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FIGLIO D'UOMO E FIGLIO DI DIO

Ultimo Aggiornamento: 14/01/2022 10:58
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31/10/2012 18:01
 
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 In forma di Dio e in forma di uomo

San Paolo professa la sua fede nella divinità di Cristo soprattutto attribuendogli il titolo divino di Signore (Kyrios), che ricorre più di 130 volte nelle sue lettere. Riportiamo il celebre inno cristologico della Lettera ai Filippesi:

“Abbiate in voi lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù. Lui che, avendo forma di Dio non riputò una preda l'essere uguale a Dio; esinanì, invece, se stesso, prendendo la forma di schiavo, divenuto simile agli uomini. (... ). Per questo Iddio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio sì pieghi in cielo, in terra, nell'inferno e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2, 5-11).

Spiegazione:

a) Benché Cristo Gesù avesse forma divina (greco morphé = natura immutabile), fosse cioè consustanziale al Padre, non si aggrappò tenacemente a questa sua incomparabile grandezza. Al contrario, rinunciò agli onori a Lui dovuti, umiliandosi fino alla condizione dì servo, fìno alla morte di croce.

Chi si umilia nulla perde della sua naturale grandezza. Rimane quello che sostanzialmente è conforme alla sua natura.

b)Dopo questo atto di umiliazione e in virtù di esso Gesù Cristo, l'Emmanuele, il Dio-con-noi, fu esaltato alla dignità di Signore, davanti al quale si piega ogni ginocchio. Tutte le creature, terrestri, celesti e infernali, riconoscono la sua Signoria, ossia la sua divinità.

Commenta la Nuova Enciclopedia Cattolica:

“In questo testo il nome che è al dí sopra di ogni altro nome non è quello di Gesù, che Egli ricevette alla sua circoncisione, ma quello di Kyrios (Signore), che sostituisce il nome Jahve; e così questo antico inno afferma che Cristo va collocato allo stesso livello del Padre”.

c) Né serve cavillare, come fanno i tdG, dicendo che fu Dio a dare a Cristo quel nome e che l'esaltazione di Cristo mediante quel nome ridonda alla esaltazione del Padre, che deve perciò dirsi superiore a lui.

Infatti, san Paolo vuol dire che tutta l'opera di Cristo, l'uomo-Dio, sofferente e glorioso, ha come fonte e come termine l'unico Dio, Alfa e Omega, Principio e Fine della creazione e della re- staurazione o redenzione. L'esaltazione del Figlio manifesta la bontà dell'unico Dio, non è un re- galo fatto da un superiore a un inferiore.

Se fosse come dicono i tdG avremmo l'assurdo. Infatti, ciò che Cristo riceve è l'essere Signore, ossia essere in tutto uguale a Dio. Dio Padre avrebbe dato a Cristo tutto se stesso, si sarebbe annientato, avrebbe cessato di essere Dio!

6 Lui, che, essendo in forma di Dio, non ritenne con avidità il suo esser uguale a Dio ma annichilò se stesso, prendendo forma di servo e divenendo simile agli uomini.

«Lui che, esistendo in forma di Dio... en morfh qeou, in forma di Dio». Forma, diciam noi, in mancanza di meglio; ma la morfh non designa la forma qualunque che un essere può assumere; designa la forma organica, nella quale l'essenza, la vita intima di cotest'essere si manifesta al di fuori. Non così invece lo schma della frase: «prendendo la forma (schma) d'un servo», ch'è più sotto, e che esprime la parvenza esterna d'un essere; parvenza, che è il risultato di circostanze più o meno accidentali. La morfh, insomma, si connette intimamente ed organicamente con la essenza, con la natura permanente della cosa a cui ella serve d'involucro o di estrinsecazione; lo schma, invece, non è che la configurazione esterna, transitoria della cosa, senz'alcuna relazione con l'essenza, con la natura permanente della cosa stessa. E la distinzione la facciamo anche noi quando parliamo, per esempio, di «morfologia», e non intendiamo parlare soltanto di «forme», ma di «forme organiche» e delle loro leggi; di «metamorfosi», e non intendiamo parlar soltanto di cambiamenti di «forma», ma dei cambiamenti di farina e di struttura, che alcuni animali ed alcune piante fanno, sviluppandosi. Mentre, per converso, quando parliamo dello «schema» d'un sermone, d'un discorso qualunque, d'una lezione, noi intendiam parlare del disegno, dell'ossatura, della forma esterna della cosa, senz'alcuna relazione con la sostanza della cosa stessa. «Esistendo in forma di Dio», dico, invece di «essendo in forma di Dio; l'esistendo rende meglio dell'essendo lo 'uparcwn del testo.

Non ritenne con avidità il suo essere eguale a Dio; così io rendo col Revel la frase del testo. La qual frase è molto variamente tradotta, secondo che lo 'arpagmon della frase 'arpagmon 'hghsato è presa in senso attivo o in senso passivo. Se preso in senso attivo, si ha l'idea di «un atto di rapina», di un «afferrare», e quindi il «non riputò rapina l'essere uguale a Dio» del Diodati, e il «non credette che fosse una rapina quel suo essere uguale a Dio» del Martini. Se preso in senso passivo, si ha l'idea di un «premio, di un qualcosa da essere afferrato, ritenuto con ansia, con avidità, e quindi la traduzione di quasi tutti i moderni (Reuss, Stapfer, Revis. franc., Revised Vers, Weymouth, Crampon). E quest'ultimo modo di tradurre è evidentemente più d'ogni altro in armonia col pensiero generale dell'apostolo. «Questo suo esser uguale a Dio, Gesù non lo ritenne con avidità, quantunque si trattasse di cosa legittimamente sua, ma vi rinunziò spontaneamente. Ed è quest'atto d'abnegazione, la cui descrizione l'apostolo continuerà a darci adesso, che è proposta come ideale all'abnegazione dei fratelli di Filippi.

Il suo essere uguale a Dio equivale esattamente all'essere in forma di Dio. Sono due espressioni che scolpiscono la divinità di Cristo.

7 Ma annichilò se steso;

letteralm. «vuotò se stesso». E qui, dice egregiamente il Vincent: «Questa frase non è intesa qui a definire in un senso metafisico le limitazioni del Cristo nella sua condizione incarnata; ella non è altro che una espressione grafica e forte del suo atto di rinunciamento. Ella include tutti i dettagli della umiliazione che seguono, ed è da cotesti dettagli definita. Le definizioni ulteriori appartengono alla teologia speculativa». Cercare sotto il velame di questo «vuotò se stesso» delle precise affermazioni relative ai limiti della umanità di Cristo, è un voler cercare l'introvabile. Lo ekenwsen del passo non ad altro mira che a questo: ad esprimere scultoriamente l'ineffabile atto di abnegazione di Gesù, e ad accentuare il contrasto fra la gloria da lui posseduta anteriormente alla incarnazione, e la sua umiliazione posteriore. Il commentario più eloquente di questo passo è in 2Corinzi 6:9 <JavaScrtpt:popup('2Corinzi 6:9');>: «Voi conoscete la grazia del Signor Gesù Cristo il quale, essendo ricco, s'è fatto povero, affinchè per la sua povertà voi siate arricchiti,». E in armonia col passo nostro sono parecchie parole del Vangelo gioannico, come questa, per esempio: «Padre, glorificami della gloria ch'io ho avuta presso di te, prima che il mondo fosse» Giovanni 17:5 <JavaScrtpt:popup('Giovanni 17:5');>. Tutto questo è nel passo, ma nulla di più.

Prendendo forma di servo e divenendo simile agli uomini.

Anche qui: «morfh di servo»: non soltanto l'apparenza esterna d'un servo; ma «entrando nella condizione d'un servo vero e proprio». E questo douloV non vuol dire che Gesù diventasse «uno schiavo». Il «servo» accentua qui l'idea del servizio, della sottomissione, della subordinazione di Gesù a Dio, in contrasto con l'idea della sua uguaglianza con Lui. Il contrasto è dunque fra Gesù «vero Dio» ed «uguale a Dio» e Gesù «vero servo di Dio» «subordinato a Dio».

E divenendo simile agli uomini.

L'apostolo dice «simile agli uomini», e chi dice «somiglianza» non vuol significare «identità completa». La manifestazione di Gesù, in terra fu tale, ch'egli apparve «simile agli umani». E codesta sua «somiglianza» non fu fittizia, fantasmagorica; fu vera, reale; ma cotesta somiglianza, che agli occhi dei mortali diceva eloquentemente quel ch'egli era per gli uomini, non esprimeva tutto Gesù; esprimeva solo quel tanto che di Gesù appariva agli umani; e dietro il velame di cotesta parvenza umana, stavan tutti i non investigabili tesori di quella morfh divina, di cui l'apostolo ci ha parlato poc'anzi.

Divenendo simile agli uomini. Il testo ha: genomenoV che sta a contrasto con lo 'uparcwn. Lo 'uparcwn è l'essere (essendo, esistendo in forma di Dio Filippesi 2:6 <JavaScrtpt:popup('Filippesi 2:6');>); il genomenoV è il diventare: (essendo diventato, essendo stato fatto simile agli uomini).

8 Ed essendo apparso come un semplice uomo, abbassò se stesso, facendosi ubbidiente sino alla morte, ed alla morte della croce.

Letteralm. «Ed essendo trovato, quant'è alla sua forma esteriore, siccome un uomo...» Quindi, il Diodati: «E trovato nell'esteriore simile ad un uomo»; e il Martini: «E per condizione riconosciuto uomo..:.» Il greco ha: «Ed essendo trovato, quant'è allo schma come un uomo...» Se riandiamo a quel che abbiam detto più sopra relativamente alla, differenza che passa tra morfh e schma, il senso è chiaro: «E trovato (dagli uomini), vale a dire; e riconosciuto dagli uomini, o: apparso agli occhi degli uomini come uno di loro, come un uomo..., abbassò se steso; umiliò se stesso. In qual modo? «Facendosi ubbidiente sino alla morte, ed alla morte della croce». La differenza che passa fra la kenwsiV di Filippesi 2:7 <JavaScrtpt:popup('Filippesi 2:7');> e la tapeinwsiV del nostro passo, è questa: «Lui, che era Dio, vuotò se stesso diventando uomo; e diventato uomo umiliò se stesso, facendosi ubbidiente ecc.

Il sino alla morte (mecri) va inteso com'esprimendo il grado e non il tempo. Ubbidiente, cioè, non fino al momento alla morte; ma ubbidiente sempre, e fino a costo della vita».

Ed alla morte della croce.

Il greco ha una grandissima espressione ed efficacia. «Ubbidiente fino alla morte... ed alla più ignominiosa delle morti: la morte della croce!».

9 Per questo, Dio pure lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome ch'è al di sopra, d'ogni nome.

Per questo (dio): perciò... Questo che l'apostolo dice della, sovrana esaltazione di Gesù, sta dunque con quel che precede e che descrive la, umiliazione di lui, in relazione di effetto a causa. L'umiliazione, la causa; l'esaltazione, l'effetto. L'umiliazione, l'atto; l'esaltazione, il premio, la corona dell'atto. «Chi s'abbassa, sarà innalzato» avea detto Gesù ai suoi; e lui che s'è abbassato ineffabilmente, Iddio ha dal canto suo ineffabilmente innalzato. Dico dal canto suo perchè tale è veramente il senso del dio del testo: Per questo, Dio pure lo ha innalzato... o: «anche Dio...» o: «Dio, dal canto suo...» ecc. Lo 'uperuywsen che si traduce per «sovranamente innalzato» non si trova che qui in tutto il N. T. Letteralm. vuol dire: «lo ha innalzato in modo superlativo ('uper). E come Dio lo abbia innalzato, è spiegato da quel che segue: E gli ha dato il none che è al di sopra d'ogni nome. Il Vincent nota qui che forse non e estranea al passo l'allusione al modo di dare dei nuovi nomi alle persone, nelle crisi più importanti della loro vita (Cfr. Genesi 17:5; 32:23; Apocalisse 2:17; 3:12 <JavaScrtpt:popup('Genesi 17:5; 32:23; Apocalisse 2:17; 3:12');>). Di che nome si tratta qui? Notisi la lezione che seguiamo, perchè è la più attendibile: «E gli ha dato il nome» e non «un nome...» «Il nome» dunque per eccellenza; e questo nome è: GESÙ CRISTO; la combinazione del nome umano col nome messianico. Gesù (Salvazione di Jahveh) è il nome umano del Signore: il nome che sintetizza il programma della sua vita terrena: «ricondurre l'umanità salvata nelle braccia di Jahveh». 1Cristo, «l'Unto», «l'Unto per eccellenza», «l'Unto da Dio», è il suo nome messianico. Quello che Gesù ricevette come premio della sua umiliazione, fu qualcosa ch'egli non aveva prima della sua incarnazione, e che non avrebbe potuto arrivare ad avere senza la incarnazione. Come premio, non ricevette l'uguaglianza con Dio; cotesta uguaglianza egli la possedeva di già prima della incarnazione Filippesi 1:6 <JavaScrtpt:popup('Filippesi 1:6');>. Come premio, ricevette quella divinità messianica, ch'egli non potea conseguire che per il tramite della incarnazione e della umiliazione. Il nome che quindi Iddio gli dona come premio della umiliazione che ha subita, non è Signore, come vogliono il Lipsius ed il Weiss: cotesto nome egli l'avea di diritto e di fatto anche prima; non è Gesù, come vogliono lo Ellicott e lo Eadie; cotesto nome è il nonne umano di lui, e nient'altro; ma è Gesù Cristo; il nome che ricorda la missione terrena del Salvatore e che lui corona di quella dignità messianica, alla quale è assorto per la via dell'abnegazione e dell'ubbidienza, fino al sacrificio.

10 Affinchè nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra.

È lo scopo di cotesta sovrana esaltazione.

Nel nome di Gesù;

vale a dire: rendendo omaggio a Gesù; pienamente riconoscendo la maestà, la legittima autorità di colui, dinanzi al quale il ginocchio è piegato. Gli epouranioi sono gli «esseri celesti»; quindi, gli angeli, gli arcangeli, tutte le intelligenze celesti, insomma Efesini 1:21; 3:10; Ebrei 1:4-6; 1Pietro 3:23 <JavaScrtpt:popup('Efesini 1:21; 3:10; Ebrei 1:4-6; 1Pietro 3:23');>; gli epigeioisono gli «esseri terrestri» 1Corinzi 15:40 <JavaScrtpt:popup('1Corinzi 15:40');>; i katacqonioi sono «quelli che stanno sotterra». E chi son dessi? I morti in genere (Alford, Ellicott)? Gli abitanti dello Hades (Teodoreto, Grozio, Mever, De Wette)? I demoni (Crisostomo, Teofitatto, ed altri)? Io intendo i dipartiti, gli abitanti nelle misteriose regioni degli spiriti, senza distinzione di carattere; gli abitanti dello Hades, direi; se a questa parola rivolesse qui dare quel senso generico di abitazione degli spiriti buoni o cattivi, che è senso scritturale: se si volesse insomma considerar lo Hades come una personificazione degli effetti della morte, nel modo che fecero Paolo, in 1Corinzi 15:55 <JavaScrtpt:popup('1Corinzi 15:55');>, e Giovanni, in Apocalisse 20:13-14 <JavaScrtpt:popup('Apocalisse 20:13-14');>. E qui sta bene una idea dello Eadie. «L'apostolo sembra voler qui designare ogni ordine di esseri nell'universo; vale a dire, ogni forma di esistenza nazionale, che è nell'universo. Quel che l'apostolo accentua qui, è la idea della universalità - il nome sopra ogni altro nome - ogni ginocchio si pieghi - ogni lingua confessi Isaia 45:23 <JavaScrtpt:popup('Isaia 45:23');>. Il nome ch'è sopra ogni altro nome, domanda una sottomissione universale. Niun ambito se ne può esimere; niun ordine di creatore sta oltre i limiti della sua giurisdizione. Tutti hanno da piegare, il ginocchio: gli angeli e gli spiriti umani felici; tutti quelli che hanno vissuto o che vivranno sulla terra; le anime che nella loro condizione finale si troveranno impenitenti, e Satana stesso».

11 Ed ogni lingua confessi, alla gloria di Dio Padre, che Gesù Cristo è il Signore.

Confessi che colui il quale «vuotò se stesso» facendosi uomo, e che fatto uomo si umiliò fino alla morte ed alla morte ignominiosa della croce, è stato coronato della corona gloriosa della dignità messianica ed è adesso il Signor dei Signori, il Signore di una universal Signoria. L'inciso alla gloria di Dio padre va riferito alla «confessione» e, non al fatto che «Gesù Cristo è il Signore». Dice il Crisostomo: «Dovunque il Figlio è glorificato, anche il Padre è glorificato; dovunque il Figlio è disonorato, anche il Padre è disonorato» Luca 10:16; Giovanni 2:23 <JavaScrtpt:popup('Luca 10:16; Giovanni 2:23');>. E qui mi piace concludere lo studio analitico di questo passo classico, con una giustissima osservazione del Vincent: «Buona parte della difficoltà che presenta questo passo, dipende dall'immaginarsi che molti fanno questo che Paolo abbia qui avuto per iscopo di formulare una dottrina circa la natura del modo di esistere di Cristo prima e durante la incarnazione. Or questo urta col tono piano e familiare della lettera e col carattere evidentemente pratico del passo intero, che ha per oggetto principale di inculcare il dovere dell'umiltà. Come suprema illustrazione di codesta virtù, l'apostolo cita l'esempio di Gesù Cristo, che volontariamente rinunciò alla sua, maestà preincarnata e s'identificò con le condizioni della umanità. I vari punti della illustrazione son fatti passar dinanzi agli occhi del lettore, in rapida successione; son semplicemente affermati, e non elaborati; e tutti quanti son fatti convergere verso il centro comune della esortazione: «Ognuno abbia riguardo non al suo proprio interesse, ma anche all'interesse d'altrui». «Paolo, sicuro, si eleva qui al di sopra del livello ordinario del piano stile epistolare, ma l'impulso che lo fa assorgere così in alto, non è filosofico; è piuttosto l'impulso della emozione, è impulso affettivo».

 

Si potrebbe a ragione tradurre il testo in questione nel modo seguente:

 

Cristo Gesù, pur essendo in forma di Dio, non cercò di TENER STRETTO, (o DI TENERSI AGGRAPPATO A) il suo essere uguale a Dio, ma umiliò se stesso facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.

 

Solo in tal modo si comprende l'esortazione di Paolo a rinunciare alle proprie pretese di posizione e a farsi umili.

 

 L’inno a Cristo 

(2,6-11)

6il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
7ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è
il Signore,   a gloria di Dio Padre.

L’inno a Cristo è per molti versi problematico. Esso rappresenta un tutto chiuso in se stesso in forza del suo tema; tanto che lo si può perfino togliere dal contesto. Anche se Paolo assume nei suoi scritti formule di confessione di fede, o altre proposizioni già preesistenti, non si trova da nessuna parte un complesso unitario così esteso. Paolo inserisce questo inno a Cristo senza comporlo ad hoc. Ma non possiamo stabilire se lo abbia scritto lui stesso in un tempo precedente o lo abbia preso da qualche testo tradizionale della comunità. L’inno è stato inserito organicamente nel contesto ed è soprattutto il v.8 a creare questo nesso: "umiliò se stesso" richiama alla memoria l’invito all’ "umiltà di sentimenti" del v.3, mentre "diventò obbediente" riecheggia il "foste sempre obbedienti" del v. 12.

A) L’umiliazione.

v. 6. L’interesse dell’inno non è rivolto o incentrato su una definizione dell’essere di Cristo nel mondo di Dio, ma sugli eventi che hanno preso le mosse da quel punto. Il v. ci presenta i primi inizi di una riflessione sull’essere preesistente di Cristo: prima di esistere come uomo "esisteva di un’esistenza divina". Il Cristo celeste non credette di dover trattenere per sé la sua uguaglianza con Dio. Nella letteratura giudeo-ellenistica si parla ripetutamente con disprezzo di uomini che credono di essere simili a Dio: Filone definisce "amante di sé e ateo" chi pensa di essere simile a Dio (Leg. all. 1,49), Flavio Giuseppe vuole incutere spavento raccontando dell’uccisione di Gaio, il quale vaneggiava di essere un dio (Ant. 19,1 ss.). Se si confrontano questi giudizi impregnati di spirito biblico con Fil 2,6, si può pensare che "nell’uguaglianza con Dio" detta di Cristo, si voglia anche affermare che ciò gli appartiene e appartiene a lui solo di diritto. I Padri della Chiesa vedono qui espressa l’idea di una legittimità dell’essere simile a Dio.
.....

Nell’attribuzione del nome si esprime l’antichissima credenza per la quale il nome è qualcosa di reale, "una parte della natura della personalità nominata, partecipe delle sue proprietà ed energie"(Bauer). Nell’upèr (sopra) sottolineato due volte c’è però una componente spaziale. Secondo la presupposta immagine del mondo, Cristo viene innalzato alla più alta sommità del cielo. I "nomi"sotto di lui, ora sottomessi alla sua signoria, comprendono tutti gli altri esseri. La seconda parte di questo inno rassomiglia al rituale di intronizzazione di un sovrano; innalzamento e attribuzione del nome corrispondono qui agli atti di presentazione e proclamazione.

v. 10. Ciò che segue porta decisamente l’impronta di una citazione di Isaia: "Volgetevi a me e lasciatevi salvare, voi dai confini della terra! Io sono Dio e non c’è altri fuori di me. Ho giurato per me stesso, dalla mia bocca uscirà giustizia, le mie parole non torneranno indietro: davanti a me si piegherà ogni ginocchio, ed ogni lingua confesserà Dio e dirà: giustizia ed onore giungano a Lui, e siano perduti tutti coloro che se ne separano. Dal Signore è proclamata giusta e in Dio è glorificata tutta la generazione dei figli d’Israele" (Is 45,22-25 LXX). In Isaia questo testo è riferito a Jahvè giudice.

Il nuovo orientamento di Fil 2,10-11 consiste anzitutto nel fatto che ora tutto è radicalmente riferito a Cristo: tutte le ginocchia si piegheranno "nel nome di Gesù". È vero che quanto avviene è essenzialmente legato a Dio, il quale presenta il nuovo Signore, ma l’intenzione del testo è che il mondo si piega di fronte all’eletto. "Nel nome" va inteso in senso stretto. L’espressione equivale a "invocando, nominando il nome di Gesù". Il nome di Gesù in questo punto dell’inno può servire soltanto a sottolineare la realtà umana di colui che è stato innalzato.

"I celesti, i terrestri e i subterreni" sono le potenze spirituali, sia quelle al servizio di Dio che quelle nemiche di Dio. La demonologia e l’angelologia giudaica sottolineò sempre la suprema sovranità di Dio su tutte le potenze create, mentre quella pagana parlò anche di potenze del destino, che dominano il cosmo e i suoi ordini. L’autore dell’inno pensa a queste potenze del destino, nemiche di Dio. La lettera di Ignazio ai Tralliani 9,1 conferma questa lettura: "Egli realmente fu crocifisso e morì alla presenza delle potenze del cielo, della terra e degli inferi". L’omaggio delle potenze è quindi qualificato come sottomissione, e l’inizio della sovranità del nuovo Signore come cambio di dominio. Al posto delle potenze che tengono schiavo il mondo è subentrato un nuovo dominatore del cosmo: quelli che finora hanno dominato si devono piegare davanti a colui che ha spezzato la loro signoria.

v. 11. Il gesto dell’inginocchiarsi e il riconoscere Gesù Cristo come legittimo Signore, formano insieme l’acclamazione di riconoscimento, il terzo atto dopo la presentazione e la proclamazione. Gesù Cristo non viene presentato come Signore della comunità cristiana, ma come Signore dell’universo; infatti solo la signoria sull’universo corrisponde all’onore prestatogli dalle potenze cosmiche del cielo, della terra e degli inferi.
Il nome del Signore, collegato alla citazione dell’AT, va equiparato al nome di Jahvè nell’AT: Gesù Cristo è il Signore Dio Jahvè. Il Gesù Cristo innalzato possiede qualcosa in più rispetto alla sua preesistenza. Questo "più" non si nota però visibilmente ed immediatamente perché la sua manifestazione avviene soltanto nell’ambito delle potenze, non pubblicamente nel mondo, restando così ancora fondamentalmente latente per il mondo degli uomini. La Signoria di Cristo è colta soltanto nella comunità cristiana, che canta appunto questo inno, e sa che tutto si è già compiuto in Cristo. Essa però attende nella fede che la Signoria del Kyrios si manifesti pubblicamente al mondo. La seconda parte dell’inno attribuisce ad un altro quel nome di Kyrios che prima era indiscusso monopolio di Dio Padre.

 

Gv.1,1

 

Dio era la parola, qui Teòs non ha l'articolo, ma questo non significa assolutamente che il Logos è un dio minore, in quanto nel Nuovo Testamento, il vocabolo Teos si presenta preceduto o meno dall'articolo indifferentemente, anche quando si riferisce a Dio Padre (cfr. Mt 5:9; 6:24; Le 1:35, 78; 2:40; Gv 3-2, 21; 9:16, 33; Rm 1:7; 17, 18; 1 Co 1:30; 15:10; FI 2:11, 13); possiamo notare ciò, addirittura nello stesso capitolo primo di Giovanni (cfr. versetti. 6, 12, 13, 18). In realtà, il motivo per cui Teos qui non ha l'articolo è semplicemente grammaticale, perché è un predicato nominale che precede la copula, e sottolinea la natura del Logos. Un testo parallelo a questa clausola, è Gv 19:21 dove si può osservare che nella prima parte del versetto abbiamo "rè" che prende l'articolo, mentre nella seconda parte la stessa parola non prende l'articolo. Un altro esempio ce l'abbiamo addirittura pochi versetti dopo, in Gv 1:49, dove "Figlio" è preceduto dall'articolo, mentre "Rè" , per i motivi già detti, non ha alcun articolo. Similmente il titolo "Figlio di Dio" è accompagnato dall'articolo tredici volte, e sempre quando segue il verbo, e dieci volte è senza articolo, di cui nove quando precede il verbo. Per altri esempi del genere si vedano: Mt 13:37-39, 23:8-10. (Zerw, 175). D'altra parte, dobbiamo dire che se in Gv. 1:1 l'articolo si fosse ripetuto anche nell'ultima clausola, avrebbe significato che il predicato e il soggetto erano intercambiabili, come per esempio in IGv. 3:4 che può essere tradotto "il peccato è la violazione della legge" oppure "la violazione della legge è il peccato". Quindi, se ci fosse stato l'articolo davanti al complemento predicativo Teos, forse avremmo una traduzione possibile dal punto di vista grammaticale, ma comunque anacronistica. Nel suo articolo "Predicati nominali qualitativi privi di articolo: Marco 15:39 e Giovanni 1:1", pubblicato nel ]ournal o f Biblica! Literature, vol. 92, 1, Filadelfìa, Marzo 1973, a pag. 85, il prof. Philip Harner dice che se nella clausola in questione avessimo letto "o Logos en o Teos, avrebbe significato che Lógos e Teos sono equivalenti e intercambiabili, per cui non solo avrebbe reso il versetto contraddittono, ma avrebbe anche significato che Gesù era il Padre.

Sempre nel citato articolo, Philip Harner propone e spiega cinque possibilità alternative che l'apostolo Giovanni avrebbe potuto avere, trascrivendo la terza clausola di Gv 1:1. se avesse voluto intendere qualcosa di diverso da ciò che ha espresso , e conclude: quello che è effettivamente scritto, significa che il Logos è della stessa essenza o natura del Padre, ma distinto da Lui.

Altri, invece, come il Moffàtt per esempio, hanno inteso il Logos semplicemente come un essere dotato di qualità divina, ma ciò neanche è possibile perché in questo caso avremmo dovuto leggere l'aggettivo Teios che compare altrove nel Nuovo Testamento (At 17:29; 2Pt 1-3) e che l'agiografo ha accuratamente evitato di usare. I sostantivi astratti formati da queste parole sono rispettivamente Teiotes (divinità) e Teotes (deità) e non hanno lo stesso significato. Furono distinti nell'uso dagli scrittori greci come Platone, Plutarco, e hanno significati chiaramente diversi anche nel Nuovo Testamento.

Pertanto, per esprimere che Cristo è Dio in essenza, nel senso assoluto, ma che non è il Padre, in quanto si trova presso di Lui e ne è quindi distinto, Giovanni avrebbe dovuto scrivere questa proposizione in greco esattamente come è scritta

[Modificato da Credente 26/07/2013 14:23]
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Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una TORRE, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un NOME...Gen 11,4
 
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