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COMMENTO DELLA LETTERA AI ROMANI

Ultimo Aggiornamento: 22/11/2011 11:41
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22/11/2011 11:39
 
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III°
IL MISTERO D’ISRAELE
(9,1-11,36)

Il tema trattato in questa terza parte è, unitariamente e senza digressioni, Israele e la sua sorte. La connessione dei cap.9-11 con le precedenti parti della lettera è data dal tema della giustizia della fedeltà di Dio al patto, manifestatasi nel vangelo, che rende giusto colui che crede in Cristo e considera Cristo come giustizia di Dio. Questo è il nucleo dell’enigma di Israele: esso ha respinto la giustizia di Dio apparsa in Gesù Cristo e accessibile nella fede, attestata proprio dalla Legge e dai Profeti (3,21). Ma in questo modo l’Israele eletto, che non volle rinunciare alla propria giustizia (l’autogiustificazione in senso fondamentale) e non volle rimettersi alla giustizia di Dio, ha preso una decisione che contrasta con l’adempimento della promessa di Dio.

1) Il Lamento di Paolo su Israele (9, 1-5)

1Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: 2ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. 3Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. 4Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, 5i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

V. 1 - Paolo confessa la sua infinita tristezza per Israele e si dichiara pronto a sacrificare il massimo per il suo popolo, per la sua salvezza in Cristo Gesù. Ciò che ha da dire su Israele, lo dice dunque per un ardente attaccamento. Il suo popolo potrebbe anche non credere, ma egli dice la sincera verità, la verità di Cristo che è in lui. E siccome la coscienza umana di Paolo potrebbe sbagliare, egli aggiunge che la testimonianza della sua coscienza è resa nello Spirito santo.

Ma che cosa assicura egli in modo talmente accentuato?

Vv. 2 - 3 - La tristezza di Paolo è grande e il dolore incessante. Per quale motivo non è detto ancora, ma diventa subito chiaro a chi si riferisca questa tristezza e a quale sacrificio essa sia preparata. Paolo sente tristezza e dolore per Israele. E per amore d’Israele vorrebbe egli stesso prendere su di sé la maledizione di essere separato da Cristo per i suoi compagni di stirpe. È il desiderio di una assoluta disposizione a portare lui stesso per il suo popolo ciò che pesa su di esso. È un’offerta concreta a Dio che ricorda Es 32,32 dove Mosè, dice a Jahvè: Perdona loro il loro peccato! Se no, cancellami dal tuo libro che tu hai scritto. Anàthema è ciò che è stato consegnato alla divinità, ciò che è stato maledetto e votato alla distruzione. Materialmente l’affermazione di Paolo richiama la formula rabbinica: Io voglio essere una espiazione (Kafara) per N.N. (Flavio Giuseppe, La guerra giudaica 5,419).

Egli vuole prendere su di sé per i suoi consanguinei terreni la maledizione che grava su Israele. Egli vuole essere separato da Cristo, nel quale si trova per il battesimo e dal cui amore nessun destino e nessuna potenza del mondo lo può separare (Rm 8,35 ss). Tutta la sua tenerezza e l’indissolubile unione con Israele si chiarisce adesso nella pienezza dell’espressione linguistica con cui egli indica i suoi fratelli e i suoi parenti secondo la carne. In questo modo egli mostra ai suoi lettori un lato del tremendo enigma d’Israele, che aveva ricevuto da Dio così grandi e numerosi privilegi e tuttavia ha resistito tenacemente al volere e all’agire di Dio.

V. 4 - I fratelli per i quali Paolo vuole prendere su di sé la maledizione sono gli Israeliti, termine usato nel senso di Giudei, che è un soprannome onorifico, un nome della storia della salvezza, che da Giacobbe (Gen 32,28-29) era passato alla lega delle dodici tribù. Essere Israeliti significa una ricchezza incomparabile, che ora viene illustrata. Ad essi appartiene la figliolanza, nella quale vengono poi accolti anche i cristiani. La uiothesìa è la figliolanza che si realizza tramite l’adozione. Dio ha adottato Israele. Israele è figlio di Dio, ma come possa la figliolanza essere tolta a lui e venire trasferita alla chiesa sta come domanda dietro questa affermazione.

Agli Israeliti appartiene anche la dòxa, il kebòd Jahweh, la gloria di Dio. Essa accompagna Israele durante la sua peregrinazione nel deserto (Es 16,10; ecc.) e in seguito dimora come segno della presenza di Dio nel tempio di Gerusalemme.

Dio ha anche stipulato con Israele le alleanze, col progenitore Noè (Gen 6,18; ecc.), con Abramo (Gen 15,18; ecc.), con Isacco e Giacobbe (Lev 26,42), con Israele al Sinai (Es 19,5; 34,16; ecc.) e ora Dio ha concluso il patto con la chiesa, composta da giudei e pagani (Gal 4,24; Ef 2,12).

Ad Israele fu data la legislazione. A questa legge è ora subentrata la legge di Cristo (Gal 6,2) che si adempie nell’agàpe della chiesa.

Anche il servizio liturgico nel tempio era proprietà d’Israele. Ora esso viene esercitato da coloro che nella chiesa professano il nome di Dio (Eb 13,15) ed è il culto spirituale (loghikè latrèia) che anche i cristiani provenienti dal paganesimo tributano a Dio con il loro agire (Rm 12,1).

Infine appartengono a Israele le promesse messianiche della benevola salvezza di Dio. Ma ora il seme di Abramo è Gesù Cristo al quale appartengono i cristiani provenienti dai giudei e dai pagani (Rm 4,14 ss; Gal 3,16 ss). Tutto ciò è, per grazia di Dio, la ricchezza di coloro che sono Israeliti: sono congiunti carnali per i quali Paolo è disposto a prendere su di sé la maledizione della separazione da Cristo.

V. 5 - Agli Israeliti appartengono i padri ai quali furono fatte le promesse (Rm 15,8) e per amore dei quali gli Israeliti sono i diletti (Rm 11,28) che costituiscono la radice che porta il nobile olivo (Rm 11,17-18). Infine proviene da Israele il Cristo secondo la carne. È onore di Israele che il Cristo provenga da Israele. L’enunciato richiama Gv 4,22: La salvezza viene dai Giudei. Per Paolo questo è un fatto sconcertante e inconcepibile: Israele rifiuta il suo Messia, mentre i pagani credono in lui. La dossologia è un’esaltazione di Cristo Gesù. Non più però il Messia terreno: egli è sopra tutti, sopra i Giudei e sopra i pagani; egli è Dio e non solo più uno strumento umano di Dio. L’amen è la formula con cui si conferma l’approvazione a quanto è stato detto.

2) Il vero Israele (9,6-13).

6Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti di Israele sono Israele, 7né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: in Isacco ti sarà data una discendenza, 8cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa. 9Queste infatti sono le parole della promessa: Io verrò in questo tempo e Sara avrà un figlio. 10E non è tutto; c’è anche Rebecca che ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre: 11quando essi ancora non eran nati e nulla avevano fatto di bene o di male - perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama - 12le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore, 13come sta scritto:
Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù.

V. 6 - In questo versetto si chiarisce con due affermazioni quanto è stato detto nei Vv.1-5. Viene formulata la frase fondamentale che sostiene tutto: la parola di Dio, che creò Israele come tale, non è diventata vana. Tenendo presente lo sviluppo ulteriore del discorso potremmo dire: Israele è caduto, ma la parola di Dio che è stata inviata a Israele, non ha fallito. Paolo si oppone al sospetto di voler scagionare interamente Israele per addossare tutto a Dio. La parola di Dio non è decaduta, sebbene sia caduto Israele. Perché le cose stanno così: non tutti quelli derivanti dal popolo terreno sono Israele in senso storico-salvifico.

V. 7 - Paradossalmente non sono ancora in effetti i figli di Abramo coloro che provengono da Abramo. Coloro che derivano da Israele e discendono dal capostipite Abramo non costituiscono per ciò stesso l’Israele in quanto popolo di Dio. La qualificazione di figli di Dio o figli della promessa (v.8) non si può applicare a tutta la discendenza. Ma allora chi sono i figli della promessa? Lo dice chiaramente la Scrittura: Perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe (Gen 21,12).

V. 8 - I figli carnali di Abramo sono figli nel rapporto terreno-genealogico e come tali non sono figli di Dio. Soltanto in Isacco si hanno i figli della promessa, quindi quell’Israele che ha il suo fondamento nella promessa di Dio, che è obbligato verso la promessa di Dio, non certo quello che proviene dalla successione naturale delle generazioni. Solo quando viene fatta una promessa creatrice di Dio esiste vera figliolanza. E circa Isacco, Abramo ebbe una promessa creatrice di Dio.

V. 9 - La parola della promessa è Gen 18,10.14. Nel passo si tratta della promessa di una procreazione e nascita di un figlio, che pure avviene contro tutte le premesse naturali. Riguardo a tale promessa, Paolo ha già illustrato la fede di Abramo in 4,18 ss. E in Gal 4,21 ss. egli spiega che Isacco - come figlio della promessa - è il prototipo dei cristiani. Ad essi Paolo può dire: Ma voi, fratelli, siete come Isacco, figli della promessa (Gal 4,28). Ismaele invece diventa il tipo dei Giudei, che si vantano della loro origine carnale da Abramo (Peterson).

Che l’Israele storico come tale non coincida esattamente con l’Israele di Dio risulta ancora da un altro esempio della Scrittura, l’esempio di Rebecca e dei suoi due figli Giacobbe ed Esaù. Che fondamentalmente Dio e la sua parola facciano di Israele il vero Israele è un principio che non si è realizzato una sola volta, ma è un principio generale e sempre valido. È la norma della parola di Dio che determina la storia, e in base ad essa la storia diventa storia della salvezza. L’argomento viene chiarito nei Vv.10-13.

V. 10 - Questo versetto è incompleto. Il verbo va ricavato da ciò che precede (Rm 5,3.11; 8,23). Ma anche in ciò che precede un verbo corrispondente non si trova. Così si dovrà completare l’espressione in base al contesto: Ma non soltanto essa (Sara), bensì anche Rebecca, che fu incinta di un uomo, è un tipo. Se nei confronti del precedente esempio di Sara si sarebbe potuto obiettare che la presenza di due madri diverse, Agar e Sara, rendeva possibile un trattamento diverso dei discendenti, ciò non è più possibile con i figli di Rebecca. Essi hanno infatti lo stesso padre e la stessa madre. A ciò si aggiunge ancora un altro fatto che viene spiegato nella frase seguente e mette in chiara luce il sovrano e libero agire di Dio, il quale previene tutta la storia ed era già riconoscibile in Isacco e Ismaele: la preferenza data a Giacobbe rispetto a Esaù (Vv.11-12).

Vv. 11 - 13 - La costruzione della frase è alquanto intricata. Ma il contenuto è chiaro. Dio disse a Rebecca: Il maggiore servirà il minore (Gen 25-23), cioè il più anziano servirà il più giovane, Esaù servirà Giacobbe. Anche ad essa quindi fu indirizzata la parola creatrice di Dio.

Così la promessa superiorità del più giovane sul più anziano non dipese da loro, ma si fondò soltanto sulla libera sovranità di Dio. La parola che fu rivolta a Rebecca, prima della nascita dei figli e prima che essi potessero agire, parola che fissava la loro futura posizione reciproca, è dunque la parola di Dio che sceglie e stabilisce. Ed è stata pronunciata affinché questa predisposizione rimanga, cioè determini ulteriormente la storia, non solo per Isacco e Ismaele, ma anche per Giacobbe ed Esaù ed altri ancora, e affinché sia continuamente efficace.

Tutta la storia d’Israele si basa sulla promessa di Dio, che in se stessa è la predisposizione di Dio, che elegge e determina. Quindi tutta la storia d’Israele e tutta la storia in genere proviene non dalle opere umane, ma da Dio che chiama e presceglie. Non l’attività umana determina in principio e alla fine la storia, ma la predisposizione di Dio. La storia non può smentire la parola di Dio, ma la parola di Dio può smentire la storia. La libertà del Dio sovrano, che decide della storia prima di tutta la storia secondo la sua volontà, emana la sua chiamata, che viene confermata da un’altra parola della Scrittura. Viene citato Ml 1,2-3: Ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù. Benché misèin in concreto equivalga a non amare - non soltanto ad amare meno -, da esso traspaiono la risolutezza delle decisioni di Dio, che determinano la storia.

Riassumendo si può dire: la parola di Dio non è scaduta. Non tutti i membri dell’Israele terrestre-carnale sono Israele, ma soltanto quelli che divengono Israele in virtù della promessa di Dio, come risulta da Isacco e dai figli di Rebecca. Ancora prima della nascita e prima di ogni loro operato, Dio si è deciso per Giacobbe, e ciò in base alla sua libera decisione preveniente. Questa diventa ora il tema peculiare di 9,14-29.

3) Sovranità di Dio e "Israele" costituito da Giudei e gentili (9,14-29).

14Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! 15Egli infatti dice a Mosè:
Userò misericordia con chi vorrò,
e avrò pietà di chi vorrò averla.
16Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. 17Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. 18Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole
19Mi potrai però dire: "Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?". 20O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così?". 21Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? 22Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, 23e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria, 24cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?
25Esattamente come dice Osea:
Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo
e mia diletta quella che non era la diletta.
26E avverrà che nel luogo stesso dove fu detto loro:
"Voi non siete mio popolo",
là saranno chiamati figli del Dio vivente.
27E quanto a Israele, Isaia esclama:
Se anche il numero dei figli d’Israele
fosse come la sabbia del mare,
sarà salvato solo il resto;
28perché con pienezza e rapidità
il Signore compirà la sua parola sopra la terra.
29E ancora secondo ciò che predisse Isaia:
Se il Signore degli eserciti
non ci avesse lasciato una discendenza,
saremmo divenuti come Sòdoma
e resi simili a Gomorra.

In questa sezione Paolo sottolinea quella sovranità di Dio, che diventa visibile nel caso di Israele con Isacco e Ismaele e con Giacobbe e Esaù.

La testimonianza della Scrittura svolge un ruolo importante. Sembra quasi che Paolo voglia fare una consultazione sommaria dell’intera storia della salvezza perché dopo la tradizione dei padri (9,6-13) egli colloca l’episodio di Mosè (9,14-18) e le parole dei profeti. I Vv.24-29 mettono in evidenza, con ampio uso di citazioni profetiche, lo scopo della discussione di Paolo: la chiesa composta da giudei e da pagani.

Vv. 14 - 15 - La domanda: C’è ingiustizia presso Dio? può essere suggerita dalla precedente citazione di Ml 1,2-3: Ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù. Attraverso la citazione di Es 33,19 si vuol affermare che Dio stesso ha dichiarato la sua potestà e la sua libertà di agire secondo la sua misericordia. Se ciò è sicuro, allora è chiaro che la domanda se presso Dio vi sia ingiustizia è aberrante. Il comportamento di Dio non si può misurare con una giustizia umana, ma è sempre conforme alla giustizia divina.

V. 16 - Non è lo sforzo dell’uomo che determina che cos’è la giustizia, ma la volontà e l’azione di Dio o, come si dice ripetutamente, la sua misericordia.

V. 17 - L’indurimento del Faraone e l’operato sovrano di Dio serve all’autoglorificazione di Dio ed è una prova della sua onnipotente libertà. A Dio non si può porre impedimento e la sua attività non si può determinare: Dio è Dio. Non esiste nessun’altra misura per il suo agire. Può agire per misericordia o per rendere ostinati: comunque, agisce così a suo giudizio e per amore del suo nome, perché esso venga annunciato nel mondo. Ma se Dio si comporta in un modo o nell’altro per amore di se stesso, non c’è nessuna ingiustizia presso di lui. In ciò con cui egli dimostra il suo essere Dio - misericordia o indurimento - c’è soltanto giustizia.

V. 18 - Dio rivela il suo essere Dio come libertà di un agire che usa misericordia o che respinge. Se Dio non mantenesse questa sua onnipotente libertà, che certamente all’uomo sembra arbitrio, se la facesse dipendere da qualche altra cosa o la si volesse misurare con qualcosa di diverso dalla sua volontà, allora egli rinuncerebbe al suo essere Dio. E con ciò egli rinuncerebbe anche alla sua giustizia. Egli vincolerebbe se stesso e la sua giustizia al volere e al parere degli uomini. La questione della responsabilità dell’uomo sta ancora al di fuori del campo visivo. Se ne parlerà in seguito. E ciò non casualmente, ma in conformità delle cose. Infatti responsabilità davanti a Dio c’è soltanto là dove l’uomo dà una risposta alla parola di Dio nella sua storia, disposta e determinata sovranamente da Dio. Di fronte a questo Dio e nei confronti di questa sua libertà, l’uomo è interpellato responsabilmente perché dia la sua risposta libera.

V. 19 - Paolo richiama l’uomo a considerare quale sia il suo posto di fronte a Dio. Il v.19 presenta anzitutto una obiezione: Perché allora Dio rimprovera?, ossia come si può presupporre una colpa, quando tutto ciò che capita si basa sulla volontà di Dio? Questa domanda è ragionevole.

Se è Dio che rende ostinato il Faraone, come può poi rimproverarlo per la sua ostinazione? Più generalmente: se è Dio che indurisce l’uomo, come può l’uomo essere ancora responsabile e diventare colpevole? Secondo il pensiero di Paolo, la libertà sovrana di Dio come origine della sua misericordia può essere intuita solo da chi concepisce Dio non come un partner col quale si possa discutere, ma come colui davanti al quale si deve tacere, perché egli è colui che in tutti i casi pone diritto e giustizia nelle sue azioni.

V. 20 - A Dio non si può replicare nulla e non si può considerare la sua decisione come un’ingiustizia: con Dio non si può questionare. Dio è il creatore onnipotente e l’uomo è sua creatura. Guai a colui che accusa il suo creatore! Egli non è che un coccio fra i cocci di terracotta. Dice forse l’argilla al vasaio: "Che cosa fai tu qui?" e l’opera all’operatore: "Tu non hai le mani?" (Is 45,9). Col suo paragone Paolo vuole accentuare l’impossibilità, anzi l’assurdità che l’uomo come creatura chieda a Dio, suo creatore, perché egli l’ha fatto così (cfr. Is 64,7; Ger 18,3 ss.). In altri termini: egli vuole dire che Dio ha diritto di fare come vuole.

V. 21 - Il secondo paragone ci presenta il vasaio che dispone a piacimento dell’argilla. Egli ha il diritto e il potere di formare da essa vasi per scopi diversi. Il vaso non può obiettare e non può lamentarsi. Per esempio, un vasaio impasta con fatica della terra soffice e forma per il nostro uso ogni singolo pezzo. Ma dalla medesima argilla egli forma i vasi che servono per usi decenti come pure quelli per uso contrario, tutti allo stesso modo. Per quali impieghi fra queste possibilità d’uso ciascuno debba essere usato, su ciò decide chi lavora l’argilla (Sap 15,7). Paolo ricorre all’immagine del plasmatore, al quale il plasmato non può controbattere e con il quale non può discutere. Ma in questo versetto possiamo riconoscere un sommesso rimando retrospettivo alla domanda iniziale sul vero Israele. Ciò è indicato dall’accentuazione: da una sola massa provengono i vasi diversi.

V. 22 - Questo verso non fa riferimento esclusivamente al faraone, perché costui era solo un paradigma della Scrittura indicante il fondamentale agire di Dio. Qui la formulazione di Paolo è del tutto generale.

Dio ha l’intenzione di eseguire il giudizio della sua ira, così come è esposto in Rm 1,18 ss., ma è anche intenzionato a rendere nota la sua potenza. Dio è il Dio che manifesta il suo potere nel suo giudizio d’ira.

Ma proprio questo Dio sopportò i vasi dell’ira, che sono preparati per la rovina, con grande pazienza. La makrothumìa è la longanimità di Dio che concede ai giudei il tempo per la conversione. Se essa non viene utilizzata per la conversione, allora si accumula l’ira di Dio sui peccatori. Dio sopporta i vasi dell’ira come il padrone della parabola del fico sterile si lascia indurre a tollerare "ancora per quest’anno" (Lc 13,8) l’albero che egli voleva abbattere (Peterson). Con ancora per quest’anno si indica il tempo escatologico, il tempo di Dio, il tempo della longanimità di Dio nei confronti dei giudei. Paolo sa che proprio questo Dio, che agisce secondo la sua volontà per amore del suo nome, è il Dio misericordioso. Egli ha misericordia e sopporta con grande pazienza Israele, anche se sta andando verso la rovina, a meno che non si decida a convertirsi al suo Dio.

V. 23 - Questo verso continua a parlare di questo Dio: egli ha anche la volontà di manifestare la ricchezza della sua gloria nei vasi della misericordia che ha destinati alla gloria. Ma chi sono questi vasi della misericordia nei quali ora si adempie l’eterna gloria di Dio?

V. 24 - Finalmente questo versetto rivela chi sono i vasi della misericordia. Sono i cristiani scelti di tra i giudei e i pagani. In questa vasta chiamata, rivolta a tutto il mondo, si manifesta la pienezza della gloria di Dio. È il vertice dell’operare di Dio. La chiamata di Dio venne fatta ai giudei che sono il suo popolo; essa però fu indirizzata non solo a loro ma anche ai pagani.

Vv. 25 - 29 - Le citazioni della Scrittura che devono convalidare il pensiero di Paolo sono introdotte esplicitamente col nome del rispettivo profeta. I passi di Osea trattano della vocazione dei pagani a diventare popolo di Dio. I passi di Isaia si riferiscono al vero Israele che è la chiesa. Dio manifesta la sua forza vitale chiamando i pagani a diventare suoi figli e rendendoli tali.

4) L’inciampo d’Israele (9,30-33)

30Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; 31mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. 32E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d’inciampo, 33come sta scritto:
Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo
e un sasso d’inciampo;
ma chi crede in lui non sarà deluso.

Vv. 30 - 31 - I pagani hanno ricevuto la giustizia per mezzo della fede. Essi si sono abbandonati, consegnati interamente a Dio che li ha resi giusti. Israele invece continua a confidare nelle opere della legge che esigeva e prometteva la giustizia, ma non la raggiunse.

Vv. 32 - 33 - Israele non pervenne al compimento della legge perché non cercò di raggiungere la giustizia partendo dalla fede, come fecero i pagani, ma fondandosi sulle opere della legge. Per opere della legge si intendono le osservanze della legge fatte non per compiere la volontà di Dio, ma per affermare, assicurare ed edificare se stessi, vantandosi e cercando la propria gloria con atteggiamenti presuntuosi. Israele ha urtato contro la pietra che Dio pose come fondamento di Sion ed è caduto su di essa. La conferma viene nuovamente dalla Scrittura. La citazione è composta da una reminescenza di Is 28,16 e 8,14. La pietra posta da Dio come fondamento di Sion, che è il centro della città santa di Gerusalemme, è Gesù Cristo. Era necessario credere e avere fiducia in lui.

Ma Israele non si fidò di lui; vi urtò contro e vi cadde sopra. Essi pensavano solo a ciò che poggia sul fondamento: il tempio e la legge. Intanto dimenticarono la base: la fede (Peterson). Cioè dimenticarono il loro fondamento nascosto, Cristo.

5) La fine della legge e "la parola vicina" (10,1-13).

1Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza. 2Rendo infatti loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza; 3poiché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. 4Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede.
5Mosè infatti descrive la giustizia che viene dalla legge così: L’uomo che la pratica vivrà per essa. 6Invece la giustizia che viene dalla fede parla così: Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? Questo significa farne discendere Cristo; 7oppure: Chi discenderà nell’abisso? Questo significa far risalire Cristo dai morti. 8Che dice dunque? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. 9Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. 10Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. 11Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso. 12Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. 13Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.

V. 1 - Paolo si rivolge alla comunità cristiana di Roma ed esprime il suo desiderio più intimo e la sua preghiera a Dio perché i giudei vengano salvati. La loro salvezza è l’oggetto della sua cordiale intercessione.

V. 2 - Uno dei pregi caratteristici della pietà giudaica è lo zelo per Dio. Israele è attaccato a Dio, si dà premura per Dio, sostiene la causa di Dio. Paolo lo può testimoniare. Ma lo zelo dei giudei manca di discernimento. Essi hanno lo zelo per Dio, ma non nel modo giusto.

V. 3 - I giudei non riconobbero la giustizia di Dio perché si sono sforzati di stabilire una propria giustizia. La giustizia di Dio è la salvezza che proviene da Dio, instaurata e concessa da Dio, mentre la giustizia propria è quella che proviene dalla legge, ossia acquistata con le prestazioni conformi alla legge, con le opere della legge. I giudei vollero attuare una propria giustizia, una auto-giustizia. Per questo non si sottomettono alla giustizia di Dio manifestata in Gesù Cristo che si può ottenere e sperimentare solo nell’obbedienza della fede. Israele, con il suo zelo egocentrico per la legge e per Dio, non è stato disponibile al vangelo che è potenza di Dio che salva (1,16). Se gli Israeliti nutrissero realmente uno zelo disinteressato per Dio, riconoscerebbero la sua giustizia che richiede loro di sottomettersi all’obbedienza della fede.

V. 4 - Perché, in effetti, Cristo è la fine della legge e rende accessibile la giustizia a chiunque ha fede. Secondo Gal 3,24 la legge è il pedagogo verso Cristo, cioè dominò fino a Cristo, affinché noi venissimo giustificati dalla fede. La legge non è più la via verso la salvezza. In quanto legge che provocava prestazioni personali, non era mai stata la via della salvezza. Il tempo della legge è finito ed è Cristo che gli ha posto fine. In Cristo è apparsa quella giustizia di Dio che si ottiene attraverso la fede, lasciandosi attirare verso di lui.

Vv. 5 - 7 - Questo Cristo è presente e quindi chiunque crede in lui può essere salvato. Alle direttive della legge di Mosè è subentrato Cristo. La giustizia che proviene dalla fede proibisce di tentare l’impossibile, di far discendere Cristo dal cielo e di farlo risalire dal regno dei morti. Forse sono due forme proverbiali usate per descrivere l’impossibile (Pr 30,4). La fonte di queste espressioni è Dt 30,11 ss. Ma perché questo divieto?

V. 8 - La risposta è: perché Cristo è già disceso dal cielo ed è già risuscitato dai morti. E Cristo è presente nella parola della fede che viene proclamata dalla chiesa. Non è necessario prelevarlo dal cielo o dal regno dei morti: si trova già nella parola della fede, la quale è vicina a noi. Ma allora anche la salvezza è vicina. Non c’è più bisogno delle opere della legge, ma basta la fede professata con la lingua e col cuore.

V. 9 - Colui che viene professato nella fede è Gesù come Signore. Con la risurrezione dai morti Gesù è stato costituito Signore della chiesa e del mondo e di conseguenza egli è attualmente il Signore che esercita la sua sovranità con la parola del vangelo. Ora che il Cristo ha posto fine alla legge, il professare con la bocca che Gesù è il Signore e il credere nel cuore che Dio l’ha risuscitato dai morti costituiscono il modo per giungere alla salvezza.

V. 10 - Venire salvati è diventare giusti, e viceversa: la giustizia è la salvezza. E ciò significa poter affrontare il giudizio senza essere condannati.

Vv. 11 - 13 - Questo viene convalidato dalla Scrittura: Is 28,16. Paolo aggiunge chiunque per indicare sia il giudeo che il pagano. Per quanto concerne la salvezza da ottenere mediante la fede e la sua professione, non c’è più alcuna differenza tra giudeo e pagano. E la ragione è questa: c’è un unico Signore di tutti il quale dimostra la ricchezza della sua grazia a tutti coloro che lo invocano. Dio è ricco nei confronti di tutti e quindi rende tutti ricchi. In 2Cor 8,9 si dice che Cristo, che era ricco, si è fatto povero e che i cristiani sono diventati ricchi per mezzo della povertà di Cristo. Si parla della ricchezza della grazia e della gloria di Cristo.


 

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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