicazione del Vangelo, li ha introdotti in questo spazio di pace. Essi vivono "in un solo corpo", cioè nella chiesa che è il corpo di Cristo. È lì il luogo della regalità del Signore glorificato (1,18.24).

La comunità deve esprimere riconoscenza professando la sua fede in Dio che l’ha liberata dal potere delle tenebre e l’ha trasferita nello spazio della regalità del suo diletto Figlio (1,12-13). Nell’ambito della chiesa deve essere celebrata l’eucaristia, intonando l’inno di lode, col quale Cristo è celebrato come immagine del Dio invisibile e Signore su tutto (1,15-20).

v. 16. Il giusto ringraziamento avviene nell’ascolto e nella meditazione della parola di Cristo e nei cantici intonati dalla comunità ad onore di Dio. La parola di Cristo è il Vangelo. Il suo annuncio deve trovare nella comunità il suo terreno naturale. Come la sapienza trovò dimora in Israele (Sir 24,8), così la parola di Cristo deve trovare piena cittadinanza nella comunità cristiana e svolgervi la sua attività. A questa attività della parola, la comunità deve corrispondere con la meditazione e l’interpretazione della parola nella istruzione e nell’ammonimento. L’insegnare e l’ammonire, che in 1,28 erano designati come attività dell’apostolo, non sono legati a un preciso ministero, ma esercitati dai membri della comunità, secondo i carismi loro assegnati (1Cor 12,28; 14,16). L’oggettiva comprensione della dottrina deve dimostrarsi nella pratica. Mediante la sapienza, resa operante dallo Spirito, la comunità comprende qual è la volontà di Dio (1,9-10). I tre concetti, salmi, inni e cantici non si possono distinguere in modo netto; essi descrivono, integrandosi a vicenda, la pienezza del cantico suggerito dallo Spirito. Dicendo che questo canto deve essere intonato "nei vostri cuori" si vuole indicare, con un’espressione ebraicizzante, che non soltanto la bocca deve aprirsi, ma tutto l’uomo dev’essere ripieno del cantico di ringraziamento.

v. 17. Tutto ciò che i credenti fanno, deve essere fatto nel nome del Signore Gesù, ossia nell’obbedienza al Signore. Ciò che essi dicono o fanno, deve essere una professione di fede, a parole e a fatti, nel loro Signore. In mezzo alle occupazioni quotidiane il cristiano deve prestare il "culto spirituale" (Rm 12,1-2), ascoltando e ripetendo la parola nel canto e nella preghiera, ma ancor più facendo risuonare, nel lavoro e nel contatto col prossimo, la lode di Dio. Questa lode è innalzata a Dio Padre per mezzo di Cristo. Infatti Cristo è il Signore che dà fondamento e scopo alla vita dei credenti; perciò possono glorificare il Padre nel ringraziamento solo proclamando la loro fede nel Cristo Signore che egli ha mandato (Gv 17,3).

 

Il codice domestico
(3,18-4,1)

18Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. 19Voi, mariti, amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse. 20Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. 21Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino. 22Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. 23Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, 24sapendo che come ricompensa riceverete dal Signore l’eredità. Servite a Cristo Signore. 25Chi commette ingiustizia infatti subirà le conseguenze del torto commesso, e non v’è parzialità per nessuno.

1Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo.

Dapprima ci si rivolge alle mogli e ai mariti, poi ai figli e ai padri e infine agli schiavi e ai padroni. Si insegna l’obbedienza a coloro che devono sottostare e si ricorda ai superiori come devono comportarsi con le persone che sono affidate alle loro cure. La direttiva, per cui i subordinati devono sottomettersi, non deve essere fraintesa o distorta. Se alcuni sono tenuti all’obbedienza, gli altri sono tenuti a mettersi nei panni dei dipendenti e a lasciarsi guidare dal precetto dell’amore.

v. 18. Le mogli devono sottostare ai loro mariti. Ciò è fissato dalla tradizione. Ma la motivazione vincolante dell’ammonimento è data dalle parole "nel Signore".

Se la sostanza dell’ammonimento si collega alle regole di comportamento comunemente vigenti, qui si indica che il mantenimento dell’ordine retto deve essere osservato dai cristiani come espressione della loro fede in Cristo Signore; perché non esiste alcun settore della vita umana in cui possano vivere senza il loro Signore.

v. 19. Le mogli devono obbedire ai loro mariti; costoro però sono invitati ad amare le loro mogli. Viene loro proibito di comportarsi arrogantemente e di credersi superiori. Essi sono responsabili delle loro mogli e devono convivere con esse nell’agàpe, considerata il giusto modo di comportarsi.

Il comandamento di non trattare con arroganza o collera la moglie è l’espressione del comandamento dell’amore, che determina la condotta dei cristiani.

v. 20. Ai figli è comandato di essere in tutto obbedienti ai genitori, perché ciò è gradito al Signore. L’obbedienza dei figli viene motivata, come la sottomissione delle mogli, con l’espressione "en Kyrìo", nel Signore. Essa deve essere motivata e vissuta nella fede come obbedienza a Cristo Signore che manifesta i suoi comandi tramite l’autorità dei genitori.

v. 21. I padri devono stare attenti a non irritare o a non provocare i figli, affinché questi non si deprimano e non diventino timidi. Non è detto per quale motivo essi possano scoraggiarsi. Ai padri viene ordinato di non comandare ai figli secondo il loro insindacabile arbitrio, ma di avere un comportamento riflessivo e controllato.

v. 22. Le prime quattro proposizioni del codice domestico sono formulate con la massima stringatezza; ora, invece, rivolgendosi agli schiavi, ci si dilunga. Come potesse convivere la libertà donata nel Cristo con la servitù nella quale gli schiavi erano ancora sottomessi ai loro padroni era un problema che richiedeva una risposta (1Cor 7,21-24).

L’esortazione riguardante gli schiavi non può perciò rifarsi alla dottrina morale tradizionale, ma deve essere formulata quale insegnamento specificatamente cristiano. Agli schiavi divenuti cristiani viene detto che devono riconoscere la loro schiavitù terrena come un ordinamento loro stabilito e obbedire ai loro padroni terreni in ogni cosa. I padroni poi sono distinti dall’unico Signore al quale gli schiavi, come membri della comunità cristiana, appartengono.

L’obbedienza che gli schiavi devono prestare ai loro padroni terreni dev’essere genuina e non servendo solo perché visti. Devono obbedire con semplicità di cuore.

Il cuore, quale parte più intima dell’uomo, che determina il suo essere e il suo agire, deve essere semplice e schietto. Tutto quello che lo schiavo fa, deve avvenire nel timore di Dio. "Temere Dio" è la parola d’ordine del comportamento cristiano a cui tutti sono tenuti a conformarsi.

v. 23. La regola generale secondo cui tutto ciò che si fa in parole e in opere deve avvenire nel nome del Signore Gesù (3,17), viene ora applicata al comportamento degli schiavi. Le incombenze loro affidate devono essere eseguite con tutto il cuore, nella consapevolezza che il loro servizio è prestato al Signore, non agli uomini.

v. 24. Infatti il Signore sarà giudice di tutte le opere, anche di quelle degli schiavi. La loro ricompensa è l’eredità eterna (1,5.27; 3,1-4). Nessuno deve sciupare questo prezioso patrimonio con la disobbedienza. Perciò "Servite a Cristo Signore!" è un comandamento. Cristo è il Signore; quando lo schiavo serve fedelmente al suo padrone terreno, ubbidisce nello stesso tempo all’unico Signore di tutto e di tutti.

v. 25. Se gli schiavi mancano nei riguardi dei loro padroni, dovranno renderne conto a Dio. Davanti a Dio non c’è differenza di persona. Né i padroni saranno privilegiati, né agli schiavi sarà lecito trasgredire impunemente il comandamento di Dio.

Dio ricompensa equamente, secondo le loro azioni, gli schiavi e i padroni, che dovranno comparire davanti al suo tribunale.

4,1. Ai padroni è diretta una breve allocuzione. A quei tempi probabilmente erano pochi i cristiani che avessero degli schiavi. Perciò non era necessaria una lunga dissertazione sul comportamento dei padroni.

Non è chiesto loro di liberare gli schiavi, ma di compiere coscienziosamente i loro doveri verso di essi. Viene stigmatizzato qualsiasi abuso dei loro diritti ed è loro ingiunto di dare agli schiavi ciò che è retto e giusto. Per i cristiani il principio del diritto e dell’equità acquista un significato completamente nuovo, perché essi devono rendere conto del loro agire al Signore. Perciò i padroni sono responsabili davanti a lui di come trattano gli schiavi, perché anche sopra di essi sta il Signore in cielo. In questo modo il rapporto tra padroni e schiavi subisce un cambiamento fondamentale. Essendo gli uni e gli altri coscienti che devono obbedienza all’unico Signore, è fornito ad essi un parametro adatto per le reciproche relazioni.

Con la serie dei pacati ammonimenti compendiati in questo codice domestico, viene indicato alla comunità come ciascun cristiano, nel posto che gli è stato assegnato al momento della sua chiamata alla fede (1Cor 7,20-24), deva prestare obbedienza al Signore a cui appartiene. Come tutti sono uno in Cristo (3,11) e quindi in lui non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna (Gal 3,28; 1Cor 12,13), così tutti sono uniti e cointeressati dall’amore, che è il vertice della perfezione. Ma questa unità, fondata in Cristo, non deve essere fraintesa, come se fosse la legittimazione della situazione esistente e impedisse qualunque progresso nel cambiamento sociale.

La forza trasformatrice dell’agàpe deve annullare tutte le strutture ingiuste della società e modellare su degli schemi sempre migliori i rapporti tra gli uomini.

È antistorico fare un motivo di critica a Paolo e al cristianesimo primitivo per il fatto che non hanno predicato o imposto la liberazione degli schiavi.

Le strutture economico-sociali e gli ordinamenti giuridici esistenti non vengono annullati, ma non vengono nemmeno sanzionati come istituzioni immobili, ma sono vagliati criticamente alla luce dell’agàpe, mutati, rettificati e persino rifiutati là dove essi non servono alla realizzazione e alla pratica dell’agàpe. In questo modo ancora una volta l’agàpe risulta la norma che sta al di sopra di tutte le norme, la norma suprema della condotta cristiana.

 

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28/11/2011 12:13
 
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Ultime ammonizioni
(4,2-6)

2Perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie. 3Pregate anche per noi, perché Dio ci apra la porta della predicazione e possiamo annunziare il mistero di Cristo, per il quale mi trovo in catene: 4che possa davvero manifestarlo, parlandone come devo. 5Comportatevi saggiamente con quelli di fuori; approfittate di ogni occasione. 6Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza, per sapere come rispondere a ciascuno.

Le raccomandazioni che seguono non sono rigorosamente connesse alla sezione precedente.

Come prima cosa Paolo esorta alla preghiera. Poi dà dei suggerimenti sul modo di comportarsi con quelli di fuori, i non cristiani: camminare nella sapienza, sfruttare il tempo e rispondere con proprietà a chi rivolge domande alla comunità. Con gli estranei la comunità deve comportarsi con riguardo, in modo che essi siano conquistati dalla condotta dei credenti, modellata dalla sapienza e dalla giusta risposta che i cristiani sanno di dover dare alle domande loro rivolte.

v. 2. Si invita alla preghiera costante. Dio deve essere implorato con instancabile costanza (Lc 18,1-8). In tale preghiera la comunità deve essere vigilante. Il pregare è la forma e la maniera giusta in cui si esercita la vigilanza.

v. 3. Ogni volta che la comunità si rivolge a Dio deve ricordarsi di intercedere per Paolo. Egli prega incessantemente per la comunità (1,3.9); perciò anch’essa deve levare le mani a Dio per lui e per tutti i suoi collaboratori nella predicazione del Vangelo. La porta aperta indica la disponibilità degli ascoltatori verso la parola di Dio (1Cor 16,9; 2Cor 2,12; At 14,27). Il contenuto dell’evangelizzazione è il "mistero di Cristo", cioè il messaggio cristiano della salvezza (1,26; 2,2).

v. 4. Paolo deve manifestare il mistero di Cristo. Sente l’imperativo cogente di trasmettere la parola (1Cor 9,16). Egli agisce in favore di tutta la chiesa soffrendo e prestando servizio alla parola (1,24-25). La sofferenza e la predicazione sono ugualmente necessarie per l’evangelizzazione. Perciò non spende nemmeno una parola per piangere sulla prigionia. La comunità tuttavia deve pregare che Dio conceda libero corso alla parola apostolica e sentirsi interessata al buon esito di questo servizio apostolico.

v. 5. La comunità deve comportarsi con sapienza. Chi conduce la propria vita in questa sapienza cristiana non deve rinchiudersi in un ghetto, come fanno gli adepti della sapienza speculativa. Deve invece aver di mira, in tutto ciò che fa, la testimonianza del mistero di Cristo manifestato da Dio.

I cristiani devono darsi pensiero di come i non cristiani giudicano la condotta della comunità ed essere coscienti dei loro gravi doveri. L’ammonimento "Sfruttate il tempo" sembra posto qui senza un nesso. Si enuncia semplicemente una norma di vita, che vale in assoluto: prendere con riconoscenza e con gioia tutti i giorni che Dio concede e non sprecare il tempo accordato ad ognuno.

v. 6. Il parlare dei cristiani non deve essere insulso, ma sapiente e amabile. Allora la sapienza, nella quale i credenti devono vivere e comportarsi anche verso gli estranei alla comunità, troverà anche nella loro parola la sua espressione appropriata.

 

Comunicazioni e saluti
(4,7-18)

7Tutto quanto mi riguarda ve lo riferirà Tìchico, il caro fratello e ministro fedele, mio compagno nel servizio del Signore, 8che io mando a voi, perché conosciate le nostre condizioni e perché rechi conforto ai vostri cuori. 9Con lui verrà anche Onèsimo, il fedele e caro fratello, che è dei vostri. Essi vi informeranno su tutte le cose di qui. 10Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Bàrnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni - se verrà da voi, fategli buona accoglienza - 11e Gesù, chiamato Giusto. Di quelli venuti dalla circoncisione questi soli hanno collaborato con me per il regno di Dio e mi sono stati di consolazione. 12Vi saluta Èpafra, servo di Cristo Gesù, che è dei vostri, il quale non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio. 13Gli rendo testimonianza che si impegna a fondo per voi, come per quelli di Laodicèa e di Geràpoli. 14Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema. 15Salutate i fratelli di Laodicèa e Ninfa con la comunità che si raduna nella sua casa. 16E quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi. 17Dite ad Archippo: "Considera il ministero che hai ricevuto nel Signore e vedi di compierlo bene".

18Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo. Ricordatevi delle mie catene. La grazia sia con voi.

Come in tutte le lettere di Paolo, alla fine della lettera vengono inviati avvisi, saluti e brevi istruzioni. La lettera si chiude col saluto finale, steso di proprio pugno, con la preghiera di ricordarsi delle catene dell’apostolo e con l’augurio di grazia.

v. 7. Non si dice nulla dello stato di salute di Paolo; su di esso daranno informazioni i messaggeri che fanno il viaggio verso la comunità. Tichico è ricordato in At 20,4 come compagno di Paolo nel viaggio delle collette. In Ef 6,21 egli è raccomandato alla comunità con le stesse parole di questo brano e in 2Tm 4,12 e Tt 3,12 è chiamato ugualmente messaggero dell’apostolo. Qui viene anche messo in evidenza che è un cristiano fidato e affidabile nel portare a termine gli incarichi ricevuti.

vv. 8-9. Tichico sarà accompagnato da Onesimo, che è presentato come un fratello fedele e diletto (1,2). Di lui si dice semplicemente che è originario di Colossi. I due trasmetteranno il messaggio di Paolo e spiegheranno in quale condizione egli si trovi. La lista dei saluti è paragonabile, per la sua ampiezza, soltanto con Rm 16. La lunga serie di nomi ha lo scopo palese di stabilire uno stretto legame con la comunità.

v. 10. Aristarco è nominato in Fm 24 e come accompagnatore di Paolo nel viaggio per le collette (At 19,29; 20,4); egli è ricordato anche nel viaggio verso Roma (At 27,2). Egli è accanto a Paolo come compagno di prigionia.

Marco, cugino di Barnaba, è nominato spesso negli Atti degli apostoli (At 12,12.25; 13,13; 15,37.39). Fu anche collaboratore di Pietro (1Pt 5,13).

v. 11. Di Gesù detto anche il Giusto non si hanno altre notizie. Di questi tre uomini viene notato che erano i soli giudei cristiani che fossero rimasti fedeli a Paolo, come collaboratori per il regno di Dio. Per questo sono per lui un vero conforto.

v. 12. Epafra, come servo obbediente del suo Signore, è stabilmente al servizio della comunità di Colossi, anche se lontano nello spazio, intercedendo per essa nella preghiera (2,1). Ciò che egli chiede nella preghiera è che la comunità possa essere perfetta e ripiena di tutto ciò che costituisce la volontà di Dio.

vv. 13-14. Viene resa espressa testimonianza che Epafra si affatica senza tregua per la comunità. Egli ha operato a Colossi, a Laodicea e a Gerapoli. Infine inviano i loro saluti Luca e Dema.

v. 15. Paolo formula i suoi auguri personali alla comunità di Laodicea, che è destinataria di una lettera particolare, e a Ninfa e alla comunità che si raduna in casa sua. La primitiva comunità non possedeva luoghi particolari di culto. Per la liturgia, l’istruzione e la cena del Signore si radunava nelle case dei singoli membri della comunità (1Cor 16,15; Rm 16,5; Fm 2).

v. 16 Il contenuto della lettera dovrà essere notificato nella riunione comunitaria. Dopo la lettura pubblica della lettera, devono scambiarla con quella inviata alla comunità di Laodicea, alla quale Paolo aveva inviato una lettera. Da questo invito si può dedurre come già molto presto si pensasse alla divulgazione e alla raccolta delle lettere di Paolo.

v. 17. Un ammonimento particolare è rivolto ad Archippo perché svolga con fedeltà il ministero ricevuto.

v. 18. La conclusione della lettera contiene solo poche parole. L’ultimo saluto è scritto da Paolo di proprio pugno.

La comunità è invitata a ricordarsi di lui prigioniero per Cristo. L’augurio della grazia con cui è ripreso il saluto iniziale (1,2) è espresso, con la stringatezza di una formula, più brevemente che in tutte le altre lettere di Paolo: "La grazia di Dio sia con voi! (v.18).

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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