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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/01/2012 23:02
 
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12 In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre. 13 Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. 14 Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò.
La fede in Gesù introduce il credente in una nuova dimensione esistenziale, il cui preludio è il ritorno di Gesù al Padre e la cui garanzia fondante è la reciproca immanenza tra Padre e Figlio. Intimamente unito a Cristo, dal quale viene inabitato, il credente si trova immerso nell’infinita profondità del mistero di Dio, di cui “compirà le opere” allo stesso modo in cui le ha compiute il Figlio. Per il credente, quindi, si apre uno scenario di gloria, di eternità e di potenza che gli può derivare solo dalla sua nuova condizione di “figlio nel Figlio”. La fede in Cristo è condizione indispensabile per l’agognata “divinizzazione dell’uomo”.
Nonostante la partenza di Gesù, o proprio a causa di essa, i discepoli potranno esercitare un’attività che Gesù non esita a definire come propria, perché Egli è il vero autore delle opere compiute dai suoi discepoli in ogni “oggi” storico e fino alla consumazione del tempo. Le opere, che i discepoli compiranno in perfetta unione con Cristo, non sono le medesime opere che Egli ha già compiuto durante la sua esperienza umana, ma quelle che Egli compirà in perfetta unione col Padre, a favore del mondo. Come il Padre ha agito ed agisce per mezzo del Figlio, così il Figlio agisce ed agirà per mezzo dei suoi discepoli compiendo “opere [ancora] più grandi” per la salvezza dell’umanità. Le “opere”, di cui parla Gesù, non sono necessariamente da interpretare come eventi miracolosi (quale miracolo può essere superiore alla guarigione di un uomo nato cieco o la resurrezione di un defunto, morto e sepolto?), che pure ogni tanto gli uomini possono compiere “nel nome e per conto di Cristo” (cf. Mc 16,17-20; At 3,1-10), quanto piuttosto la realizzazione escatologica del progetto salvifico di Dio, attraverso la diffusione in tutto il mondo del suo “Vangelo”, le cui finalità sono il raduno, nell’unità divina, di tutti i figli di Dio dispersi (11,52) e lo smascheramento finale del mondo incredulo (16,8-11). I miracoli, compiuti da Gesù durante la sua vita terrena, sono stati dei segni anticipatori e profetici della piena realizzazione del Regno di Dio, resa possibile solo con la sua elevazione sulla croce (12,32), il suo ritorno al Padre e l’opera dei suoi discepoli (14,12). Il compito dei discepoli di Cristo è di grandissima responsabilità, essendo stati prescelti sin dall’eternità per consentire, in unione con Gesù Signore, il vasto fluire delle forze vitali di Dio nel mondo degli uomini (17,2). Guai a quei discepoli che si opporranno alla realizzazione del progetto salvifico di Dio a favore dell’uomo: meglio sarebbe stato, per loro, non essere mai nati (Mt 26,24). Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. I discepoli sapranno compiere “opere più grandi” perché Gesù è, ora, presso il Padre ed ascolta le loro preghiere per esaudire ciò che essi chiedono. Ovviamente, i discepoli non devono limitarsi a chiedere la realizzazione di qualsivoglia desiderio egoistico, ma devono pregare incessantemente affinché si realizzi il Regno di Dio nel cuore, nella mente e nella volontà degli uomini: per questo, infatti, Dio si è fatto uomo (1,14) ed ha scelto di morire come un malfattore tra malfattori (Is 53,9.12; Lc 22,37), condividendo i guasti provocati da un’aperta ribellione dell’uomo all’amore salvifico di Dio. Nel piano misterioso e provvidente di Dio, i credenti diventano gli attori dell’opera divina della salvezza perché compiono le stesse opere di Gesù, il quale fa ciò che essi gli chiedono non per meriti propri, ma in forza del suo “Nome”, sicché le loro opere sono, a tutti gli effetti, le opere di Gesù Cristo, Dio e Salvatore degli uomini. Le preghiere dei credenti possono essere efficacemente esaudite se sono conformi alla volontà di Gesù, che ha agito in perfetta unione col Padre affinché “il Padre fosse glorificato nel Figlio” (14,13). In definitiva, il credente deve mirare allo stesso scopo: rendere gloria al Padre attraverso il Figlio, il quale rende gloria al Padre (17,4) compiendo le opere che il Padre gli ha dato (5,36;10,25.32) e ricevendone, in contraccambio, una testimonianza di gloria al cospetto di tutti gli uomini (12,28). In tal modo, si crea un circolo virtuoso che coinvolge Dio Padre, Gesù Cristo Figlio unigenito di Dio ed il credente, ma, in ultima analisi, è Dio Padre che, tanto in Gesù quanto nei discepoli, “compie le sue opere” (14,10). L’intero ragionamento giunge, così, alla sua logica conclusione. Ai discepoli, pertanto, viene promesso che, dopo il ritorno di Gesù al Padre ed a motivo di essa, parteciperanno addirittura al suo operare con il Padre e per il Padre. Secondo questa logica, non esiste alcun equivoco circa le richieste che, secondo la promessa, saranno esaudite; non si tratta di tutte le possibili richieste, ma soltanto di quelle relative ai compiti ed alle difficoltà dell’annuncio e corrispondenti alla volontà di Dio (1Gv 5,14). La preoccupazione di ogni credente in Dio deve concentrarsi sulla realizzazione del Regno di Dio; il resto gli sarà dato in aggiunta (Mt 6,33).
Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò. Nel versetto precedente (v. 13), l’invito a chiedere nel nome di Gesù ha un senso ancora generico e l’accento è posto sulla garanzia assoluta che qualunque cosa chiedano i discepoli, sarà soddisfatta da Gesù con lo scopo di rendere gloria al Padre. Ora, invece, è Gesù stesso al centro dell’attenzione, essendo colui che è pregato dai credenti e che esaudisce le loro preghiere. Il v. 14, pertanto, non è un’inutile ripetizione del v. 13, come vari autori hanno supposto, ma serve a precisare e ad accentuare la centralità salvifica di Gesù, che continua ad operare nel mondo per mezzo dei suoi discepoli, sino alla fine del tempo dell’uomo (Mt 28,20). Ancora una volta, l’evangelista distoglie i credenti dalle proprie umane preoccupazioni e dai propri egoistici interessi per orientare la loro attenzione sul senso ultimo di tutta la vicenda umana, che consiste in un libero e gratuito atto di redenzione donato da Dio agli uomini, alla loro storia ed al mondo in cui essi vivono (cf. Ef 1,10).

15 Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. 16 Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, 17 lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi. 18 Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. 19 Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20 In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. 21 Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui.
In linea di principio, Gesù afferma il diritto, che è proprio di Dio Padre e creatore, di essere amato ed obbedito. Si potrebbe commentare il v. 15 affermando, molto sinteticamente, che il frutto dell’obbedienza è l’amore e che l’amore si rispecchia nell’obbedienza alla legge di Dio, il che equivale ad obbedire alle parole di Gesù. Detto questo, occorre notare che le espressioni “amarmi” e “osservare i miei comandamenti” si pongono sempre in relazione assolutamente reciproca, di modo che, qualunque sia il loro ordine sequenziale, l’una riflette l’altra. L’evangelista non fa che riprendere l’antica tradizione ereditata dal libro del Deutoronomio, laddove si afferma che per il popolo d’Israele, chiamato all’Alleanza, amare Dio aderendo alla sua volontà (Dt 5,10; 6,5s; 10,12s; 11,13.22) e osservare i suoi comandamenti, racchiusi nel Decalogo (Es 20,1-21; Dt 5,6-22), sono un tutt’uno. Il frutto dell’amore/obbedienza alla Legge di Dio è l’amore indefettibile ed assiduo di Dio per coloro che gli sono fedeli. Così proclama il deuteronomista: “Riconoscete dunque che il Signore vostro Dio è Dio, il Dio fedele, che mantiene la sua alleanza e benevolenza per mille generazioni, con coloro che l’amano e osservano i suoi comandamenti” (Dt 7,9). Di pari passo, il testo evangelico dichiara che chi accoglie ed osserva i comandamenti di Gesù, lo ama ed è amato dal Padre (v. 21).
Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Gesù ha più volte dichiarato di parlare a nome e per conto del Padre (cf, Gv 3,34; 7,28; 8,26) ed ha affermato di non essere venuto ad abolire la Legge, ma a darle compimento (cf. Mt 5,17), ma l’invito, che Gesù rivolge ai suoi discepoli di osservare i suoi comandamenti per dimostrargli il loro amore, sembra assumere un connotato ancor più radicale, esistenziale. In altre parole, i discepoli devono calarsi in una realtà di fede “cieca” e fedele nel Signore Gesù, senza dimenticare che da una “vita di fede”, così intesa, discendono delle esigenze etiche inevitabili e che, altrettanto inevitabilmente, esse devono essere rispettate se non si vuol cadere nella pura ipocrisia, di farisaica memoria. Solo se i discepoli restano uniti a Gesù Cristo nell’amore e nella fedeltà ai suoi insegnamenti (o, se si vuole, ai suoi comandamenti), Egli farà tutto per loro, sino a condurli ad una piena inabitazione di Dio nelle loro anime e di tutto il loro essere in Dio (v. 20). Sollecitato da un dottore della Legge a precisare quale fosse il comandamento più importante da osservare per ottenere la vita eterna (Mt 22,35-40), Gesù aveva risposto, senza giri di parole, che due erano i comandamenti dai quali traspariva tutto il contenuto della rivelazione di Dio all’uomo e di cui la Bibbia intera costituiva la chiave di lettura: amare Dio con tutto il proprio essere (Dt 6,5) ed il prossimo come se stessi (Lv 19,18). Tutta la Legge, rivelata da Dio agli uomini, è contenuta in questi due semplici, ma assai impegnativi, comandamenti che l’uomo è tenuto ad osservare, imitando in tutto e per tutto Gesù, se vuole collaborare con la grazia di Dio, santo e misericordioso, per ottenere la salvezza eterna.
Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Gesù, ritornato presso il Padre e riappropriatosi della propria dignità divina in totale pienezza (Fil 2,9-11), intercederà a favore degli uomini affinché Dio Padre mandi loro un “altro” Paraclito, che prosegua l’opera del Figlio, il “primo” Paraclito donato da Dio agli uomini. Il vocabolo greco “paraclito” può essere tradotto col termine generico di “consolatore” o, meglio ancora, con quello più tecnico di “avvocato (difensore)”. Nel Nuovo Testamento, il vocabolo paràcletos appare solo nei discorsi giovannei dell’addio ed è riferito quasi sempre alla persona divina dello Spirito Santo; soltanto nella prima lettera di Giovanni tale vocabolo è riferito a Gesù nella sua qualità di intercessore celeste (1Gv 2,1). Il “primo” Paraclito, Gesù, sta per morire sulla croce e sta per tornare al Padre, dopo aver sconfitto la morte con la propria resurrezione, per essere riconosciuto da tutto il creato come il Risorto e l’eterno Vivente (Ap 1,8.17-18), colui davanti al quale ogni creatura s’inchina per rendere omaggio alla sua signoria (Fil 2,11). Conclusa la sua missione tra gli uomini, Gesù sparirà alla loro vista (At 1,9), ma la sua presenza tra gli uomini sarà garantita, sino alla fine del tempo (Mt 28,20), dall’azione del “secondo” Paraclito, il cui compito è quello di assistere, guidare, animare, sostenere quanti credono, in ogni epoca della storia, che Gesù è Dio e Signore (Gv 21,28-29). Si profila l’identità personale della terza persona della S.S. Trinità, distinta dal Padre e dal Figlio, ma intimamente unita a loro e Gesù ne indica la funzione specifica: essere l’anima della Chiesa, Corpo mistico di Cristo. Proprio per questo motivo, lo Spirito Santo sarà per sempre con gli uomini. Non tutti gli uomini, però, sono in grado di riconoscere la presenza vivificante e santificante dello Spirito, perché rifiutano la Verità. Il “mondo” è valutato dall’evangelista come un’entità ostile a Dio e soggetta a satana, padre della menzogna (cf. 8,44; 15,26; 16,13; 1Gv 4,5s) e nemico giurato della verità, al punto da rendere gli uomini “ciechi” di fronte all’evidenza che essi sono creature di Dio e che non sono in grado di salvare se stessi, ma che hanno bisogno di un Salvatore.
Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi. Lo Spirito di verità è tale per chi accetta di accogliere in sé la verità senza pregiudizi. I discepoli di Gesù hanno il privilegio di “conoscere” intimamente lo Spirito, inviato dal Padre per mezzo del Figlio suo, perché hanno scelto di lasciarsi istruire ed illuminare dalla verità, acconsentendo di farsi in qualche modo “separare” da un mondo incredulo e malvagio (cf. 8,23; 12,25.31; 13,1) per seguire, pur tra mille difficoltà e pericoli, la luce dello Spirito, il cui compito è insegnare tutto ciò che riguarda il misterioso piano della salvezza e richiamare alla memoria l’insegnamento di Gesù (cf. 14,26), rendere testimonianza a Gesù (15,26) e convincere il mondo della propria colpevole opposizione alla giustizia ed al giudizio di Dio (16,8-11). Lo Spirito Santo, però, non ha solo l’incarico di “consolare” i discepoli per la perdita di Gesù, sostituendosi a Lui nel ruolo di insegnante o di giudice del mondo, ma quello altrettanto importante di rafforzare la loro fede sia in relazione alla loro condizione di sequela del Cristo, inviato da Dio e sia in rapporto al loro dovere di “inviati” da Dio nel mondo. Per vivere in pienezza la vocazione di “discepoli” e di “inviati”, coloro che credono in Gesù hanno bisogno del sostegno e della guida dello Spirito, dal quale possono ricevere, incessantemente, una potente forza interiore. Con la netta linea di demarcazione tra lo “Spirito di verità” ed il “mondo” ostile a Dio ed al suo Inviato, da una parte e, dall’altra, con l’attribuzione dello Spirito stesso ai discepoli di Gesù, viene rafforzata in questi la coscienza della loro elezione (cf. 15,16.19). Il mondo non è in grado di ricevere lo Spirito, né di accoglierlo come fonte di luce e di verità proprio perché incapace di afferrare, con mezzi propri, la sua forza prorompente e, per giunta, maldisposto nei confronti di Dio e del suo progetto salvifico. Al contrario, i discepoli di Gesù conoscono lo Spirito per diretta conoscenza e certezza perché lo possiedono intimamente (“egli dimora presso di voi e sarà in voi”); da tale inabitazione dello Spirito nei credenti scaturisce la reciproca inabitazione di Dio nei suoi fedeli e di questi in Dio (1Gv 3,24).
Non vi lacerò orfani, ritornerò da voi. I discepoli resteranno, tra poco, orfani per la morte di Gesù, ma tale dolorosa condizione sarà di breve durata, perché si troveranno immersi in una comunione nuova con il loro Maestro, più spirituale e profonda di quella sperimentata sino ad allora e tale da proiettarli in un rapporto assolutamente “familiare” con Gesù ed il Padre. L’immagine dell’orfano abbandonato evoca la triste condizione in cui, anche all’epoca di Gesù, si venivano a trovare, oltre agli stranieri residenti in Palestina, “orfani e vedove”, le categorie più sventurate e deboli della società ebraica, tanto che persino la Toràh, la Legge mosaica, prescriveva una serie di norme volte a proteggere queste persone dalle ingiustizie e dalle sopraffazioni, riservate a chi non può o non sa difendersi dalla malvagità del prossimo (cf. Es 22,20s; Dt 24,17; 27,19), il quale, come spesso insegna la storia dell’uomo, è sempre pronto ad approfittare delle debolezze altrui. La dipartita certa di Gesù non sarà definitiva, ma ad essa seguirà l’altrettanto certo ritorno di un Gesù “nuovo e definitivo”, che sarà per sempre coi suoi sino alla fine del tempo e della storia umana (Mt 28,20). Il ritorno definitivo di Gesù presuppone, anche, che non vi sarà più alcuna sofferenza per i deboli e gli indifesi e che non vi sarà più posto per i prepotenti ed i malvagi di questo mondo.
Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più. La morte ingloriosa di Gesù sulla croce convincerà i suoi acerrimi nemici, che costituiscono il ben noto “mondo” dei prepotenti e dei violenti, di aver tolto di mezzo, una volta per tutte, un pericoloso individuo, capace di causare gravi danni al loro potere col suo invito alla fratellanza, al perdono, alla giustizia, alla pace, alla conversione del cuore, al rispetto dei deboli, all’amore reciproco, al servizio umile e disinteressato ed alla ricerca dell’ultimo posto nella scala sociale. Un “uomo” così non va bene in nessuna società di qualsiasi tempo e luogo, laica o religiosa che sia, perché la sua logica è l’esatto contrario di quella umana, fondata sul privilegio, sulla visibilità, sul successo, sul dominio e sul possesso. Questo tipo di “mondo” non è nemmeno degno di “vedere” Gesù, né ora né mai e tragicamente si priva persino della possibilità di vederlo, un giorno, “seduto alla destra di Dio” (cf. Mt 26,64) se non da molto lontano, pari all’abissale ed eterna distanza che separa il cielo dall’inferno.
Voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. Il “mondo” vede solo ciò che è esteriore e superficiale, mentre gli occhi della fede riescono a vedere meglio e più in profondità. Tre giorni dopo la sua morte sul Calvario, i discepoli vedranno Gesù risorto e realmente vivo in una visione che non sarà soltanto sensibile, ma anche spirituale ed interiore mediante la fede (cf. 20,29). I discepoli possono vedere il Vivente grazie al comune possesso della “vita”; ricevendo lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, i discepoli saranno da Lui “inabitati” e resi partecipi della vita divina del Risorto, perché lo Spirito di Dio è Spirito di verità e di vita.
Io vivo… voi vivrete. In quanto Figlio di Dio, che ha in sé la vita dal Padre (cf. 5,26), Gesù può parlare solo al presente: io vivo (sottinteso, dall’eternità e per l’eternità, perché Gesù è Dio fatto uomo). I discepoli, invece, ai quali Gesù comunica la vita per mezzo del suo Spirito, possono in linea di principio parlare al presente (cf. 5,24), ma poiché ricevono la vita solo dal Signore glorificato (cf. 17,2), di essi si può parlare anche al futuro (cf. 6,57): voi vivrete (vale a dire, “parteciperete della mia vita per l’eternità”). Mentre il distacco del mondo di Gesù ha un valore definitivo, esistenziale (“non mi vedrà più”), la separazione dei discepoli dal loro Maestro è temporaneo e dura lo spazio di soli “tre giorni”. Nel racconto della creazione, composto da un autore ispirato appartenente alla casta “sacerdotale” ebraica del VI-V secolo a.C., il “terzo giorno” è quello in cui compare sulla terra la “vita” vegetale (Gen 1,11-13). Dopo il caos (Gen 1,2) psicologico causato dalla morte di Gesù, i discepoli sono rianimati dalla vista di colui che “vive da sempre e per sempre” (cf. Ap 1,17-18) e che “risorgendo, dona la vita” (cf: 1Cor 15,20-22; Rm 6,4) a chi crede in Lui quasi ripercorrendo il cammino della creazione primordiale. La morte e la resurrezione di Gesù segnano l’inizio di una nuova creazione, da cui scaturisce un “uomo nuovo” (cf. Ef 2,14-18) sanato dal peccato e riconciliato con Dio. Così recita la liturgia bizantina: “Cristo è resuscitato dai morti. Con la sua morte ha vinto la morte, ai morti ha dato la vita” (v. Tropario di Pasqua, Roma 1884, p. 6).
In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. Gesù fa proprio il linguaggio dei profeti di Israele nel momento in cui annuncia la realtà di una nuova e perfetta conoscenza della reciproca immanenza intra-trinitaria ed umano-divina. In quel giorno: così i profeti designavano il tempo dei grandi interventi di Dio nella storia del popolo eletto e, di riflesso, in quella di tutti i popoli della terra (cf. Is 2,17; 4,1s). Nel caso specifico, Gesù allude al tempo che farà seguito alla sua resurrezione e si tratta di un tempo assai dilatato, secondo i parametri umani, poiché la rivelazione dell’avvenuta salvezza si protrae, attraverso la Chiesa, sino alla fine del tempo terreno. Prima che si concluda il ciclo vitale del genere umano, tutti devono venire a conoscenza della “lieta novità” della redenzione in Gesù Cristo e chi, liberamente, sceglierà di credere sarà inserito, grazie alla mediazione di Gesù, nell’intima comunione che unisce in perfetta reciprocità il Padre ed il Figlio (cf. Gv 6,57; 10,14-15; 15,9 ecc.): saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. Solo la diretta esperienza del Risorto trasformerà la fede inadeguata dei discepoli in piena conoscenza di fede, “costringendoli” a trasmetterla tale e quale a tutti i popoli della terra (cf. Mt 28,19-20), affinché tutti gli uomini possano raggiungere la fede piena in Cristo Signore. Tale formula di reciproca immanenza tra il Padre ed il Figlio e tra il Figlio e gli uomini è strettamente collegata alla formula eucaristica di Gv 6,56: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui”. L’effetto di questa nuova relazione di comunione tra Gesù e coloro che credono in Lui è il rapporto di intima unione dell’uomo col Padre, grazie alla mediazione di Gesù: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (6,57). La prospettiva teologico-morale è affascinante e, al tempo stesso, assai impegnativa per l’essere umano: il Padre, il Figlio e gli uomini costituiscono, per l’azione santificante ed unificatrice dello Spirito Santo, una vera e propria famiglia umano-divina da cui si autoesclude solo chi rifiuta di farne parte. Tutto ha avuto origine dal Padre creatore e tutto ritorna al Padre per mezzo del Figlio redentore, grazie all’azione dello Spirito di santità e di amore. Di fronte ad un simile progetto di salvezza, l’uomo non può comportarsi da semplice spettatore neutrale, pena la condanna ad una morte eterna: “Chi vive e crede in me non morrà in eterno” (11,26) ed il destino di chi rifiuta ostinatamente di credere e di vivere in Cristo non può essere che la mancata “comunione intima e vitale” con Dio.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Il vero fondamento della comunione esistenziale con Gesù Cristo è l’amore, concretamente dimostrabile con l’obbedienza ai suoi insegnamenti, il che equivale ad osservare i suoi comandamenti. L’evangelista non specifica quali siano tali comandamenti, ma non è difficile identificarli coi due citati da Gesù ed indicati ad un dottore della legge come riassuntivi di tutto il contenuto dell’antica Legge (Toràh) consegnata da Dio a Mosè: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente […], amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,37-38). L’esemplificazione di tali “comandamenti” è mirabilmente contenuta nelle dieci beatitudini, definite con buona ragione la Magna Charta del cristianesimo (cf. Mt 5,3,12) e strettamente correlate al Decalogo (Es 20,2-17; Dt 5,6-21), che Gesù non ha rinnegato, bensì portato a pieno compimento (Mt 5,17). Non basta, dunque, limitarsi alle parole, ma è necessario dimostrare con gesti concreti il proprio amore per il Signore Gesù custodendo, rispettando ed osservando la “sua” Legge con la piena adesione del proprio essere (cuore, anima, mente).
La fedeltà alla “legge di Cristo” comporta delle conseguenze inequivocabili: Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui. A ben vedere, si tratta di una descrizione sintetica della perfetta “vita in Dio”, altrimenti definita paradiso. Seguendo s. Agostino e la sua abituale capacità analitica e sintetica nell’esposizione esegetica del testo evangelico, leggiamo il seguente passo, tratto dal commento al vangelo di Giovanni: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi li custodisce nella memoria e li attua nella vita; chi li tiene presenti nelle sue parole e li esprime nei costumi; chi li ha perché li ascolta e li osserva praticandoli; oppure chi li ha perché li pratica e li osserva costantemente, ecco chi è colui che mi ama. L’amore bisogna dimostrarlo con i fatti, altrimenti è una parola vuota e sterile. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui. Dice che lo amerà, forse perché ancora non lo ama? No davvero. Come potrebbe infatti amarci il Padre senza il Figlio, o il Figlio senza il Padre? Ma in quale modo possono agire separatamente essi, che operano sempre inseparabilmente? Egli dice: lo amerò, per concludere subito: e mi manifesterò a lui. Lo amerò e mi manifesterò, cioè lo amerò per manifestarmi a lui. Ora, infatti, ci ama concedendoci di credere in Lui e di rimanere nell’obbedienza della fede; allora ci manifesterà il suo amore, concedendoci di vederlo e di ricevere, con la visione beatifica, il premio della nostra fede. E anche noi, ora, lo amiamo credendo ciò che allora vedremo, mentre allora lo ameremo vedendo ciò che ora crediamo (Commento al Vangelo di s. Giovanni, Omelia 75,5). A chi crede è concesso, dunque, un grandissimo privilegio: essere inabitato dal Figlio e dal Padre, per mezzo dello Spirito. Parafrasando s. Agostino, chi crede amando ed ama credendo partecipa alla gioia del paradiso già su questa terra, perché in lui abita la SS. Trinità.

22 Gli disse Giuda, non l’Iscariota: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?”.
La domanda di Giuda Taddeo o Lebbeo (Mt 10,3; Mc 3,18), fratello di Giacomo di Alfeo (Lc 6,16; At 1,13; Gd 1,1) e, forse, cugino di Gesù (confrontando Mt 13,55; Mc 6,5; At 12,17; 15,13 ecc. non è del tutto certo che Giacomo d’Alfeo e Giacomo il minore, cugino di Gesù, siano la stessa persona), sembra sintetizzare tutte le perplessità sollevate sia da alcuni cristiani della comunità dell’apostolo Giovanni e sia dei loro avversari giudei: perché l’esperienza della pasqua di Cristo è stata limitata ai soli apostoli e la manifestazione gloriosa del Messia non è stata concessa a tutto il mondo? Il testo di At 10,40-42 è illuminante: “Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la resurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio”. La scelta arbitraria di Dio dava fastidio a molti, ai quali era richiesta una fede certa e salda sulla base della testimonianza di pochi individui (cf. Origene, Contro Celso, II, 63-67). Mentre Gesù allude ad una manifestazione “intima” dell’amore di Dio a quanti credono alle parole ed ai gesti del Figlio suo, Giuda è saldamente ancorato alla credenza ebraica d’una manifestazione esteriore, clamorosa ed universale della potenza di Dio, il quale avrebbe scelto Israele come capofila privilegiato dell’intera umanità. Giuda esprime, in modo esemplare, la meraviglia e la delusione di quanti si sentono esclusi dall’autorivelazione di Gesù come il Cristo di Dio, ma a costoro Gesù regala l’ennesima “beatitudine”, solo se sapranno fidarsi di Lui: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Gv 20,29).

23 Gli rispose Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24 Chi non mi ama, non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Sulla domanda dell’apostolo, Gesù sembra voler glissare, quasi suggerendo a lui ed a tutti noi che non gli interessa affatto ciò che il “mondo” pensa del suo modo di agire. Giuda vede soddisfatta la propria curiosità, ma a condizione di riflettere con molta attenzione sulla risposta del Maestro, centrata esclusivamente sull’intimo legame esistente tra l’ascolto obbediente della Parola di Dio e l’amore. Chi obbedisce a Gesù, Parola incarnata di YHWH, ama ed è riamato da Dio; anzi, colui che ama Dio diventa addirittura sua “dimora”, suo “tempio santo” e luogo privilegiato dell’amore intra-trinitario di Dio stesso, il quale si rivela per quello che è: Dio uno ed unico in tre Persone uguali e distinte. Il cuore dell’uomo è il vero “paradiso” di Dio e, viceversa, Dio è il vero “paradiso” dell’uomo; ciò che rende l’uno il paradiso dell’altro è il vincolo indissolubile dell’amore. Il “mondo”, inteso come realtà negativa, ostile in modo radicale all’amore di Dio ed incapace di amare persino se stesso, non è in grado di osservare le parole di Dio (cf 8 37.43.47) ma comprende solo le parole dell’odio, della sopraffazione, della violenza, dell’inganno e dell’ingiustizia, che costituiscono la negazione assoluta dell’amore. Chi ascolta le parole di Gesù, assimilandole, amandole, rispettandole e traducendole in gesti concreti di vita quotidiana, obbedisce alla parola eterna del Dio vivente, fonte e fine di ogni esistenza, di cui Cristo è al tempo stesso il Figlio co-eterno e consustanziale e l’Inviato, il Messia, apparso nel mondo come un uomo tra gli uomini per redimerli grazie alla sua inalienabile natura divina. L’ineffabile legame d’amore che unisce il Padre ed il Figlio, insieme allo Spirito Santo, è tale da rendere i Tre un solo Dio e l’umanità tutta è chiamata ad essere la “casa” di questo immenso oceano d’amore e di grazia. La tragedia di quanti, liberamente, coscientemente ed ostinatamente si negano a tale destino di amore, reciprocamente gratificante, è veramente immane. A quanti non amano e non capiscono Gesù (cf. 8,42), egli non può e non vuole manifestarsi perché ne rispetta la libertà di scelta, anche a costo di abbandonarli alla loro stessa incredulità (cf. 7,16; 8,26.28; 12,49; 15,22) e ad un destino di morte. Fedele allo stile letterario ebraico, l’evangelista utilizza un parallelismo antitetico per esprimere il diverso destino dell’uomo in relazione alla Parola di Dio: se uno mi ama, osserverà la mia parola… chi non mi ama, non osserva le mie parole. Nell’ascolto/amore è racchiusa la promessa della salvezza, nel non-ascolto/non-amore è contenuta, invece, l’attesa della condanna.

25 Queste cose vi ho detto quando ero ancora con voi. 26 Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Gesù, seguendo il filo dei suoi pensieri, è già immerso nel futuro di Dio Padre, al quale passato, presente e futuro sono contemporanei come un solo ed unico istante. Il doloroso evento della croce deve ancora accadere, ma è come se fosse già avvenuto, superato dalla novità della venuta dello Spirito Santo di Dio. La presenza fisica di Gesù fra gli uomini è storicamente vera, ma è stata limitata nel tempo e di breve durata; proprio per questo, molti uomini consegnati alla storia come i “grandi” della terra hanno cercato di cancellare dagli annali della storia la presenza ingombrante e scomoda di Cristo, ma la loro presuntuosa pretesa è andata delusa proprio per l’intervento dello Spirito Santo, il vero protagonista della storia degli uomini. Crollano gli imperi, passano di moda le ideologie rivoluzionarie ed i fanatismi politici e religiosi, ma la “debole” Chiesa di Cristo sfida imperterrita le numerose e stucchevoli novità del secolo presente perché in essa agisce lo Spirito di Dio, mandato dal Padre nel nome di Gesù per insegnare e ricordare, per guidare e sostenere, per consolare ed animare il cuore e la mente degli uomini, che sono sempre in bilico tra la tensione verso le infinite altezze dell’amore del Creatore e l’attrazione per le effimere bellezze della creazione. Sullo sfondo di ogni singola storia umana si staglia, inquietante, l’esperienza della colpa originale simboleggiata dalla fatale attrazione verso l’albero della conoscenza del bene e del male (Gen 2,17), di cui l’uomo vuole mangiare il frutto per essere come Dio (Gen 3,5), padrone di se stesso ed artefice del proprio destino. L’insegnamento di Gesù, invece, va in direzione diametralmente opposta, proponendo un diverso modo di rapportarsi con Dio e con le creature e spetta al suo Spirito il compito di far comprendere il senso vero di tale insegnamento: egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Il Paraclito non fa altro che continuare la rivelazione di Gesù, non con nuove dottrine, bensì approfondendo e chiarendo quella insegnata da Gesù stesso (cf. 16,13), trasmessa oralmente dagli apostoli e fissata per iscritto nei quattro “vangeli”. Una volta conclusa l’esperienza terrena del Verbo incarnato, tocca allo Spirito Santo continuare nel mondo l’opera di Gesù sino alla fine dei tempi, poiché egli è stato inviato dal Padre per essere, in un certo senso, il vero rappresentante di Gesù sulla terra (cf. 14,16) e l’autentico continuatore della sua missione tra gli uomini (cf. Gal 4,6; 1Pt 1,12). Dopo la partenza del Cristo, infatti, lo Spirito lo sostituisce presso i fedeli (14,16-17; 16,7); egli è il “consolatore”, l’avvocato che intercede presso il Padre (1Gv 2,1) o perora davanti ai tribunali umani (15,26-27; cf. Lc 12,11-12; Mt 10,19-20; At 5,32), è lo Spirito di verità (8,32) che guida alla verità tutta intera (16,13). Egli fa comprendere la personalità misteriosa del Cristo, come egli compia le Scritture (5,39), quale sia il senso delle sue parole (2,19), dei suoi atti, dei suoi “segni” (14,16; 16,13; 1Gv 2,20-27; Rm 8,16), tutte cose che i discepoli non avevano compreso prima (2,22; 12,16; 13,7; 20,9). Con ciò, lo Spirito darà testimonianza al Cristo (15,26; 1Gv 5,6-7) e confonderà l’incredulità del mondo (16,8-11; cf. Lc 24,49; Rm 5,5).

27 Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Shalòm, era il saluto o l’espressione d’addio abituale dei giudei, che si auguravano a vicenda l’integrità del corpo e la perfetta felicità, di cui il Messia liberatore sarebbe stato il portatore ideale. Gesù, però, non si congeda dai suoi discepoli col consueto saluto di pace (cf. 1Sam 1,17; 20,42; 29,7), ma donando la sua pace, il che è molto più di un semplice augurio di prosperità e di gioia. Per “pace” s’intende la salvezza escatologica (Is 52,7; Ez 37,27) che Dio offre e dona agli uomini inviando il Figlio suo (Lc 2,14; 19,38.42; At 10,36), grazie al quale la salvezza può raggiungere tutti gli uomini (Mc 5,34; Lc 7,50) anche attraverso la predicazione dei suoi discepoli (Lc 10,5; Mt 10,13). In tal modo, la pace che prima della sua passione Gesù dona ai suoi discepoli è la stessa che egli, ormai risorto, elargisce con generosità a tutta l’umanità, redenta dal suo sangue effuso sulla croce (20,19.21). La pace, che Gesù sta offrendo ai suo apostoli, è una garanzia di conforto e di aiuto nel momento della prova presente e futura (16,33) poiché la “sua pace” è un dono duraturo, ben diverso dal tipo di pace che il “mondo” è in grado di offrire all’uomo. Gesù stesso è la pace degli uomini e, senza di Lui, il mondo è un luogo privo di pace vera e stabile. Per l’apostolo Paolo, la pace donata da Cristo è il frutto dei “desideri dello Spirito” (Rm 8,6; Gal 5,22) e, insieme alla giustizia ed alla gioia, è manifestazione del Regno di Dio (Rom 14,17). Anche per l’evangelista Giovanni la pace è un elemento specifico del tempo dello Spirito ed il mondo non è in grado di offrire una pace di questo genere, poiché esso è come uno spazio chiuso, ostile ed assolutamente refrattario alla pace di Cristo e, semmai, interessato ad un surrogato di pace, che normalmente si regge su fragili equilibri politici, economici, militari e diplomatici su cui si allunga l’ombra inquietante dell’arroganza e della forza bruta del potente di turno. I regni di questo mondo non sono l’immagine speculare del Regno di Dio, che è caratterizzato da valori per lo più disprezzati ed irrisi dagli uomini “di questo mondo”: l’amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bontà, la fedeltà, la mitezza, il dominio di sé (Gal 5,22). Al contrario, nei regni di questo mondo prevalgono la fornicazione, l’impurità, il libertinaggio, l’idolatria, le stregonerie, le inimicizie, la discordia, la gelosia, i dissensi, le fazioni, le invidie, le ubriachezze, le orge e cose di questo genere (Gal 5,19), che costituiscono la puntuale negazione della pace di Cristo. La comunità dei cristiani deve, pertanto, essere nel “mondo” un segno visibile della vera pace di Cristo se non vuole confondersi con “i regni di questo mondo”, perdendo non solo la propria identità ma, soprattutto, la propria salvezza. I cristiani non hanno bisogno di sventolare alcun tipo di bandiera, mono o multicolore che sia, per farsi riconoscere come portatori della pace donata da Gesù; basta che vivano con fedeltà e amore l’insegnamento di Cristo Signore, per essere “luce del mondo e sale della terra” (Mt 5,13-16) in un mondo privo del sapore e della luce di Dio.
“Che cosa ci lascia [Gesù] quando se ne va, se non se stesso, dal momento che non ci abbandona? Lui stesso è la nostra pace, lui che ha superato in sé ogni divisione. Egli è la nostra pace se crediamo in lui e sarà nostra pace quando lo vedremo così come egli è. […] Ci lascia la pace al momento di andarsene, ci darà la sua pace quando ritornerà alla fine dei tempi. Ci lascia la pace in questo mondo, ci darà la sua pace nel secolo futuro. Ci lascia la sua pace affinché noi, permanendo in essa, possiamo vincere il nemico; ci darà la sua pace, quando regneremo senza timore di nemici. Ci lascia la pace, affinché anche qui possiamo amarci scambievolmente; ci darà la sua pace lassù, dove non potrà esserci più alcun contrasto. Ci lascia la pace affinché non ci giudichiamo a vicenda delle nostre colpe occulte, finché siamo in questo mondo; ci darà la sua pace quando svelerà i segreti dei cuori e, allora, ognuno avrà da Dio la lode che si merita. In lui è la nostra pace e da lui viene la nostra pace, sia quella che ci lascia andando al Padre, sia quella che ci darà quando ci condurrà al Padre. […] Egli è la nostra pace, sia adesso che crediamo che egli è, sia allorché lo vedremo come egli è. Se infatti egli non ci abbandona esuli da sé, mentre dimoriamo in questo corpo corruttibile che appesantisce l’anima e camminiamo nella fede e non per visione, quanto maggiormente ci riempirà di sé quando finalmente saremo giunti a vederlo faccia a faccia? ” (s. Agostino, Commento al Vangelo di s. Giovanni, Omelia 77, 1.3). Bisogna diffidare della pace di cui si fa promotore e garante un mondo senza Dio, anche quando sembra animato da buone intenzioni, perché si sa, come recita un vecchio adagio, che “di buone intenzioni sono lastricate tutte le strade che conducono all’inferno”. Il mondo, specie quando è ostile ai disegni di Dio, non è per nulla affidabile, neppure quando proclama “libertà, fraternità, uguaglianza” per tutti gli uomini, perché troppo spesso tali proclami nascondono la punta di una baionetta o la bocca fumante di un cannone. Ci sorprende, ancora una volta, l’attualità del pensiero di s. Agostino: “Questa pace, che ci ha lasciato in questo mondo, è da considerarsi piuttosto nostra che sua. Egli, non avendo alcun peccato, non porta in sé alcun contrasto; noi invece possediamo ora una pace che non ci dispensa dal dire: Rimetti a noi i nostri debiti. Esiste dunque per noi una certa pace, quando, secondo l’uomo interiore ci compiacciamo nella legge di Dio; ma questa pace non è completa, in quanto vediamo nelle nostre membra un’altra legge che è in conflitto con la legge della nostra ragione. Esiste pure per noi una pace tra noi, in quanto crediamo di amarci a vicenda; ma neppure questa è pace piena, perché reciprocamente non possiamo vedere i pensieri del nostro cuore e, per cose che riguardano noi, ma che non sono in noi, ci facciamo delle idee, gli uni degli altri, in meglio od in peggio. Questa è la nostra pace, anche se ci è lasciata da lui; e non avremmo neppure questa, se non ce l’avesse lasciata lui. La sua pace, però, è diversa [perché lassù] da noi non potranno più sorgere contrasti e nulla, nei nostri cuori, rimarrà occulto gli uni agli altri” (ibid., 77,4). L’uomo non può darsi da sé la pace, perché condizionato dal peccato, dall’egoismo, dalla superbia e da tutto il male che scaturisce dal suo cuore e, se non riesce a darla a se stesso, non può pretendere di darla neppure ai suoi simili.
Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. L’esortazione di Gesù a non avere paura della cattiveria aggressiva del mondo, che farà di tutto pur di separare i discepoli da Gesù, è ripetuta una seconda volta (14,1) costituendo un’ampia inclusione (14,1-27) stilistico-letteraria, i cui temi dominanti sono: la fiducia in Dio e nel suo Inviato, l’intimo rapporto di comunione tra Gesù ed i suoi discepoli, l’inserimento dei credenti nel vincolo d’amore solidale e reciprocamente immanente tra Dio Padre ed il Figlio suo, la stretta correlazione tra amore ed obbedienza alla parola di Dio nel segno dello Spirito Santo. Gesù anticipa la paura dei suoi discepoli, posti di fronte all’orribile prospettiva della croce e, in certo qual modo, ne scusa la fuga al momento del suo arresto per mano delle guardie del Tempio. Gesù sa bene che pure a lui toccherà provare “angoscia e tristezza” per la morte imminente (Mt 26,37) e che la paura della sofferenza lo farà “sudare sangue” (Lc 22,44); poiché sperimenta personalmente il profondo turbamento psicologico degli esseri umani di fronte alla sofferenza ed alla morte, il Maestro solidarizza coi suoi discepoli e li incoraggia a tener duro sino al momento in cui lo rivedranno risorto e glorioso. L’esperienza della Pasqua di Cristo non impedirà ai discepoli di provare il brivido della paura e dell’angoscia nel momento della loro “passione”, ma li renderà decisi a tutto pur di rendere testimonianza al loro “Dio e Signore” (Gv 20,28) al cospetto di tutti gli uomini, anche a costo della propria vita. L’esortazione di Gesù a non temere le persecuzioni si estende, attraverso l’esperienza dei discepoli, ai credenti d’ogni tempo, perché vi saranno sempre uomini ostili al disegno di salvezza voluto da Dio e nemici giurati di Cristo, che è l’amore dialogante di Dio in “carne e ossa” (Gv 1,14).

28 Avete udito che vi ho detto: Vado e tornerò a voi; se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me.
Questo versetto ha fatto letteralmente scorrere fiumi d’inchiostro, a partire dall’epoca delle controversie cristologiche del III-IV secolo d.C., quando soprattutto l’arianesimo sembrò mettere in serio pericolo l’ortodossia della fede cristiana nella reale umanità e nella vera divinità di Cristo. La partenza di Gesù è la condizione necessaria per il suo ritorno in pianta stabile in quello stesso mondo che, tra poco, lo respingerà in malo modo e, proprio per questo, la sua temporanea dipartita deve essere considerata dai discepoli come momento di pura gioia. La vera comunità cristiana deve fondarsi su questi due sentimenti, di cui Gesù è l’origine ed il fine ultimo: la pace e la gioia. Non può esservi vera gioia senza la pace donata da Cristo, dal quale tutto ha avuto inizio (1,10) ed al quale tutto sarà ricondotto alla fine del tempo (Col 1,20; Ef 1,10; 2,14-18). Di più, non si può essere veramente depositari della pace donata da Cristo e fruitori della gioia che ne scaturisce, se il proprio cuore rimane chiuso all’amore per Gesù. Non basta una semplice adesione intellettuale e filosofica al messaggio cristiano né una banale infatuazione del personaggio Gesù, per molti versi affascinante e di grande interesse sociologico; per appartenere a pieno titolo a Cristo ci vuole molto di più sul piano esistenziale. L’amore costituisce, infatti, la vera “misura” della propria appartenenza a Gesù, vero Uomo e vero Dio, principio e fine dell’intero creato (Ap 22,13).
Vado… tornerò. Sembra, a prima vista, un gioco a rimpiattino tra Gesù e gli uomini, i quali, durante il periodo in cui Gesù rimane “nascosto” ai loro sensi, vanno alla sua ricerca per chiedergli spiegazioni sul senso ultimo della loro esistenza e, in ultima analisi, sull’irritante presenza del male nel mondo. In termini del tutto razionali, anche Gesù è uno sconfitto se ha dovuto assoggettarsi alla sofferenza ed alla morte per trasmettere agli uomini una speranza di salvezza; non sarebbe stato più semplice eliminare il male ed il dolore con un colpo di spugna e garantire, in tal modo, un’anticipazione in questo mondo della felicità che Egli pretende di donarci nell’altra vita? Che senso ha un Dio che dà per scontata la presenza del male nel mondo e che, per giunta, gli si sottomette al punto da subirne le estreme conseguenze? La partenza di Gesù da questo mondo non avrebbe senso, infatti, se non ci fosse la garanzia certa del suo definitivo ritorno, dopo aver ricevuto dal Padre la signoria su tutte le cose che appartengono a questo mondo (Fil 2,9-11), persino sulla morte (1Cor 15,25-28), suprema sintesi del male che, in questo mondo, si oppone tenacemente al progetto di vita racchiuso nell’esistenza stessa di Dio. Nell’esperienza umana di Gesù di Nazareth, Dio ha voluto assaporare insieme agli uomini l’amaro gusto della sconfitta, dell’odio, della sofferenza, del disprezzo e della morte affinché anch’essi potessero provare, insieme a Lui, il dolce ed inebriante sapore della vittoria definitiva sul male, sulla disperazione e sull’angoscia di un totale annientamento della propria dignità per mano dell’altrui malvagità. Nella passione e nella morte di Cristo è adombrata la sofferenza di ciascun essere umano, ma nella sua resurrezione è prefigurata la liberazione dell’umanità da ogni forma di oppressione, fisica e spirituale, ereditata dalla ribellione primordiale alla signoria di Dio su tutto il creato.
Vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me. Su questa frase hanno giocato “sporco” tanti eretici “cristiani” antichi e moderni, incapaci di accettare il mistero dell’incarnazione di una delle tre Persone divine e, di riflesso, ostili anche al mistero dell’Uni-Trinità divina. Affermando che Gesù era “solo” un uomo, pur santo e grande profeta, chi si oppone alla sua reale divinità intende disinnescare il significato “rivoluzionario” delle sue parole e delle sue opere e, tutto sommato, cerca di rendere innocua la Parola stessa di Dio e priva di sostanziale interesse per le umane vicende. In questo mondo l’uomo è solo e deve cavarsela coi soli propri mezzi, auspicando tutt’al più la benedizione di un Dio che, all’atto pratico, rimane lontano e distaccato e che, a seconda del mutare degli eventi, può essere ritenuto colpevole dei rovesci e delle disgrazie degli uomini o, quando tutto va bene, solidale con le fortune di chi lo ha invocato ed è stato capace di “tenerselo buono”. Un Dio così concepito può essere facilmente ridotto ad amuleto portafortuna o, all’occorrenza, a vittima delle proprie frustrazioni e destinatario di tutte le maledizioni che mente umana possa concepire, quasi un parafulmine dell’arrogante presunzione degli uomini. Il modo di agire del Dio rivelato da Gesù Cristo rimane incomprensibile e non classificabile in alcun modello razionale umano e non a tutti è concesso di accettare, tout court, la misteriosa e provvidente presenza di un Dio siffatto nella storia umana. L’uomo vuole certezze in questo mondo, ma il Dio di Gesù di Nazareth si sottrae a questo genere di garanzie, esponendosi anzi, contro ogni logica, alla prepotenza di una creatura che Egli ama in modo fedele e che accoglie, perdona e salva rispettandone la libertà e sopportandone i deliri di onnipotenza.
Il Padre è più grande di me. Prima di tutto, il Padre è, secondo l’affermazione di Gesù, una Persona e non un essere astratto ed impalpabile e da Lui proviene il Figlio, il Logos, per generazione eterna, motivo per cui Il Figlio è co-eterno e consustanziale col Padre. In secondo luogo, il Figlio ha ricevuto dal Padre una missione ed è l’Inviato del Padre, il Mediatore tra l’ineffabile essenza divina del Padre e la carnale realtà terrena dell’uomo; in terzo luogo, il Figlio ha ricevuto dal Padre la natura umana e si è incarnato in Gesù, figlio di una ragazza della borgata galilea di Nazareth. Su questi tre punti hanno riflettuto a lungo i Padri della Chiesa, per rispondere in modo “ragionevole” alle provocazioni degli eretici e dei non cristiani. L’esegesi ortodossa seguiva due vie.
Tertulliano, Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo spiegavano l’affermazione di Gesù in senso inter-trinitario. In sé, rispetto all’essenza divina, il Padre ed il Figlio sono uguali, ma relativamente alla relazione delle persone il Padre è “più grande” del Figlio, in quanto il Figlio procede dal Padre e non viceversa
Cirillo d’Alessandria d’Egitto ed Agostino fondavano il diverso grado di grandezza del Padre e del Figlio sul concetto di incarnazione e di kénosis del Figlio di Dio, il quale, divenendo uomo, si è spogliato della propria dignità divina, ma non della natura divina. Pur rimanendo Dio, il Figlio è diventato uomo, ossia creatura di Dio e subordinato al Padre.
Il pensiero dell’evangelista Giovanni è assai lontano dalle opinioni di Ario, un prete egiziano del IV secolo d.C., secondo cui Gesù era una creatura del Padre, certamente il migliore degli uomini ma, altrettanto certamente, da non collocare sullo stesso piano di Dio. Secondo Ario e diversi altri eretici antichi e moderni, Gesù sarebbe una specie di dio minore, in tutto e per tutto subordinato al Padre, unico Dio creatore dell’universo, che si sarebbe “servito” di Gesù per far passare un sorta di messaggio di universale irenismo, “adottandolo” come figlio prediletto in virtù della sua perfetta obbedienza alla suprema volontà divina. In questo modo, la morte redentrice di Cristo non avrebbe assolutamente alcun valore, se non in senso puramente morale e la sua resurrezione ed assunzione in cielo avrebbe il significato di un “premio”, cui tutti possono ambire se si mantengono fedeli a Dio sull’esempio di Gesù. Per l’evangelista, invece, la volontaria subordinazione del Figlio al Padre ha un significato propriamente dialettico, poiché il Figlio ha la stessa pienezza di vita del Padre (5,26), ne condivide la stessa essenza divina (1,1) e la gloria (17,5) e, come il Padre, esercita il suo potere e svolge le sue funzioni in modo assolutamente sovrano ed autonomo (cf. 1,51; 4,12; 5,20; 8,53; 10,29; 13,16). Il Padre, allora, è più grande del Figlio nel senso che tutto quanto avviene proviene da Lui e da Lui viene condotto al giusto fine, compresi l’invio del Figlio e la sua glorificazione. Il Padre è anche la meta finale di quanti sono stati da Lui affidati al Figlio ed alla sua morte redentrice e si dimostra “più grande del Figlio” proprio nel momento in cui lo glorifica con la resurrezione dai morti, evento che acquista agli occhi dei discepoli il significato di un pieno compimento delle parole pronunciate da Gesù al riguardo (cf. 16,7). Uguale al Padre (10,30; 8,24), il Figlio ha la sua gloria, che per ora è velata (1,14), ma il suo ritorno al Padre la manifesterà di nuovo (17,5; cf. Fil 2,6-9; Eb 1,3).
In definitiva, le spiegazioni che i Padri della Chiesa hanno voluto fornire sul significato e sulla portata teologica dell’affermazione di Gesù che il Padre è più grande del Figlio, appellandosi alla dottrina delle due nature, umana e divina, presenti in Cristo, sono intrise di concetti filosofici estranei al pensiero dell’evangelista Giovanni, colpito piuttosto dallo sconcertante paradosso del Lògos divino che è divenuto visibile e, in certo qual modo, contestabile dall’angusta razionalità umana per aver assunto e condiviso, in tutto e per tutto, la fragile natura degli uomini. Da una parte, Gesù proclama la propria intima unità col Padre (10,30) e la sua immanenza reciproca con Lui, mentre, dall’altra, egli si pone come l’Inviato che riceve tutto dal Padre, parole ed opere, insegnamenti ed ordini. Questi due aspetti della presentazione giovannea non sono in opposizione, bensì raffigurabili come il dritto ed il rovescio di una stessa medaglia; essendo inviato da Dio, è ovvio che Gesù non possa essere più grande (cf. 13,16) di Colui che l’ha mandato in missione, ma in forza della propria origine (1,1) il Figlio non è da meno del Padre, possedendo entrambi la medesima natura divina. C’è da chiedersi, allora, per quale motivo Gesù abbia voluto sottolineare la priorità del Padre rispetto al Figlio; la menzione del Padre, che “è più grande di me”, funge da elemento catalizzatore di tutto il discorso d’addio di Gesù e, di riflesso, di tutta la sua esperienza umana su questa terra, poiché lo scopo ultimo dell’incarnazione del Logos è quello di far incontrare gli uomini con Dio, da cui tutto ha avuto origine e verso cui tutto deve ritornare. Il ritorno di Gesù al Padre è, in definitiva, la premessa necessaria per il ritorno dell’intera umanità verso Colui che l’ha creata e redenta per mezzo del Figlio suo. Il frutto definitivo della “discesa” del Logos divino nella realtà storica dell’uomo è la sospirata “ascesa” dell’uomo verso Dio; all’umanizzazione di Dio consegue la divinizzazione dell’uomo.

29 Ve l’ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate. 30 Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; egli non ha nessun potere su di me, 31 ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato. Alzatevi, andiamo via di qui”.
Gesù sa molto bene che lo scandalo della croce sconvolgerà profondamente i suoi amati discepoli, inferendo un durissimo colpo alla loro fede nel Maestro, sicché li prepara al tragico evento della sua passione e morte seguendo i sacri canoni della profezia verace, ispirata da Dio e non le regole di quella profezia di bassa lega, che è frutto della fallace presunzione umana. La profezia è vera quando infallibilmente si realizza ciò che essa annuncia e non per mero calcolo delle probabilità (Dt 18,22; Ger 28,9), ma essa è vera anche, se non soprattutto, quando il profeta rimane fedele al Dio unico senza piegarsi di fronte all’ostilità degli uomini (Dt 13,2-6). Se i discepoli non fossero stati ammaestrati e rassicurati dalle parole di Gesù, ricordate a tempo debito e correttamente interpretate con l’aiuto del Paraclito, avrebbero potuto comprendere in modo distorto l’evento della croce; la resurrezione del crocifisso li aiuterà invece, da un lato, a riconoscere in Lui il Vivente, che è uno col Padre e fonte di vita per i suoi (19,35) e, dall’altro, li spingerà a diffondere tra gli uomini la fede nel Cristo risorto anche a prezzo della propria vita. La missione di Gesù sta volgendo al termine e sta giungendo il momento dell’effimera gloria del “principe del mondo”, che si serve di Giuda Iscariota (Mc 14,42; Gv 18,3; cf. Gv 13,37), uno dei Dodici, per portare a termine la propria missione di odio e di distruzione della fonte stessa della vita. Secondo l’evangelista, infatti, la passione di Cristo è il risultato dello scontro tra il Figlio di Dio e questa misteriosa e losca figura in cui si concentra il radicale rifiuto dell’amore. La sconfitta per mano di questo oscuro personaggio, tiene a precisare Gesù, è solo apparente perché il principe del male “non ha alcun potere” su di lui, per almeno tre buoni motivi: il principe del mondo non può agire contro Gesù senza il permesso del Padre (19,11), Gesù è inattaccabile perchè è senza peccato (8,46) e perché non è di questo mondo (8,23; 17,16). In effetti, l’evangelista narra i fatti della passione di Gesù facendo risaltare l’atteggiamento sovrano di Cristo, che liberamente depone la propria vita per poi riprendersela altrettanto liberamente, come emerge dalla parabola del Buon Pastore (10,17-18) o dall’episodio della lavanda dei piedi (13,4.12). Volontariamente Gesù si consegna al nemico (18,4ss) per adempiere il mandato del Padre (10,18); poiché egli esteriormente lascia campo libero al principe del mondo, prendendo la morte su di sé, il mondo non potrà che riconoscere il suo amore per il Padre, per il semplice motivo che Gesù esegue fedelmente ciò che il Padre gli ha comandato di compiere per la salvezza del mondo stesso. Anzi, se Gesù si sottopone alla sfida dell’Avversario, l’antico nemico di Dio, è proprio per manifestare al mondo il proprio legame col Padre e chi sa discernere questo legame esistenziale tra il Padre ed il Figlio è già sulla buona strada per conseguire la vita eterna. Il mondo è un termine ambiguo nel linguaggio giovanneo, poiché indica sia la realtà ostile a Dio (v. 30) e sia quella aperta all’incontro con Dio (v. 31); allo stesso modo, gli stessi giudei, individuati dall’evangelista come i nemici giurati di Gesù, sono anche coloro che riconosceranno la sovranità di Cristo nel momento della sua “esaltazione” sulla croce (8,28) e con occhi diversi volgeranno lo sguardo verso il trafitto (Zc 12,10; Gv 19,37), riconoscendo in lui il Messia predetto dai profeti e volontariamente immolatosi per il bene di tutti gli uomini. Nell’attesa che si compia la sua “ora” e che il “mondo” prenda posizione nei suoi confronti, Gesù considera conclusa la parte didattica della sua missione pubblica e con un ordine perentorio (“Alzatevi, andiamo via di qui!”) pone fine al discorso di addio. Salta subito all’occhio la somiglianza di questo comando con quello pronunciato da Gesù nell’orto del Getsèmani prima di affrontare la turba delle guardie venuta ad arrestarlo (Mc 14,42). Secondo alcuni autori, l’ordine rivolto ai discepoli da Gesù racchiude un invito a prepararsi alla lotta (agonia) spirituale contro il nemico di ogni tempo, quel tentatore (satàn) che già aveva ingannato coi suoi trucchi dialettici il primo uomo (adàm) e che aveva attirato nella sua rete malefica proprio uno dei Dodici (Giuda) per opporsi al disegno salvifico di Dio. Questo losco personaggio, che non è il frutto della fantasia popolare e di cui “i sapienti di questo mondo” (Mt 11,25) cercano di negare l’esistenza, non essendo loro concesso di penetrare i segreti di Dio (1Cor 1,26-29), insidia l’uomo fino alla fine del tempo per allontanarlo dal suo Signore e Dio ed è sempre all’opera perché “è stato omicida fin da principio” ed è “padre della menzogna” (9,44). Ciò che segue (cc. 15-17) è, molto probabilmente, il frutto di un’interpolazione redazionale maldestra, ma non tutti i commentatori sono d’accordo su questo punto. Questi capitoli, infatti, potrebbero essere spiegati come una sorta di vademecum per guidare i credenti proprio in questa lotta spirituale contro il “il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra” (Ap 12,9) e di cui Gesù ci consiglia caldamente di diffidare, rimanendo invece saldamente ancorati a Lui, vera vite e, tramite Lui, in piena comunione d’amore col Padre. L’amore e l’obbedienza di Gesù nei confronti del Padre sono finalizzati alla piena trasformazione del mondo, che se da un lato è esposto agli attacchi del “principe del mondo”, dall’altro è amato profondamente da Dio (3,16). Per sottrarre il mondo dal giogo oppressore del maligno, Gesù deve passare attraverso i dolori della passione, così come i suoi discepoli (alzatevi, andiamo…), chiamati a dare il proprio contributo alla lotta del Maestro contro la personificazione stessa del male e della morte. Il “discorso d’addio” di Gesù lascia intuire i tratti caratteristici del vero discepolo di Cristo. Il credente non è semplicemente colui che “segue” Gesù, ma un alter Christus:
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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