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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/07/2010 10:07
 
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L’episodio della resurrezione di Lazzaro suscita alcune riflessioni sul concetto di “vita” elaborato e proposto dal quarto evangelista:
1)Gesù Cristo è di volta in volta definito pane di vita (6,35.48), luce della vita (8,12) e vita in senso assoluto (11,25; 14,6) perché è stato inviato dal Padre per dare la vita al mondo (6,33); Gesù è il principio stesso della vita, vale a dire il suo punto di partenza.
2)Nella propria persona ed attraverso le parole che ha pronunciato od i miracoli che ha compiuto, Gesù ha incarnato, rivelato e comunicato la vita di Dio, dovuta a quanti accolgono la sua rivelazione e credono in Lui. Per costoro la vita consiste nella liberazione dal dominio della morte (5,24) e nel superamento dei confini angosciosi della morte (8,51; 11,26; 12,25) già nel tempo dell’esistenza presente, non solo in una prospettiva futura.
3)Il dono e la promessa della vita sono la risposta positiva di Dio all’interrogativo dell’uomo sul senso della propria esistenza e sul contenuto della vera salvezza. La vita è “la luce degli uomini” (1,4), la chiarificazione del senso del loro cammino sulla terra, altrimenti oscuro e tragico (8,12). Il concetto di vita contribuisce ad esprimere meglio il significato della salvezza, che solo con la fede si riesce a comprendere pienamente come nuova e definitiva esistenza in Dio. Di tale esistenza l’uomo è assolutamente debitore nei confronti di Dio.
4)La vita, che l’uomo riceve attraverso Cristo, non è una dotazione materiale né una forza magica, ma una realtà divina, una piena partecipazione alla vita di Dio, che è origine d’ogni vita (5,26; 1Gv 1,2). Il possesso della vita da parte del credente, frutto del dono del Padre attraverso il Figlio (1Gv 5,11), opera la comunione col Padre e col Figlio (1Gv 1,3; 2,23s; 5,12).
5)Anche i sacramenti hanno la loro importanza nel processo di comunicazione della vita ai credenti, perché sono segni efficaci che uniscono i credenti a Cristo e, per mezzo suo, al Padre (Gv 3,5; 6,53-57; 1Gv 5,7s). La vita donata a chi (nel battesimo) è generato da Dio è, per sua natura, permanente (Gv 6,27; 1Gv 2,27; 3,9) e deve condurre ad una relazione viva e cosciente con Cristo e con Dio, ad una permanenza nell’amore (Gv 14,21.23; 15,9). Per rimanere in Cristo ed avere la vita eterna è indispensabile l’eucaristia (6,56).
6)La vita divina donata al cristiano diventa dovere morale e chiede di essere confermata nell’amore fraterno (1Gv 4,20s).
Giovanni distingue nettamente tra la vita biologica (bìos), con relativo aspetto psichico, intellettivo e volitivo (psykhé), che caratterizza la parte terrena e caduca dell’esistenza umana e la vita eterna (zoé), verso la quale ogni uomo tende in virtù di una vocazione comune all’eternità connessa con l’atto creatore di Dio, che ha fatto l’uomo “a propria immagine e somiglianza” (Gen 1,26-27). Secondo la teologia giovannea, la vita proviene da Dio e giunge agli uomini attraverso Gesù Cristo (cf. 3,16; 5,26; 6,57), ma l’uomo coltiva naturalmente, quasi geneticamente, dentro il proprio essere l’ansiosa ricerca della salvezza, identificata con un genere d’esistenza necessariamente diversa da quella sperimentata sulla terra come provvisoria e fugace (cf, 4,13s; 6,27; 7,38; 8,12; 17,3). Grazie a Gesù Cristo, l’uomo può comprendere che la meta della sua esistenza è la vita in Dio e che può giungervi “conoscendo” il Padre attraverso il Figlio: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (17,3). Il mandato di Dio a Gesù significa vita per gli uomini, ai quali è offerta l’eternità come un dono prezioso da accogliere consapevolmente e con impegno personale.
Il risalto che viene dato al ruolo di Gesù Cristo nel trasmettere la vita di Dio agli uomini, rende implicitamente evidente la non disponibilità a buon mercato di questo tipo di vita. Solo ed abbandonato a se stesso, l’uomo non riesce a liberarsi dei propri limiti creaturali (3,31), dalla schiavitù dei suoi desideri (8,34-36) e dall’attrazione verso ciò che è passeggero (6,26.35); solo la fede in Colui che è portatore di vita può vincere la cecità spirituale dell’uomo e schiudergli la via per ottenere l’agognata pienezza di vita. Senza la mediazione del Figlio di Dio, l’uomo non è in grado di raggiungere, da solo, la vita eterna, che è pienezza d’amore e di conoscenza di Dio.
La vita eterna, donata da Cristo a chi crede in Lui e nella sua missione, non è solo una promessa per il futuro, ma è una realtà che si realizza nel presente dell’esistenza terrena, nella quale ogni credente può realizzare l’attesa della vita futura mediante rapporti d’amore e di servizio a vantaggio dei suoi simili. La vita, donata all’uomo nella fede, va ben oltre la morte del corpo materiale, che naturalmente provoca timore ed angoscia ma che, grazie alla Rivelazione, denuncia la propria provvisorietà ed inconsistenza di fronte alla promessa nella quale Dio stesso si è impegnato resuscitando il proprio Figlio, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 1,20).
Per ottenere la vita eterna, cioè per vivere eternamente in Dio e con Dio, l’uomo non può pensare al singolare; chi aspira alla salvezza deve spogliarsi d’ogni angusto e meschino individualismo e collocarsi nella prospettiva di una salvezza collettiva, in comunione coi suoi fratelli e compagni di viaggio. Il passaporto per entrare nella vita eterna, in comunione reciproca con Dio, è l’amore a due dimensioni: verso Dio e verso il prossimo (cf. 15,7-10).
Il miracolo della resurrezione di Lazzaro fa precipitare gli eventi. Messi sull’avviso da alcuni giudei, testimoni del prodigio compiuto da Gesù a Betània (11,46), i sommi sacerdoti ed i farisei decidono di riunire il sinedrio (11,47), il tribunale religioso ed amministrativo della nazione giudaica e discutono sul da farsi. È grande la preoccupazione che i romani possano intervenire con la forza delle armi per reprimere una possibile rivolta popolare capeggiata da Gesù (11,48), forte delle sue qualità taumaturgiche, ma il sommo sacerdote Caifa offre la giusta soluzione al caso-Gesù: meglio la morte di un uomo solo che la rovina di un’intera nazione (11,49-50). La motivazione politica della condanna a morte di Gesù, pronunciata dal sinedrio per istigazione di Caifa, s’intreccia inesorabilmente col progetto salvifico di Dio, che attraverso la morte del Figlio vuole riscattare l’intera umanità dal peccato e sottrarla alla perdizione eterna. Nonostante le intenzioni malvagie ed il calcolo politico dei capi della nazione giudaica, il sommo sacerdote Caifa pronuncia un’involontaria profezia (11,51): la morte di Gesù avrà lo scopo di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (11,52).
Nell’attesa che giunga la sua “ora”, Gesù si ritira presso la città di Efraim e per un po’ non si fa più vedere nei pressi di Gerusalemme (11,54-57), dove tutti sono in attesa di vederlo, gli uni per festeggiarlo e gli altri per fargli la festa (nel senso di ucciderlo…).

L’unzione di Betània
(Gv 12,1-11)

L’ultima parte dell’attività pubblica di Gesù è contrassegnata dall’avvicinarsi della pasqua della sua morte. I giudei si preparano a questa santa festa (11,55), che risveglia le loro maggiori speranze messianiche. Gesù è il compimento della speranza di salvezza dei giudei, è il re d’Israele ed il Messia atteso, ma in un senso completamente diverso da quanto si attende il giudaismo (12,13-15). Egli entra in Gerusalemme come un principe della pace (12,12-14) e quivi muore la sera della pasqua come il vero agnello pasquale (19,14.36). La sua morte sacrificale adempie la profezia di Caifa ed ha conseguenze ben diverse e di portata assai più vasta di quel che s’immagini il giudaismo.
Sullo sfondo del racconto s’intravede la polemica vivace esistente tra giudaismo ufficiale e cristianesimo all’epoca della composizione del Vangelo giovanneo. Le autorità giudaiche procedono inesorabili contro Gesù (11,57) e cercano con ogni mezzo di soffocare al suo nascere la fede in Lui (12,10s), senza riuscirvi. Molti giudei non si lasciano dissuadere dal seguire Gesù (12,12.19) e persino dei greci vengono a Lui per incontrarlo e conoscerlo di persona (12,20s). Si tratta di un ritratto della Chiesa primitiva, formata da giudei e da pagani e fondata sulla morte e resurrezione di Cristo, la cui gloria, unitamente a quella del Padre, si manifesta proprio sul trono infamante della croce (12,23; cf. 12,32; 19,37). Il seme di frumento, che muore nel terreno, dà molto frutto (12,24), così come la croce si trasforma da strumento di tortura e di morte in simbolo di vita e d’esaltazione, per mezzo della quale il Figlio dell’uomo attrae tutti gli uomini a Sé (12,32s). In tal modo, l’ora più oscura e tragica di Gesù si muta in manifestazione della sua gloria e potenza (12,12,27s), capace di infrangere definitivamente il potere del principe del male, da cui sembra essere dominato il mondo intero (12,31). Gesù Cristo rimane eternamente glorioso proprio nel momento in cui la sua morte infamante sembra asserire il contrario (12,34).

12,1 Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva resuscitato dai morti.
L’episodio dell’unzione di Betània è raccontato anche dai Sinottici (Mc 14,3-9; Mt 26,6-13; Lc 7,36-50). Dopo la discussione fra i giudei (11,56), l’evangelista narra ciò che Gesù ha fatto qualche giorno prima della sua ultima festività pasquale. Lasciato il rifugio di Efraim (11,54), Egli ritorna nuovamente a Betània, località da cui si era allontanato, dopo aver compiuto il miracolo della resurrezione dell’amico Lazzaro, per sottrarsi alle ricerche poco amichevoli dei giudei. Il ritorno a Betània, quindi, si dimostra una mossa poco saggia e, forse, storicamente poco attendibile. Nel suo racconto, però, l’evangelista non ha molti riguardi per il susseguirsi cronologico degli avvenimenti ed accosta gli episodi della resurrezione di Lazzaro e dell’unzione a Betània perché i due fatti si sono effettivamente svolti nello stesso luogo; poco importa al suo intento teologico che la successione degli avvenimenti sia stata effettivamente quella da lui riportata nel IV Vangelo. Qualche autore (D. Mollat, Bibbia di Gerusalemme, Parigi ² 1960), ha fatto notare come l’evangelista non abbia mancato di porre l’accento sull’ultima settimana della vita pubblica di Gesù, seguendola con molta cura (12,12; 13,1; 18,28; 19,31) alla stessa stregua della prima settimana d’auto-rivelazione al mondo (2,1+). L’una e l’altra settimana si concludono con la manifestazione della gloria di Gesù: a Cana di Galilea, Gesù inaugura il “tempo dei segni” (2,4.11), mentre a Gerusalemme si compie l’ora della sua glorificazione sul legno della croce (cf. 12,23; 13,31s;17,1.5).

2 E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. 3 Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento.
A Betània si offre, dunque, una cena in onore di Gesù, il benefattore della casa di Lazzaro e delle sue sorelle, Marta e Maria. Questi tre personaggi sono citati dall’evangelista secondo le loro caratteristiche personali: il resuscitato Lazzaro è, in qualche modo, il festeggiato insieme con Gesù, ma rimane defilato, quasi che la sola sua presenza sia più assordante di qualsiasi discorso che egli possa tenere a proposito della sua esperienza nel regno dei morti; Marta è la solita donna di casa, tutta compresa nel suo ruolo di silenziosa ed operosa domestica della famiglia; sorprende l’azione di Maria, descritta altrove come una persona introversa e dedita alla meditazione ed alla contemplazione (Lc 10,39s) e che, in quest’occasione, compie un gesto insolito senza proferire parola, secondo il suo stile. Mentre la cena è in pieno svolgimento, Maria si presenta in sala da pranzo con una libbra di preziosissimo olio profumato, a base di nardo puro (quest’unguento era estratto dalle radici di una pianta originaria dell’India e costava un patrimonio) e compie due gesti sorprendenti e, al tempo stesso, assai poco convenienti se messi in relazione con il galateo del tempo. Maria, infatti, si mette ai piedi di Gesù e glieli unge con l’unguento prezioso (327,25 grammi d’olio profumato!), per poi asciugarli coi propri capelli. Secondo la sensibilità giudaica, una donna non avrebbe mai dovuto permettersi di ungere i piedi ad un uomo, specie durante un pasto e, tanto meno, avrebbe usato i propri capelli per asciugarglieli. Secondo un’usanza babilonese, durante le nozze di una vergine delle donne versavano sul capo (e non sui piedi!) dei rabbini presenti l’unguento profumato, mentre una schiava lavava mani e piedi dell’ospite con olio d’oliva; inoltre, in pubblico la donna ebrea non mostrava mai ad un uomo la propria capigliatura e teneva un velo sul capo per pudore. Solo al proprio marito la donna poteva mostrare i capelli disciolti e, certo, mai alla presenza dei figli o dei servi di casa: il gesto di sciogliersi i capelli davanti ad un uomo aveva, infatti, un evidente significato erotico e non poteva essere esibito in pubblico. Solo le prostitute potevano osare tanto!
Maria, dunque, compie un’azione da schiava in modo non appropriato e, soprattutto, interpretata dai presenti in maniera assai ambigua, se non maliziosa. L’evangelista riferisce che il profumo dell’essenza inonda la casa, attribuendo a questo particolare narrativo un significato teologico rilevante, com’emerge dalla fase successiva della narrazione. L’intero racconto (l’olio prezioso, l’unzione dei piedi ed il buon odore che si diffonde per tutta la casa) ha, infatti, lo scopo di mettere in rilievo la maestà di Gesù, che a buon diritto riceve quest’onore prima della sua morte e sepoltura (19,39s) e che proprio in questo senso interpreta il gesto della donna, seppure compiuto senza rispettare le regole del bon ton della società di quel tempo.

4 Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: 5 “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. 6 Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro.
Giuda Iscariota, che l’evangelista bolla col titolo di “traditore” (cf. 6,71), ci fornisce il valore di tre etti abbondanti di profumo di nardo: trecento denari, quasi un anno di paga di un bracciante agricolo! L’apostolo traditore si scandalizza per tanto spreco e pensa già al mancato guadagno, che s’invola dalle sue avide mani di ladro recidivo, ma sa ben dissimulare il suo disappunto manifestando un ipocrita interesse nei confronti dei poveri. Giuda non s’accorge nemmeno delle regole di buon galateo infrante da Maria, ma si preoccupa solo del proprio meschino interesse, anche se, forse, si rende interprete dell’opinione di altri apostoli, che se ne stanno zitti anche senza riuscire a nascondere la disapprovazione e l’indignazione per quello sciupio (cf. Mc 14,4; Mt 26,8).
Giuda Iscariota è l’amministratore della cassa comune dei discepoli, ma probabilmente, conoscendo Gesù dai suoi atteggiamenti di bontà e generosità nei confronti dei più deboli e poveri, non ci sono mai soldi sufficienti per garantire al seguito di Gesù il necessario per vivere giorno per giorno. Gesù stesso insegna ad osservare gli uccelli del cielo ed i fiori dei campi, mantenuti in vita dal Padre celeste anche se non svolgono alcuna delle attività lavorative e lucrative tipiche degli uomini; Dio vede e provvede alle necessità di quanti si fidano di Lui e del suo aiuto (Mt 7,26ss). Gli uomini devono capire che la loro preoccupazione principale deve essere quella di conquistare un posto nel Regno di Dio e di comprenderne le istanze di giustizia, di santità, d’amore, di misericordia, di bontà, di pace e di mitezza (cf. Mt 5,3-11), perché Dio è dispensatore, prima di tutto, di beni spirituali (cf. Is 11,2), ma non si dimentica delle esigenze materiali delle sue creature (Mt 7,31-32). Tanti uomini soffrono la fame e la sete non tanto perché Dio si è distratto ed ha volto altrove il suo sguardo, ma perché gli uomini sono egoisti, avidi e “ladri”, sono indifferenti alle sofferenze dei loro simili e li rapinano persino del naturale diritto alla sopravvivenza, sottraendo loro il necessario per vivere con un minimo di dignità. Gesù non dà minimamente valore al denaro, perché ne conosce il potere distruttivo sulla dignità stessa dell’uomo quando questi non sa farne un uso distaccato (cf. Mt 7,24; 19,21-26), ma Giuda sembra non aver compreso nulla degli insegnamenti del suo Maestro. Intento a riempirsi le tasche con i pochi fondi a disposizione della piccola comunità apostolica, Giuda non si rende conto di essersi consegnato, ormai, nelle mani di Satana, che fa leva sul denaro, sul potere e sul successo mondano per conquistare più uomini possibile alla sua causa, sottraendoli a Dio e privandoli del suo regno d’eterno amore e di felicità infinita. Pur di intascare qualche soldo, Giuda Iscariota, probabilmente deluso dal basso profilo della missione messianica interpretata dal Maestro galileo, non esiterà a consegnare Gesù ai suoi nemici per una discreta somma di denaro (trenta denari d’argento, sufficienti per acquistare un campo di dimensioni non modeste e, dopo il suicidio di Giuda, destinato dalle autorità giudaiche alla sepoltura degli stranieri deceduti in Gerusalemme ed immediate vicinanze), ma perderà i beni più preziosi: la propria vita e l’anima (cf. Mt 27,3-10).

7 Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. 8 I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”.
La risposta di Gesù è immediata e zittisce la palese protesta di Giuda e quella più sommessa, o solo pensata, di qualche altro discepolo. Nel gesto di Maria, Gesù riconosce la volontà del Padre che, per il Figlio unigenito ha preparato il “giorno” (concetto estensivo dell’ora) della glorificazione, di cui l’unzione funebre al momento della sepoltura del corpo senza vita di Gesù è solo un passaggio necessario ed obbligato, in vista della definitiva vittoria sulla morte contrassegnata dalla gloriosa resurrezione del Figlio di Dio. A Gesù appare chiaro che Maria stia compiendo un gesto profetico, anticipatore della sua morte sulla croce e, pertanto, chiede ai suoi di rispettare sino in fondo il volere salvifico del Padre suo: “Lasciala fare!”. Oltretutto, a Gesù non sfugge l’ipocrita preoccupazione di Giuda per i poveri e ci tiene a rimarcare che la sua presenza fisica tra gli uomini è prossima alla fine e, al tempo stesso, addita a tutti i presenti, specie ai suoi discepoli, la grande fede di Maria. In modo semplice e silenzioso, questa donna addita agli uomini la grandezza e la maestà di Gesù, di cui, inconsciamente, attesta la glorificazione che diverrà evidente nella tragica circostanza della sua morte e sepoltura. Dal punto di vista dell’evangelista, il comportamento di Maria non è tanto la dimostrazione di un amore umano, alimentato da simpatia o da riconoscenza del tutto comprensibili, viste le circostanze della vicenda in cui sono stati coinvolti i membri della famiglia di Lazzaro, ma è una convinta testimonianza di fede ed un incitamento a credere in Gesù, che merita anche qualche atteggiamento stravagante da parte di chi si fida di Lui e della sua missione di salvezza. Gesù, infatti, non si limita a giudicare le apparenze, ma conosce e giudica i sentimenti inespressi che si trovano nelle pieghe più intime dell’animo umano (1Gv 3,20).

9 Intanto la gran folla di giudei venne a sapere che Gesù si trovava là, e accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva resuscitato dai morti. 10 I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, 11 perché molti giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.
Essendo vicina la grande festività pasquale, la città di Gerusalemme è piena di pellegrini, molti dei quali hanno già avuto modo di vedere Gesù e di assistere ai suoi prodigi, compiuti in tutta la Palestina, ma molti altri ne hanno solo sentito parlare e sono ansiosi di vedere e toccare un personaggio di cui hanno sentito raccontare mirabilie. Gesù è la star del momento e non c’è da meravigliarsi se attorno a Lui vi sia tanta curiosità e molto entusiasmo, specie da parte di chi si aspetta di assistere a qualche prodigio paragonabile alla resurrezione di Lazzaro, che in città ormai tutti conoscono. Betània è raggiungibile da Gerusalemme in poco più di mezz’ora di cammino e sono in tanti a mettersi in viaggio per vedere Gesù e parlare anche con Lazzaro, colui che è stato resuscitato dall’oltretomba. Chissà quanti desiderano fargli domande sullo sheòl: “Com’è? Chi ha visto? Come si sta? Ma esiste davvero?”. Un simile evento farebbe, ancora oggi, impazzire i media di tutto il mondo ed il primo giornalista televisivo o della carta stampata, che lo potesse documentare, farebbe uno scoop di grandissimo impatto su un pubblico di portata planetaria!
Anche fra i cosiddetti “credenti”, molti si interrogano sulla reale esistenza dell’aldilà: c’è chi la nega decisamente, considerandola un’invenzione del clero e una pia illusione di persone sprovvedute e credulone; c’è chi la teme e chi la considera una realtà certa e rassicurante; c’è anche chi ricorre con troppa disinvoltura ai medium per interrogare le anime dei defunti, vuoi per trovare conforto e serenità dopo un lutto doloroso, vuoi per curiosità o per motivi di assai basso profilo morale, come avere delle anticipazioni sul proprio futuro o ricevere la rivelazione dei numeri per vincere il lotto! Nella convinzione di poter essere padroni assoluti del proprio destino in questa e nell’altra vita, alcuni non esistano a vendere l’anima al diavolo, certi di poter trattare con lui da pari a pari.
Lazzaro, dunque, rappresenta un pericolo per i giudei più intransigenti, che in lui vedono un testimone scomodo delle qualità taumaturgiche di Gesù. Se la gente crede a Lazzaro, deve necessariamente credere anche a Gesù ed al suo messianismo spirituale e ciò produrrebbe un cambiamento di vita e di costumi tale da mettere a repentaglio la sicurezza stessa ed il futuro della nazione ebraica (cf. 11, 48-50). Sarebbe, quindi, opportuno eliminare entrambi i personaggi più popolari del momento, prima che il controllo degli eventi possa sfuggire di mano alle autorità.
La fede della gente comune del popolo è condizionata dal miracolo di facile esecuzione, mentre quella delle autorità giudaiche è refrattaria anche ai prodigi, nei quali vede non il segno della presenza di Dio ma di quella del diavolo (Mt 12,24). La fede non è merce che si trovi a buon mercato, anche se Dio dona a tutti la possibilità di credere; il difetto di fede non è imputabile ad un’arbitraria decisione di Dio, ma alla libertà dell’uomo, cui spetta la scelta finale di accettare o di rifiutare la signoria di Dio nella propria vita e nelle conseguenti scelte morali.

Ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme
(Gv 12,12-19)

La fine di Gesù è stata ormai decisa da qualche tempo, ma prima di conoscere l’umiliazione estrema della morte in croce, Gesù anticipa la gloria della sua resurrezione ricevendo, seppure per breve tempo, l’ovazione del popolo di Gerusalemme. Nelle intenzioni dell’evangelista, le gioiose acclamazioni della folla all’indirizzo di Gesù sono il compimento fedele delle Scritture. Gesù, infatti, è la realizzazione perfetta della Legge e dei Profeti.

12,12 Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, 13 prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!”.
14 Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: 15 «Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina».
L’evangelista colloca l’ingresso di Gesù in Gerusalemme “il giorno dopo”, evidentemente dopo l’episodio dell’unzione a Betània. Tutti i giudei desiderosi di vedere Gesù e che, per un motivo o per l’altro non si erano potuti recare a Betània, venuti a conoscenza dell’arrivo di Gesù nella Città Santa gli vanno incontro festosi, accogliendolo con canti e con rami di palme agitati in segno di gioia.
Qualcuno ha messo in dubbio che i pellegrini convenuti a Gerusalemme potessero aver preso rami di palma proprio a Gerusalemme, che, per l’altitudine in cui si trova la città, avrebbe un clima poco favorevole allo sviluppo di tale pianta. Secondo altri commentatori, invece, a Gerusalemme crescevano le palme nella valle orientale della città, dove il clima più caldo consentiva la crescita di questo genere di pianta, molto più comune a sud di Gaza e nella depressione umida e calda della vallata del fiume Giordano, dove si trovava la cittadina di Gerico, nota come “città delle palme”. Che i pellegrini si fossero procurati i rami di palma a Gerusalemme o altrove non ha alcuna importanza per il narratore, che vede nel gesto, compiuto dalla gente di Gerusalemme, un atto di deferenza nei confronti di Gesù, trattato come un re vittorioso (cf. 1Mac 10,7; 2Mac 14,4) o come un generale vincitore in battaglia (cf. 2Mac 10,7; Ap 7,9). Dall’epoca dei Maccabei, il ramo di palma era un simbolo di vittoria in seno al giudaismo, così come il grido d’osanna era, nella coscienza giudaica, strettamente collegato al ramo di palma.
I pellegrini vogliono festeggiare Gesù come re messianico e non è da escludere anche una coloritura politica dei festeggiamenti, del tutto coerente con l’accentuato nazionalismo giudaico del tempo. In altre parole, Gesù è accolto dalla folla come un sovrano vittorioso e su di lui la gente comune fa confluire tutte le speranze dell’attesa liberazione dal dominio asfissiante di Roma. Il sentimento d’entusiastica gioia della gente comune nei confronti di Gesù non appare nuovo; già dopo la miracolosa moltiplicazione dei pani gli uomini di Galilea avrebbero voluto proclamare re il loro concittadino e, ora, la folla che anima le strade di Gerusalemme lo acclama come un sovrano. In Galilea Gesù si era defilato, sottraendosi all’entusiasmo della folla ed aveva preso le distanze da una valutazione politica della sua vocazione messianica; a Gerusalemme Egli accetta le acclamazioni festose della gente, interpretandole come l’adempimento delle parole dei profeti a suo riguardo (cf. Zc 9,9s).
L’evangelista evidenzia così, meglio dei colleghi sinottici, l’intenzione messianica della folla reverente e, quasi certamente, non del tutto consapevole di essere uno strumento di annuncio evangelico voluto da Dio: vox populi, vox Dei.
Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele. La folla accoglie Gesù citando la Scrittura (Sal 118,26) e scegliendo un passo della liturgia di ringraziamento, che i pellegrini cantavano al loro ingresso nel Tempio di Gerusalemme. Il salmo citato appartiene al gruppo dei salmi dell’hallel, utilizzati nel servizio liturgico giudaico specie durante le feste di pasqua e dei tabernacoli. In particolare, il versetto cantato dalla folla riflette l’attesa messianica del popolo ebraico, anche se, originariamente, l’espressione “benedetto colui che viene nel nome del Signore” era applicata ai pellegrini che entravano nel Tempio santo; in questo caso, però, il grido è rivolto all’indirizzo di Gesù come un segno di distinzione, se non di vera e propria predestinazione, come pare di capire dall’aggiunta fatta dall’evangelista, “il re d’Israele”, con lo scopo di rimarcare l’attesa messianica più genuina del popolo eletto.
Osanna! Tale vocabolo significa “vieni in aiuto” ed è un grido di supplica (che manca nel v. 26 del Sal 118), diventato grido di saluto e d’omaggio, in stretta correlazione con l’augurio di benedizione per colui “che viene nel nome del Signore”. La successiva citazione del profeta Zaccaria (“Non temere figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina”, Zc 9,9) contribuisce a spogliare di ogni significato politico e militare il messianismo di Gesù, profeta e re di un “regno che non è di questo mondo” (Gv 18,36; cf. anche Sof 3,15).
Gesù accetta le acclamazioni della folla e ciò mette in imbarazzo i capi giudei senza fede (cf. 12,19), che non sanno più che pesci pigliare. Nonostante le acclamazioni, però, la fede del popolo rimane fragile ed insufficiente, incapace di opporsi alle insistenti richieste di condanna a morte di Gesù (19,6.15), durante il processo davanti a Pilato, l’odiato nemico romano. Il “crucifige” del Venerdì Santo sovrasterà l’”osanna” della Domenica delle Palme. Nella visione del profeta, il Messia si presenterà al popolo eletto cavalcando “un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9), la cavalcatura degli antichi principi d’Israele, non un focoso destriero purosangue, come quello cavalcato dai re bellicosi e superbi del regno di Giuda e di Samaria. Il re-messia della profezia è “giusto e vittorioso, umile” (Zc 9,9). Egli è giusto non nel senso che rende giustizia (cf. Is 11,3-5), ma che sarà oggetto della giustizia del Signore, ossia della sua potente protezione (Is 45,21-25); è umile (‘anì), vale a dire sottomesso a YHWH, Dio d’Israele, nel quale riporrà la sua fiducia assoluta (cf. Sof 3,12) e condividerà tale virtù col popolo eletto rimasto fedele a Dio (Sof 2,3+), nonostante le prove sopportate nel corso della storia, intrisa di sangue e di violenza, di prevaricazione e d’ingiustizia, d’orgoglio e di presunzione; pur rinunciando all’apparato dei re storici (Ger 17,25; 22,4), il re messianico si presenterà al popolo come un principe vittorioso, ma mite come la sua cavalcatura (cf. Gen 49,11; Gdc 5,10; 10,4; 12,14; 1Re 1,5.38). Il re-messia è, nella prospettiva profetica, l’umile e mite principe a capo di un “resto” di persone (cf. Esd 1,4; Ne 1,4; Is 4,3) umili (anawìm) ed operatrici di pace (Mt 5,3.9).

16 Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto. 17 Intanto la gente che era stata con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo resuscitò dai morti, gli rendeva testimonianza. 18 Anche per questo la folla gli andò incontro, perché aveva udito che aveva compiuto quel segno. 19 I farisei allora dissero tra di loro: “Vedete che non concludete nulla? Ecco che il mondo gli è andato dietro!”.
L’evangelista coglie nell’avvenimento una testimonianza del vero regno di Gesù, che non conosce né pretese politiche né la forza (cf. 18,36), ma consiste nella rivelazione della verità e nella comunicazione della salvezza divina (18,37). In questo senso Gesù è l’atteso Messia delle Scritture, anzi, il Figlio di Dio (1,49; 11,27; 20,31). Ciò diventa visibile e comprensibile nell’ingresso trionfale di Gesù nella Città Santa, poiché Egli compie la profezia di Zaccaria ed è salutato dalla folla, che rappresenta Israele, il popolo della salvezza e della promessa (cf. Dt 7,6; Gv 1,31; Rm 9,4). I discepoli di Gesù non riescono a comprendere il significato di quanto sta accadendo intorno a loro, perché non si è ancora compiuta la “glorificazione” di Gesù, vale a dire la sua passione e morte, la resurrezione dai morti e l’invio dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste (cf. 2,22; 7,39; 12,23.32). Essi ricorderanno i fatti, di cui sono stati testimoni, e sapranno interpretarli come realizzazione della Sacra Scrittura solo quando saranno stati illuminati ed ispirati dallo Spirito Santo (cf: 14,26; 16,14).
L’evangelista spiega il motivo dell’entusiastica accoglienza di Gesù da parte degli abitanti di Gerusalemme e dei pellegrini quivi convenuti per le festività pasquali: quanti avevano assistito al prodigio della resurrezione di Lazzaro, avvenuto a Betània, sono dei testimoni ascoltati e considerati degni di fede. La reazione rabbiosa dei capi giudei non si fa attendere e, come spesso succede quando le cose non vanno secondo i piani prestabiliti, cominciano a litigare tra loro incolpandosi a vicenda del mancato arresto di Gesù, che porrebbe fine al suo successo presso il popolo (il vocabolo “mondo”, in greco kòsmos, è un’evidente esagerazione dei farisei e dei capi giudei, sempre che l’evangelista non stia facendo una rilettura storica dell’espansione del messaggio cristiano, che, nel momento in cui compone il suo Vangelo, ha preso piede in diverse parti dell’impero romano e persino a Roma, la capitale di quest’immenso regno). Il livore dei farisei e degli esponenti dell’éstablishment giudaico appare giustificato dall’accorrere verso Gesù di esponenti del mondo pagano.

I greci incontrano Gesù, che annuncia
la sua glorificazione attraverso la morte
(Gv 12,20-36)

Il monoteismo degli ebrei faceva proseliti anche presso i pagani, forse nauseati e stanchi della loro religione politeistica, sin troppo elaborata e, sostanzialmente, pure immorale. Moltissime divinità, dal comportamento volubile e capriccioso, popolavano il pantheon greco e romano e, più che esseri divini superiori agli esseri umani, questi dei parevano delle proiezioni celesti dei vizi umani. Era evidente, alle persone più accorte e culturalmente più preparate, che la religione politeistica era, di fatto, una forma subdola di ateismo mascherato, all’ombra del quale erano giustificate tutte le nefandezze compiute dagli uomini. La semplicità teologica del monoteismo giudaico ed il relativo rigore morale avevano attirato le simpatie persino di alcuni esponenti della famiglia imperiale e, a Roma, la comunità giudaica era numerosa e ben organizzata anche all’epoca di Gesù. Il più delle volte, i proseliti si fermavano all’adesione formale alla Tôrah ed al riconoscimento dell’unicità di Dio, ma non si sottoponevano alla pratica della circoncisione, che li avrebbe inseriti di diritto nel giudaismo ufficiale. Le espressioni “timorato di Dio” (cf. At 10,2.22.35; 13,16.26) e “credente in Dio” (cf. At 13,43.50;16,14; 17,4.17; 18,7) indicavano, appunto, quanti simpatizzavano per il giudaismo, senza però arrivare all’integrazione con il popolo giudaico attraverso la circoncisione (cf At 2,11+). I greci, che chiedono di poter incontrare Gesù, appartengono a questa categoria di ammiratori dell’ebraismo ed osservanti, almeno in parte, della Legge mosaica.

12,20 Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni greci. 21 Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero; “Signore, vogliamo vedere Gesù. 22 Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
I greci, di cui parla l’evangelista, sono dunque dei proseliti, saliti in pellegrinaggio a Gerusalemme per adorare YHWH in occasione delle festività pasquali, ma non possono mangiare l’agnello pasquale né entrare nella parte più sacra del Tempio, interdetta ai non giudei. Il pellegrinaggio dei proseliti di provenienza pagana è un fatto storicamente accertato (cf. Giuseppe Flavio, De bello judaico 6,427).
Questi greci vogliono vedere e conoscere personalmente Gesù, delle cui parole ed opere sono venuti a conoscenza durante i loro contatti col mondo giudaico. Essi non osano rivolgersi a Lui direttamente e cercano un mediatore, in grado di farli incontrare con quel personaggio tanto famoso e pure misterioso. I greci interpellano Filippo, che ha un nome greco e che proviene da una cittadina della Galilea (1,44), regione impregnata d’ellenismo e confinante coi territori pagani (cf. Mt 4,15). Evidentemente, Filippo sa esprimersi correntemente in greco e, nel caso che Gesù parli solo in aramaico, può tornare molto utile come interprete. Filippo si rivolge al compaesano Andrea, non perché sia più cauto o meno risoluto di questi, ma perché questi due discepoli, gli unici di cui si conosce il solo nome greco, sono sempre insieme e sono, indubbiamente, molto amici (cf. 6,7s). Secondo la tradizione, Filippo ed Andrea avrebbero svolto la loro missione di evangelizzazione limitatamente alle popolazioni di lingua greca.
Il desiderio espresso dai greci (“vogliamo vedere Gesù”) attesta, secondo l’evangelista, una vera aspirazione religiosa, così come la domanda della samaritana, che Gesù istruisce sulla vera adorazione di Dio (4,20-24). La comparsa improvvisa dei greci sulla scena è da interpretare come un segno della prossima conversione dei pagani (cf. 4,42; 10,16;11,52) in sostituzione di quella, più ovvia ed attesa, dei giudei, che per primi hanno ascoltato il messaggio di Gesù Cristo. L’incontro tanto atteso dei greci con Gesù si sarebbe svolto nell’atrio dei Gentili, l’unico luogo del Tempio accessibile ai non ebrei, ma l’evangelista sorvola su tale circostanza.

23 Gesù rispose: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. 24 In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
La risposta di Gesù a Filippo ed Andrea non fa alcun riferimento ai greci, la cui presenza, però, viene spiegata in senso teologico. L’evangelista, infatti, omette di riferirci se l’incontro di Gesù coi greci è avvenuto veramente, né si comprende se la risposta del Maestro ai due solerti discepoli dimostri un suo cortese rifiuto ad incontrarli. È possibile che Gesù abbia preso tempo, pensando al proprio sacrificio sulla croce, “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23) e che abbia voluto prima prendere su di sé il gravoso peso della morte infame (Dt 21,23; At 5,30+; Gal 3,13) per dare la salvezza prima ai giudei e, poi, anche ai greci (cf. 11,52). Gesù è consapevole che la sua “ora” è, finalmente, arrivata. Prima di questo momento, Egli aveva sempre affermato che la sua “ora” non era ancora giunta (7,30; 8,20), ma adesso si sta realizzando la sua definitiva “glorificazione” attraverso l’esaltazione della croce (3,14; 8,28), grazie alla quale Egli acquisisce la pienezza del potere salvifico concessogli dal Padre (13,32; 17,1s) ed attira tutti a Sé (12,32). Con la breve parabola del chicco di grano, Gesù annuncia la propria morte, il cui carattere sacrificale e la cui finalità redentrice sono racchiuse in tre verbi dal significato ambivalente e, dal punto di vista del linguaggio biblico, assai espressivi: cadere, morire, produrre (molto frutto). Nella caduta è simboleggiata la fragilità dell’uomo, peccatore e debole nella sua provvisorietà (Sap 2,1-24 è un ritratto calzante della natura corrotta dell’uomo, che è consapevole della propria condizione mortale e che, in questa vita, sceglie la via della sopraffazione e della violenza per impossessarsi di pochi attimi di gloria, altrettanto mortale). Di per sé, la morte non è solo una realtà ineluttabile della natura umana e di tutte le creature viventi, che popolano la terra, ma è pure la chiave di lettura del destino dell’uomo oltre la morte del corpo; nella morte fisica si allude alla morte dello spirito, qualora l’uomo decida di violare la Legge di Dio (Ap 20,6 parla esplicitamente di questa seconda morte, il cui carattere è definitivo e che, invece, alcuni s’ostinano a negare confidando in un’apocatàstasi finale, ossia in un rifacimento ex novo di tutto il creato, una sorta di “punto e a capo” deciso da Dio per rimediare ad un proprio errore iniziale, in forza del quale ha commesso lo sbaglio di creare un uomo libero di scegliere il male). Il chicco di grano, che cade per terra e muore, è invece simbolo di una scelta libera operata da Gesù, il quale, cadendo e morendo volontariamente, riscatta gli uomini dalla loro natura peccatrice e ribelle e li libera dalla morte dello spirito. Dalla scelta di Gesù scaturisce l’abbondante raccolta del frutto della redenzione: la salvezza eterna per tutti gli uomini.

25 Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26 Se uno mi vuol servire mi segua e, dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà.
Per l’evangelizzazione dei greci c’è tempo. Per Gesù, la questione più urgente da chiarire coi suoi discepoli è la loro disponibilità a seguirlo sino in fondo, accettando anche di morire per Lui e come Lui. L’attenzione dei discepoli è orientata sul tema centrale della vita, di cui sono messi in rilievo i due estremi esistenziali: la vita terrena (“in questo mondo”) e quella celeste (“la vita eterna”). Creato da Dio, il quale lo ha tratto dalla terra (adamah), rossiccia (dam) come il sangue che scorre nelle sue vene, l’uomo (adam) è un essere limitato (Gen 1,7), che realizza la propria esistenza dentro le rigide coordinate del tempo e dello spazio (il mondo), ma in virtù della componente spirituale (ruàh) e vitale (nefèsh) della sua realtà carnale (basàr), che Dio stesso gli ha donato, rendendolo simile a Sé (Gen 1,26.27), egli non esaurisce in questo mondo il proprio ciclo vitale, ma è destinato ad una vita “altra”, diversa da quella terrena perché “eterna”.
Quando l’uomo “ama” in modo esclusivo la propria esistenza terrena e non riesce a vedere ciò che si trova oltre i confini ristretti della realtà carnale, corre il serio rischio di “perdere” la vita eterna. Al contrario, quando l’uomo sa trascendere (“odia”) la propria carnalità, liberandosi dai vincoli oppressivi delle esigenze materiali quotidiane e sa dare importanza alle necessità dello spirito, allora egli può incamminarsi con serena fiducia incontro al proprio destino d’immortalità. La contrapposizione odio/amore appartiene al tipico modo di esprimersi degli antichi semiti, che ponevano in tal modo l’accento sulla priorità delle scelte esistenziali. Per Gesù, la scelta di fondo, che deve guidare ogni esistenza umana, è e rimane sempre e solo Dio, al punto che chi decide di “seguire” (ossia, “imitare”) Gesù, è “onorato” da Dio e partecipa della sua stessa “gloria”. Gesù è l’esempio da imitare, se si desidera conquistare la libertà, tipica dei figli di Dio e la vita eterna. Chi vuole imitare (“servire”) Gesù, sa che i tratti caratteristici del Maestro divino sono la disponibilità al servizio ed al sacrificio di se stesso per amore dei fratelli ed è consapevole che la morte del corpo, specie quando questa è la conseguenza della fedeltà a Cristo Signore, dischiude le porte della vita celeste, la vera patria di Gesù (12,26), il luogo verso cui Egli sta andando (14,2ss) e dal quale proviene (1,1.14).

27 Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! 28 Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo; “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!”.
Gesù riprende il tema dell’ora, quella della sua morte e della sua glorificazione. A differenza dei Sinottici, l’autore del quarto Vangelo non menziona la paura angosciante che assale Gesù nel giardino del Getsèmani (Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,40-46), al punto tale da farlo sudare in modo così straordinariamente copioso che il suo sudore cade a terra in gocce spesse come il sangue (Lc 22,44) e da farlo vacillare di fronte all’imminenza dell’atroce morte di croce. Il terrore per la morte violenta (“l’anima mia è turbata”) è adombrato da Giovanni sotto forma di una domanda, che Gesù rivolge a Se stesso ed alla quale risponde con un’affermazione di consapevole accettazione del proprio destino: “per questo sono giunto a quest’ora”. La lotta (“agonia”), che Gesù ingaggia contro l’umana paura, provata di fronte al pericolo imminente e contro la tentazione di sfuggire alla morte, si svolge nel suo intimo e non traspare esteriormente, come descritto dai Sinottici. L’obbedienza di Gesù al volere del Padre si manifesta in un’invocazione che, al contempo, è anche il contenuto vero della missione salvifica di Gesù tra gli uomini: la gloria del Padre. La risposta del Padre all’invocazione del Figlio non si fa attendere e mette in evidenza la reciprocità della gloria. Con la sua vita e morte, il Figlio rende gloria all’amore del Padre e, nella gloria del Padre, si ritrova la fulgida gloria del Figlio, che dona tutto Se stesso per la salvezza dell’uomo. La gloria del Padre e del Figlio si esprime nell’amore reciproco e nell’amore per l’uomo.
La voce, che proviene dal cielo, ricorda quella udita da quanti erano stati presenti al battesimo di Gesù per mano di Giovanni il Battista (Mt 3,17; Mc 1,11), episodio di cui l’evangelista Giovanni non fa cenno nel suo Vangelo ma che, in un caso e nell’altro, esprime il valore assoluto della testimonianza resa dal Padre al Figlio unigenito e la definitiva consacrazione dell’umanità redentrice di Gesù. La stessa voce si fa udire anche da Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor (Mt 17,1, mc 9,2-8; Lc 9,28-36; 2Pt 1,16-18), dove Gesù si trasfigura davanti ai loro occhi lasciando intravedere un raggio della sua gloria, prima della morte ignominiosa sulla croce. Con la sua vita e le sue opere, Gesù ha reso gloria al Padre, raggiungendo il culmine della glorificazione di Dio sul trono doloroso ed assai scomodo della croce, ma anche il Padre ha mostrato al Figlio obbediente la sua vicinanza e la piena comunione con Lui (8,16.29.54). La glorificazione del Figlio, da parte di Dio Padre, sarà pienamente manifestata a tutti gli uomini nel giorno della sua resurrezione dai morti, segno della sua vittoria sul Maligno e sulla morte.

29 La folla che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. 30 Rispose Gesù: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31 Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32 Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”.
La gente, che sta ascoltando Gesù, interpreta la voce, proveniente dal cielo, come un tuono o come la voce d’un angelo. Si tratta di due espressioni equivalenti, poiché nel linguaggio della letteratura apocalittica, assai diffusa al tempo di Gesù, si era soliti interpretare il fragore del tuono com’espressione dell’intervento di Dio nella vita di un singolo uomo o di un popolo intero (cf. Es 19,6; 1Sam 12,17s; Sal 29,3-9; Gb 37,2-5; Ez 1,13; Ap 4,5). Quanto all’idea che a parlare sia un angelo, si possono ravvisare reminiscenze bibliche d’origine vetero-testamentaria (Gen 21,17; 22,11) ed anche apocalittica (Dn 10,9; 14,33) presenti nel linguaggio popolare; del resto, la fede nell’esistenza degli angeli, trasmettitori fedeli della parola e della volontà di Dio Altissimo, era assai diffusa nel periodo storico in questione.
Gesù non chiarisce se il rumore, avvertito dalla folla, sia proveniente da Dio o da un fenomeno naturale, ma si preoccupa d’esortare i presenti a credere ed a riconoscere che Dio stesso ha reso testimonianza al suo Inviato (cf. 11,42). Probabilmente, anche i discepoli sono rimasti sconcertati dall’avvenimento al pari della gente comune ed estranea al gruppo dei prescelti e, forse, è proprio ai suoi seguaci che Gesù rivolge l’invito a credere in Lui. Il giudizio (krìsis) è in atto già adesso (“ora”): di fronte alla missione redentrice del Figlio di Dio, ogni uomo deve compiere una scelta di fede. L’eventuale rifiuto definitivo ed inappellabile del progetto salvifico di Dio, realizzato nel Figlio e per mezzo del Figlio, implica una sentenza di condanna non solo in occasione del giudizio finale, ma anche nel tempo presente. La morte di Gesù sulla croce ha già segnato la sconfitta definitiva del “principe di questo mondo”, ossia di satana, ma Dio, infinitamente paziente e misericordioso, lascia all’uomo tutto il tempo necessario per compiere una scelta di campo definitiva ed irrevocabile, lasciandosi “attirare” o no dal Figlio suo inchiodato sulla croce in un atteggiamento d’amorevole attesa e di perdono. L’uomo, che rifiuta Cristo crocifisso come suo salvatore, non rimane in una specie di zona neutrale, ma compie necessariamente una scelta a favore dell’anti-Cristo (cf. 14,30; 16,11), il nemico di Dio e ”principe di questo mondo”, conosciuto con molti nomi (satana, demonio, diavolo, serpente antico, Belial, Beelzebul, Lucifero, accusatore, tentatore ecc.) che indicano una sola realtà malvagia, nemica anche dell’uomo oltre che di Dio (cf. Gv 6,70; 8,44; 13,2; 1Gv 2,13s; 3,12; 5,18). Nella prospettiva teologica dell’autore del IV Vangelo, Gesù ha infranto, con la sua morte sul legno della croce, il dominio del principe di questo mondo e, col giudizio su di lui, sono giudicati anche quanti, per propria esclusiva colpa, non credono in Gesù. Su coloro che, invece, si lasciano attirare dall’uomo della croce, il dominio di satana non ha alcun potere perché costretto a fermarsi (“gettato fuori”) di fronte alla fede che essi professano nel Figlio di Dio. Quando sarò elevato da terra. L’allusione all’elevazione del Cristo sulla croce (v. 33) non deve essere disgiunta dalla sua elevazione “al cielo” (3,13.14+; 8,28; cf. 6,62) nel giorno della sua resurrezione (20,17+), poiché i due avvenimenti sono altrettanti aspetti dello stesso mistero (13,1+). Esaltato alla destra del Padre, nella gloria (12,23; 17,5+), il Cristo manderà lo Spirito (7,39) e, attraverso di lui, estenderà il proprio dominio sul mondo (16,14; cf. 3,35+), nonostante la forte opposizione delle forze del male, che avvolgono il mondo nelle tenebre dell’ignoranza, dell’odio e del rifiuto (cf. 1,5.10.11; 12,35.36).
Attirerò tutti. Elevato sulla croce, Gesù apparirà agli occhi di tutti gli uomini come il salvatore del mondo (cf. 19,37); questa è l’indiretta risposta ai greci pii, venuti appositamente per “vederlo” (12,21). Per coloro che volgeranno altrove il loro sguardo, cercando la salvezza presso i falsi messia di questo mondo, è già in atto il “giudizio” nel tempo presente (v. 31).

33 Questo diceva per indicare di quale morte doveva morire. 34 Allora la folla gi rispose: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?”.
Non solo Gesù è consapevole della sua prossima fine (7,33; 9,4; 11,9), ma è addirittura a conoscenza, con ampio anticipo, del tipo di morte che i giudei gli hanno riservato. Parlando di “esaltazione” ed asserendo che, morendo, “attirerà tutti a sé”, Gesù lascia intendere cosa s’aspetta dagli uomini ed i giudei comprendono assai bene di cosa stia parlando Gesù, tanto da ritrarsi inorriditi di fronte alla prospettiva salvifica della croce, orribile ed umiliante strumento di tortura e di morte. Per Gesù, invece, obbediente al volere salvifico del Padre, la croce è il segno universale della salvezza (3,14; 12,32), destinata a quanti accettano di lasciarsi “attrarre” dal Crocefisso, per mezzo del quale Dio vuole raccogliere tutti i suoi figli dispersi (11,52) ed aprire le porte del suo Regno persino ai pagani (10,16; 12,20).
Rimovendo dalla propria mente la tragica figura della croce, la folla preferisce equivocare sul termine usato da Gesù per indicare la propria “esaltazione”. Il vocabolo aramaico ‘istallaq significa “essere portato in alto, essere innalzato” ma anche “andare via”. Sia il termine aramaico, sia quello greco (upàgo) possono suggerire anche l’idea di un rapimento, molto noto alla letteratura apocalittica in auge al tempo di Gesù, ma la folla sembra non capirci più nulla, poiché è prigioniera dei propri pregiudizi. Testimoni dei prodigi da Lui compiuti, molti giudei si sono illusi d’aver trovato in Gesù il Messia tanto sospirato, ma, anche in quest’occasione, dimostrano i limiti delle proprie attese messianiche, che sono di natura esclusivamente politica. Il richiamo alla Scrittura (la “Legge” come in 10,34; 15,25), forse al Salmo 88 (“in eterno durerà la sua [di Davide] discendenza, il suo trono davanti a me quanto il sole”, v.37), non fa che confondere le idee della gente; se il regno del Messia sulla terra, come tutti pensano, è il dominio perenne della giustizia, della felicità e della pace (Is 9,6; Ez 37,25; Sal 17,4; Lc 1,33), com’è possibile che il Figlio dell’uomo se ne vada via, sia rapito o sia innalzato, ossia messo in croce? Occorre, pertanto, chiarire i termini della questione: chi è il Figlio dell’uomo? Forse Gesù e la folla parlano di un personaggio diverso ed è meglio per tutti che l’equivoco sia chiarito una volta per sempre. Dalle parole dell’evangelista, che riporta la perplessità dei giudei, traspare la polemica assai vivace esistente tra cristiani e giudei all’epoca in cui compose il IV Vangelo, verso la fine del I secolo dell’era cristiana. Gli uni sostenevano che la salvezza coincideva con la glorificazione di Cristo sulla croce, gli altri opponevano un’immagine gloriosa e trionfante del Figlio dell’uomo (Dn 7,13s) ben diversa da quella prospettata dai cristiani, assurdi e blasfemi adoratori di un uomo morto come uno schiavo e considerato niente meno che il Figlio di Dio.

35 Gesù allora disse loro: “Ancora per poco la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. 36 Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce”. Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da loro.
Gesù rivolge ai giudei un accorato appello a credere in Lui, luce del mondo, prima che sia troppo tardi. Il tenore di queste parole non è nuovo (cf. 7,33), ma l’imminenza dell’esaltazione del Figlio dell’uomo sulla croce imprime loro la forza commovente dell’implorazione. Ancora una volta, Gesù ricorre all’immagine dell’uomo che cammina al buio o alla luce del giorno (cf. 8,12), ma ora incombe il pericolo di camminare nel buio totale di una notte che non gode nemmeno del debole chiarore del cielo stellato. Una simile notte, in cui nessuno può lavorare (cf. 9,4) o andare in giro senza inciampare negli ostacoli (cf. 11,10), getta la sua ombra tenebrosa anche sull’attività di Gesù e dei suoi discepoli e minaccia gli uomini, chiamati ad unirsi a Gesù mediante il vincolo della fede. Le tenebre, di cui parla Gesù, sono il simbolo inquietante delle potenze del male, che stanno per scatenarsi per assalire, sopraffare ed aggiogare l’umanità (cf. 1Gv 2,11), resa schiava del peccato e della morte, del giudizio e dell’annientamento (cf. 1,5; 3,19; 5,24; 8,21). Solamente Cristo, luce del mondo, può liberare l’umanità dalla minacciosa presenza delle tenebre (8,12; 12,46). Il dualismo luce-tenebra (cf. 1,5) incombe su ogni essere umano, che viene al mondo in una situazione di buio esistenziale (cf. cap. 9) e che, grazie a Gesù, può ottenere il dono della luce della vita (8,12). Senza la luce, donata dal Figlio di Dio, l’uomo “non sa dove va”.
Gesù non si limita a mettere in guardia gli uomini dal pericolo delle tenebre del male e dell’ignoranza, ma li esorta a rivolgersi alla luce, mettendo in risalto l’aspetto fondamentalmente salvifico della sua missione tra loro (3,17; 12,47). Il giudizio di condanna pende sul capo di chi rifiuta di credere in Gesù, ma non è definitivo sino a quando non vi sarà più tempo per ravvedersi; sempre, anche nell’ora suprema, è possibile sfuggire alle tenebre e sottrarsi all’abbraccio mortale del principe delle tenebre. L’ingresso nel mondo della luce è chiaramente definito come fede “nella luce” e tutti coloro che credono in Gesù diventano “figli della luce”. Quest’espressione, tipicamente semitica, accentua il carattere di stretta appartenenza dell’uomo a Dio, suo creatore e salvatore (Lc 16,8; 20,36; Mt 8,12; Mc 3,17; 1Ts 5,5; Ef 5,8-14).
A questo punto, Gesù conclude la sua esortazione e, con essa, anche la sua rivelazione pubblica al mondo e se ne va, nascondendosi al popolo, che non lo capisce e che non vuole arrivare alla fede. Prima di morire, Gesù completerà la sua missione come Rivelatore della salvezza soltanto ai suoi discepoli, che dovranno raccogliere il suo insegnamento per trasmetterlo a tutti i popoli della terra, fino alla fine del tempo.
L’evangelista conclude questa sezione narrativa (12,37-43) con una constatazione di merito: nonostante i prodigi compiuti, la gente di Palestina, salvo poche eccezioni, rifiuta di credere in Gesù e giustifica tale incredulità con le parole profetiche pronunciate da Isaia alcuni secoli prima (Is 6,9s+; 53,1). Il grande profeta aveva previsto l’ostilità del popolo ebraico alla parola di Dio, divenuta carne per rendersi visibile, udibile e comprensibile anche ai più tardi di comprendonio. Tra quanti hanno saputo accogliere con fede le parole di Gesù, ci sono anche alcuni capi del popolo ebraico (12,42), ma per timore e pusillanimità, alcuni di loro hanno preferito non esternare la loro fede per non perdere la posizione di potere che godono presso il popolo (12,43) e continuano ad amare “ la gloria degli uomini più della gloria di Dio”.
Agganciandosi a quanto Gesù ha appena detto, prima di ritirarsi definitivamente dalla sua missione pubblica nell’imminenza della sua passione e morte, il redattore finale ha aggiunto, in modo evidentemente maldestro, alcuni detti di Gesù (12,44-50), trasmessi dalla tradizione ed il cui contenuto è sostanzialmente identico a quello del discorso riportato dall’evangelista.

44 Gesù allora gridò a gran voce: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; 45 chi vede me, vede colui che mi ha mandato. 46 Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. 47 Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48 Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell’ultimo giorno. 49 Perché io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. 50 E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me”.
Si tratta, a prima vista, di una raccolta di detti (lòghia) pronunciati, forse, in occasioni diverse, ma il redattore li ha riportati secondo un filo logico e coerentemente col testo evangelico sinora commentato, anche se li ha inseriti nel racconto originario non tenendo conto dell’osservazione fatta dall’evangelista, il quale ha appena affermato che Gesù si è definitivamente ritirato, nascondendosi agli occhi del mondo (12,36). In questa breve pericope, di cui tralasciamo qualsivoglia critica circa il suo sviluppo diacronico (ossia, relativo al modo in cui essa si è costituita nell’ambito della composizione del testo evangelico), riconosciamo i protagonisti della storia della salvezza degli uomini: il Padre ed il suo Verbo eterno, che “in principio… era presso [ossia, rivolto verso] Dio” (1,1) per ascoltare le parole del Padre e trasmetterle, poi, agli uomini. La dinamica della salvezza si fonda, pertanto, sull’ascolto, poiché chi ascolta fa proprie le parole ascoltate e le traduce in gesti concreti. Il risultato positivo dell’ascolto (shemà) è la salvezza, poiché chi accoglie la parola accoglie anche colui che l’ha pronunciata. Per farsi ascoltare dagli uomini e renderli protagonisti attivi, non passivi, della loro salvezza, Dio Padre ha inviato tra gli uomini la sua Parola eterna, che si è resa concretamente visibile ed ascoltabile assumendo la carnalità dell’uomo (1,14), ma innescando, al contempo, un conflitto d’interessi col mondo delle tenebre, perennemente in lotta contro la luce portata dal Verbo incarnato per illuminare gli uomini e sottrarli all’ignoranza, al male, al peccato ed alla morte. Su questi presupposti si fonda il destino dell’uomo, libero di ascoltare e di accogliere (vale a dire, credere) la Parola di vita e di luce inviata dal Padre oppure di respingerla. Nel momento stesso della scelta si consuma il giudizio, che è di salvezza se l’uomo sceglie di credere o di perdizione se rifiuta di credere a Dio ed al suo Inviato. Il giudizio diventa definitivo “nell’ultimo giorno”, che non va inteso soltanto come il giorno del giudizio universale, ma è da intendere come giorno ultimo d’ogni umana esistenza. Dio non è per nulla fiscale ed ha la pazienza d’aspettare ciascun uomo, sino al momento in cui esala l’ultimo respiro ed ha l’estrema possibilità di accettare la mano, che Dio gli tende per attrarlo a Sé.
I comandamenti di Dio, che spesso gli uomini respingono come un limite insopportabile alla loro libertà, sono, in realtà, finalizzati al bene supremo della salvezza eterna, ma l’uomo si mostra insofferente nei confronti della Legge divina, che si fonda sui precetti dell’amore verso Dio e verso gli altri uomini, perché è “cieco” e non riesce a percepire la forza vitale che Cristo Gesù, Luce che illumina ogni uomo (1,4.9), porta con Sé poiché egli è vero Dio. Gesù di Nazareth ha indicato agli uomini la via della salvezza e chi vuole salvarsi deve credere in Lui, imitarlo, seguirlo ed ascoltare le sue parole, che sono grazia e verità (1,17).
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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