CAPITOLO II. - LA FEDE OSSEQUIO RAGIONEVOLE
Occorre cogliere la funzione dell'intelletto nello stesso atto di fede, nella preparazione ad essa e nel susseguente sforzo di comprensione.
§ 1 - Compito dell'intelligenza nell'atto di fede.
Adesione fondata su Dio stesso.
- Essendo un atto conoscitivo, l'atto di fede proviene dalla facoltà conoscitiva, cioè dall'intelligenza; esso però supera la semplice conoscenza, perché comporta un giudizio di verità. L'incredulo che studia il cristianesimo può saperne quanto e più di un fedele, ma non vi aderisce e non giudica che è vero.
L'incredulo potrebbe certamente accettare alcune verità die fanno parte del deposito rivelato e che nello stesso tempo rientrano nei limiti dello spirito umano, come l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, ma non per questo fa un atto di fede, perché il suo giudizio e quello del fedele non hanno la stessa natura. Tutti e due dicono: alo credo all'immortalità dell'anima"; ma quell'a io credo " non è Io stesso per tutti e due e comporta la stessa ambiguità che hanno i termini a credenza " e " fede ". Uno crede in seguito a riflessioni e in forza di un ragionamento, l'altro crede sull'autorità di Dio rivelatore. Nei due casi l'atto non è lo stesso e differisce nel motivo, tanto che in un campo dove l'evidenza è così tenue la credenza del cristiano, poggiando sulla suprema e assoluta autorità di Dio, raggiunge una certezza assai superiore a quella dell'incredulo. Il cristiano è assolutamente " certo " e non c'è argomento o arguzia che per sua natura sia capace di scuoterlo, perdiè attinge la verità nella sua fonte, in Dio che è la Verità prima, e aderendo a una verità rivelata sull'autorità di Dio Rivelatore in realtà aderisce a Dio stesso.
Lo sguardo della fede.
- L'atto di fede consiste dunque in un giudizio, caratterizzato dal suo motivo, che è l'autorità di Dio. È un atto semplice, che può essere preparato da ragionamenti destinati a trarre dalla rivelazione questa o quella verità, o a dare un fondamento all'autorità di Dio, ma è sempre distinto da tali ragionamenti, che non gli sono necessari, anche se legittimi. L'atto di fede consiste nel prendere possesso d'un'idea per mezzo dell'intelligenza e nell'aderire alla verità di quest'idea.
È un atto diretto, che non implica necessariamente né la riflessione sulla verità ammessa cercando di approfondirla, né la riflessione su noi stessi, che ci renda coscienti di quello che crediamo. Può accadere che difficoltà d'ordine intellettuale o d'altro genere inducano un'anima a dubitare della sua fede profonda, ma questo non significa che dubiti di Dio e di ciò che Egli rivela, e con la pratica della preghiera, con l'esercizio della carità, e camminando nella direzione della fede, fa implicitamente atti di fede.
È sempre utile e talora anche obbligatorio fare atti espliciti di fede, che possono essere preparati e facilitati, ma anche complicati dai ragionamenti, che talvolta invece di aprire l'accesso lo ostruiscono. Brunetière e Newman seguendo questo metodo, l'uno per giungere alla fede primitiva, l'altro alla fede nella divinità della Chiesa romana, provarono quanto fosse lento questo processo, da cui furono dispensati Paolo Claudel e san Paolo. Ma che cosa importa questo se la ragione deve abbandonarsi e affidarsi a Dio? Perciò la ragione abbandona i ragionamenti che poterono servirle e ora non servono più, perdiè essa scopre la novità di Dio che viene a lei, che con i suoi passi ha avanzato molto poco e d'improvviso scopre che ha superato una distanza infinita. Essa ha così una specie di rivelazione, quella del fatto della Rivelazione. Gli elementi della ricerca sono sempre gli stessi, ma la vista è molto diversa e le s'impone un nuovo modo di vedere.
Questa spiegazione non deve stupire, perché anche nell'ordine sensibile avvengono fatti analoghi. Il nostro sguardo pratico sugli oggetti non è quello specializzato del pittore e dell'artista, che di uno stesso spettacolo hanno una visione più ricca della nostra. Potremmo fare molti esempi; ci bastino due, in cui le impressioni ricevute dall'esterno restano identiche e cambia solo la visione. Uno stesso individuo fissando un pavimento a losanghe di diverso colore, le vede comporsi successivamente in figure diverse. Guardando un gruppo roccioso un amico ci fa vedere figure che non avevamo notate.
Così gli stessi dati della rivelazione e gli stessi ragionamenti colpiscono l'uno e lasciano l'altro indifferente; l'uno vede solo fatti e argomenti dove l'altro coglie segni e prove, e non per questo siamo nel soggettivismo, perché i dati sono oggettivi e reali. Nell'atto di fede scopriamo la novità del fatto della Rivelazione, la testimonianza di Dio, l'autorità di Dio che sollecita la nostra adesione.
L'oggetto della fede è la parola divina.
- La fede può prendere possesso di tutte le verità rivelate, e quando prende possesso di una acquista implicitamente tutte le altre, poiché tutta la difficoltà consiste nel farsi sensibili al motivo per ammetterle, cioè all'autorità di Dio, alla divina veracità, die è motivo eguale per tutte le verità. Chi deliberatamente rigetta una verità rivelata, pecca contro la fede; chi pecca contro la fede corre pericolo di mettere in dubbio l'autorità di Dio e di perdere la fede. Chi perde la fede su di un punto, non salvando il modo, perde la fede su tutti gli altri, qualunque conoscenza ne conservi.
Tra tutte le verità rivelate, quella che Dio è amore che si è abbassato su di noi e ci attira, è la verità centrale che raccoglie e domina tutte le altre e pare servirsene per trasmettersi come verità essenziale attraverso di esse.
Attraverso tutti i dommi, la fede ci fa giungere a Dio stesso, Verità prima che si rivela a noi, e promette di essere il nostro fine ultimo soprannaturale. Infatti proprio qui è il punto di partenza, il termine e la base di tutta la Rivelazione. Perché Dio rivela se non perché ci ama e la sua condiscendenza è prova di amicizia? Perché si rivela e si fa conoscere se non perché lo amiamo com'è in se stesso? Che cosa ci rivela di se stesso se non che Egli è amore e che, sempre per amore, s'incarna, redime e agisce per noi? A questo riguardo la testimonianza di san Giovanni è formale. Questa verità non contiene tutte le altre verità rivelate, ma vi è contenuta in tutte. Volendo trattarci da amici e figli, Dio ci manifesta un amore, ci riserva doni che superano infinitamente ciò che deve alla nostra natura per la sua giustizia e sapienza.
Si accederebbe quindi alla fede scoprendo quest'aggiunta, questo soprannaturale, quest'amicizia offerta da Dio, prendendo l'offerta sul serio e accettandola realmente. Credidìmus carilati scrive San Giovanni; noi crediamo all'amicizia di Dio, anzi crediamo la stessa amicizia in modo che la fiducia, che, credendo dimostriamo a Dio non si rivolge solo alla sua Veracità, ma anche alla sua suprema Bontà, e crediamo sulla parola, perché Egli, specialmente quando ci scopre il suo Amore, non può né ingannarsi né ingannarci.
Chi crede ai doni sublimi dell'amicizia divina, dell'Incarnazione, della Redenzione, dell'Eucaristia, della nostra divina adozione, della Chiesa, della visione beatifica, ecc, coglie implicitamente quest'oggetto essenziale della fede; si può anzi pensare che quelli i quali non sono stati toccati dalla rivelazione cristiana siano capaci di fare il vero atto di fede se aderiscono a Dio e ne scoprono l'amore: " Credere clic Dio esiste e che rimunera quelli che con diligenza Io cercano" (Ebr. 11, fi).
Data la natura, il motivo e l'oggetto della fede consideralo come un atto dell'intelligenza, si comprende cosi che non 6 un alto della sola intelligenza, ma un atto morale, religioso, effetto della grazia; e che per l'adulto è "li necessità di mezzo per la salute, perché é la prima risposta possibile che condiziona tutte le altre all'offerta di salute che ci viene fatta da Dio.
§ 2. - La preparazione intellettuale alla fede.
I segni di credibilità.
- La ragione può verificare l'origine divina del messaggio rivelato con una verifica che è logicamente anteriore alla fede, e che psicologicamente la può accompagnare o seguire. Il credente che si accinge a giustificare la sua fede non abbandona per questo la sua credenza, ma fa una cosa perfettamente legittima e possibile. La Chiesa ha sempre rivendicato per sé il diritto di giustificare la propria fede e per la ragione umana la possibilità di riuscirvi.
Il Concilio Vaticano insegna che ci sono realmente " segni o argomenti esterni della rivelazione, cioè fatti divini, soprattutto miracoli e profezie, che mostrando sovrabbondantemente l'onnipotenza e l'infinita scienza di Dio, sono segni certissimi della divina rivelazione, appropriati all'intelligenza di tutti " (Denz. 1790). Tra i compiti principali l'apologetica ha quello di studiare questi segni.
Veramente l'apologetica accoglie soltanto le ragioni di credere (o segni di credibilità) che hanno un valore generale e possono essere offerti a tutti, perché le ragioni personali ordinariamente non sono comunicabili, ma non sono meno valide, poiché la grazia può far scoprire un segno dell'azione di Dio in un'esperienza privata, ed è una fortuna per quelli che non hanno potuto essere raggiunti dalla predicazione evangelica.
I segni di credibilità si adattano a tutti gli spiriti.
- Non tutti gli uomini sono egualmente sensibili alle stesse prove; chi preferisce attenersi ai miracoli, chi alle profezie, chi alla coerenza e alla stabilità della dottrina; gli spiriti moderni infine saranno impressionati dal miracolo permanente della Chiesa, che ripete l'ascendente personale che Gesù esercitava al suo tempo. San Matteo scriveva il suo Vangelo per i Giudei e insisteva soprattutto sulle profezie; San Marco invece, scrivendo per il lettore romano proveniente dal paganesimo insisteva sui miracoli. Possiamo dire che ci sono prove per tutti i gusti e per tutti i temperamenti. D'altronde i vari segni si rafforzano a vicenda e l'uno spesso implica l'altro, come i miracoli evangelici e la dottrina sono uniti da tal vincolo che il miracolo, segno della rivelazione, essendo quasi sempre un miracolo tanto della bontà quanto della potenza, trasmette a suo modo la dottrina e diviene segno rivelatore. " Andate e riferite a Giovanni ciò che avete veduto e udito:... gli zoppi camminano, ecc". Gesù nello stesso tempo manifestò la sua potenza, rivelò la sua bontà e adempì una profezia. Non occorre filosofare per giungere ad ammettere la trascendenza dei segni, cioè per riconoscere in essi o per essi la presenza e l'azione d'una sapienza, d'una potenza e d'una bontà che supera le forze create; né occorre iniziazione scientifica perché ordinariamente bastano attenzioni, buon senso e quella logica naturale di cui ci serviamo tutti i giorni senza bisogno di analizzarne le leggi, clic ci da certezze e convinzioni ragionevoli, anche se non sempre ragionate.
Non è proibito ragionare; lo faccia chi vuole e può; è anzi consigliabile die Io si farcia. L'apologetica è appunto la scienza delle ragioni di credere. Si potranno anche volgarizzare per le masse le ricerche erudite, ma non occorre possederle appieno e in tutti i particolari. Per offrire ai fedeli buoni elementi di apologetica basta la conoscenza anche succinta purché esatta, della fede e della pratica cristiana.
Per acquistare delle certezze non è nemmeno necessario essere adusati agli esercizi della logica formale in cui può anche errare la ragione di molti, non trovandovisi più la duttilità d'un pensiero vissuto; né occorre cominciare col dubbio che nega ogni valore alla logica naturale, perché il dubbio né illumina né offre il punto di partenza per la certezza. D'altronde non si tratta di dubitare, ma di esaminare e chi non dubita non è meno intelligente.
§ 3. - La ragione che si nutre della fede.
L'intelligenza dei misteri. - Il Concilio Vaticano insegna che s quando la ragione, illuminata dalla fede, cerca con cura, pietà e moderazione, per dono divino acquista una certa intelligenza dei misteri molto fruttuosa, sia per l'analogia delle cose che conosce naturalmente, sia per il legame dei misteri tra di loro e col fine ultimo dell'uomo ".
La religione non è tutto mistero, né lo stesso mistero è tutto misterioso. È pacifico il principio che il mistero non si dimostra e di fatto esso sfugge a un'esauriente comprensione; ma ciò non implica che esso sfugga completamente alla comprensione. Siccome Dio s'è degnato d'insegnare a noi non per abbagliarci ma per istruirci, anche nel mistero si può cogliere qualcosa per soddisfare lo spirito, come pure per la condotta della vita.
Il Concilio Vaticano ci avvia per la strada battuta dalla Chiesa nel suo lavoro teologico.
Un primo processo, analitico, si fonda sull'analogia esistente tra il rivelato e il creato. Perfino le espressioni di cui si serve Dio per rivelare se stesso e la sua azione (Padre, Figlio, Spirito, Verbo, Luce, Vita, Verità, Amore, Redenzione, Cielo, ecc.) sono prese dalla nostra esperienza umana e ci danno quindi un'idea positiva dei misteri che esse rivelano. L'intelligenza le analizza e, dopo averle spogliate del loro antropomorfismo e liberate dalle tare inerenti alla natura creata, ne conserva il contenuto accettabile.
All'analisi segue la sintesi. Tutti i misteri della rivelazione, che è un tutto, sono collegati con in cima la Trinità, il grande Mistero, l'unico che rappresenta un Assoluto necessario; poi gli altri misteri, come la nostra vocazione a partecipare alla vita intima dì Dio, la grazia e, data la cadute dell'uomo col peccato, l'Incarnazione, la Redenzione, e una nuova economia della grazia nei Sacramenti e attraverso la Chiesa. I dommi sono così connessi die basta toglierne uno per scuotere tutti gli altri, come risulta dalla storia delle eresie, e per vederne l'armonia basta concatenare gli uni con gli altri.
La fede vissuta illumina lo spirito.
- Per quanto interessante l'analisi di ciascun domma é soddisfacente la vista del loro insieme, è ancor possibile migliorare la conoscenza che cc ne danno l'analisi e la sintesi, perché dopo averli contemplati, dobbiamo ancora viverli. La dottrina cristiana illumina la nostra vita e, per una felice reversibilità, dalla pratica della vita cristiana riceve un supplemento di chiarezza. Per comprendere qualcosa dell'amore di Dio bisogna amare: l'egoismo è d'ostacolo alla fede. Parallelamente non è possibile intendere bene il " dato rivelato " se non lo si riconosce teoricamente e praticamente nella verità che apporta la luce attesa per orientare la vita. Rileggendo con questo spirito il sesto capitolo di san Giovanni si nota come Nostro Signore, proponendo ai suoi discepoli l'idea, in quel tempo ancora sconcertante, che occorre mangiare il suo corpo, l'associa al progetto splendido a prima vista pazzesco della partecipazione alla vita di Dio; il Padre attira l'uomo e lo da al Figlio; il Figlio lo riceverà dal Padre e non lo respingerà, anzi darà se stesso all'uomo per renderlo al Padre e associarlo al loro divino amplesso: " Siccome il Padre, il vivente, ha mandato me e io vivo per il Padre, così pure colui che mangia di me, per me vivrà ". San Pietro non aveva capito più degli altri " come mai può costui darci da mangiare la sua carne ", ma aveva tuttavia percepito che cosi sarebbe avvenuto e poggia la sua fede su questa grande esperienza: a Tu hai parole di vita eterna ".