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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/07/2010 09:54
 
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48 Gli risposero i giudei: “Non diciamo con ragione noi che sei un samaritano e hai un demonio?”. 49 Rispose Gesù: “Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate. 50 Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e giudica. 51 In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”.
I giudei scelgono un doppio insulto per cercare di far tacere Gesù, definendolo “samaritano” e “posseduto dal demonio”, cioè eretico, deviante dalla retta dottrina, profeta falso ed illegittimo. Nella sua risposta, Gesù contesta solo la seconda parte dell’accusa (“hai un demonio”) e sorvola sul titolo di “samaritano”, che nelle intenzioni dei giudei dovrebbe essere il massimo dell’offesa ingiuriosa. L’autodifesa di Gesù consiste nel riaffermare il proprio rapporto intimo e privilegiato col Padre, espresso nei termini di una totale e disinteressata dedizione religiosa. Chi si rifiuta di riconoscere a Gesù il suo pieno diritto di proclamarsi vero Figlio di Dio, disprezza ed offende Dio stesso (cf. 5,23). A Gesù non sta a cuore la propria “gloria” personale, come succede ai falsi profeti ed ai falsi messia (cf. 5,41; 7,18), ma la gloria del Padre, per cui rimette la propria causa nelle mani di Dio, che gli renderà giustizia (cf. 12,31; 16,10-11). Nell’autodifesa di Gesù si può riconoscere l’atteggiamento del giusto perseguitato, esempio e modello d’ogni vero credente (cf. Sal 7,9; Sap 3,1-9) che, come Gesù, deve perseguire sempre e in ogni caso la verità nella carità. Il frutto più gustoso della verità annunciata da Gesù è la salvezza eterna, da Lui promessa a chi ascolta la sua Parola e la concreta nella personale realtà esistenziale, facendola diventare luce e guida della propria vita (cf. 8,12.31-32). Come Gesù è intimamente unito al Padre mediante il vincolo dell’amore obbediente e del reciproco ascolto, così il credente può essere reso partecipe di tale comunione vitale ed essere inserito nel dinamismo della vita di Dio se aderisce pienamente al progetto di salvezza, che Dio ha voluto realizzare mediante suo Figlio. Ascoltare la parola del Figlio significa accettare di essere salvati da Dio Padre dalla morte eterna.

52 Gli dissero i giudei: “Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: “Chi osserva la mia parola non conoscerà mai la morte”. 53 Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?”.
I giudei non possono accettare che un uomo qualunque possa pretendere di essere alla pari del capostipite del popolo eletto o di uno qualunque dei profeti dell’antico Israele. Che i giudei rifiutino di mettere sullo stesso piano Gesù ed Abramo, il grande patriarca del quale si sentono tutti legittimi discendenti, può essere anche comprensibile, almeno secondo il loro punto di vista, ma che vogliano contrapporre Gesù ai profeti suona quanto meno strano, se non grottesco. Tutti i profeti d’Israele hanno fatto una brutta fine: c’è chi è stato ucciso, come Isaia o Zaccaria, chi è stato considerato pazzo, come Ezechiele, chi è stato fatto sparire nel nulla, come Geremia, chi è stato considerato uomo da nulla, come Amos (un “pecoraio”, un uomo immondo) od un inetto, incapace di domare la moglie, come Osea. In un modo o nell’altro, tutti i profeti sono stati neutralizzati perché ritenuti scomodi e controcorrente, non allineati con il potere politico e religioso di turno. Giovanni sembra voler sottolineare ironicamente il perfetto accostamento fatto involontariamente dai giudei tra Gesù, il Profeta per antonomasia, ed i profeti di Israele: Gesù è davvero un Profeta, visto che vogliono eliminarlo alla stessa stregua degli antichi e tanto decantati e rimpianti profeti di Israele!
Chi pretendi di essere? È una domanda che ricorre ripetutamente nel corso del racconto evangelico, anche nella versione sinottica: chi è costui? Che dici di te stesso? Non è forse costui il figlio di Giuseppe, il falegname? Da dove gli viene tanta sapienza?
Di fronte a Gesù l’uomo d’ogni tempo s’interroga e cerca risposte convincenti, salvo poi non accettare quella più ovvia e vera perché dà fastidio ed è scomoda. Se Gesù fosse riconosciuto per quello che è, l’uomo non potrebbe accampare scuse alle proprie discutibili scelte in campo religioso ed etico-morale, né potrebbe sottrarsi alle proprie responsabilità di fronte ad un rifiuto palese della Verità; è molto meglio negare la natura divina di Cristo, dandogli tutt’al più il premio Nobel per la bontà e la pace, piuttosto che riconoscere di essere in tutto e per tutto dipendenti da Lui. Accettare il fatto che Gesù è Dio e che parla a nome e per conto del Padre, significa accettare come vere e vincolanti le sue parole ed agire, quindi, di conseguenza. Ma chi è veramente disposto ad amare sempre e comunque? Chi accetta di perdonare le offese ricevute da coloro che sono considerati “nemici” del proprio egoistico “Io”? Chi è pronto a dare gratuitamente ed a non pretendere nulla in cambio? Chi è disposto a sacrificare la propria vita per il bene altrui? Chi si sente pronto ad offrire l’altra guancia alla prepotenza del prossimo ed a reagire al male ricevuto con gesti di bontà e di pace? Coloro che considerano il cristianesimo una religione adatta per gente smidollata, facciano un tentativo di vita cristiana coerente e si accorgeranno che per avere fede in Cristo occorre essere attrezzati di forza e di coraggio sovrumani.

54 Rispose Gesù: “Se io glorificassi me stesso, la mia gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “E’ nostro Dio!”, 55 e non lo conoscete. Io invece lo conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola. 56 Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò”. 57 Gli dissero allora i giudei: “Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?”. 58 Rispose loro Gesù: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, IO SONO”. 59 Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
Piano piano, lo scontro dialettico tra i giudei e Gesù ha raggiunto il culmine dell’incomprensione e del rifiuto, già intuito nel corso del lungo dibattito iniziato presso la sinagoga di Cafàrnao (c. 6) e proseguito nel Tempio di Gerusalemme durante la festa delle Capanne (cc.7-8). La proclamazione della propria origine divina, racchiusa nell’espressione solenne “IO SONO” (8,58), mette in bocca a Gesù il vero motivo della propria condanna a morte: la bestemmia (19,7). Come può Gesù farsi uguale a Dio, l’unico Vivente che può dare la vita a tutti i viventi? A questa domanda, Gesù risponde riaffermando la sua assoluta fedeltà e dedizione al Padre ed esprime questo rapporto unico con il Dio d’Israele in termini di “gloria” e di “glorificazione”. Se Gesù celebrasse se stesso, autoglorificandosi, si porrebbe sullo stesso piano dei falsi profeti (cf. 5,41; 7,18), ma è lo stesso Padre YHWH che glorifica ora il Figlio attraverso i miracoli da Lui compiuti ed attraverso le parole da Lui pronunciate. Il momento culminante della “glorificazione”, ricevuta dal Padre, coinciderà con la morte e la resurrezione del Figlio (12,28; 13,31-32) e sarà un evento al quale pochi saranno chiamati a rendere testimonianza (martyrìa) in prima persona. Molti di più saranno coloro che, fidandosi della testimonianza dei primi testimoni oculari, renderanno a loro volta testimonianza con la propria vita all’Evento della salvezza: la Resurrezione di Cristo Signore, vincitore del peccato e della morte, Re glorioso del tempo e della storia, il Vivente che siede accanto alla Fonte della Vita, Giudice supremo di tutti i viventi, Principio e Fine di tutta la creazione. Attraverso la sua passione, morte e resurrezione, Gesù riceve il certificato di autenticità del suo rapporto unico con Colui che i giudei chiamano e proclamano “nostro Dio! ”. Di per sé, le formule di fede non bastano a mettere in comunione la creatura col suo Creatore perché possono essere false, specie se sono contraddette dai fatti; Gesù, al contrario, può contare su un rapporto di comunione vitale col Padre, basato sull’amore, sulla conoscenza e sulla fedeltà assoluta, che nessun altro essere umano può rivendicare (8,55). La pretesa di Gesù d’essere tutt’uno col Dio d’Israele, non intacca minimamente il fondamento del monoteismo ebraico, semmai ne rivela la profondità del mistero di comunione interpersonale, che si realizza nel puro Amore assoluto e che solo Dio può esprimere.
Superato il nodo centrale della compatibilità tra la fede cristologica ed il monoteismo ebraico, l’evangelista riporta la risposta di Gesù circa il suo rapporto con il patriarca Abramo, il capostipite dal quale discendono gli ebrei. Gesù prende le distanze dai giudei, che ritengono di avere per padre Abramo e, per questo, si sentono dei privilegiati, autorizzati a guardare gli altri esseri umani dall’alto in basso con aria di sprezzante superiorità. Gesù afferma di avere per Padre nientemeno che Dio, l’Onnipotente, l’Altissimo, il cui santo Nome non può essere pronunciato da bocca umana; quale ovvia conseguenza di tale affermazione, Abramo non ha alcun diritto di paternità nei confronti di Gesù, di cui però è stato un lontano testimone e profeta, avendo ricevuto in visione da Dio la lieta novella della salvezza, che avrebbe raggiunto tutti gli uomini grazie ad un membro della sua stirpe umana (cf. Gen 12,3; 22,18). Abramo non è un concorrente di Gesù, bensì un suo assai autorevole testimone, che ha gioito ed esultato nel “vedere” con gli occhi della fede il “giorno” di Gesù, avendo cioè contemplato l’Evento storico della salvezza diventare realtà con la passione, morte e resurrezione di Cristo.
Non è chiaro a quale circostanza o citazione biblica faccia riferimento il testo evangelico nel sottolineare la gioia d’Abramo nel “vedere” il giorno di Gesù. C’è chi pensa alla gioia provata da Abramo nell’apprendere la futura nascita del primogenito Isacco, quando il patriarca e sua moglie Sara erano ormai avanti con gli anni (Gen17,17), mentre altri vedono un’allusione al momento della rivelazione della storia d’Israele concessa da Dio ad Abramo (cf. Gen 15,13ss). Qualche autore pensa alla gioia attuale d’Abramo che, nella sua condizione celeste, s’interessa e partecipa alle vicende d’Israele (cf. Mc 12,26-27). Anche riguardo il “giorno” di Gesù i pareri degli esegeti sono discordi: alcuni lo individuano nell’evento dell’incarnazione (s. Cirillo d’Alessandria, s. Agostino), per altri esso coincide con la morte di Gesù, messa in relazione con il sacrificio di Isacco (s. Giovanni Crisostomo) oppure con la sua resurrezione (Apollinare di Eraclea). Una cosa è certa: per il testo evangelico, anche Abramo gravita nell’orbita messianica di Gesù, che rappresenta il centro ed il culmine di tutta la storia della salvezza, dalla quale nessun essere umano viene escluso a priori. Assumendo il patriarca Abramo come testimone a proprio carico, Gesù invita i giudei ad imitare la fede di questo grande patriarca loro antenato e ad accogliere Lui, il rabbì venuto dalla Galilea, come l’Inviato di Dio nel quale si sono realizzate le promesse messianiche. Il tentativo di dialogo tra Gesù ed i giudei si blocca di fronte all’ennesimo fraintendimento di questi ultimi.
Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo? Fermi nella prospettiva storica e cronologica, i giudei non riescono a cogliere la dimensione profetica e messianica fatta balenare da Gesù alla loro intelligenza e conoscenza della Scrittura. La banale osservazione sull’età di Gesù maschera la rigidità intellettuale e spirituale dei giudei, per i quali Abramo viene “prima” di Gesù non solo in ordine di tempo, ma anche di dignità. La domanda dei giudei è del tutto retorica e suona come ironica, ma Gesù li inchioda alla responsabilità di una scelta radicale di campo: o con Lui, in vista del quale il padre Abramo “ha gioito ed esultato”, o contro di Lui, che è il sogno di Abramo divenuto realtà.
Prima che Abramo fosse, IO SONO. Il confronto tra il grande patriarca, portatore delle promesse di Dio e Gesù, che fa parte della discendenza umana di Abramo, ha un esito scontato. Mentre Abramo è entrato nell’esistenza ed è divenuto parte del processo storico di salvezza ideato da Dio, Gesù è presente già molto prima dell’inizio del tempo e del suo fluire nelle varie epoche storiche. Anzi, Gesù è il progetto di salvezza di Dio; meglio ancora, Gesù è IO SONO, il Dio personale d’Israele (YHWH) diventato UOMO.
Davanti ad un’affermazione così clamorosa ed esplicita fatta da Gesù, i giudei compiono la loro scelta definitiva: raccolgono delle pietre e tentano di lapidare Gesù, il quale “si nascose ed uscì dal Tempio”. I giudei interpretano la proclamazione di Gesù come un’aperta profanazione del Nome di Dio ed intendono punire, seduta stante, la bestemmia con la pena prevista per tale reato: la lapidazione (cf. Lv 24,16). Nell’abbandono del Tempio da parte di Gesù, il narratore evangelista intravede l’abbandono definitivo dell’istituzione templare, che doveva custodire la presenza di Dio in mezzo al suo popolo (cf. anche Ez 10,18-22).
Oggi come allora lo scandalo dell’Incarnazione di Dio tiene molti uomini lontano dalla Verità e soggetti alla potenza del Male, oggettivato dall’evangelista con i termini storici di “mondo” e di “demonio” o “satana”. La lotta combattuta da Gesù contro le potenze del male ha lo scopo di sottrarre l’umanità dall’influenza malefica del signore delle tenebre e portarla alla vita, grazie all’azione vivificante della luce che proviene da Dio stesso, il quale non ha esitato ad incarnarsi e ad assumere le debolezze della condizione umana per “divinizzare” l’uomo e condurlo per mano verso la pienezza di vita e l’eternità, che sono attributi propri di Dio.

Gesù e la donna adultera
(Gv 7,53-8,11)

Questo mirabile racconto non appartiene a Giovanni. Il genere letterario ed il vocabolario utilizzato dall’autore di questa pericope sono estranei allo stile proprio dell’evangelista Giovanni. L’episodio, poi, interrompe in modo maldestro la sequenza dei capitoli 7 e 8, centrati sul tema dell’autoproclamazione divina di Gesù e manca nei manoscritti più antichi. Il primo manoscritto greco che contiene la pericope 7,53-8,11 è il Codice di Beza del V secolo d.C. anche se s. Gerolamo (IV secolo) afferma di averlo trovato in alcuni manoscritti greci e latini a lui anteriori. Pure Didimo (IV secolo) lascia supporre l’esistenza della pericope in un manoscritto alessandrino. L’inserimento del racconto della donna adultera nel testo evangelico di Giovanni potrebbe risalire alla fine del III secolo ed in qualche manoscritto di epoca posteriore il brano viene collocato dopo Lc 21,37ss oppure in appendice al Vangelo di Giovanni. Nella versione latina, il racconto è presente nella Volgata (fine del IV secolo) ed in alcuni testimoni della Vetus Latina. L’episodio viene ignorato dai Padri della Chiesa almeno fino al IV secolo (s. Ireneo, Origene, s. Giovanni Crisostomo), epoca in cui la canonicità della pericope viene sostenuta da alcuni Padri latini (s. Agostino, s. Gerolamo, s. Ambrogio). La prima menzione dell’episodio si trova nella Didaskalìa, un documento ecclesiastico siriano del III secolo, che fa parte delle Constitutiones Apostolorum (II, 24) e che lo cita per esortare i vescovi alla clemenza verso i peccatori.
Per stile e contenuto, il testo si mostra affine ai racconti sinottici, specie a quelli di Luca. A parere di molti esegeti, l’episodio riferito dalla pericope è o potrebbe essere storico almeno nelle sue linee essenziali, dal momento che la pena da applicare in caso di flagrante adulterio era dibattuta e controversa in seno al giudaismo del I secolo. Altri autori, invece, sono del parere che il racconto in questione sia una leggenda sorta nella Chiesa del II secolo, avendovi scorto alcune inverosimiglianze di carattere giuridico, giustificate dai sostenitori della storicità del racconto come semplici lacune di informazione cui si è ovviato ricorrendo alle norme dell’antico diritto di Israele. In ogni caso, il testo non va esaminato come se fosse la cronaca di una controversia penale, bensì come un annuncio della misericordia di Dio, che perdona il peccatore pentito.
Il narratore, in altre parole, ha selezionato gli elementi utili per dimostrare che Gesù porta agli uomini peccatori il perdono gratuito ed escatologico, ultimo e definitivo, di Dio Padre. L’episodio della donna adultera, perdonata da Gesù, ha certamente creato nella Chiesa primitiva non pochi imbarazzi. L’adulterio era un grave peccato, punito presso l’antico Israele con la pena di morte e condannato dalla Chiesa mediante la scomunica, cioè con l’esclusione del cristiano colpevole di tale reato dalla comunione ecclesiale. Il cristiano, che si pentiva e si ravvedeva, doveva sottoporsi ad un lungo periodo di penitenza e non otteneva tanto facilmente il perdono di Dio attraverso l’assoluzione degli uomini. Basti rileggere 1Cor 5 per rendersi conto di quale fosse la posizione della Chiesa primitiva nei confronti degli adulteri, il cui comportamento impediva l’ingresso nel Regno di Dio (1Cor 5,9ss; cf. anche Eb 13,4; 2Pt 2,14). Gesù stesso ha avuto parole dure contro il ripudio della moglie da parte del marito (Mt 19,19). L’adulterio era ritenuto incompatibile con la condizione di battezzato e solo poco alla volta l’istituzione delle pratiche penitenziali permise di reintegrare il peccatore pubblico nella comunità ecclesiale.
Il fatto che la pericope sia stata accolta, seppur tardivamente, nel Canone essendone stata riconosciuta l’autenticità, confermerebbe la veridicità del racconto supportata da una solida tradizione orale (e scritta), nonostante l’iniziale opposizione della prassi pastorale. Non è chiaro il motivo per cui l’episodio dell’adultera perdonata da Cristo sia stato inserito proprio nel punto in cui ora si trova, creando una maldestra interruzione del filo narrativo del testo giovanneo, anche se si possono notare alcune affinità superficiali con le tematiche sviluppate nei capitoli 7 e 8 del IV Vangelo: Gesù sta insegnando nel Tempio, critica chi giudica in base alle sole apparenze o secondo “la carne” (7,24; 8,15), afferma che Egli non giudica nessuno (8,15) ed è minacciato di lapidazione (8,59). L’introduzione della pericope, però, dimostrerebbe che il racconto faceva parte di una narrazione continua ed appare assai evidente la rassomiglianza che conclude, nella versione di Luca, la vita pubblica di Gesù (Lc 11,37ss; cf. anche Mc 11,11; Mt 21,17). L’episodio viene, dunque, collocato alla fine del ministero di Gesù. Scribi e farisei (tipica associazione sinottica, non giovannea) si stanno accingendo a tendere un tranello a Gesù. Se il rabbì propone clemenza si pone contro la Legge di Mosè, se approva la lapidazione della donna adultera contraddice la propria predicazione e delegittima la propria autorità, rischiando per di più di entrare in rotta di collisione con le autorità romane, che solevano riservare a sé le sentenze capitali. I giudei erano profondi conoscitori delle norme legali ed abili dialettici, pazienti ed astuti nel tendere tranelli di questo genere. La questione sottoposta dai giudei a Gesù non era di poco conto in quel contesto storico: era considerata “adultera” la relazione sessuale tra un uomo, sposato o no, ed una donna sposata (o fidanzata) perché un tale rapporto offendeva il diritto di proprietà riconosciuto al marito sulla propria moglie. La Legge era in vigore come principio, ma la sanzione non era necessariamente applicata in ogni caso (Es 20,14; Lv 20,10; Dt 22,22). Sottoponendogli un delitto flagrante e conducendogli la stessa donna colpevole (ma non il correo), gli avversari vogliono mettere Gesù con le spalle al muro costringendolo a pronunciarsi in un modo o nell’altro. La prova del reato è inconfutabile e la questione va ben oltre i confini della pura accademia, essendo in gioco la vita o la morte di un essere umano. Il tranello teso dagli scribi e dai farisei a Gesù è “radicale”.

8,1 Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. 2 Ma all’alba si recò di nuovo al tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. 3 Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, 4 gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5 Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. 6 Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. 7 E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. 8 E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9 Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. 10 Alzatosi allora Gesù le disse: “ Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. 11 Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanche io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.
Le circostanze della cattura della donna, rea d’adulterio, non sono menzionate; resta il fatto che l’uomo, corresponsabile del reato sessuale, è il grande assente e su di lui si possono tentare mille supposizioni: o è sfuggito alla cattura rendendosi uccel di bosco, oppure è un personaggio troppo in vista e, quindi, uno dei tanti intoccabili di tutte le società d’ogni tempo, o fa parte del complotto ordito contro Gesù. O forse, più semplicemente, si tratta di un individuo ben noto al marito tradito, che ritiene di poter consumare la sua vendetta con tutta calma e che, per giunta, non compare nemmeno nel racconto. L’assenza del marito dal contesto narrativo è almeno curiosa, se non inquietante; se fa parte del gruppo di scalmanati che non vedono l’ora di lapidare l’adultera, c’è da chiedersi se anche lui non abbia da farsi perdonare qualcosa, visto che non ha il coraggio si scagliare “per primo” la pietra contro la moglie fedifraga. La donna resta sola a pagare per l’errore proprio ed altrui, istigatrice o vittima della passione dell’uomo che l’ha abbandonata al proprio destino: questi particolari del tradimento, consumato dai due amanti illegittimi, interessano ben poco ai tutori della Legge, preoccupati di mettere nel sacco il “maestro” (altro vocabolo tipicamente sinottico) venuto dalla Galilea anche a costo di sacrificare la vita di una donna, considerata poco più di un oggetto. Quella poco di buono, comunque vada la faccenda con Gesù, non merita altro che la morte, per cui non vale la pena farsi tanti scrupoli.
Con tutta probabilità la donna è spintonata, fatta cadere e rimessa in piedi senza troppi riguardi da quegli esagitati, che la circondano per non darle alcuna possibilità di fuga e la fanno stare dritta, in piedi, in mezzo a quel tribunale improvvisato. La procedura seguita dagli “scribi e farisei ” per accusare e giudicare la poveretta è propria del contesto storico e sociale di quel tempo (cf. anche At 4,7). L’imputata non può godere dell’aiuto di un avvocato difensore e non può nemmeno parlare a propria discolpa: per farla condannare basta la testimonianza a carico di due o tre testimoni (maschi), concordi nel riferire i fatti e le circostanze inerenti il delitto compiuto dalla donna (cf. Dt 17,2-7; 19,15). Di fronte a lei si trova Gesù, che se ne sta seduto per insegnare (altro elemento narrativo tipicamente sinottico) e che fa materialmente parte del cerchio degli accusatori, stretto minacciosamente attorno alla sventurata. Gli scribi ed i farisei non interrogano la donna, perché la sua trasgressione è manifesta ed essa non conta per loro più del denaro dovuto a Cesare (Mt 22,15-22; Mc 12,13-17; Lc 20,20-26), ma interrogano Gesù e spiano la sua reazione, pronti a coglierlo in fallo. Lo sguardo del lettore si sposta dalla donna, “posta nel mezzo”, a Gesù seduto per terra e pure lui assediato, quasi sovrastato da quei nemici irriducibili che vogliono togliere di mezzo entrambi, la peccatrice colpevole d’adulterio ed il bestemmiatore, reo di essersi dichiarato alla pari con Dio.
Gli scribi ed i farisei contrappongono l’autorità della Legge mosaica a quella di Gesù, che essi chiamano “maestro” e di cui sollecitano una presa di posizione. “Mosè ci ha comandato… Tu che ne dici?”. Sembra di poter scorgere in queste parole una sfumatura d’ironia; gli avversari di Gesù fanno il verso al modo di parlare del “maestro” venuto da Nazareth, che spesso ricorre a formule espressive originali per esporre il proprio insegnamento morale e religioso: “Avete inteso che fu detto… ma io vi dico…” (cf. Mt 5,43ss). Gesù non raccoglie la provocazione e, invece di rispondere, si china a scrivere per terra col dito. Del gesto di Gesù sono state fornite le più disparate ed ingegnose interpretazioni da parte degli esegeti d’ogni epoca. Secondo alcuni, Gesù avrebbe inteso differire la risposta prendendo tempo e dimostrando che la questione del giudizio non lo riguardava più di tanto: il recupero morale di un peccatore non si realizza attraverso una pura e semplice punizione del reo. Secondo altri commentatori, Gesù si accingerebbe a scrivere per terra la sentenza di condanna o d’assoluzione della donna prima di leggerla ad alta voce, secondo l’uso romano (parere assai opinabile e poco verosimile, visto che l’ambientazione del racconto è squisitamente giudaica, non romana!). Gli antichi Padri della Chiesa (s. Ambrogio, s. Agostino, s. Gerolamo) e, con loro, diversi autori moderni, ritengono invece che Gesù intenda compiere un gesto simbolico, simile a quelli compiuti dai profeti d’Israele in varie occasioni della storia ebraica. Il gesto di Gesù rimanderebbe a Ger 17,13: “quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua viva, il Signore” (cf. anche Gb 13,26). In tal caso, Gesù ricorderebbe ai suoi interlocutori il giudizio di Dio incombente su tutti i peccatori presenti in Israele. Altri esegeti interpretano il gesto di Gesù in senso giudiziale: Egli scriverebbe per terra i peccati degli accusatori di quella donna oppure lascerebbe intendere che la Legge di Mosè è una interpretazione umana della vera ed originale Legge divina, fondata sull’amore perdonante di Dio e sulla salvezza dell’uomo peccatore.
Incalzato dai suoi interlocutori, Gesù parla senza esprimere alcun giudizio di condanna nei confronti della donna e neppure nei confronti dei suoi accusatori. La parola di Gesù è un invito rivolto a quegli uomini a fare appello al giudizio della loro coscienza, il luogo più intimo e segreto in cui ogni essere umano può trovare intatto il tesoro della verità. Solo Dio, che è per noi “più intimo di noi stessi ” (s. Agostino), può avere libero accesso alla nostra coscienza, impedendo all’uomo di barare e di raccontare bugie sul proprio conto.
Chi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei. Ognuno di quegli uomini si sente messo alle strette ed incalzato dal severo giudizio della propria coscienza, perché nessun essere umano può dichiararsi “giusto” davanti a Dio (Sal 14,1-3; 53,2-4; Rm 3, 9-12.23) e puro da ogni peccato. Chi afferma il contrario è un ipocrita od un incosciente, incapace, cioè, di ascoltare la propria coscienza con piena verità e totale libertà. Gli accusatori di quella donna non devono sottoporsi al giudizio della propria coscienza solo ed esclusivamente in relazione a qualche colpa di natura sessuale, come il racconto potrebbe suggerire a prima vista, ma in relazione al loro modo di essere e di rapportarsi con Dio, col prossimo e con se stessi. Come minimo, essi sono colpevoli di aver elaborato un piano per eliminare Gesù tendendogli un tranello astuto e malizioso e, forse, hanno commesso qualche ingiustizia anche nei confronti di quella donna; fatto sta che tutti, dal più anziano al più giovane (gli anziani sono assai più carichi sia di anni che di colpe più o meno gravi rispetto a chi è ancora giovane, sembra annotare maliziosamente l’evangelista), lasciano cadere dalle mani le pietre pronte a colpire la donna e, forse, anche lo stesso Gesù qualora avesse espresso un giudizio di assoluzione e, in silenzio, si allontanano col cuore appesantito ancor di più dalla loro malizia, mentre Gesù ha ripreso a scrivere per terra. La parola di Gesù ha trattenuto quegli uomini dal compiere un atto di violenza camuffato da senso di giustizia; essi rinunciano al linciaggio ed implicitamente confessano la loro miseria morale e spirituale. L’evangelista lascia in sospeso le conseguenze di quella “fuga” silenziosa dal luogo del mancato delitto; possiamo supporre, con un po’ di ottimismo, che per qualcuno di quegli uomini si sia verificato un inizio di conversione e di ravvedimento, mentre in altri si sarà maturata la convinzione di aver perso una buona occasione di eliminare “quel maledetto galileo”, capace di metterli ancora una volta nel sacco.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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