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COMMENTO DELLA LETTERA AI FILIPPESI

Ultimo Aggiornamento: 01/11/2018 18:43
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22/11/2011 12:04
 
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PARTE TERZA

I COMPITI DELLA COMUNITÀ
(1,27-2,18)

In linea di massima si può dire che le lettere di Paolo hanno una struttura bipartita: ad una parte più dottrinale segue una parte più parenetica. La lettera A si adegua a questo modello, in quanto inizia ora una sezione dal contenuto esortativo. Col "solamente" all’inizio del v.27 siamo già nel mezzo delle raccomandazioni alla comunità.

 

Lotta comune per la fede
(1,27-30)

27Soltanto però comportatevi da cittadini degni del vangelo, perché nel caso che io venga e vi veda o che di lontano senta parlare di voi, sappia che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del vangelo, 28senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo è per loro un presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio; 29perché a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo; ma anche di soffrire per lui, 30sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e che ora sentite dire che io sostengo.

Ciò che caratterizza il brano è il tema: la comunità deve essere compatta se vuole affrontare con successo la lotta per la causa del vangelo. Essa è descritta come compagnia che si difende e attacca; il passo è dominato da termini del linguaggio militare: stèkein (stare saldi), sunazloùn (lottare), agòn (lotta).

v. 27. L’esortazione è generica, ma, proprio per questo contiene tutto: essi devono comportarsi in modo degno del vangelo di Cristo. Presentando qui come norma il vangelo di Cristo, non lo si intende certo come codice morale o libro scritto, ma come messaggio annunciato: essi devono vivere come gente convertita dal vangelo. L’imperativo politeùesthe deriva da polis e significa "essere cittadini di una città"; il verbo indica anche i diritti e i doveri del cittadino. Paolo ha scelto volutamente il termine politeùesthe per ricordare ai Filippesi quella nuova base di comunione che essi hanno raggiunta nella comunità mediante il vangelo. Essi devono comportarsi come si conviene a uomini riuniti in una nuova comunione, in una vita comunitaria degna del vangelo. Si pensa al comportamento della comunità nell’ambito pagano circostante. Il "vivere la vita di comunità in modo degno" significa stare saldi in un solo Spirito che anima la comunità e le dà la possibilità di stare salda. La lotta è sostenuta a causa della fede che nasce dal vangelo.

v. 28. Paolo ora diventa più concreto e parla di avversari che cercano di intimidire i Filippesi. La saldezza e unità della Chiesa rappresenta un segno per gli avversari: essi vi devono riconoscere la propria rovina e la salvezza della comunità da loro oppressa. I segni efficaci vengono da Dio; l’apostolo li può solo annunciare. Il segno della salvezza e dell’unità della Chiesa è l’opera di Dio e produce salvezza per i credenti e rovina per gli avversari.

v. 29. I Filippesi hanno ricevuto un grande dono: quello di credere in Cristo e quello di patire per lui. Solo nella fede, che è grazia, si può apprezzare il patimento per Cristo come dono.

v. 30. Paolo riporta il discorso sulla sua persona e lo fa in modo nuovo: egli ha in comune con loro la medesima lotta. I Filippesi devono prendere esempio nel loro patire guardando all’apostolo che un tempo videro nella tribolazione. Paolo parla in 1Ts 2,2 di patimenti e oltraggi sofferti a Filippi e At 16,11 ss. ne conservano il ricordo.

 

Esortazione alla concordia e alla stima reciproca
(2,1-4)

1Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti.
3Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri.

Questa pericope va vista in stretto rapporto col successivo inno a Cristo. Essi si integrano reciprocamente: questa pericope prepara l’inno a Cristo, e l’inno a Cristo motiva essenzialmente l’esortazione.

v. 1. L’esortazione iniziata con 1, 27 è giunta a una svolta: finora si è parlato della necessaria unanimità nella lotta per la fede. Ora si esige la concordia dei membri della comunità tra di loro.

Paolo pone insistentemente quattro concetti davanti agli occhi dei Filippesi: esortazione in Cristo, conforto dell’amore, comunione dello Spirito, affetto tenero e misericordia.

La paraclèsis (esortazione) è l’appello accorato, la supplica insistente e le parole di incoraggiamento che portano consolazione. Paramùthion agàpes (conforto dell’amore). Il verbo paramutheìsthai implica "porsi a fianco di qualcuno e parlargli, dare buoni consigli, stimolare a qualcosa, allettare mediante la speranza, persuadere, convincere, consolare". Ancor più di parakalèin questo verbo indica l’immediatezza del discorso individuale, personale. L’amore tenero e misericordioso è quello di Dio che è donato agli uomini e determina il loro rapporto reciproco. Questa introduzione insistente sull’unione e l’amore reciproco non vuole mettere in dubbio l’amore, la partecipazione allo Spirito e la buona disposizione dei Filippesi. È motivata dall’imperativo che segue "rendete piena la mia gioia".

v. 2. L’imperativo riguarda la gioia che i Filippesi devono portare a compimento, comportandosi come se avessero un’anima sola.

L’esortazione al "medesimo sentire" si trova anche in Rm 12, 16. Il fronèin (sentire, pensare) si trova spesso in Paolo in contesti dove si tratta del retto o falso rapporto personale tra i membri della comunità (1,7; 4,2.10; Rm 12,3-16; 15,5). "Abbiate lo stesso amore" è un’espressione unica in Paolo e non mira all’uniformità del loro amore, ma all’identità d’indirizzo del loro volere. L’invito insistente alla concordia ha certo anche a che fare con Evodia e Sintiche (4,2), ma qui l’apostolo parla ancora per tutti in generale.

v. 3. La frase è caratterizzata da un contrasto. Si rigettano in forma esclamatoria due vizi che disturbano particolarmente la vita della comunità "spirito di parte" e "vanagloria". A questi si contrappone l’umiltà che porta a stimare gli altri più di se stessi. Per la sopravvivenza della comunità è indispensabile un comportamento ispirato a sentimenti di umiltà. L’esempio dell’umiltà cristiana negli scritti di Paolo è Gesù Cristo, come vedremo subito in 2,6-1.

v. 4. Anche questa esortazione risponde a un pensiero molto ripetuto da Paolo. Egli lo esprime in diversi contesti: si lamenta dei suoi aiutanti dicendo che "pensano ai propri interessi e non a quelli di Cristo Gesù" (2,21); trattando della carne sacrificata agli idoli che alcuni non osano mangiare, esorta a un reciproco rispetto con le parole: "nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello altrui" (1Cor 10,24), nella stessa misura in cui può affermare di se stesso che egli non cerca il proprio vantaggio, ma quello di molti, affinché "siano salvi" (1Cor 10, 33): è proprio dell’amore il non cercare il proprio interesse (1Cor 3,5). Qui l’accento è posto sull’ammonimento positivo che capovolge il rimprovero: ognuno pensi anche agli interessi degli altri!

 

Versetto di collegamento
(2,5)

5Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,

Si può capire questo versetto soltanto se lo si considera veramente come legame tra due sezioni: è orientato in avanti, verso l’inno di Cristo, e tuttavia vi riecheggiano ancora le esortazioni dei vv. 1-4 come prova il verbo fronèin (sentire). Le esortazioni rivolte alla comunità vengono congiunte con una motivazione essenziale che verrà esposta appunto nell’inno a Cristo. Il v. 5 prepara questa motivazione. L’imperativo: "Sentite tra voi questo" non si deve quindi intendere come ricapitolazione degli inviti precedenti all’unanimità, altrimenti si ridurrebbe ad una affermazione banale. Esso invece vuol dire: la norma del retto sentire è data dal sentire in Gesù Cristo. Il tema è sempre ancora il sentimento che deve regnare tra i Filippesi nei loro rapporti reciproci. Perciò è del tutto fuori strada l’interpretazione che legge: "Sentite in voi" o "Abbiate in voi".

Essa contraddice non solo al contesto, ma anche al carattere transitivo di fronèin; si tratta del loro comportamento reciproco, Quindi; "Sentite tra di voi" o "Abbiate tra di voi".

Allora non si potrà però più intendere "in Cristo Gesù" in senso esemplare, come se si rinviasse all’esempio di ciò che Cristo Gesù sente in sé. La traduzione migliore ci sembra questa: "Sentite tra di voi ciò che bisogna sentire per il fatto di essere in Cristo Gesù".  

L’espressione "in Cristo Gesù" significa "nell’ambito della signoria di Cristo" (Kaesemann), "il legame con Gesù Cristo ottenuto nella Chiesa" (Bonnard), "nella fede in lui" (E. Schweizer): è un trovarsi nella sfera d’influsso e di potenza del Cristo personale. Questo essere e vivere in Cristo implica un rapporto individuale e un rapporto sociale, e nessuno di questi due rapporti va trascurato, perché ambedue si condizionano a vicenda. L’essere in Cristo è materialmente identico con l’appartenenza al "corpo di Cristo" nel quale i singoli vengono incorporati mediante il battesimo. L’imperativo del v. 5 si richiama quindi a quell’essenziale rapporto con Cristo che i Filippesi hanno stabilito mediante la fede e il battesimo.

 

L’inno a Cristo
(2,6-11)

6il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
7ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

L’inno a Cristo è per molti versi problematico. Esso rappresenta un tutto chiuso in se stesso in forza del suo tema; tanto che lo si può perfino togliere dal contesto. Anche se Paolo assume nei suoi scritti formule di confessione di fede, o altre proposizioni già preesistenti, non si trova da nessuna parte un complesso unitario così esteso. Paolo inserisce questo inno a Cristo senza comporlo ad hoc. Ma non possiamo stabilire se lo abbia scritto lui stesso in un tempo precedente o lo abbia preso da qualche testo tradizionale della comunità. L’inno è stato inserito organicamente nel contesto ed è soprattutto il v.8 a creare questo nesso: "umiliò se stesso" richiama alla memoria l’invito all’ "umiltà di sentimenti" del v.3, mentre "diventò obbediente" riecheggia il "foste sempre obbedienti" del v. 12.

A) L’umiliazione.

v. 6. L’interesse dell’inno non è rivolto o incentrato su una definizione dell’essere di Cristo nel mondo di Dio, ma sugli eventi che hanno preso le mosse da quel punto. Il v. ci presenta i primi inizi di una riflessione sull’essere preesistente di Cristo: prima di esistere come uomo "esisteva di un’esistenza divina". Il Cristo celeste non credette di dover trattenere per sé la sua uguaglianza con Dio. Nella letteratura giudeo-ellenistica si parla ripetutamente con disprezzo di uomini che credono di essere simili a Dio: Filone definisce "amante di sé e ateo" chi pensa di essere simile a Dio (Leg. all. 1,49), Flavio Giuseppe vuole incutere spavento raccontando dell’uccisione di Gaio, il quale vaneggiava di essere un dio (Ant. 19,1 ss.). Se si confrontano questi giudizi impregnati di spirito biblico con Fil 2,6, si può pensare che "nell’uguaglianza con Dio" detta di Cristo, si voglia anche affermare che ciò gli appartiene e appartiene a lui solo di diritto. I Padri della Chiesa vedono qui espressa l’idea di una legittimità dell’essere simile a Dio.

v. 7. Il testo prende le mosse da Dio, ma pone l’attenzione sull’incarnazione e l’esistenza terrena del Cristo. Il pensiero si svolge in modo che la concretezza e la drammaticità vadano aumentando. "Alienò se stesso" viene spiegato con "esistenza di schiavo"; se il significato è ancora poco chiaro, con l’ulteriore precisazione "simile (o uguale) agli uomini", tutto il discorso arriva a una certa conclusione: il mondo di Dio è interamente abbandonato, l’inferiore mondo umano è definitivamente raggiunto. Cristo abbandonò ciò che possedeva. Dio divenne uomo. La separazione esistente tra il mondo di Dio e il mondo degli uomini potè essere superata solo con questo passo. L’inno non si preoccupa di discutere la questione delle "nature" di Cristo nel senso della dogmatica posteriore, ma vuole esprimere l’incarnazione dell’essere divino. Questa affermazione sarebbe sminuita dall’ipotesi di una pura variazione nel modo di manifestarsi. Egli esisteva dell’esistenza di Dio, ma svuotò se stesso e iniziò un’esistenza di schiavo. Avviene un mutamento fondamentale; alla determinante della divinità subentra la determinante della schiavitù. È sorprendente che non si parli immediatamente dell’essere uomo, ma dell’essere schiavo. Il Preesistente assume liberamente su di sé la schiavitù dell’essere uomo. Di solito si interpreta la doulèia come la schiavitù dell’umanità sotto le potenze di questo mondo (cfr. Gal 4,3-4; 8-9; Rm 8,21; Col 2,20; Eb 2,15); con l’espressione "divenne uguale agli uomini" si conclude la descrizione dell’incarnazione. Cristo si mise nella condizione comune degli uomini ed entrò nella loro storia. All’autore dell’inno interessa affermare la piena e totale incarnazione di Cristo, la sua conoscibilità, sperimentabilità, dimostrabilità, la sua concreta e reale esistenza di uomo.

v. 8. L’umiliazione di Cristo è la sua subordinazione all’ordine del mondo, il riconoscimento obbediente della nullità fondamentale della creatura umana. È il radicale limitarsi ad un’esistenza umana nel senso del concreto agire e patire storico, effettivo riconoscimento della casualità e limitatezza del vivere umano in tutta la sua dipendenza e condizionamento, nella sua provvisorietà e frammentarietà. L’entrare ubbidendo nel tessuto dell’esistenza terreno-contingente trova la sua espressione più efficace nella morte, perché questa documenta nel modo più evidente la limitatezza di tale esistenza. L’accettazione della morte significa l’estremo sì alla via assegnata, la quale giunge così al suo punto finale. In tale prospettiva la morte di questo essere non è vista in sé come un aspetto salvifico, ma come il punto più profondo di una vita umana percorsa nell’obbedienza. Nell’umiliazione l’essere divino si è rivelato come uomo, nella carne. Oltre che della morte si parla ora anche del suo modo particolare di morte sulla croce. Questa precisazione ha il valore di un’ulteriore accentuazione o di un’illustrazione. Bisogna osservare che la morte di croce è intesa come morte salvifica.

B) L’innalzamento.

v. 9. Il v. 9 segna la grande svolta. Dopo che colui che si è umiliato è giunto al punto più profondo della sua via e sembra che per lui sia finita, Dio interviene e agisce. Finora ha agito il Preesistente, che si è liberamente umiliato; adesso egli diventa oggetto dell’iniziativa divina. Il nesso tra la prima e la seconda parte è costituito da diò (per questo). Questo diò o diò touto è caratteristico dello schema biblico di umiliazione o di innalzamento (Is 53,12 (LXX); Sap 4,14; Ez 21,31; Lc 14,11; 18,14; Mt 23,12; Gc 4,6-10). L’innalzamento operato da Dio è cosi presentato come risposta e reazione di Dio all’umiliazione dell’uomo. Agendo Dio premia l’ubbidienza prestatagli: se si deve presupporre lo schema biblico, non si può escludere l’aspetto del premio. Il Cristo non fu innalzato allo stato di prima della sua umiliazione-incarnazione quando si trovava nella sua esistenza divina, ma il v. intende illustrare la sua posizione di sovranità acquistata, una posizione che tutto sovrasta. Il contenuto della seconda parte dell’inno è imperniato su questa idea centrale.

L’uperùpsosen (l’ha innalzato sopra) viene ripreso nel Nome che è "sopra" ogni nome. Questo nome che gli è ora attribuito, il nome di Kyrios, Signore Dio, gli spetta in forza di un atto di grazia divino. Theòs echarìsato autò to ònoma significa appunto: Dio gli diede come grazia il nome. Questo è l’unico passo nel NT in cui si parli di una chàris (grazia) data a Cristo.

Nell’attribuzione del nome si esprime l’antichissima credenza per la quale il nome è qualcosa di reale, "una parte della natura della personalità nominata, partecipe delle sue proprietà ed energie" (Bauer). Nell’upèr (sopra) sottolineato due volte c’è però una componente spaziale. Secondo la presupposta immagine del mondo, Cristo viene innalzato alla più alta sommità del cielo. I "nomi" sotto di lui, ora sottomessi alla sua signoria, comprendono tutti gli altri esseri. La seconda parte di questo inno rassomiglia al rituale di intronizzazione di un sovrano; innalzamento e attribuzione del nome corrispondono qui agli atti di presentazione e proclamazione.

v. 10. Ciò che segue porta decisamente l’impronta di una citazione di Isaia: "Volgetevi a me e lasciatevi salvare, voi dai confini della terra! Io sono Dio e non c’è altri fuori di me. Ho giurato per me stesso, dalla mia bocca uscirà giustizia, le mie parole non torneranno indietro: davanti a me si piegherà ogni ginocchio, ed ogni lingua confesserà Dio e dirà: giustizia ed onore giungano a Lui, e siano perduti tutti coloro che se ne separano. Dal Signore è proclamata giusta e in Dio è glorificata tutta la generazione dei figli d’Israele" (Is 45,22-25 LXX). In Isaia questo testo è riferito a Jahvè giudice.

Il nuovo orientamento di Fil 2,10-11 consiste anzitutto nel fatto che ora tutto è radicalmente riferito a Cristo: tutte le ginocchia si piegheranno "nel nome di Gesù". È vero che quanto avviene è essenzialmente legato a Dio, il quale presenta il nuovo Signore, ma l’intenzione del testo è che il mondo si piega di fronte all’eletto. "Nel nome" va inteso in senso stretto. L’espressione equivale a "invocando, nominando il nome di Gesù". Il nome di Gesù in questo punto dell’inno può servire soltanto a sottolineare la realtà umana di colui che è stato innalzato.

"I celesti, i terrestri e i subterreni" sono le potenze spirituali, sia quelle al servizio di Dio che quelle nemiche di Dio. La demonologia e l’angelologia giudaica sottolineò sempre la suprema sovranità di Dio su tutte le potenze create, mentre quella pagana parlò anche di potenze del destino, che dominano il cosmo e i suoi ordini. L’autore dell’inno pensa a queste potenze del destino, nemiche di Dio. La lettera di Ignazio ai Tralliani 9,1 conferma questa lettura: "Egli realmente fu crocifisso e morì alla presenza delle potenze del cielo, della terra e degli inferi". L’omaggio delle potenze è quindi qualificato come sottomissione, e l’inizio della sovranità del nuovo Signore come cambio di dominio. Al posto delle potenze che tengono schiavo il mondo è subentrato un nuovo dominatore del cosmo: quelli che finora hanno dominato si devono piegare davanti a colui che ha spezzato la loro signoria.

v. 11. Il gesto dell’inginocchiarsi e il riconoscere Gesù Cristo come legittimo Signore, formano insieme l’acclamazione di riconoscimento, il terzo atto dopo la presentazione e la proclamazione. Gesù Cristo non viene presentato come Signore della comunità cristiana, ma come Signore dell’universo; infatti solo la signoria sull’universo corrisponde all’onore prestatogli dalle potenze cosmiche del cielo, della terra e degli inferi. Il nome del Signore, collegato alla citazione dell’AT, va equiparato al nome di Jahvè nell’AT: Gesù Cristo è il Signore Dio Jahvè. Il Gesù Cristo innalzato possiede qualcosa in più rispetto alla sua preesistenza. Questo "più" non si nota però visibilmente ed immediatamente perché la sua manifestazione avviene soltanto nell’ambito delle potenze, non pubblicamente nel mondo, restando così ancora fondamentalmente latente per il mondo degli uomini. La Signoria di Cristo è colta soltanto nella comunità cristiana, che canta appunto questo inno, e sa che tutto si è già compiuto in Cristo. Essa però attende nella fede che la Signoria del Kyrios si manifesti pubblicamente al mondo. La seconda parte dell’inno attribuisce ad un altro quel nome di Kyrios che prima era indiscusso monopolio di Dio: si presenta così il problema del rapporto tra il Kyrios Ièsous e Dio. L’inno non si pone ancora questo problema, ma semplicemente mette al centro l’agire del Theòs che innalza. In Paolo però si desta la riflessione ed egli risolve la questione ponendo la signoria di Cristo in funzione della gloria del Padre. Testi come 1Cor 3,23; 11,3; Rm 15,7, dimostrano questo orientamento, più che evidente in 1Cor 15,24: "Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato potestà e potenza". E in Cor 15, 28 conclude questa questione; "E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti". Con la gloria di Dio Padre è raggiunta la finalità ultima di quell’evento salvifico che culmina nell’elevazione di Cristo a Kyrios, a Signore Dio.

 

Comune sollecitudine per la salvezza
(2,12-13)

12Quindi, miei cari, obbedendo come sempre, non solo come quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. 13È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni.

v. 12. Questo v. rappresenta un nuovo punto di partenza; vengono ripresi e continuati gli ammonimenti dei vv. 1-4. Al centro sta sempre ancora l’intera comunità e la reciproca responsabilità dei membri perché l’amore fraterno non sia minacciato. L’inno a Cristo appena citato ha ricordato alla comunità l’avvenimento salvifico in cui essa è coinvolta sottolineando il fatto che Cristo ha assunto la bassezza dell’esistenza umana e si è fatto obbediente: poiché essi sono posti in Cristo Gesù, devono ora trattarsi reciprocamente con umiltà.

Paolo sottolinea anzitutto la loro obbedienza: non la esige direttamente, ma l’afferma e confermandola l’esige. Questa discrezione nell’ammonire caratterizza la lettera A. Nell’accennare a sé e alla sua lontananza attuale, è evidente che l’obbedienza è quella verso di lui e non c’è motivo per pensare che si tratti di quella dovuta agli episcopi e diaconi di Filippi.

L’imperativo introdotto con discrezione dice che essi devono operare la loro salvezza "con timore e tremore". Timore e tremore nei confronti di Dio e degli uomini; sono la trepidazione di uomini giunti alla presenza di Dio, di uomini nei quali Dio ha iniziato la sua opera. Per questo l’espressione rappresenta già un passaggio alla proposizione seguente. I vv. 12 e 13 costituiscono un’unità.

v. 13. Questa frase sembra capovolgere ciò che il v. 12 ha affermato; tuttavia questa tensione tra l’incoraggiamento ad operare e la constatazione che è Dio che opera non deve essere abolita. L’opera divina e umana si intessono, in modo però che l’agire divino rende possibile quello umano e inoltre lo esige. Le due proposizioni non si integrano a vicenda, ma si motivano reciprocamente: "Poiché Dio opera tutto, voi dovete operare tutto" (Bornkamm).

Nel v. 13 en emìn vuol dire "tra di voi" e si riferisce alla comunità: di nuovo si fa appello al loro comune volere e operare che li sostiene e li edifica reciprocamente. Tale volere e operare viene da Dio: volere e operare abbracciano tutto l’arco dei modi interni ed esterni del comportamento interpersonale (cfr. Rm 7, 15-21).

Un punto discusso della frase è l’asserzione finale "nella sua benevolenza". Se la si congiungesse con quanto segue si otterrebbe un senso più scorrevole, ma si priverebbe l’espressione di una sfumatura non indifferente: il v. 13 presenta Dio come benevolo operatore e custode della loro comunione.

 

La comunità nel mondo
(2,14-16)

14Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, 15perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, 16tenendo alta la parola di vita. Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato.

Anche se ora nelle riflessioni è coinvolto esplicitamente il "mondo", lo sguardo resta rivolto alla comunità; non si tratta, cioè del compito missionario della comunità nel mondo, ma della sua esistenza nel mondo.

v. 14. La comunità deve agire senza mormorazioni e senza diffidenze. La mormorazione costituì il pericolo del popolo di Dio nel deserto, in una situazione nella quale possedeva la promessa della terra, ma non vi era ancora giunto. A differenza dal greco profano, dove significa scontentezza per una meta non raggiunta, il termine gongùzein nella bibbia greca si riferisce all’atteggiamento dell’uomo che si allontana da Dio; il suo contrario è l’ascolto ben disposto della voce di Dio. Anche dialoghismòs è un termine proprio dello stile della bibbia greca, ove descrive spesso, come il mormorare e il brontolare, un atteggiamento di lontananza da Dio. Qui il termine significa la riserva del dubbio, della differenza: chi è animato da una tale riserva non è libero nel servizio di Dio e per la comunità. Le raccomandazioni di Paolo fanno capire che egli conosce la debolezza e l’incertezza nella fede dei destinatari della sua lettera.

v. 15. Al centro del v. sta una citazione di Dt 32,5. Essa proviene dal cantico di Mosè che inizia contrapponendo la fedeltà di Dio all’iniquità del popolo e chiama il suo popolo "generazione falsa e perversa". Il fine inteso da questo v. è che la comunità sia irreprensibile, incorrotta e senza difetti come devono essere i figli di Dio. Per l’azione della grazia di Dio, la comunità si distingue dal suo ambiente circostante. Questo rapporto è descritto nel confronto luce tenebre, tanto frequente nel linguaggio biblico (Is 60, 3). I cristiani sono i figli di Dio nel mondo. Essi sono paragonati a luce e a lampade che illuminano l’oscurità.

v. 16. Per essere la luce del mondo bisogna mantenersi saldamente attaccati alla parola di vita che è il vangelo. Solo qui Paolo definisce il vangelo "parola di vita", cioè parola comunicatrice di vita eterna. Proseguendo la frase, l’apostolo ritorna a se stesso: è da lui che hanno ricevuto la parola di vita, e questo spiega la sua sollecitudine per la comunità. Il vero motivo della gloria è fondato sulla grazia. Paolo è il servo di Cristo Gesù (1, 1) che nel giorno del giudizio dovrà rendere conto al Signore dell’opera di Dio (1, 6). Paolo prende la sua responsabilità molto seriamente perché teme la possibilità di aver corso o faticato invano.

 

Gioia comune
(2,17-18)

17E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. 18Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.

Paolo ricorda nuovamente alla comunità la possibilità del suo martirio. L’esortazione dei vv. 14 - 16 terminava con la prospettiva del giorno del Signore e con la speranza di Paolo di poter essere ancora in vita nel giorno della parusia. L’altra via che porta a questo traguardo è per Paolo la morte. E questo motiva l’espressione avversativa del v. 17: "Ma quand’anche io sia versato in libagione..."

v. 17. Il motivo della gioia di Paolo e dei Filippesi non è l’eventuale morte dell’apostolo, ma il sacrificio e l’offerta a Dio della loro fede. Si deve interpretare la fede, in senso ampio, includendo tutto ciò che riguarda il loro agire e vivere nella fede, incluse le loro preghiere, i loro sforzi missionari e anche il sostegno dato a Paolo. A questo sacrificio e offerta a Dio compiuta dai Filippesi, Paolo aggiunge dall’esterno il suo martirio come libagione.

v. 18. Il motivo della gioia del v. 17 è la vita di fede della comunità alla quale si unisce anche Paolo. Ora invece si tratta della gioia tutta personale di Paolo, che invita i Filippesi a prendervi parte ("rallegratevi con me"), di una gioia legata alla sua condizione nella quale si prospetta il martirio. Se questo verrà, non dovranno scoraggiarsi, ma ricordarsi della sua gioia.

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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