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VANTAGGI E SVANTAGGI PER CREDENTI E NON CREDENTI

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2019 12:12
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24/03/2013 18:09
 
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La rivista Mente&Cervello:
«chi crede in Dio è più sano e felice»

Chiesa messicanaQualche giorno fa discutevo con una collega insegnante, anche lei laureata in psicologia, e mi ha detto: “Non riesco a capire come fai ad aver studiato psicologia e continuare a dirti credente. La psicologia, Freud in particolare, ci ha fatto capire che la religione è una cosa negativa e ansiogena”. E questo sentire è molto diffuso tra gli psicologi nostrani. È vero che Freud, seguito dalla psicologia di buona parte del ’900, aveva una visione pessima del fenomeno religioso, capace (a suo dire) di generare ansia, sensi di colpa, ritualismo…

È vero anche che Freud è morto nel 1939. Da allora, ovviamente, la ricerca psicologica è andata avanti, sviluppando intuizioni e modelli decisamente positivi nei confronti della religione: per esempio l’esperienza di picco di Maslow, la logoterapia di Frankl, la teoria dell’attaccamento religioso di Kirkpatrick, l’intelligenza esistenziale o religiosa di Gardner. E a queste intuizioni va aggiunto il contributo della psicologia comportamentista, il cui frutto più significativo può essere identificato nel Manuale di religione e salute: la metanalisi compiuta su circa 2.800 studi rileva che la religione, in concreto, fa bene alle persone dal punto di vista psicologico, fisico, sociale. Decisamente pertinente, in questo panorama, è l’aforisma di Francesco Bacone: “Poca scienza allontana da Dio, molta scienza riconduce a lui” (Saggio sull’ateismo, 1612).

Un esempio reale e concreto di come si stia attuando finalmente un vero e proprio ribaltamento di paradigma (religione da negativa a positiva) è offerto dal recente numero di Mente e Cervello (marzo 2013), la più diffusa rivista italiana di psicologia. Il dossierNati per credere contiene due articoli, che vale la pena di analizzare.

Nel primo articolo, Più credenti più sani? di Sandra Upson, l’autrice prende atto del fatto che la religione fa bene alla salute: “Un’ampia massa di ricerche suggerisce che, in confronto alle persone religiose, chi non ha un credo ha meno probabilità di essere sano e felice – certamente le nostre due massime aspirazioni terrene – e tenderebbe a perdere almeno sette anni di vita. Parecchi studi condotti su larga scala hanno confermato la stessa cosa: più ci si impegna in attività religiose e meglio si sta” (p. 25). Un’ammissione che può sembrare sorprendente, tenendo conto che la rivista è pubblicata dallo stesso gruppo editoriale di L’Espresso e La Repubblica, non certo filo-religiosi.

L’autrice però, nel proseguo dell’articolo, cade di fatto in un semplicistico riduzionismo: i benefici della religione vanno ricondotti all’appartenenza a un gruppo sociale coeso. Anche se dice che “i vantaggi della religione non possono essere ridotti solo alle reti sociali che offre” (p. 28), conclude: “Nei paesi meno religiosi – fra cui Estonia, paesi scandinavi, Hong Kong e Giappone – [...] la fede religiosa è bassa ma il morale delle persone è alto” (p. 30); “Una società pacifica e cooperativa, anche senza religione, sembra avere lo stesso effetto” (p. 31).

Certo, uno scienziato – in quanto tale – non può ricondurre gli effetti positivi della religione p.es. ai frutti dello Spirito Santo (amore gioia pace pazienza…). Ma non dovrebbe arrivare a liquidare la religione con un semplice riduzionismo sociale. Far parte p.es. di un gruppo di ultrà sportivi, o di una bocciofila di pensionati, può anche avere risvolti sociali positivi per la persona, ma non è certo un elemento che può avere ricadute positive per la società. E rimanendo agli esempi citati dall’autrice, le nazioni indicate dalla Upson come esempi di “morale alto”, a ben vedere di alto hanno il tasso di suicidio (vedi voce sulla en.wiki): Giappone 21,7; Estonia 18,1; Finlandia 16,8; Hong Kong 14,6; Svezia e Norvegia 11,9; Danimarca 11,3. Come indice di paragone, si pensi ai casi della Spagna (7,6) e dell’Italia (6,4), nazioni tutto sommato religiose a livello popolare.

Nel secondo articolo, Credenti nati di Girotto, Pievani e Vallortigara, gli autori prendono atto del fatto che “migliaia di credi religiosi hanno affollato la storia dell’umanità” (p. 34), e che dunque – volendo usare categorie antropologiche – il sacro è un apriori umano. Tuttavia, proseguendo ancora con un intento riduzionista, gli autori riconducono questa credenza alla facilità dei bambini nel vedere agenti (divinità) dietro a eventi di per sé inerti. Credenza che da adulti si può agevolmente abbandonare (p. 39).

Ma la domanda vera, a cui uno scienziato non può dare risposta, è: vedendo la regolarità e razionalità del cosmo, davvero noi ci inventiamo un Dio inesistente? Non potrebbe essere invece che scopriamo un Dio esistente? È questa la strada – la “via oggettiva” – seguita dalla tradizione cristiana: iniziando dall’Antico Testamento (“tu hai disposto ogni cosa con misura, calcolo e peso”, Sap 11,20; “dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore”, Sap 13,5), passando per Paolo (“le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute”, Rm 1,20), e culminando con le 5 vie di Tommaso, con strascichi significativi nel pensiero di grandi intellettuali credenti come p.es. Galileo, Einstein, Anthony Flew.

Roberto Reggi

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01/06/2013 12:08
 
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Più religiosi, meno depressi

Cattolici cinesiLa religione fa bene anche alla salute psicofisica. Questo ormai è ben noto ai tanti psicologi “seri”, cioè non ideologizzati né aprioristici, che si occupano del benessere delle persone.

La più autorevole conferma si trova nel già tante volte citato Manuale di religione e salute: la metanalisi compiuta su circa 2.800 ricerche scientifiche ha trovato in circa 2/3 di esse effetti positivi della religione nel benessere (psichico, medico e sociale) delle persone, con una minima parte di studi negativi e gli altri inconcludenti.

Uno degli ultimi studi che conferma questo legame positivo è stato pubblicato poco fa, nell’aprile 2013, nella rivista Journal of Affective Disorders. La ricerca esamina 159 pazienti in cura psichiatrica per depressione, e trova che l’avere un credo religioso migliora la risposta al trattamento terapeutico.

Nello specifico, la ricerca ha trovato che l’effetto positivo sarebbe riconducibile a una migliorecompliance (leggi còmplaians), cioè la “complicità” tra malato e terapeuta, da parte dei pazienti credenti rispetto ai non credenti. La cosa di per sé non costituisce una novità: già ilManuale aveva trovato che, su 27 studi a proposito, in 15 (56 %) la complicità è positiva (migliore nei credenti), mentre in 4 (15 %) è negativa.

Vale forse la pena di allargare lo sguardo rispetto alle conclusioni assodate dallo studio: il rischio è di arrivare a dire “la religione fa bene solo perché…”. Il benessere psicofisico maggiore dei credenti è dovuto a diversi motivi:

* chi crede sa bene che la vita ha un senso. E avvertire un senso nella vita implica vivere la vita meglio, con pienezza e gusto (vedi la logoterapia di Frankl);

* chi crede sente l’amore di Dio su di sé. E sentirsi amati è ovviamente una cosa positiva (vedi l’attaccamento religioso di Kirkpatrick);

* chi crede avverte la religione come un’esperienza di picco, capace di subordinare gli altri bisogni umani a un ideale più grande, altruista verso gli uomini e trascendente verso Dio (vedi l’esperienza di picco di Maslow);

* chi crede sa di avere una comunità di riferimento e di cui fa parte, dalla quale eventualmente attingere informazione, sostegno e risorse (vedi il paradigma socio-costruttivista, che riconduce il comportamento umano all’ambiente sociale).

Tutto questo rimanendo, per così dire, a livello scientifico, dato che chi crede sa bene che al proprio benessere contribuisce lo Spirito Santo con i suoi doni: amore, gioia, pace, pazienza… Elementi che ovviamente la ricerca scientifica non può (per definizione) accertare.  In definita: credere fa bene alla salute. E di questo aspetto positivo, indubbiamente fondamentale per la nostra società, purtroppo non se ne parla mai abbastanza.

Roberto Reggi

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01/07/2013 08:01
 
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Nuovo studio:
i cristiani sono più felici anche su Twitter

Arriva oggi ad aggiungersi uno studio pubblicato su “Social Psychological & Personality Science” attraverso il quale gli psicologi dell’Universita’ dell’Illinois (Usa) hanno analizzato quasi 2 milioni di messaggi di testo (tweets) postati su Twitter, rilevando che i cristiani usano parole più positive e un minor numero di termini negativi rispetto ai non credenti, un minore uso del pensiero analitico(cioè meno parole come “perché” e “penso che”) ma un più frequente uso di parole sociali, correlate a termini che indicano emozioni positive.

«Gli atei hanno usato uno stile di pensiero più analitico nei loro tweets, che alla lunga può rendere le persone meno felici», ha spiegato Ryan Ritter, uno dei ricercatori. Mentre Will Gervais, psicologo dell’Università del Kentucky ha spiegato qualche anno fa: «Sia il ragionamento analitico che quello intuitivo sono strumenti utili. Ognuno può pensare in modo intuitivo e analitico, e nessuno dice che il sistema intuitivo è sbagliato e quello analitico è giusto». «Se le persone religiose sono davvero più felici delle persone non religiose, le differenze nei rapporti sociali e nello stile di pensiero possono aiutare a spiegare perché», hanno commentato gli studiosi di questo nuovo studio. I risultati sono in linea con altri studi che collegano i maggiori livelli di connessione sociale di maggiore benessere

Blaise Pascal avanzava questa scommessa: «Se Dio esiste, si ottiene la salvezza. Se ci sbagliamo, si è vissuto un’esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di finire in polvere». Questo assunto filosofico sembra oggi continuamente confermato dagli studi sulla psicologia del benessere. E’ evidente che la letizia e la pace che contraddistinguono una vita autenticamente cristiana non vanno però scambiati con la causa della fede, ma sono solo uno dei suoi tanti effetti. Altrimenti avrebbero ragione coloro che parlano della religione come un effetto placebo, incappando appunto in una fallacia argomentativa (confusione tra causa ed effetto).

La dott.ssa Maria Beatrice Toro, psicologa e psicoterapeuta, ha in ogni caso evidenziato i motivi per cui i benefici della fede sulla psicologia umana vanno completamente distinti dalle pratiche suggestive e ipnotiche e dall’effetto placebo.

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10/09/2013 12:42
 
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Vivere in sofferenza e amare Dio: il cristiano può farlo

Francesca PedrazziniIl problema del male e della sofferenza è un argomento molto serio, una grande tentazione di incredulità nei confronti di Dio per alcuni.

Esistono due tipi di sofferenza: quella provocata e quella innocente. La sofferenza provocata è quella che l’uomo genera a causa dell’errato uso del libero arbitrio. Non solo i comportamenti sbagliati che provocano danni agli altri, ma anche un certo modo di rapportarsi all’ambiente naturale causando frane, valanghe e vari disastri naturali. Anche per quanto riguarda l’esistenza di molte malattie la causa è dovuta all’agire dell’uomo, come l’inquinamento, l’alimentazione ecc. Non si può imputare a Dio la colpa di questa sofferenza, l’uomo è stato creato come essere libero, capace di fare il bene ma scegliere anche il male. Può essere che Dio intervenga per evitare una degenerazione di questo male, noi non possiamo saperlo, tuttavia rispetta la libertà dell’uomo, anche di sbagliare, così come di rifiutare il Suo amore.

Il male innocente, invece, è quel tipo di sofferenza apparentemente gratuita, come la malattia di un bambino. L’uomo non ha colpa di questo, dunque la colpa è di Dio? Si, a meno che esistaun disegno di bene più grande di quanto l’uomo possa capire. Questa non è un’astrazione ma è un’intuizione a cui solo i cristiani possono approdare, perché solo essi possono stare di fronte al male innocente senza scandalizzarsene, anche se non lo capiscono fino in fondo. Nessun’altra religione (ammesso che il cristianesimo sia una religione), infatti, è capace di questo, addirittura il Buddhismo ha come suo centro un “metodo” per evitare di confrontarsi con il male: non sa spiegarlo e dunque cerca di elevarsi al fine di ignorarlo (nirvana). L’ateismo, al contrario, amplifica il dolore del male innocente perché cancella ogni sua possibilità di senso ultimo.

Solo nel cristianesimo Dio non ha vergogna, attraverso Gesù Cristo, di immergersi nel dolore umano, di farsi compagno dell’uomo e di soffrire ingiustamente un dolore straziante ed innocente. Eppure da questo male ne è emerso un bene più grande: solo potendo morire Cristo ha potuto risorgere, dimostrare all’uomo che la morte (il male più ingiusto di tutti!) può essere vinta. Alla luce della Resurrezione il dolore innocente subìto da Cristo acquista un significato, non scandalizza più. La croce è un mezzo per un bene più grande, così come è stato per Cristo. Egli non ha tolto il male dal mondo, non ha guarito tutti i malati che ha incontrato, ma ha dato all’uomo la possibilità di stare di fronte al dolore da uomo. La chiave è guardare Lui stesso: «Se uno vuol venire dietro me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16:24). «Dio non ci ha tirati fuori dai guai, Dio è il gancio per tirarci fuori da essi. Questo gancio è il crocifisso»ha spiegato il filosofo Peter Kreeft. La rivelazione cristiana ha dato un senso vero alla vita e dunque anche alla morte e al dolore, molto più decisivo e importante che aver tolto il male dal mondo: si può essere sani fisicamente ed essere disperati (senza speranza) e si può essere malati e sofferenti nel corpo ma essere lieti nel cuore, affidati a Dio.

Un esempio di tutto questo è stato il modo con cui ha vissuto Francesca Pedrazzini, morta il 23 agosto 2012 a 38 anni a causa di un cancro. Cristiana, cattolica, la sua agonia lieta tra chemioterapie e ricoveri in ospedale, ha convertito molti, ha toccato i cuori. Era lei a rassicurare gli amici dicendo: «Sono in pace perché Gesù mantiene la promessa di renderci felici. Fai con me questa strada e lo vedremo. Ne sono certa. Ti abbraccio». Nel cammino supportata dagli amici e da un sacerdote, don Julian Carrón (leader di Comunione e Liberazione, movimento a cui Francesca apparteneva), il quale le diceva con tenerezza: «Vedi, Francesca, siamo tutti malati cronici. Ma tu hai un’occasione in più per la tua maturazione. Non devi perderla». Era lei a rassicurare il marito: «Guarda, devi stare tranquillo. Io sono contenta. Sono in pace. Sono certa di Gesù. Non ho paura, va bene così. Anzi, sono curiosa di quello che mi sta preparando il Signore. Mi spiace solo per te, perché la tua prova è più pesante della mia, sarebbe stato meglio il contrario».

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17/12/2015 21:07
 
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L’educazione religiosa è un antidoto contro le dipendenze



Di questi tempi educare i figli non è facile, si sa. Lo è ancor di più se l’ambito da educare è quello religioso. Molti, per questa difficoltà, non lo fanno. Anzi, per una sorta di velo di laicità e vago rispetto della libertà del figlio – dicono – delegano allo stesso la scelta di orientarsi, se orientarsi, lasciando così una sorta di “vuoto” educativo che un giorno riempirà da sé, se lo vorrà.


Senza entrare nel merito della questione, in questo senso, ci limitiamo a domandarci: se un genitore educa i propri figli insegnando loro il meglio di ciò che è e sa – segnandolo inevitabilmente nel processo decisionale dello sviluppo, cosa che non appare un problema in tutti gli ambiti, a quanto pare! – perché non lo dovrebbe fare anche nell’ambito religioso?


Provocazioni a parte, nel seguente articolo cercheremo di mettere in luce un motivo in più per educare il proprio figlio alla dimensione religiosa. Una ricerca firmata da Michelle V. Porche e altri collaboratori di università statunitensi, pubblicata il 2 aprile 2015 in un convegno sul superamento dipendenze alla Chester University in Inghilterra, ha infatti messo in luce come l’educazione religiosa influisca positivamente nella libertà da dipendenze, da alcol e non solo, nei ragazzi che si affacciano nell’età adulta.


Questo studio è stato condotto con il patrocino del National Institute of Mental Health su un campione di persone tra i 18 e 29 anni, abitanti negli U.S.A. ma di provenienze diverse, equamente distribuite tra maschi e femmine, di appartenenza mista a maggioranza Cristiana [Cattolica (29%), Protestante (19%), Battista (17%), Luterana (6%), Metodista (6%), Presbiteriana (3%), Pentecostale (2%) e altre religioni (9%)]. Si indica chiaramente che che nella misura in cui il soggetto viene educato e partecipa attivamente ad una vita religiosa avrà molte più probabilità di condurre una crescita estranea a dipendenze.


Quali le cause? Lo studio individua come la partecipazione attiva dell’esperienza religiosa – intesa non solo alle funzioni religiose ma anche nell’impegno in attività religiose o spirituali –influisca positivamente nel processo decisionale della vita dei soggetti, andando così a formare persone che rispettano il creato innanzitutto a partire da se stessi.


Questa tesi conferma precedenti ricerche datate 2001 (Hodge, Cardenas e Montoya) e 1999 (M- John Wallace) le quali hanno a loro volta rilevato che gli adolescenti che fanno la scelta personale di impegnarsi in attività religiose o spirituali, sono più propensi a interiorizzare comportamenti di in-dipendenza da alcol e da sostanze stupefacenti nella loro vita adulta.


Un’educazione religiosa, nel nostro caso cristiana, dunque non soltanto educa alla fede, apre alla salvezza dell’annuncio evangelico e rende testimoni del Risorto, ma garantisce anche una crescita equilibrata, nonché numerosi altri benefici indicati dalla letteratura scientifica, raccolti nel nostro apposito dossier.


Fabio Casotto



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12/02/2016 10:52
 
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A cosa serve la fede?
Quale convenienza c’è ad essere cristiani?

spiritualitàA cosa serve essere cristiani? Quale vantaggio ci dà? Solo per “conquistarsi il posto in Paradiso”, come dicono alcuni? E’ dunque una fede ripiegata nell’Aldilà?

No. C’è una frase impressionante che Gesù dice nel Vangelo per rispondere a queste domande: «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già nel presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» (Mc 10,29-30).

Avevo già sentito questo passo molte volte, da bambino e da ragazzo. Poi, un giorno, mi è capitato di sentirlo spiegare da don Luigi Giussani così: «”Chi mi segue avrà la vita eterna”, e questo vi può non interessare. Ma “avrà il centuplo quaggiù” -cioè vivrà cento volto meglio l’affezione all’uomo o alla donna, al padre e alla madre, avrà cento volte più passione per lo studio, amore per il lavoro, gusto per la natura-, questo non può non interessarvi». Ha ragione. Cento volte ragione. un promessa così non può non interessare.

In fondo, è questo il vero guadagno della fede. La sua convenienza umana. Non è solo la vita eterna: quella non sappiamo neanche cosa sia. Ma è un’eternità, una pienezza che inizia già qui e ora. Gesù dice questo: chi sta con me, vive in maniera più piena. Non deve censurare nulla. Gusta tutto di più. Cento volte di più. Il centuplo, appunto. Vincendo la morte, non solo promette a noi la vita eterna, ma ci dà un metodo per vivere sempre e tutto pienamente: la sua compagnia. «Io sono la via, la verità e la vita». Stai con me.

E’ una sfida. Ma se Cristo ha vinto la morte, è una sfida che fa a te ora. Se Gesù è davvero Dio, allora tutto è possibile, anche la resurrezione. Ma èsuccesso o no? Abbiamo buoni motivi per crederci? Possiamo fidarci di quei testimoni che dicono di sì, che è successo? A queste domande non si può rispondere con dei ragionamenti, nemmeno solo studiando il Vangelo cercando di capire se gli apostoli erano tipi affidabili. Certo, da lì puoi tirare fuori indizi importantissimi. Per esempio, tutto quello che succede dopo la morte di Gesù sarebbe stato impossibile se Lui non fosse risorto. Prova a immedesimarti nei dodici, anzi negli undici (Giuda, che aveva tradito, non c’era più). Avevano incontrato quell’uomo senza paragoni. Avevano lasciato casa e famiglia per stare con Lui. Si erano convinti, un passo dopo l’altro, ragionevolmente, che quell’uomo era il Messia, cioè il salvatore che il loro popolo aspettava da secoli. Ma Lui muore. In quel modo, poi; come un criminale. Una sconfitta totale. Drammatica. Tanto che loro si disperdono. Quello che era il più forte di tutti, poi, Pietro “la roccia”, addirittura lo aveva rinnegato tra volte in poche ore. Dovevano sentirsi avviliti. Come quei due che camminavano verso Emmaus “col volto triste” perché «speravamo che fosse lui a liberare Israele» (Lc 24,31).

Come fanno le stesse, identiche persone, pochi giorni dopo, a stupire tutta Gerusalemme con la loro predicazione, i miracoli, la capacità di parlare lingue diverse, la forza inspiegabile e affascinante di quell’amicizia che si vedeva a occhio nudo? Come fanno a conquistare i cuori a decine, centinaia e migliaia? Com’è possibile che il cristianesimo si propaghi di colpo, come un’onda in piena, in Siria, Turchia, Grecia, e poi giù fino a Roma, il cuore dell’impero? Sopratutto: come si spiega che quegli stessi uomini, sconfitti e umiliati, trovino la forza di dare la vita per quel “maestro” morto in croce. C’è poco da fare: si spiega solo se dopo la croce è successo qualcosa di straordinario. Di grande. Qualcosa che ha dato loro una forza impossibile, prima. La resurrezione. Pensaci: senza resurrezione, il cristianesimo sarebbe anche storicamente inspiegabile.

Però, come dicevamo, questo non basta. Non basta capire se gli apostoli erano testimoni affidabili. Perché l’annuncio che Dio si è fatto uomo, è morto ed risorto, da loro è passato ad altri, e poi ad altri ancora, e ancora, fino ad arrivare a te, ora. C’è solo un metodo ragionevole per capire se ci si può fidare, lo stesso usato da chi ha incontrato Gesù o dai primi che si sono imbattuti negli apostoli: starci. Stare con loro. Passare con loro del tempo. Dedicare tempo ed energia a quell’annuncio. Prenderlo sul serio. Puoi rispondere solo tu, con la tua esperienza, se è ragionevole fidarsi.

Se Gesù non fosse risorto, del cristianesimo non starebbe in piedi nulla. Solo un insegnamento morale, magari più brillante di altri ma che, alla lunga, ci stuferebbe come gli altri. Ed invece non bisogna inventare qualcosa, arrovellarsi, fare chissà che. Solo stare. Per capire. E’ esattamente il contrario di quello che molti fanno con la fede. Orecchiano qualcosa, afferrata senza prenderla sul serio, senza impegnarsi davvero con quanto viene detto. Magari la prendono anche per buona, ma senza farla diventare loro. E prima o poi, annoiati, la abbandonano. Perché non è più interessante. Ma non può esserlo, senza quella verifica personale.

Se Gesù è risorto, vuol dire anzitutto una cosa: che è davvero il Signore della vita. Cioè colui che dà senso alla vita, che le regala pienezza. Vuol dire che la morte non è la parola “fine”. Non è più vero che “tutto finisce”: c’è la speranza che le cose siano fatte per durare, sempre. Sopratutto, se è risorto vuol dire che anche Lui dura nella storia. Non solo il suo messaggio, ma Lui. La sua persona. E se dura nella storia, possiamo incontrarloanche noi, oggi. Possiamo stare con Lui. E sperimentare, già adesso, il gusto pieno dell’esistenza. Questo è possibile soltanto perché Lui c’è, qui e ora, nessuna filosofia o religione potrebbe riempire la vita di eternità. Solo una Presenza, può farlo.

 

di Davide Perillo

 


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19/02/2016 08:20
 
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Dolore e preghiera, malattia e guarigione:
gli studi confermano gli effetti positivi della fede

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Dolore e preghiera, malattia e guarigione: la scienza si interroga
 

FIRENZE. Il dolore, la preghiera e la guarigione: alcuni studi confermano il loro legame. Non vogliamo entrare nel merito delle singole fedi religiose, o della non fede o non credenza personale, ma ci sono alcuni aspetti nella vita delle persone che non possiamo non considerare.
Le scienze demo-etno-antropologiche ci insegnano a studiare l’uomo da un punto di vista sociale e culturale, e nel piano di studi che ogni professionista affronta nell’approfondire l’essere umano e il suo comportamento si “incontra o scontra con questa realtà”.
Come professionisti della salute dobbiamo immettere nel nostro bagaglio culturale e scientifico tutti gli aspetti che ci permettono di conoscere e comprendere i fenomeni legati alla “persona” che abbiamo davanti.

Sappiamo bene come l’uomo sia composto da una moltitudine di componentiin una dinamicità che lo rende unico e allo stesso tempo legato ad altri fenomeni che lo circondano (ambiente, cultura, società in cui vive, educazione ecc.) e che inevitabilmente lo influenzano (concetti di analisi sistemica e dinamica degli elementi e dei fattori).

Scienza e Preghiera il possibile accordo

Scienza e Preghiera il possibile accordo

Gli aspetti legati al dolore e alla guarigione sono molti e diversificati nelle culture più svariate e modificate nel tempo, così come sono modificati i bisogni e le credenze del genere umano, oltre che gli approcci e le metodiche di cura e guarigione che la scienza moderna ci propone.

Lo stesso “effetto placebo” molto discusso anche in medicina, può esser considerato il più antico e il più efficace trattamento terapeutico conosciuto dall’uomo, e spesso parliamo di una sorta di fiducia (fede) nel rimedio o nel terapeuta che lo somministra. Esso può essere definito come: “la misura di tutti quei cambiamenti benefici, sia fisici che psicologici, che avvengono nelle persone, causati dalle loro aspettative consce o inconsce di guarigione, a prescindere dall’intervento di farmaci o procedure terapeutiche attive”.
Tempo fa abbiamo parlato anche dell’effetto contrario ovvero il Nocebo e dell’importanza della comunicazione.

Ma allora cosa dicono gli studi? È scientifico oppure no parlare di certe cose?Come ci dobbiamo porre di fronte a questi fenomeni? La scienza e i professionisti sanitari possono occuparsi di questi fenomeni?

Nel 2007 presso la Arizona State University, è stato condotto uno studio guidato da David R. Hodge sulla “preghiera e gli effetti sull’uomo”, poi riportato sulle riviste scientifiche Physorg.com e ScienceDaily qui il link originale.

In questa ricerca il Dr. Hodge ha effettuato un’analisi completa di 17 importanti studi sugli effetti della preghiera di intercessione (la preghiera che viene offerta a vantaggio di un’altra persona).
Il ricercatore ha osservato che lo studio effettuato dalla sua équipe è molto importante perché è un’analisi di vari documenti e non un lavoro unico (la meta-analisi è sostanzialmente un riassunto dei risultati provenienti da varie ricerche sullo stesso argomento).

Hodge ha detto che: «questo studio ci permette di guardare il quadro generale. Attualmente è il più completo ed esaustivo studio di questo tipo su questo tema. Inoltre suggerisce che la ricerca su questo argomento è giustificata, dato che la preghiera verso persone con problemi psicologici o medici può aiutare effettivamente a farle recuperare». Egli ha trovato un effetto positivo.

ricerca scientifica e fede

ricerca scientifica e fede

Intervistato dalla Social Work Practice, una delle più prestigiose riviste nel campo del lavoro sociale, ha dichiarato: «In questi anni ci sono stati una serie di studi sulla preghiera per intercessione. Abbiamo condotto quindi una meta-analisi su essi, prendendo in considerazione l’intero corpo della ricerca empirica. Utilizzando questa procedura abbiamo trovato che la preghiera offerta a nome di un altro, produce effettivamente risultati positivi su quest’ultimo».

Dai dati emersi da una recente ricerca l’epidemiologo Mauricio Avendanospiega sull’ Independent che: “la Chiesa sembra svolgere un ruolo sociale molto importante per tenere a bada la depressione e superare le difficoltà di un periodo di malattia nella vita adulta”.
Non è ancora chiaro se il beneficio è legato alla fede, o piuttosto al “senso di appartenenza e di inclusione sociale” che anima chi si sente parte di qualcosa insieme ad altri, precisa l’autore. Quindi sembra che frequentare una comunità religiosa si è dimostrato più vantaggioso, in termini di benessere mentale, anche rispetto ad attività istruttive e culturali, allo sport, al volontariato, all’impegno politico e sociale.
Altri studi invece si focalizzano sull’efficacia del volontariato nel mantenere uno stato di benessere e addirittura poter avere dei benefici come già detto nel ” Il volontariato fa bene, la scienza lo conferma“.

In uno studio condotto dall’Erasmus MC olandese e dalla London School of Economics britannica che ha coinvolto 9 mila persone per quattro anni ha rilevato che “l’unica attività associata a uno stato di felicità duraturo” è proprio la partecipazione regolare a preghiere e celebrazioni, indipendentemente dalla fede di appartenenza.
I risultati quindi suggeriscono che non importa se è una chiesa, una sinagoga o una moschea: frequentare assiduamente un luogo di culto fa bene alla salute mentale, soprattutto dopo i 50 anni. Viene quindi suggerito l’effetto antidepressivo della pratica religiosa.

I nostri risultati dice Mauricio Avendano, suggeriscono che “i diversi tipi di impegno sociale hanno tutti un impatto sulla salute mentale delle persone anziane, e quindi indirettamente sullo stato di salute generale, ma il tipo e l’entità di questo effetto variano a seconda dell’attività”.

Molto importante il ruolo della “rete sociale” è il coinvolgimento in attività sociali.
Ma tra i primi ad aver dedicato quasi 40 anni di lavoro sullo studio del rapporto tra preghiera e salute è stato Herbert Benson, fondatore del Benson-Henry Institute for Mind Body Medicine al Massachusetts General Hospital di Boston.
Sono presenti ben 180 articoli accademici pubblicati e oltre una decina di libri sull’argomento dove lo scienziato ha dimostrato come la cosiddetta “prayer therapy” può veramente funzionare anche per chi non è propriamente religioso o particolarmente spirituale.
L’ultimo studio di Benson sull’argomento risale a un articolo pubblicato non molti anni fa sulla rivista Plos One e ripreso anche dalla Harvard Medical Shool.
Una serie di ricercatori hanno trovato le prove fisiche di una pratica tutta mentale.

Benson ha analizzato i profili genetici di 26 volontari, nessuno dei quali aveva mai pregato o meditato in modo regolare prima di avviarli ad una tecnica di routine di rilassamento della durata di 10-20 minuti, che comprende parole/preghiere, esercizi di respirazione e tentativi di escludere i pensieri quotidiani.
Dopo otto settimane i ricercatori hanno analizzato nuovamente il profilo genico dei volontari. Ebbene, dai risultati è emerso che sequenze di geni importanti per la salute sono diventate più attive e, analogamente, sequenze di geni potenzialmente nocivi sono diventate meno pericolose: qui l’articolo originale dello studio.
Fede, effetto placebo, credenze o scienza? L’essere umano è anche questo e non possiamo ignorarlo soprattutto quando parliamo di salute e benessere. Noi dobbiamo conoscere per intervenire nel miglior modo possibile, secondo scienza e coscienza, seguendo le evidenze scientifiche ma mai sottovalutando la cultura, la fede o la credenza della singola persona. Il termine alleanza terapeutica forse include anche il sapersi “alleare” con questi aspetti tutt’altro che ininfluenti per la cura e la guarigione dei nostri malati.


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16/11/2016 14:15
 
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Scienziato americano che ha studiato 40.000 casi:
la preghiera ha il potere di curare le malattie

Diverse ricerche mediche hanno sottolineato l'effetto della preghiera
e della meditazione sulla salute umana

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Il dottor Andrew Newberg, della Thomas Jefferson University (Stati Uniti), è uno dei tanti ricercatori che sottolineano il grande effetto della preghiera e della meditazione sulla cura delle malattie.

Il medico ha compiuto studi su 40.000 pazienti, basati su risonanze magnetiche, e ha presentato le sue considerazioni nel libro How God changes the brain (Come Dio cambia il cervello), del 2009. Da allora, varie altre ricerche hanno ribadito questa conclusione.

Nelle sue esperienze, il dottor Newberg ha selezionato persone anziane con problemi di memoria per osservarle prima, durante e dopo aver effettuato meditazioni e preghiere.
Gli studi sono stati compiuti per 12 minuti al giorno per 8 settimane, e hanno mostrato che la preghiera e la meditazione possono portare a risultati molto positivi per la nostra salute.
Quando effettuate regolarmente, la preghiera e la meditazione aumentano l’attività del cervello in modo simile a quello che accade con la comunicazione, funzionando da “allenamento fisico” per la mente e portando allo sviluppo cerebrale e anche alla cura di varie malattie.

Altri studi precedenti e successivi a quello del dottor Newberg hanno sottolineato lo stesso fenomeno.

Un’esperienza pubblicata sulla rivista Cancer, della Società Americana per il Cancro, attesta che i pazienti con solide convinzioni spirituali reagiscono meglio ai trattamenti.

I ricercatori del Moffitt Cancer Center, della Florida, hanno osservato che le persone che credono in una “forza superiore” hanno una migliore convivenza sociale e più salute fisica e mentale rispetto a quelle che affermano di non credere.

da Aleteia.org





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04/04/2017 16:49
 
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Chi crede che tutta la natura sia stata concepita e realizzata da un Essere che ha fatto ogni cosa con un fine di bene, si sente grato per tutto ciò che lo circonda e che non e' stato ancora deturpato da mani avide o distruttrici;
Ne riesce a cogliere la delicatezza, la bellezza, l' armoniosità, e l'intrinseco messaggio che il Creatore stesso ha posto nelle creature, che ci comunicano il Suo amore per noi attraverso di esse. E ciò facendo sente anche in sé un senso di gioia intima per l'affetto che vi scopre e perché si rende conto di essere amato, a prescindere se a volte la natura si allontana dal modello originario a causa della libertà mal utilizzata.
Chi non crede in un Creatore, o non ritiene che Egli provvidentemente accompagni l'umanità lasciandolo anche libero di esprimersi entro ampi limiti, non riesce a godere in profondità di questa intima consapevolezza, perché pur se riesce ad apprezzare la natura, difficilmente sentirà l'amore che vi e' nascosto per chi ne impara a scorgere il divino Autore
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10/08/2017 16:25
 
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Sapevate che un ritiro ignaziano può cambiare il vostro cervello?




 


 


I ricercatori statunitensi hanno scoperto che gli Esercizi Spirituali
influiscono sui sistemi di benessere cerebrali

I ritiri ignaziani sembrano provocare “cambiamenti significativi” nel cervello, sostengono gli scienziati statunitensi.

I ricercatori del Marcus Institute of Integrative Health della Thomas Jefferson University hanno studiato le risposte cerebrali delle persone che hanno compiuto un ritiro ignaziano e hanno pubblicato i risultati a cui sono giunti su Religion, Brain and Behaviour.

Il dottor Andrew Newberg, direttore delle ricerche dell’istituto, ha affermato che lo studio “ha mostrato cambiamenti significativi nei trasmettitori della dopamina e della serotonina dopo il ritiro di sette giorni”.

“Visto che la serotonina e la dopamina sono parte della ricompensa e dei sistemi emotivi del cervello, ci aiuta a capire perché queste pratiche portino a esperienze emotive potenti e positive”, ha aggiunto, come riferisce il Catholic Herald.

La dopamina è nota come “piacere chimico” ed è implicata in un’ampia serie di funzioni cerebrali, dal controllo dell’attenzione al movimento. La serotonina è spesso chiamata “l’ormone del sentirsi bene” e aiuta a controllare emozioni e stati d’animo.

Lo studio è stato condotto dal Fetzer Institute e ha coinvolto 14 partecipanti cristiani tra i 24 e i 76 anni che hanno frequentato un ritiro ignaziano e hanno praticato gli Esercizi Spirituali del fondatore dei Gesuiti, Sant’Ignazio di Loyola.

Dopo la Messa del mattino, i partecipanti trascorrevano la maggior parte della giornata in silenzio, preghiera e riflessione, e incontravano ogni giorno un direttore spirituale.

I partecipanti hanno rivelato un cambiamento positivo significativo a livello di salute, tensione e stanchezza, e hanno riferito di un senso di “trascendenza da sé” che i ricercatori collegano all’aumento dei livelli di dopamina.

“Il ritiro a cui ho partecipato mi ha trasformato e mi ha aiutato a collegarmi più facilmente allo Spirito e a ricollegarmi a Dio”, ha confessato un partecipante secondo quanto riporta l’Independent. “Prima del ritiro, inoltre, avevo un range limitato di emozioni, in particolare non ero molto empatico e non riuscivo a piangere. Durante il ritiro, però, ho provato l’esatto opposto”.

Prima e dopo il ritiro, i partecipanti sono stati sottoposti a una TAC che ha permesso ai ricercatori di valutare la loro attività cerebrale.

Dopo 7 giorni di ritiro, hanno dimostrato una riduzione tra il 5 e l’8% nel collegamento del trasmettitore di dopamina, e una riduzione del 6,5% in quello del trasmettitore di serotonina. Per i ricercatori queste diminuzioni possono portare a una maggiore disponibilità di dopamina e serotonina nel cervello, che può avere effetti psicologici positivi.
“In qualche modo, il nostro studio suscita più domande che risposte”, ha sottolineato il dottor Newberg. “Il nostro team è curioso di sapere quali aspetti del ritiro abbiano provocato i cambiamenti nei sistemi di neurotrasmissione e se ritiri diversi produrrebbero effetti differenti. Speriamo che studi futuri riescano a rispondere a queste domande”.

 


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31/10/2017 16:52
 
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I sorprendenti benefici per la salute quando si canta in un coro di chiesa



 



Le mie cognate hanno voci fantastiche e cantano entrambe nel coro della loro chiesa. Io sono stonata come una campana, e quindi per quanto mi riguarda l’idea di unirmi a un coro ha sempre fatto parte del mondo della fantasia, ma amo, anzi adoro sentire i cori cantare. Ascoltare le voci che si intrecciano armoniosamente è come una magia, ancor di più perché non ho idea di come facciano quei maghi a creare quello splendore con la propria voce.


Ascoltare i cori è incredibilmente rilassante, quasi come una meditazione, e quindi non mi sorprende che ci siano dei benefici per la salute associati al sentir cantare le persone, come livelli di cortisolo ridotti. Quello che invece mi ha stupito è la constatazione che cantare in un coro apporti benefici fisici e psicologici che superano quelli del semplice ascolto, come hanno scoperto di recente due psicologi del Trinity College di Dublino:


Ascoltare quell’esecuzione rilassante ha aumentato in modo significativo il livello di consapevolezza dei partecipanti, ma per il gruppo che cantava questo valeva a un livello molto più ampio. Ciò suggerisce che ascoltare musica può aiutare a concentrarci sul momento presente, ma cantare lo fa in modo più efficace.


La ragione è intuitiva, visto che cantare in gruppo richiede “grande concentrazione”, che preclude “ansia per i motivi di preoccupazione”, scrivono i ricercatori. “Dover stare attenti a molti dettagli, come guardare il direttore, ascoltare le altre voci, leggere la musica e/o ricordare le parole contribuisce a raggiungere questo stato di attenzione e consapevolezza”.


I benefici della consapevolezza sono oggetti di ricerche approfonditi e non sono limitati alla mente. La consapevolezza e l’accettazione dell’ansia emotiva possono bloccare l’impatto che il cortisolo, l’ormone dello stress, ha sul corpo, difendendo la persona da problemi di salute collegati allo stress come malattie cardiache e obesità.


La consapevolezza può tuttavia essere una capacità difficile da padroneggiare, soprattutto per chi ha una vita domestica o un lavoro molto impegnativo. E se mi assomigliate, quando vi ritagliate del tempo per mettere in pratica la consapevolezza potreste finire frustrati da una mente impegnata che non smetterà di ricordarvi tutto ciò che dovreste fare.


Cantare in un coro promuove la consapevolezza attraverso un’attività che richiede concentrazione, e potrebbe essere un modo semplice e gradevole di inserire questa pratica nella vita impegnata, con il beneficio aggiuntivo di partecipare a un’attività sociale.


Sembra che ci siano solo aspetti positivi… ovviamente se siete intonati. Il resto di noi dovrà accontentarsi di ascoltare. Consapevolmente.



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07/02/2019 12:12
 
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Chi va a Messa è più felice
dei cristiani nominali e dei non religiosi

credenti felicitàI cristiani praticanti sono più felici dei non praticanti e dei non religiosi, lo scopre il Pew Research Center in una nuova analisi basata su dati provenienti da diversi paesi del mondo. Chi va a Messa è anche più impegnato nella carità e in comportamenti sani.

 

Si parla di “persone religiose”, in realtà lo studio che presentiamo è svolto in Paesi a dominanza cristiana (e cattolica). Gli stessi autori precisano, infatti: «I paesi analizzati sono per lo più nazioni a maggioranza cristiana, in Europa e nelle Americhe, sebbene l’analisi includa anche alcuni paesi e territori africani e asiatici, come il Sud Africa, la Corea del Sud ed il Giappone».

La conclusione è che i fedeli praticanti, che partecipano attivamente alla Messa e alla vita parrocchiale, tendono ad essere più felici, più civicamente impegnati e meno attivi in comportamenti dannosi e anti-sociali, rispetto agli adulti non affiliati ad alcuna religione o ai credenti non praticanti.

E’ una nuova, enorme, analisi pubblicata due giorni fa dal Pew Research Center, basata sui dati delle indagini svolte negli Stati Uniti e in molti altri paesi del mondo (tra cui Colombia, Ecuador, Australia, Brasile, Perù, Argentina, Germania, Cile, Spagna ecc.). Molti studi precedenti hanno trovato associazioni positive tra religiosità e benessere psico-fisico, qualità e longevità della vita, in gran parte li abbiamo raccolti in un dossier specifico.

 

Una fede attiva è correlata a livelli più alti di felicità e altruismo.

La nuova indagine ha suddiviso il campione in tre categorie: le persone “attivamente religiose”, cioè coloro che si recano a Messa e partecipano ai sacramenti (almeno una volta al mese); le persone “credenti nominali”, coloro che rivendicano un’identità religiosa ma non frequentano e non praticano (chiamati anche “inattivi”); e le persone “religiosamente non affiliate”, cioè coloro che non si identificano in alcuna religione organizzata.

Il primo dato che emerge è che «questa analisi rileva che negli Stati Uniti ed in molti altri paesi, la partecipazione regolare ad una comunità cristiana è chiaramente collegata a livelli più elevati di felicità e impegno civico (in particolare, il voto durante le elezioni e l’adesione a gruppi di carità o organizzazioni di volontariato). Ciò potrebbe suggerire che le società con livelli decrescenti di coinvolgimento religioso, come gli Stati Uniti, potrebbero essere a rischio di declino nel benessere personale e sociale».

Soltanto negli Stati Uniti, il 58% degli adulti attivamente cristiani è attivo in organizzazioni di volontariato, gruppi di beneficenza, club sportivi o sindacati. Al contrario, lo è il 51% dei credenti nominali e il 39% dei non affiliati religiosamente.

Il secondo fattore rilevante dall’indagine è che negli Stati Uniti e negli altri paesi studiati, «le persone attivamente religiose hanno meno probabilità rispetto ad altre di impegnarsi in determinati comportamenti, come fumare e bere alcolici». Non si riscontra una correlazione diretta tra il praticare più attività fisica e l’obesità, tuttavia i credenti praticanti godono, in generale, di buona salute.

 

La pace sgorga quando l’esistenza si giudica alla luce di un Significato tangibile.

I ricercatori non spiegano il motivo di questa positiva correlazione tra una fede vissuta con coscienza e una migliore felicità ed un più alto impegno civico, «l’esatta natura delle connessioni tra partecipazione religiosa, felicità, impegno civico e salute rimane poco chiara e richiede ulteriori studi», scrivono.

La risposta proviamo a darla noi ed è piuttosto semplice. Innanzitutto, si dimostra che non è la stessa cosa, non è uguale credere o non credere, non è indifferente vivere attivamente la fede piuttosto che limitarsi a difendere un’identità cristiana nazionalistica. Soltanto chi si coinvolge nella comunità cristiana, vive la parrocchia e i Sacramenti sperimenta la profonda possibilità della pace. Questo perché costruisce la sua esistenza sulla roccia della presenza tangibile di Dio e sperimenta una unità di coscienza, una semplicità unificante nel percepire, sentire e giudicare l’esistenza alla luce di un Significato. Tutto viene valorizzato, tutto si connette, nulla scandalizza e nessun aspetto della realtà è rinnegato (il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia ecc.). Questa è la promessa che vive, già ora, la comunità cristiana, i cui effetti oggettivi sono riscontrati anche in studi scientifici come questo.


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