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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/07/2010 10:03
 
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Con grande incisività, s. Agostino annota nel suo commento al IV Vangelo (In Joannem 33,5) che rimasero solo loro due, la miseria (l’adultera) e la misericordia (Gesù). Il tranello non ha funzionato e la controversia è svanita, così come si è spezzato il cerchio minaccioso degli accusatori attorno alla donna (ed a Gesù). La donna, però, benché il cerchio di morte si sia dissolto attorno a lei, è ancora là, “in mezzo”, tuttora non liberata dal proprio peccato, non meno minaccioso e mortale dell’accerchiamento formato dai suoi accusatori (ed assassini mancati di un soffio). Ella non è fuggita e sembra attendere il giudizio di Gesù, il quale bonariamente la invita a costatare che nessuno l’ha condannata: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. La donna non rivela le proprie disposizioni interiori, ma implicitamente si rimette a Colui che l’ha liberata dai suoi accusatori: “Nessuno, Signore”. I farisei non hanno condannato la donna perché anch’essi sono dei peccatori e tali sono stati giudicati dalla loro coscienza, mentre Gesù non la condanna perché Egli è l’unico che è “senza peccato”. Gesù non ha criticato la Legge, che condanna l’adulterio e, al tempo stesso, ha manifestato il senso profondo della sua missione, che mira al perdono ed alla salvezza dell’uomo, non alla sua condanna: “Neanche io ti condanno”. L’assoluzione si trasforma in un appello a cambiare radicalmente vita; anche la donna è rinviata al giudizio della propria coscienza e ad una responsabilità rigenerata. D’ora in poi ella dovrà vivere in conformità con la liberazione che ha ricevuto, cambiando in maniera sostanziale il proprio stile di vita ed il modo di rapportarsi con Dio e col suo prossimo.
La pericope dell’adultera si presta ad una rilettura simbolica. Due sono gli elementi di spicco del racconto: il tranello sventato e l’assoluzione della donna. In correlazione con questi due elementi narrativi, Gesù si trova di fronte a due situazioni problematiche di peccato, quella dei farisei e quella della donna; Egli smaschera il peccato dei primi e perdona quello della seconda, che ne viene liberata. La presenza del male, del peccato (in greco amartìa) è palpabile ed evidente nella violazione della Legge di cui la donna si è resa colpevole, ma anche nel comportamento dei farisei, che si servono della sventurata per tendere il loro tranello a Gesù. Nel v. 7 viene affermata da Gesù la dimensione universale del peccato (“Chi è senza peccato, scagli per primo la pietra”), che è più pesante e letale delle pietre che i farisei vogliono scagliare contro la donna per ucciderla.
Il testo presenta diverse difficoltà di carattere giuridico ed interpretativo. Per procedere ad una lapidazione, era necessario un processo in piena regola e non si capisce se esso si fosse già svolto né quale fosse la reale situazione dell’accusata. Se l’adultera fosse stata una donna sposata avrebbe dovuto subire l’esecuzione capitale mediante strangolamento, mentre la lapidazione era prevista nel caso in cui la donna, rea d’adulterio, fosse stata una fidanzata. Inoltre, desta perplessità l’assenza dal contesto narrativo sia dell’amante, che non è perseguito come la donna, sia del marito (connivente coi farisei?). Poteva essere verosimile che i farisei e gli scribi sottoponessero a Gesù un caso penale? La soluzione del caso è credibile nella circostanza storica, sociale e giuridica propria del tempo?
L’assenza dell’amante e del marito della donna adultera autorizza a scorgere nel racconto evangelico un significato puramente simbolico. Or dunque, tre dati orientano verso quest’interpretazione:
1)Sollecitato dai farisei a pronunciare una condanna conforme alle disposizioni della Legge, Gesù prende tempo, sta zitto e si concentra su un gesto all’apparenza banale come quello di scrivere per terra, quasi evocando il giudizio di Dio su ogni uomo peccatore o, più semplicemente, creando un tempo di silenzio. Il testo, però, si sofferma sulla descrizione dei gesti compiuti da Gesù, che per due volte “si china” e poi “si rialza” (vv. 6s.8.10). Il cenno al Monte degli Ulivi (8,1) e la collocazione dell’episodio nell’imminenza della Pasqua di Passione assegnano ai gesti di Gesù, assieme ai due verbi contrari (chinarsi, drizzarsi), un significato cristologico: l’autore della pericope evangelica intenderebbe riproporre in forma mimica la morte di Gesù sulla croce (espressa dal gesto proprio di chinarsi verso terra) e la sua resurrezione (resa esplicitamente con l’atto di alzarsi in piedi). L’abbassamento (morte in croce) e l’elevazione (resurrezione) danno senso compiuto all’opera di riconciliazione messa in atto da Gesù, che riconduce a Dio l’umanità prigioniera della sua condizione di peccato.
2)Secondo la Legge, la donna deve morire e la cerchia dei suoi accusatori visualizza l’impossibilità per la sventurata di sottrarsi al suo destino di morte; ma questo cerchio si dissolve per la parola del Cristo e rimane solamente un filo invisibile che unisce l’accusata a Gesù. Il silenzio del testo sui sentimenti della donna evidenzia la gratuità dell’assoluzione da parte del Signore e fa risaltare la funzione salvatrice di Gesù. La donna non è schiacciata sotto il peso delle pietre scagliate contro di lei, ma se ne va libera, verso un avvenire di riconciliazione che Gesù le ha dischiuso grazie ad una parola di perdono e d’invito alla conversione definitiva (“non peccare più”). Il passaggio dalla morte alla vita non vale solo per la donna, peccatrice riconosciuta, ma anche per gli scribi ed i farisei, che non sono condannati da Gesù per le loro intenzioni malvagie, ma sono da Lui aiutati a prendere coscienza del loro peccato ed orientati verso la speranza del perdono di Dio.
3)L’unità del testo è garantita dalla presenza, dall’inizio alla fine, di una donna adultera. A quale scopo è utilizzata, dall’autore del racconto, questa particolare tipologia di peccatrice? Nel linguaggio profetico, l’adulterio è l’immagine metaforica per eccellenza dell’infedeltà del popolo eletto al Dio unico, il Dio dell’Alleanza, raffigurato dallo Sposo. La donna del racconto diviene figura d’Israele, la sposa di YHWH alla quale Gesù rivela il perdono escatologico di Dio. Si giustifica così l’assenza dal racconto dell’amante e del marito della donna adultera: l’amante è figura dei Baal, gli dèi stranieri che non devono essere assolutamente menzionati, mentre il marito è lo Sposo unico, il Dio invisibile il cui santo Nome non può essere pronunciato perché a nessuna creatura umana è dato di “possedere” Dio e di piegarlo al proprio volere (secondo la mentalità semitica, conoscere il nome o imporre il nome ad una qualsiasi realtà naturale o soprannaturale implicava una sorta di potere che l’uomo era in grado di esercitare su di essa). Una conferma indiretta a questo tipo d’interpretazione viene dalla ripetizione dell’avverbio di luogo “nel mezzo” (vv. 3.9). Curiosamente, tale espressione ricorre due volte di seguito in Dt 22,21.24 nel contesto delle leggi riguardanti l’adulterio: “ tu eliminerai il male di mezzo a te”, cioè di mezzo al popolo.
Il testo non dice cosa è successo alla donna, quasi a voler raccomandare al lettore di non ripiegarsi su se stesso e sugli errori del passato, ma di guardare con fiducia ad un futuro di libertà, propria di chi è diventato figlio di Dio in virtù della grazia che ha ricevuto col battesimo.

La guarigione di un cieco nato
(Gv 9,1-41)

L’episodio del capitolo 9 del IV Vangelo richiama le guarigioni di ciechi trasmesse dalla tradizione sinottica (Mt 20,29-34 = Mc 10,46-52 = Lc 18,35-43; vedi anche le tradizioni singole di Mt 9,27-31; 12,22; Mc 8,22-26) ed il cui scopo è quello evidente di dimostrare che con la venuta di Gesù sono stati inaugurati i tempi messianici.
Ai discepoli di Giovanni Battista, venuti per accertarsi che Egli fosse veramente Colui che era atteso da Israele da secoli, Gesù ha risposto citando il profeta Isaia: “I ciechi vedono…” (Mt 11,5 pp; cf. Is 29,18; 35,5; 42,7). Oltre all’ovvio significato di evidenziare l’avvenuta realizzazione dell’era messianica, l’evento prodigioso narrato in questa pericope giovannea assume un grande valore simbolico: il miracolato è figura del credente illuminato dalla fede. Nella Chiesa primitiva i neofiti, cioè quelli che avevano abbandonato le credenze pagane o che avevano aderito alla fede nel Signore Gesù, provenendo anche dall’ebraismo, venivano chiamati “illuminati” (cf. At 26,16-18; 1Ts 5,5; Ef 5,8-14; Eb 6,4; 1Pt 2,9) perché avevano ricevuto la luce della fede nel Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza degli uomini.
L’episodio narrato da Giovanni presenta analogie, ma anche sostanziali differenze, con il racconto di Mc 8,22-26. Nella pericope marciana, la guarigione del cieco non è istantanea, ma si compie con un procedimento in cui Gesù interviene in due riprese; inoltre, la guarigione è preceduta da un rimprovero che Gesù rivolge ai suoi discepoli perché stentano a credere in Lui (8,17) e, dopo il miracolo, essa è seguita dalla loro confessione di fede nel Maestro, riconosciuto come Messia. Nel racconto giovanneo, la simbolica dell’illuminazione assume tutto il suo rilievo perché il miracolato è cieco dalla nascita, situazione senza paralleli nella tradizione sinottica. Più che un atto di potenza (dýnamis), teso a realizzare l’annuncio profetico, il dono della vista al cieco nato è presentato come un segno (seméion) della presenza nel mondo di Colui che afferma di essere la “luce del mondo” (9,5). La simbolica della luce, però, funziona anche in senso opposto giacché i farisei, noti per esseri dotti e saggi, capaci di “vederci chiaro” nelle Sacre Scritture, posti di fronte al miracolo negano il “segno” e diventano “ciechi”, vale a dire incapaci d’avere fede. Venendo nel mondo, la Luce illumina o abbaglia, secondo le disposizioni soggettive di ogni essere umano ed in tal modo l’evangelista spiega il mistero del rifiuto della Verità da parte di alcuni e la sua accettazione da parte di altri.
Il racconto è inquadrato da due parole di Gesù, riguardanti il significato della sua missione (9,3-5 e 9,39): la prima la definisce come opera di rivelazione, la seconda la collega al “giudizio”.
L’episodio della guarigione del cieco nato presenta diverse analogie con quello della guarigione del malato di Bethesda (Gv 5). La struttura del racconto è in entrambi i casi tripartita: l’episodio del miracolo è seguito da una controversia tra il protagonista ed i giudei e, poi, tra questi ultimi e Gesù prima che sia sviluppato il discorso di rivelazione. Entrambi i segni, il camminare ed il vedere, hanno il precipuo scopo di evidenziare la trasformazione della condizione umana operata da Gesù in modo del tutto gratuito e violando apertamente la sacralità dell’istituto del sabato (cf. 5,9 e 9,14), il che provoca l’aperta ostilità delle autorità giudaiche. A loro parere, chi agisce contrariamente alle norme stabilite dalla Legge che YHWH ha dato a Mosè, non può “venire” da Dio. Da un punto di vista squisitamente narrativo, è Gesù che prende l’iniziativa della guarigione miracolosa in entrambi i casi dopo aver “visto” e constatato la miseria dell’uomo e, dopo la stizzita reazione dei giudei di fronte all’evidenza del miracolo avvenuto, tanto da prendersela in modo piuttosto meschino e puerile con gli stessi miracolati, che nulla possono fare se non prendere atto della guarigione ricevuta in dono da quell’uomo misterioso e buono, Gesù incontra una seconda volta il miracolato per impegnarlo spiritualmente e psicologicamente, orientandolo verso una decisa scelta di fede. Se le somiglianze tra i due racconti sono evidenti, sono altrettanto notevoli le differenze. Nel capitolo 5 la simbolica della vita, suggerita dalla guarigione di un infermo, viene evidenziata solamente attraverso un discorso; nel capitolo 9 la simbolica della luce è già presente nel dialogo iniziale tra Gesù ed i suoi discepoli, per poi incarnarsi nel cieco nato che torna a vedere e ricomparendo nell’opposizione “vedere/non vedere” dei versetti finali (9,39-41). Il discorso successivo può incentrarsi su una nuova metafora, quella del pastore che raduna le pecore (c. 10).
La differenza più evidente tra i due racconti riguarda il comportamento dei due protagonisti. L’infermo di Bethesda conserva un basso profilo morale e, interpretando l’invito rivoltogli da Gesù a cambiare vita per evitare che gli capiti di peggio come una minaccia nemmeno tanto velata, si propone come un testimone piuttosto tiepido o titubante del gran dono ricevuto e del benefattore che lo ha guarito. Al contrario, l’ex-cieco diventa un vero testimone di Gesù di fronte agli sfrontati ed arroganti farisei, esibendo coraggio, senso dell’umorismo sorretto da una logica stringente e, dopo che Gesù gli si è rivelato come il Figlio dell’Uomo, proclama senza riserve la sua fede in Lui. Dal principio alla fine egli conserva un atteggiamento positivo e contribuisce attivamente alla propria guarigione obbedendo, prima di tutto, all’ordine di recarsi alla piscina di Sìloe con gli occhi coperti di fango, poi sostenendo senza tentennamenti la prova di un interrogatorio gravido di minacce e d’insulti da parte dei farisei e, quindi, accettando senza riserve il mistero che gli si è manifestato. L’impegno da parte dell’uomo si intreccia efficacemente con la sovrana efficacia della Luce, la quale dà senso e consistenza alla collaborazione della sua creatura.
La controversia sul sabato collega temporalmente l’episodio della guarigione del cieco nato all’epoca in cui Gesù svolse la sua missione, ma il racconto contiene un elemento narrativo anacronistico riconducibile all’epoca in cui l’evangelista compose o dettò il suo Vangelo, ossia verso la fine del primo secolo dell’era cristiana: si tratta della sentenza d’esclusione dalla sinagoga del miracolato (9,22) qualora si ostinasse a dichiarare che Gesù, Colui che lo ha guarito, è il Cristo (tipica formula del linguaggio ecclesiale riportata da Paolo in Rm 10,9). In realtà, la messa al bando dalla società giudaica fu decretata dai farisei verso l’anno 90 d.C. a Jamnia, in occasione di un raduno delle autorità religiose di ciò che rimaneva del popolo ebraico dopo il disastro della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio (70 d.C.) e fu decisa per dare un taglio netto con gli “eretici” cristiani, colpevoli di diffondere la fede nientemeno che nel Figlio dell’Altissimo (una bestemmia davanti alla quale era considerato un gesto pio turarsi le orecchie), miseramente finito su una croce (altro scandalo inaudito) e, con palesi bugie che erano reiterate ormai da più di mezzo secolo, dichiarato nientemeno che “risorto”. Se prima di allora tra giudei ortodossi e giudei cristiani non era corso buon sangue e si erano alternati periodi di tregua ad altri di aperta ostilità, dal concilio di Jamnia in poi le due realtà religiose, scaturite da un’unica esperienza di fede nel Dio unico, si separarono definitivamente non senza scagliarsi reciproci anatemi con relativi improperi ed insulti, che sono riecheggiati per secoli e secoli nel corso della storia. Oggi gli studiosi si mostrano più riservati sulla reale portata del “concilio di Jamnia” e su chi sia realmente preso di mira nella famosa XII Benedizione contro gli eretici (birkât-ha-minîm), termine che non necessariamente designerebbe solo i cristiani; sul versante cristiano, poi, è solo dall’epoca del Concilio Vaticano II che non si prega più per i “perfidi” giudei, accusati del delitto di “deicidio”, durante la preghiera universale del Venerdì Santo, ma s’implora il perdono e la benedizione divina sia sui cristiani sia sui “fratelli ebrei”.
Leggendo la pericope del cieco nato, il lettore è invitato a prendere posizione nei confronti di Cristo identificandosi con i personaggi del racconto: o esprime la propria fede nel “Figlio di Dio”, come ha fatto il cieco guarito ed aperto alla Parola, o rifiuta di credere come hanno deciso i farisei, bloccati nel loro sapere acquisito.

9,1 Passando vide un uomo cieco dalla nascita 2 e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. 3 Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. 4 Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può operare. 5 Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”.

L’episodio si colloca nel contesto della festa delle Tende e l’avvenimento accade in giorno di sabato (9,14). Uscendo dal Tempio, lo sguardo di Gesù si sofferma su un uomo la cui disgrazia totale è la cecità, che lo affligge dalla nascita. Tale sciagurata situazione, evidentemente già nota ai discepoli, non è un particolare casuale nella descrizione che ne fa l’evangelista: la radicalità della malattia ne sottolinea il valore simbolico e rende il miracolo ancor più eccezionale nella stima dei testimoni e dei lettori. La guarigione, operata da Gesù, è preparata da un dialogo tra i discepoli ed il loro Maestro, il cui scopo è quello di precisare il motivo del suo intervento.
Passando, vide un uomo cieco dalla nascita. Tra Dio e l’uomo esiste da sempre un rapporto interpersonale dinamico ed esistenziale; dalla nascita, cioè dal momento della sua primitiva esistenza sul pianeta Terra, l’essere umano è “cieco”, ossia limitato, provvisorio, fragile, soggetto al male fisico e spirituale e destinato alla dissoluzione fisica attraverso la morte. La consapevolezza di questa sua provvisorietà temporale e fragilità psico-fisica, rende l’uomo inquieto, insoddisfatto e sempre teso alla ricerca della piena realizzazione dei suoi sogni e dei suoi desideri, di cui la felicità perenne e senza incrinature e l’immortalità sono i confini estremi ed umanamente irrealizzabili, almeno nell’ambito dell’esistenza terrena fisicamente sperimentabile. Il potere, il successo, la salute, la notorietà e l’autostima sono le inevitabili proiezioni psicologiche del positivo bisogno interiore dell’uomo di sfuggire alla distruzione radicale del proprio essere. Dio non è indifferente alle aspirazioni più intime e profonde della sua creatura ed il suo interesse per l’uomo viene espresso da un verbo d’azione: Egli passa ed incontra gli esseri umani lungo i sentieri, spesso oscuri, tortuosi ed insidiosi della loro storia ma essi “non lo vedono” a causa della loro cecità, pur potendone avvertire la “Presenza” se solo riuscissero a “fare silenzio” dentro loro stessi (1Re 19,11-13), mettendosi in ascolto della sua Parola, che il più delle volte è solo sussurrata. È nei piani e nei desideri di Dio guarire l’uomo dalla sua cecità e salvarlo da una volontaria e sconsiderata auto-distruzione senza agire in modo arbitrario, bensì sollecitando la sua collaborazione (affermava s. Agostino che “Colui che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te”).
I discepoli sollevano il problema della presenza del male e della sofferenza nel mondo e sollecitano un chiarimento al loro rabbì. Secondo un’opinione ereditata dalla loro cultura, il benessere materiale, la salute e la lunga durata della vita, erano considerati la giusta retribuzione divina per coloro che si comportavano in modo onesto e pio; al contrario, Dio colpiva gli ingiusti e gli iniqui con la malattia e con ogni sorta di sciagura. Tale credenza era giustificata dalla convinzione che la vita nell’oltretomba fosse limitata ad un’esistenza indifferenziata, larvale, uguale per buoni e cattivi, vaganti come ombre nelle oscurità del “mondo sotterraneo” (detto sheòl). Per salvaguardare la giustizia divina, era quindi necessario che la retribuzione delle azioni umane, buone o cattive che fossero, avvenisse su questa terra e che si concretasse con la felicità per i giusti e con l’infelicità e la disgrazia per gli ingiusti. L’esperienza della vita d’ogni giorno, però, dimostrava che non sempre avveniva proprio così, sicché sembrava ovvio che una sventura individuale o collettiva dipendesse da qualche colpa o peccato anteriore, personale o familiare. Il male doveva scaturire necessariamente dal male, come il bene dal bene (cf. Es 20,5; Nm 14,18; Dt 5,9; Tb 3,3ss). L’esempio di Giobbe forniva una diversa chiave di lettura per spiegare l’esistenza del male chiaramente non collegabile ad una vita moralmente deviata, attribuendo ad un misterioso personaggio, il satàn (letteralmente, l’avversario o l’accusatore) l’iniziativa, permessa da Dio, di mettere alla prova la fedeltà dell’uomo alle leggi divine attraverso gli ostacoli della vita (cf Gb 1,11). Gli amici di Giobbe, al fine di giustificare le azioni di YHWH, avevano attribuito le sventure di questo giusto alla punizione di qualche colpa segreta, ma Giobbe continuava a respingere una simile concezione di Dio e, invece di cercare una spiegazione razionale alle sue sventure, aveva preferito immergersi silenziosamente nel mistero di Colui che è fedele e sa esserlo sino in fondo (Gb 42), tanto da premiare il suo servo fedele restituendogli, moltiplicato in modo spropositato, ogni bene di cui lo aveva privato. Anche se i profeti si erano opposti ad un mera interpretazione punitiva dell’esistenza della sofferenza (cf. Ger 31,29ss; Ez 18), evidentemente i discepoli si fanno interpreti dell’opinione corrente, secondo cui la responsabilità del peccato si trasmetteva dai padri ai figli. Secondo tale opinione, era inevitabile che non potesse esistere sofferenza senza colpevolezza (cf. Sal 89,33) ed anche i farisei sosterranno tra breve (9,34) tale punto di vista.
Gesù fornisce un diverso approccio interpretativo del male che affligge ed angustia gli esseri umani, rifiutandosi di giudicare colpevoli sia le vittime della crudeltà di Pilato o del crollo della torre di Sìloe (Lc 13,1-5) che il povero ed incolpevole sventurato che gli sta di fronte, il cui unico torto, socialmente rilevante, è quello di essere nato cieco.
Né lui ha peccato né i suoi genitori. Gesù sta preparando i suoi discepoli, dal punto di vista psicologico e spirituale, ad accogliere ed accettare la dimensione redentrice del dolore, in vista della quale opera un passaggio fondamentale: il cieco nato si trova in questa situazione di sofferenza affinché in lui si manifestino le opere di Dio. Gesù non spiega l’origine della sofferenza innocente né afferma che quest’uomo è cieco per permettere a Dio di manifestare la sua potenza, ma prende atto della sua situazione di dolore, cui sta per porre fine manifestando così al mondo il modo di agire generoso e gratuito di Dio.
Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato. I migliori manoscritti antichi (come la versione detta vulgata oppure la vetus latina, la versione siriaca ed altre) riferiscono al solo Gesù il compito di agire in nome e per conto del Padre, mentre il codice B, il codice S ed altre testimonianze scritte autorevoli associano a quella di Gesù anche l’azione dei suoi discepoli e, per riflesso, delle comunità cristiane da loro fondate durante la loro esperienza missionaria. In tal modo, pure la comunità guidata dall’evangelista ed apostolo Giovanni si sente coinvolta nella trasmissione, nella ripresentazione e riattualizzazione dell’agire salvifico di Cristo, storicamente compiutosi durante la sua vita terrena (“finché è giorno”) e conclusosi con la sua morte (“poi viene la notte”). La breve durata storica della missione pubblica di Gesù, paragonabile ad una giornata di lavoro (cf. 5,17), rende urgente la sua azione salvifica, al punto da rendere secondaria l’importanza del sabato e da giustificarne la trasgressione volontaria. Fintanto che Gesù è presente fisicamente tra gli uomini, la luce di Dio, irradiata dal Figlio, brilla nel mondo in tutto il suo splendore e mostra in pieno la sua efficacia salvifica. Dichiarando di essere la “luce del mondo”, Gesù anticipa il senso del miracolo ed orienta l’attenzione verso ciò che è tenebra.
In questo preciso contesto narrativo, la tenebra non va identificata con il peccato inteso come scelta di volontaria e radicale opposizione a Dio ed alle sue leggi; infatti, l’uomo del racconto è cieco dalla nascita, ma la sua cecità non scaturisce da una situazione di peccato, sia pure imputabile ai suoi genitori (“né lui ha peccato, né i suoi genitori”). La tenebra, che è qui sottintesa e simboleggiata dalla cecità congenita di un uomo sfortunato, cui il destino ha riservato giorni amari e bui nel senso più letterale del termine, richiama l’esistenza di una tenebra originaria nella quale ogni uomo si trova prima di essere illuminato dalla rivelazione del Figlio. Già nel Prologo l’evangelista aveva definito il Lògos (= verbo, parola, progetto, discorso) di Dio come la luce che brilla nella tenebra (1,5), per cui, presentando il cieco nato, sembra proprio fare riferimento a questo genere di oscurità esistenziale, che può essere dissipata solo quando la Luce di Dio si incontra con l’uomo nel corso della sua storia personale e collettiva. Forse è questo il motivo per cui il cieco nato del racconto, pur essendo un mendicante bisognoso di aiuto, non formula alcuna preghiera, non potendo domandare ciò che ignora. Acquistando miracolosamente la vista per intervento di Gesù, Luce che illumina ogni uomo (1,4), egli non recupera un bene già posseduto e poi perso per colpa propria, ma rinasce ad una nuova esistenza e ad una vita di relazione mai immaginata. Per lui esistevano, prima del miracolo, rapporti umani mediati dai suoni, dagli odori e dal contatto fisico, sicché la sua vita sociale si svolgeva entro ambiti piuttosto limitati; grazie alla vista, invece, il suo orizzonte esistenziale si amplia a dismisura e si arricchisce d’elementi dialogico-relazionali col mondo circostante straordinariamente ricchi e complessi. Col dono della vista, il miracolato diventa un uomo nuovo, pronto a collaborare attivamente e consapevolmente al progetto di salvezza di Colui che lo ha “illuminato” nel profondo del cuore e della mente. Si tratta, in altre parole, di una vera e propria “rinascita dall’alto” (cf. 3,3).
Poco dopo, durante il dibattito che avverrà tra Gesù ed i farisei, la cecità riacquisterà il significato metaforico tipico dell’Antico Testamento e sarà associata alla perdita volontaria della vista come conseguenza del peccato di rifiuto di Cristo e del suo Vangelo di salvezza (cf. Is 6,9ss; Ger 5,21; Ez 12,2; Gv 9,39; 12,40).
Il protagonista del racconto è un uomo religioso, la cui vita è illuminata dalla Legge giudaica e che mai e poi mai si sognerebbe di accusare Dio di averlo fatto nascere gravemente menomato. Grazie alla sua fiducia nella Legge, egli riconoscerà che Gesù viene da Dio (9,30ss), di cui realizza le promesse in modo inatteso e con sovrabbondanza di grazia e di bontà.

6 Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7 e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
La procedura seguita da Gesù per compiere il miracolo è alquanto sorprendente. La saliva era ritenuta un valido rimedio per le malattie degli occhi (Plinio, Nat 28,7; Tacito, Hist IV, 8l), ma nel racconto giovanneo non è la saliva che opera direttamente la guarigione, bensì è il mezzo utilizzato da Gesù per fare un po’ di fango, con cui spalmare gli occhi del cieco. Secondo il parere dei più, l’uso del fango da parte di Gesù aveva come obiettivo l’infrazione dell’istituto umano del sabato, come sarà denunciato dai farisei nel seguito del racconto, mentre, secondo altri, mettendo del fango sugli occhi di un cieco Gesù avrebbe simbolicamente aggravato la sua già grave infermità per rendere ancora più impegnativa la sua guarigione sul piano personale ed esistenziale.
S. Ireneo, vescovo di Lione verso la fine del II secolo d. C., riteneva invece che il gesto di Gesù fosse da accostare all’atto con cui, secondo il testo della Genesi (2,7), Dio ha formato l’uomo e nella guarigione del cieco nato aveva individuato il perfetto compimento della primitiva creazione, da cui, a suo modo di vedere, aveva avuto origine l’essere perfetto identificabile col credente in Cristo (Adversus Haereses V, 15,2-3). Il fango della nuova creazione si collegherebbe allora all’acqua del battesimo, di cui la saliva di Gesù o l’acqua della piscina di Sìloe sarebbero l’immagine.
Le due fasi del miracolo fanno pensare ad altri riferimenti biblici: alcuni salmi, ispirandosi evidentemente all’esperienza del profeta Geremia (cf. Ger 38,6), presentano la situazione dell’uomo che affonda nel fango (pelòs) e rilevano che da tale imbarazzante situazione l’uomo non può salvarsi con le sole proprie forze, nonostante tutti gli sforzi compiuti per liberarsi dagli impacci della miseria morale e spirituale, in cui si trova consapevolmente invischiato (Sal 69,3.15; 40,3). Con il suo gesto, Gesù intenderebbe ribadire che l’uomo è prigioniero delle tenebre del male; impartendo al cieco l’ordine di andare alla piscina di Sìloe, cioè l’Inviato che è Lui stesso, Gesù rende evidente la sua missione di liberazione dell’umanità da queste tenebre di carattere esistenziale. Solo a Sìloe il fango cade dagli occhi del cieco nato ed egli riceve in dono la vista; la cura dei malati con il fango, seguita da abluzioni, è testimoniata nel santuario pagano di Pergamo nella prima metà del II secolo d.C., quindi l’evangelista Giovanni avrebbe inteso, proponendo ai suoi lettori l’episodio della guarigione del cieco nato, contrapporre Gesù, il vero Salvatore, ad Asclepio, il dio medico. Quest’ipotesi avvalorerebbe la tesi di coloro che sostengono che il IV Vangelo sia stato scritto in Asia Minore, l’attuale Turchia (K. H. Rengstorf, Grande Lessico del Nuovo Testamento X, 177-178).
Sìloe è l’unico luogo menzionato nel racconto. L’ordine di Gesù richiama quello che il profeta Eliseo aveva impartito a Naaman il Siro, di andare ad immergersi sette volte nel fiume Giordano per guarire dalla lebbra (cf. 2Re 5); Naaman si era mostrato reticente, mentre il cieco nato obbedisce prontamente alla parola di Gesù, fidandosi “ciecamente” di Lui (è proprio il caso di dirlo!). La piscina di Sìloe si trovava a sud-ovest della città vecchia, proprio allo sbocco di un tunnel che re Ezechia aveva fatto costruire verso il 704 a.C. per portare le acque del torrente Gichon all’interno di Gerusalemme (cf. 1Re 1,33; 2Re 20,20; 2Cr 32,30; Sir 48,17; cf. anche Giuseppe Flavio, Guerra giudaica V, 4,1ss e Strack-Billerbeck, Commentario del Nuovo Testamento II, 531-533).
Secondo il rito della festa delle Tende o Capanne, che aveva un significato messianico, una processione solenne si recava ad attingere acqua alla piscina di Sìloe, che era l’unico serbatoio idrico della città; in tal modo si onorava la dinastia davidica, di cui tale piscina era divenuta un simbolo, allorquando il profeta Isaia aveva rimproverato al popolo di disprezzare queste “acque che scorrono placidamente” (Is 8,6). Questi dati biblici servono all’evangelista quale collegamento storico tra Sìloe e l’Inviato, giustificando il compimento della tradizione ebraica nella persona di Cristo: il termine ebraico infinitivo qal ha, in primo luogo, un senso attivo ed indica la conduttura, il canale (che invia acqua) ma può essere letto anche al passivo col significato di “essere inviato”.
Il narratore sintetizza l’evento prodigioso della guarigione del cieco nato con poche e sobrie parole: “quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. Persino la dinamica del miracolo passa quasi sotto silenzio pur essendo circoscritta da ben tre verbi d’azione, i quali ottemperano, da una parte, ad un ordine che non ammette né discussioni né tentennamenti e, dall’altra, ad un’esplicita volontà di obbedire: chi compie la volontà di Dio nell’ordinaria quotidianità della propria esistenza non deve necessariamente fare uso della grancassa ed attirare su di sé l’attenzione del prossimo ad ogni costo e, dal canto suo, Dio non interviene quasi mai nella storia dell’uomo con troppo clamore. L’agire di Dio è silenzioso, discreto e rispettoso della libera volontà dell’uomo.

8 Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: “Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?”. 9 Alcuni dicevano: “ E’ lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”. Ed egli diceva: “Sono io!”. 10 Allora gli chiesero: “Come dunque ti furono aperti gli occhi?”. 11 Egli rispose: “Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va’ a Sìloe e lavati!». Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista”. 12 Gli dissero: “Dov’è questo tale?”. Rispose: “Non lo so”.
La constatazione del miracolo avviene in un clima di evidente stupore, incredulità e costernazione da parte di persone estranee all’avvenimento e che, loro malgrado, sono costrette a prendere atto dell’avvenuto prodigio. Pare di sentire i commenti della gente, evidentemente abituata da qualche tempo a vedere quel cieco nato mentre chiedeva l’elemosina nelle piazze ed agli angoli delle strade della città, soprattutto durante i giorni di festa, quando c’erano tanti pellegrini che affluivano verso il Tempio di Salomone, molti dei quali ben disposti a fare l’elemosina ai tanti sventurati, veri o fasulli, situati nei punti strategici della città. È soprattutto la gente del posto che, incontrando il miracolato, non crede ai propri occhi e manifesta opinioni contrastanti. Il richiamo al passato (“era un mendicante… stava seduto a chiedere l’elemosina”) dà rilievo al cambiamento che è avvenuto in quell’uomo. “E’ lui… no, non è lui, però gli somiglia…”. Tocca al miracolato dare un taglio alle supposizioni con un deciso e perentorio “sono io”, grazie al quale egli conferma la propria identità quasi con soddisfatto orgoglio: sono proprio io il destinatario di una grazia così grande ed inaspettata, sono proprio io quello che avete compatito fino a pochi istanti fa, io che vi chiedevo qualche spicciolo d’elemosina e che stavo zitto quando sussurravate i vostri maliziosi commenti sulla mia disgrazia… ero cieco, mica sordo e nemmeno scemo! E adesso, eccomi qua! Ci vedo come voi, anzi, ci vedo meglio di tanti voi, grazie a Gesù. Già, ma Lui dov’è?
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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