“A 28 anni faccio il cooperatore in Iraq, è la mia vocazione…”


La fondazione AVSI opera da un anno a favore dei profughi di Erbil, riportando fiducia e umanità in un contesto di emergenza e paura


Ci sono giovani che lasciano l’Italia per fare i cooperanti all’estero in zone ‘calde’ del pianeta. Si tratta di una vera e propria professione, alla base della quale, c’è una vocazione ben precisa, la sola che può motivare a svolgere compiti così impegnativi e di grande responsabilità.


È il caso di Giacomo Fiordi, 28 anni tra un mese, cooperatore della fondazione AVSI, da 4 mesi impegnato presso i campi profughi di Erbil.


Incontrato da ZENIT presso lo stand di AVSI allestito alla XXXVI edizione del Meeting di Rimini, Fiordi ha raccontato di come la sua naturale paura nell’impatto con una realtà così drammatica sia stata a poco a poco stemperata dalla profonda umanità degli incontri che si compiono e dalla consapevolezza di poter fare qualcosa nel proprio piccolo per migliorare il futuro di una comunità.


In che circostanza sei diventato cooperatore AVSI in Kurdistan?


La fondazione AVSI ha avviato i suoi interventi in Iraq un anno fa, mandando i primi fondi in collaborazione con la Caritas irachena. Con questi fondi sono stati comprati gli aiuti: cibo, coperte, medicine. Attualmente la collaborazione con Caritas continua in particolare al Nord del paese. In seguito, però, come fondazione abbiamo deciso di andare ad operare direttamente e lo scorso aprile mi è stato chiesto di recarmi lì di persona. Ad Erbil abbiamo un asilo con 130 bambini, tutti profughi e quasi tutti cristiani ma ce ne sono alcuni Yazidi, anche loro perseguitati. L’asilo è sorto in collaborazione con le domenicane irachene ed otto maestre profughe anche loro, che prima lavoravano a Qaraqosh. L’esperienza di incontro con loro è stata molto bella. Mi ha stupito come si aiutano tra loro, come una vera comunità cristiana. Loro avevano un tenore di vita simile al nostro, essendo l’Iraq un paese abbastanza sviluppato, però, da un giorno all’altro hanno perso tutto. Adesso ricevono uno stipendio con cui aiutano non solo le loro famiglie ma anche altre famiglie.


Concretamente come si svolge il vostro lavoro?


Fare il cooperante non è una missione ma un lavoro, con precise competenze che vengono poi messe in campo. Essendo una persona che nella sua vita ha incontrato la fede, faccio comunque questo lavoro con uno spirito ‘missionario’ e sono partito anche per questo. Il nostro lavoro si svolge sempre in collaborazione con i governi locali. In certi casi si lavora in campi profughi allestiti dalle Nazioni Unite, quindi si collabora anche con le organizzazioni internazionali. Nel momento in cui tu finanzi un progetto, il governo ad un certo momento se ne prenderà carico. La cosa più importante è essere quindi riconosciuti dal governo ed avviare una collaborazione con loro. I nostri compiti sono i più svariati a seconda del contesto in cui ci troviamo. Quando arrivi, hai innanzitutto un problema logistico da affrontare perché si parlano tre lingue: il curdo, l’arabo ma anche l’aramaico, la lingua di Gesù, parlata dai cristiani. Questa tripla lingua è un fattore limitante, in quanto non sempre permette di comunicare con le persone; per fortuna io ho un bravo interprete.


L’idea di lavorare in un paese in guerra, può mettere paura?


La paura l’ho provata più che altro prima di partire. Con tutte le notizie tragiche che riceviamo qui in Europa, ci facciamo spesso un’idea sbagliata di quello che succede lì. Il Kurdistan ed Erbil non pongono grandi problemi di sicurezza, tanto è vero che molti profughi sono fuggiti lì proprio perché hanno l’opportunità di vivere in pace. Quando arrivi lì, quindi, ti accorgi che la tua paura è infondata. Può esserci, però, una paura rispetto alla sfida. Quando arrivi in un paese come l’Iraq, con 3 milioni di profughi, ti rendi conto che sei di fronte a qualcosa di più grande di te. Allora è spontaneo domandarsi se quel poco se che si fa può cambiare qualcosa. In realtà quello in cui noi della fondazione AVSI crediamo è che il mondo non si cambia con grandi progetti ma incontrando le persone. Aiutare una maestra a tornare a lavorare, permette a lei, a sua volta, di aiutare altre persone. E a poco a poco si costruisce. Si cambia partendo dal basso, dalla relazione individuale che hai costruito con le persone. Dare del cibo a qualcuno non è un gesto fine a se stesso ma è anche incontrare quella persona, conoscerla, guardarla anche negli occhi, perché nasca anche un rapporto d’amicizia con lei. Tutto questo cambia il risultato del tuo lavoro e quelle stesse persone si sentono trattate in modo molto più umano. Ciò genera in loro un cambiamento e una capacità di aiutare gli altri a loro volta, nello stesso modo.


Come vedi il tuo futuro immediato? Continuerai ancora per molto in questo campo?


Sicuramente voglio continuare a lavorare nella cooperazione. Non posso ancora sapere quanto rimarrò in Iraq, dipende da come si evolverà la situazione politica e di guerra e da quanto riusciremo a costruire. Essendo uno scenario di emergenza non c’è nulla di certo. Non sappiamo se un giorno arriveranno i terroristi ad Erbil e dovremo andare via, né se arriveranno nuovi profughi o se quelli attuali si stabilizzeranno. La situazione è molto instabile…


Consiglieresti ad un giovane di intraprendere un mestiere come il tuo?


Innanzitutto questo lavoro, come ogni lavoro, è una vocazione. Lo consiglierei a quelle persone che pian piano scoprono che questa potrà essere la loro strada. Voglio aiutare gli altri e voglio farlo in un contesto di paesi di emergenza o del terzo mondo. Allora un giovane studia, inizia ad interessarsi, a sviluppare delle competenze e decide di partire. È comunque una vocazione lavorativa: come fare il banchiere o l’elettricista. Fare questo lavoro dipende dalla storia personale di ognuno di noi.