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IL NOSTRO CUORE NON HA POSA FINCHE' IN DIO NON RIPOSA

Ultimo Aggiornamento: 15/08/2018 16:03
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15/08/2018 16:03
 
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«Il ritorno di Dio? Inevitabile,
l’uomo ha in sé un richiamo trascendente»

 
 
di Claudio Risé*
*psicoterapeuta junghiano
 
Sulla religiosità oggi, e su chi abbia a no diritto di parola su simboli e riti religiosi, c’è grande confusione in Italia dovuta anche a disinformazione. Lo stereotipo corrente, più volte ripetuto dai grandi media, è che la religione e i suoi simboli non interessano quasi più nessuno. Ci viene spiegato fino alla noia che il mondo sviluppato si occupa d’altro: soldi, divertimento, status, insomma le cose che “contano”. Il resto è bigottismo in via di scomparsa.

È la tesi della “secolarizzazione”. Il mondo ha ormai imparato a fare a meno di Dio, e va avanti, più o meno tranquillamente, per conto suo. Un’ipotesi proposta ormai da più di 230 anni, quando la Rivoluzione francese fece abbattere le statue sacre per sostituirle con quelle della dea Ragione, ed è ormai smentita, come vedremo, da dati internazionalmente noti e accettati. Tanto che il filosofo ufficiale della postmodernità, Jürgen Habermas, ha chiesto di parlare ormai di post secolarizzazione  […].

L’essere umano ha bisogno d’altro, oltre ai soldi e a consumi più o meno splendenti. In particolare ha bisogno di amare e di sentirsi amato da un Altro che lo ricambi da una dimensione più alta ed eterna, e che tutte le culture del mondo chiamano Dio, in forme diverse. È il provvidenziale aspetto della psiche umana che in occidente si è sempre chiamato “anima” (senza ascoltare la quale anche il corpo non sta tanto bene) a cercare instancabilmente Dio e la sua forza. Ed è alla ricerca dell’anima che Orfeo suonava il suo flauto per i boschi della Grecia, non ancora amministrata dalla troika, ma già testimone della nascita della poesia, della cultura e della bellezza di questa parte del mondo. Sì: è da quelle parti che si trovano anche le nostre radici, bibliche, greche, cristiane di cui ci parlò sapientemente Benedetto XVI. Ritrovarle ci fa bene, anche se nella modesta Carta dell’Unione europea non se ne parla affatto (ma non importa).

Il ritorno di Dio che pose fine alla secolarizzazione non avvenne di colpo. Era già per un bisogno religioso che verso la metà degli anni Sessanta (assai prima del 1968), migliaia di giovani occidentali lasciarono le case dei loro indaffarati genitori per una ricerca più alta (senza troppa paura del basso) attraverso la meditazione, la ricerca di sé e quella del sacro. Era l’epoca del Concilio Vaticano II e l’interesse delle chiese cristiane andava alle «verità orizzontali», come le chiamò il teologo Jean Guitton: la pace, i diritti, le libertà, la scienza. Molti di quei giovani intuivano però che da nessuna di quelle categorie pratiche sarebbe scaturito il cambiamento di rotta di cui essi sentivano l’esigenza: mancava l’asse verticale della croce, quello diretta verso l’alto. Lo cercarono (di solito senza trovarlo) nei conventi fra le vette dell’Himalaya, nelle meditazioni, anche tra santoni a volte variopinti; almeno ci provarono. Come già riconobbe lo storico Augusto del Noce, la stessa contestazione giovanile nacque più tardi «dal riconoscimento che la società opulenta porta l’alienazione al suo grado massimo» (L’epoca della secolarizzazione, edizioni Aragno) e dal tentativo di superarla.

Il bisogno rimasto insoddisfatto fu poi di lì a qualche anno riproposto con ostentata superficialità dalla pubblicità, più versatile e a suo modo profonda delle diverse chiese. I «trend setter», gli osservatori di tendenze, molto più informati con i loro sondaggi della fumosa teoria illuminista della secolarizzazione (presa sul serio anche da alcune chiese cristiane), sapevano infatti perfettamente che per moltissimi giovani Gesù era più interessante di qualsiasi altro «brand» e che in fondo avrebbero davvero voluto seguirlo. Così lanciarono, nella primavera del 1973, i jeans Jesus con stampato sul sedere: «Chi ama mi segua». L’Osservatore Romano ci fece un corsivo indignato. Anche Pier Paolo Pasolini sembrò caderci con uno «scritto corsaro» sul Corriere della Sera. In cui peraltro acutamente annunciava che da quel manifesto il capitalismo «forniva agli uomini una visione totale e unica della vita», dal corpo al consumo a Dio, e non avrebbe più saputo che farsene della Chiesa. Come più o meno avvenne. Però siccome PPP oltre ai toni profetici un po’ profeta lo era (come i veri poeti), riconobbe anche che forse questa storia ci parlava del futuro. Forse chiamando i calzoni Jesus e stampandoci sopra «Chi mi ama mi segua», il capitalismo intuiva anche che la sequela di Cristo sarebbe passata da lì, dalla sazietà del consumo, più che dai discorsi sui diritti o sulla scienza fatti dal Concilio. E lo stesso PPP vide in ciò la punizione, la «nemesi della Chiesa per il suo patto col Diavolo»: il consumismo materialista.

Fatto sta che i popoli tornarono davvero a seguire Dio, e non solo nel mondo cristiano. Di lì a pochi anni, in Iran il regime occidentalizzato dello Scià di Persia fu rovesciato dall’ajatollah Khomeini, che lo sostituì con uno Stato teocratico, tutt’ora al potere. Negli Usa si diffusero, anche tra i giovani cristiani libertari, movimenti come i Promise keepers, i mantenitori della promessa, che si sposavano solo dopo aver fatto una solenne e pubblica promessa di mantenere il vincolo matrimoniale rinunciando alla possibilità del divorzio, arrivando a ottenere che in molti Stati federali questa venisse registrata ufficialmente. Insomma contro il «vogliamo tutto» si chiedevano vincoli, per ricostruire identità. Un processo che continua oggi, nel mondo e anche in tutto l’Occidente, rinnovando continuamente la ricerca di nuovi modi di affermazione. Inoltre i Paesi non occidentali avevano dimostrato che la secolarizzazione non era indispensabile allo sviluppo economico e alla modernizzazione, che si verificavano a ritmi molto elevati anche in società prevalentemente religiose come l’India, o Singapore dove anzi la religiosità si intensificava con lo sviluppo. Credere in Dio non significava affatto restare poveri e affamati.

Fu però dopo la caduta del muro di Berlino e dell’Unione sovietica che la secolarizzazione entrò in crisi in tutto il mondo. Il «ritorno di Dio» era ormai evidente, e riconosciuto dalla sociologia religiosa, dai sondaggi condotti ovunque per verificarla, e dalla scienza politica. Il fenomeno non fece piacere alla maggior parte dei vecchi politici, formati fin dall’inizio del secolo scorso sull’ipotesi di un graduale e inarrestabile sviluppo dell’ateismo. Il ritorno di Dio non deve però sorprendere: l’osservazione psicologica mostra con precisa evidenza (in Carl Gustav Jung, Edmund Husserl, Karl Jaspers e tanti altri), che l’uomo ha in sé un forte richiamo trascendente, che si esprime ad esempio nei suoi ideali. Quando non lo ascolta (o viene impedito di farlo) soffre e si ammala. Inoltre ha bisogno di appartenenze più significative e interessanti della tessera del supermercato, che lo aiutino a riconoscere la sua identità e il senso della sua esistenza. Tra questi aspetti identitari quello religioso è fra i più potenti, e ne trascina con sé molti altri. Non è un caso, ad esempio, che alla fine del Novecento, quando dopo la prima ubriacatura di globalizzazione secolarizzata si ricostituirono le antiche nazioni inglobate dall’ex Jugoslavia comunista, il criterio principale nello stabilire i confini fu subito quello dell’appartenenza religiosa. Come ha scritto Marco Rizzi, in quell’occasione: «la religione maggioritaria ha determinato i confini degli Stati» (La secolarizzazione debole, edizioni Il Mulino). Anche in Europa, alla fine del secolo scorso, nazioni e identità religiose stavano già rinascendo.

La Russia post sovietica per prima cominciò presto a ritrovare dopo 70 anni di comunismo ateo gli aspetti religiosi e trascendenti della propria identità, assieme con la propria storia, i propri confini e i propri simboli. In quel Paese ciò ha enormemente rafforzato sia la partecipazione religiosa, che la Chiesa cristiana ortodossa e lo Stato. La Cina, con i suoi attuali dirigenti, se è impegnata nella riproposizione del pensiero taoista, e della visione morale e religiosa di Confucio e dei sui allievi. Non tutti, però, furono contenti della fine della secolarizzazione. In Occidente le più sconcertate furono appunto le due autorità che dall’epoca della «morte di Dio» in poi avevano amministrato l’intera questione religiosa: lo Stato con i suoi partiti tradizionali, e le chiese «sbilanciate a favore del secolarismo», come ha sottolineato il filosofo Marcello Pera in un’intervista a questo giornale (del 5 aprile 2018). Oggi, se la maggioranza degli intervistati da Pew research e tanti altri dichiara tranquillamente di credere in Dio, e moltissimi assicurano di sentirsi rafforzati da un rapporto personale forte con il sacro, la meditazione e la preghiera, significa che la religione è ormai uscita da quell’angolo riservato in cui l’avevano confinata gli accordi tra le diplomazie degli Stati secolarizzati e le burocrazie ecclesiastiche. Ciò però scompagina vecchie abitudini, tradizionali pigrizie e recenti comodità. È più facile far funzionare la Chiesa come una onlus che stare al passo con uno spirito santo che, come dice il Vangelo di Giovanni: «nessuno sa dove viene e dove va», ma è proprio ciò che i fedeli cercano.

Spesso però i sacerdoti non hanno più una relazione diretta né con le lingue in cui la parola biblica e evangelica è stata trasmessa, né con le tradizioni rituali e mistiche che possono sopperire a una sua vacillante interpretazione. Come lamentano molti fedeli: si comportano come assistenti sociali. Ciò però non c’entra con il cristianesimo, dove fin dall’inizio Gesù ammoniva Giuda, l’amministratore-traditore, che protestava per il dispendio dell’olio versato sul suo corpo prima della Passione: «I poveri li avrete sempre con voi, ma non avrete più me» (Marco 14, 1-11). Povertà e ricchezza riguardano la libertà umana; ma è nel rapporto personale con Cristo che si gioca il destino dell’uomo. Come aveva intuito Jean Guitton, le «verità orizzontali» pace, diritti, scienza e «le cose come stanno» hanno disabituato i ministri della fede alla fatica di frequentare l’altro, difficile, asse della croce, quello verticale, con (ad esempio) le sue tensioni in alto verso il futuro (personale e collettivo), e, in basso verso il profondo, il passato e la tradizione. La straordinaria dinamicità del cristianesimo sta invece da sempre nel coniugare le due direzioni, orizzontale e verticale, al centro delle quali sta l’uomo.

Il risveglio della fede come sentimento diffuso e popolare non ha in sé nulla di necessariamente divisivo. Come hanno dimostrato gli studi sulla guerra, al contrario di quanto spesso si sostiene, solo meno del 10% dei principali conflitti è stato provocato da motivazioni religiose. È un fatto però che questa fede ritrovata ed esigente è più complicata da amministrare di consuetudini opportunistiche o devozioni superficiali. Nel cristianesimo in particolare il ritorno di Dio fa invece appello a quella «creatività» non convenzionale cui richiamava Benedetto XVI. Certo è che le ideologie universalistiche del 1700 e le loro fantasie onnipotenti di sostituire Dio e le sue tradizioni nazionali con una «dea Ragione» buona per tutti hanno fatto il loro tempo. Sul piano esistenziale, in modi di vita orientati sempre di più dall’invadenza dell’economia e dalla tecnica, le credenze religiose rappresentano per gruppi sempre più numerosi l’alternativa possibile alle logiche spersonalizzanti dei mercati e disumanizzanti delle tecniche; a cominciare da quelle per la riproduzione artificiale.

Sul piano antropologico riemergono le antiche realtà dei popoli, i territori, le nazioni, le loro culture; e il loro Dio, che può convivere con tutti a patto di venire rispettato. Il nostro è l’uomo-Dio morto sulla croce. L’unico a essere risorto.

fonte: https://www.uccronline.it/2018/08/14/il-ritorno-di-dio-inevitabile-luomo-ha-in-se-un-richiamo-trascendente/


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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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