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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/07/2010 09:53
 
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Quelle di Gesù non sono semplici parole umane, ma sono parole divine di rivelazione (3,34; 8,47; 12,47ss), piene di Spirito e di vita (6,63.68) e sono pronunciate all’interno di un luogo sacro, in un posto accessibile a tutto il popolo come la “camera del tesoro” (gazofulakèion), citata anche da Mc 12,41.43 e da Lc 12,1 a proposito dell’obolo offerto dalla vedova. Quantunque i farisei siano decisissimi a toglierlo di mezzo, a Gesù non succede nulla di male perché l’ora della sua passione e morte non è ancora giunta, anche se si sta avvicinando a grandi passi.
Gesù continua la rivelazione ponendo l’accento sul distacco esistenziale ed ontologico esistente tra lui, il Rivelatore che viene da Dio (“dall’alto”) ed i suoi interlocutori umani, che appartengono a questo mondo materiale (“di quaggiù”), corrotto dal male.

21 Di nuovo Gesù disse loro: “Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire”. 22 Dicevano allora i giudei: “Forse si ucciderà, dal momento che dice: Dove vado io, voi non potete venire?”. 23 E diceva loro: “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. 24 Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”. 25 Gli dissero allora: “Tu chi sei?”. Gesù disse loro: “Proprio ciò che vi dico. 26 Avrei molte cose da dire e da giudicare sul vostro conto; ma colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui”. 27 Non capirono che egli parlava loro del Padre. 28 Disse allora Gesù: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. 29 Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite”. 30 A queste sue parole, molti credettero in lui.
La nuova fase del dibattito si apre con una dichiarazione di Gesù, che parla ancora della sua “partenza” e della vana ricerca dei giudei (cf. 7,33-34.36), ma con una nota minacciosa nel suo modo di parlare per enigmi: coloro che lo cercheranno inutilmente, perché non potranno raggiungerlo, moriranno “nel loro peccato”. Tale espressione è tipicamente biblica e significa che ciascun uomo è responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte di vita, per cui chi compie azioni inique va incontro inevitabilmente ad un destino di morte (cf. Dt 24,16; Ez 3,18-19; 18,24-26). Nel linguaggio teologico di Giovanni, il peccato coincide con il rifiuto radicale della rivelazione di Dio resasi manifesta in Gesù di Nazareth (9,41; 15,22.24; 16,9). Di questo peccato non si sono macchiati soltanto i giudei increduli, bensì tutti coloro che, complessivamente, costituiscono il “mondo” nella sua realtà negativa opposta al progetto salvifico di Dio Padre. Il culmine di questo rifiuto da parte del “mondo” è raggiunto con la condanna a morte di Gesù, la “luce” mandata da Dio per illuminare gli uomini. Nel loro infame tentativo di eliminare la “luce della vita”, gli oppositori di Gesù restano per sempre prigionieri delle tenebre della morte eterna. L’evangelista sottolinea il nesso tra il peccato di incredulità e la morte nel suo duplice aspetto: la morte di Gesù, il quale è respinto e rifiutato dagli uomini e la morte del peccatore, che si ostina a non credere in Lui.
I giudei fraintendono le parole di Gesù ed ironizzano in modo maligno sulla sua annunciata “partenza”. Con la sua ostinata opposizione alle autorità giudaiche, Gesù si è già condannato da solo alla morte di croce e si è, per così dire, suicidato; di certo, i giudei non vogliono fare la stessa fine di Gesù e se ne guardano bene dal seguirlo fino a quelle estreme conseguenze. Se Gesù ambisce di morire sulla croce infame, faccia pure: loro, i farisei e le autorità giudaiche, non sanno che farsene di un messia squilibrato che aspira al suicidio, considerato in seno al giudaismo come un peccato assai grave, tale da escludere il suicida dall’éone futuro.
Anche se Gesù va volontariamente incontro alla morte, per una scelta libera e personale di assoluta fedeltà a Dio Padre ed agli amici (10,17-18; 15,3), ciò non toglie che la sua condanna a morte sia il frutto di un conflitto e di un’ostilità religiosa nella quale si consuma il “peccato” dei giudei (e delle autorità di Roma). Gesù cerca di chiarire il significato vero del proprio sacrificio volontario facendo leva sulla propria origine, che non è “di questo mondo”: poiché Egli “viene” da Dio, la sua morte coincide col suo “ritorno” a Dio (16,28). Gesù non appartiene a questo mondo, come vi appartengono i suoi oppositori; Egli è “dall’alto” mentre essi sono “dal basso” (8,23) e tale contrapposizione spaziale esprime l’abissale distanza ontologica e spirituale che esiste tra Dio e l’uomo, espressa dalla realtà “carnale”, debole, fragile e peccatrice che caratterizza l’essere umano. Non solo l’uomo è carne e sangue (sàrx), ma è anche ostinatamente chiuso in se stesso ed ostile al dono gratuitamente ricevuto da Dio (1,13; 3,3.6.31.32). La radicalità del rifiuto della salvezza da parte degli uomini increduli viene resa dall’evangelista con l’espressione “questo mondo”, in evidente contrasto conflittuale con “l’altro” mondo, quello di lassù, dove tutto trova pienezza di vita e di senso perché tutto è illuminato dalla luce eterna di Dio (cf. 12,31; 16,11;17,14.16; 15,19).
Morirete nei vostri peccati. Il peccato radicale d’incredulità non rimane un’entità astratta, ma si concreta storicamente nella sconcertante molteplicità permanente dei peccati, commessi dall’uomo come conseguenza di un rifiuto esistenziale ad accogliere Gesù come “luce” del mondo e fonte di “vita” (8,24). Per liberarsi dalla stretta della morte dello spirito, di cui il peccato è la volontaria e consapevole premessa, l’uomo deve credere che Gesù è “Colui che era, che è e che sarà” (è questo il significato di YHWH, usualmente tradotto con “Io Sono colui che Sono”) in rapporto all’uomo ed all’intero universo creato. Per salvarsi, l’uomo deve accettare che Gesù Cristo è il “volto umano di Dio Salvatore e Redentore”. Sullo sfondo dell’auto-designazione di Gesù come “Io Sono”, stanno le formule dei testi biblici della rivelazione di Dio, il più noto dei quali è quello di Es 3, 14-15, dove la formula “Io Sono” è presentata come il nome del Dio dei padri, il Signore fedele che si fa presente e s’impegna a salvare il suo popolo (cf. anche Dt 32,39; Is 43,10ss). Solo così si spiega l’accanimento mostrato dalle autorità giudaiche di eliminare Gesù come bestemmiatore (cf. 18,28.31-32.35; 19,11.16).
Chi sei tu? I giudei hanno compreso benissimo che Gesù avanza una pretesa particolare, ma, poiché non credono, Egli rimane loro estraneo. Si potrebbe rendere la loro domanda come una provocazione: chi pretendi di essere? Gesù non risponde direttamente né vorrebbe dire altro di Sé a quegli ostinati avversari, ma fa un’affermazione che suona come una minaccia di giudizio e di condanna della loro ostinata incredulità. N’avrebbe di cose da dire sul loro conto, ma non è questo il motivo per cui Egli è venuto al mondo. Il suo compito è solo quello di annunciare la salvezza, non quello di pronunciare sentenze di condanna: per assumere questo suo legittimo ruolo di giudice escatologico c’è ancora tempo. Ora è il tempo dell’annuncio della salvezza, ma il tempo del giudizio è solo rimandato.
Anche a coloro che, di lì a poco, lo condanneranno a morte, Gesù offre la possibilità di salvarsi se nel crocifisso sapranno scorgere e riconoscere l’Inviato di Dio. L’evangelista invita i cristiani della sua comunità a non essere tentati di scorgere nella vicenda storica di Gesù Cristo il segno di un fallimento totale, frutto di un abbandono da parte di Dio, bensì la prova suprema del suo amore e della sua fedeltà a Dio Padre ed agli uomini, ossia il compimento pienamente riuscito della sua missione d’Inviato ultimo e definitivo di Dio (8,28-29). Non a caso l’evangelista conclude questa seconda sequenza del confronto fra Gesù ed i giudei con un’annotazione ottimistica: “molti credettero in lui”. Sembra quasi che l’evangelista voglia porre l’accento sul valore intrinseco della testimonianza che Gesù rende a se stesso ed anche al Padre, forte della relazione indistruttibile che Egli ha con YHWH, il Dio d’Israele. In questo caso, la reazione dei presenti sarebbe analoga a quella offerta dalle guardie, mandate ad arrestare Gesù, che ritornano dai loro capi e mandanti affermando che “nessun uomo ha mai parlato come parla costui” (7,46).
A questo punto inizia la terza ed ultima fase dello scontro verbale tra Gesù ed i giudei, la cui conclusione scontata è un nuovo tentativo di linciaggio ai danni di Gesù.

31 Gesù allora disse a quei giudei che avevano creduto in lui: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; 32 conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. 33 Gli risposero: “Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?”. 34 Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35 Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; 36 se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37 So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. 38 Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro”.
La nota redazionale, che introduce la terza fase del dibattito, sembra a prima vista fuori luogo. Com’è possibile che Gesù si rivolga a coloro che hanno creduto in Lui e che da loro riceva dapprima delle minacce e, poi, subisca dagli stessi “credenti” un tentativo di lapidazione? Evidentemente l’evangelista introduce nel dibattito una caratterizzazione della comunità giudeo-cristiana, a capo della quale si trova al momento della composizione del IV Vangelo e che sarebbe formata da “credenti” dalla fede alquanto instabile e tentennante. Questi individui sarebbero o dei giudeo-cristiani di tendenza giudaizzante, più portati a dare importanza alla Legge mosaica ed alle tradizioni religiose del passato, oppure di neoconvertiti inclini all’apostasia o di cristiani dissidenti (ce ne sono molti ancora oggi, convinti di possedere la verità nelle loro tasche!) o, ancora, di ex cristiani che hanno già di fatto abbandonato la fede in modo più o meno traumatico o polemico. Anche per tutti costoro l’evangelista ha composto il suo Vangelo, con lo scopo di sostenere la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, in forma perseverante ed ottenere la vita piena nel suo Nome (20,31). Questa pericope è pervasa da una tensione drammatica che è palpabile in tutto il Vangelo di Giovanni: Gesù non si fida dei credenti di Gerusalemme, ma diffida anche dei credenti della Galilea, affascinati in modo superficiale dai suoi miracoli, come pure di quei discepoli che entrano in crisi dopo il discorso sul pane di vita o di Giuda, uno dei prescelti, che lo tradirà di lì a breve per pochi denari e che Gesù designerà come un “diavolo” allo stesso modo degli pseudo “credenti” lì presenti (8,44), pronti a voltargli le spalle ed a tentare di ucciderlo alla prima occasione favorevole (8,59). Gli interlocutori contemporanei di Gesù hanno avuto una fede effimera ed ora sono pronti a schierarsi con coloro che rifiutano Gesù e lo fanno condannare; simili a costoro sono i cristiani della comunità di Giovanni, che corrono il rischio di abbandonare la fede in Gesù e che sono equiparati ai suoi assassini. A coloro che ascoltano ed accolgono la sua parola, Gesù rivolge un invito ed una promessa: l’invito alla perseveranza e la promessa della libertà nella verità (8,32). Chi crede in Gesù già possiede la luce della vita (8,12), di cui la verità è la premessa necessaria e la libertà il frutto inevitabile. Non basta avere fede per conseguire la vita attraverso la luce della verità e della libertà, ma occorre la perseveranza, senza la quale non si può essere veri discepoli di Gesù (cf. 15,4-16). La reciproca immanenza di Gesù nel Padre e nei credenti è la condizione necessaria per produrre frutti di vita e di verità (cf. 8,51.55) e superare il pericolo della schiavitù dal male, adombrato dall’incombente minaccia della morte eterna. Ai veri discepoli, Gesù promette il dono della piena rivelazione dell'amore salvifico del Padre, diventato realtà storica ed esistenziale nella propria Persona e, attraverso tale rivelazione, garantisce la libertà propria dei figli di Dio (“conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”). Nel linguaggio di Giovanni, la verità coincide con la Parola di Dio, rivelata ed attuata in Gesù di Nazareth al punto che Egli può presentarsi a pieno titolo come la Verità assoluta e vincolante, senza la quale è impossibile partecipare alla vita di Dio (14,6; 17,17). Per giungere alla verità “tutta intera” (16,13) occorre seguire un percorso obbligato, che prevede l’ascolto, l’accoglienza, l’assimilazione interiore e l’attuazione (3,21) della parola di Gesù, Parola eterna, viva e vivificante di Dio Padre.
In questo senso, Gesù è davvero la Verità, perché in Lui si realizzano il dono del Padre ed il suo disegno di salvezza (cf. Ap 3,7; 19,11) e si avverano le realtà annunciate dalla Legge (1,17). Gesù proclama le parole ascoltate dal Padre, che l’ha inviato (3,11; 8,26.40), ci fa conoscere quello che Egli conosce (1,18) e c’invita a credere con fede (3,12; 8,45-47) a Lui, che è la vera luce (1,9), il vero pane (6,48-51), la vera vita (11,24s). Innestato in Cristo (15,1-7), il credente, che “è dalla verità” (18,37; 1Gv 3,19; 2Ts 2,10-12), viene santificato da essa (17,17-19), vi dimora (8,31), vi cammina (2Gv 4; 3Gv 4), la fa (3,21), vi coopera (3Gv 8), adora il Padre in spirito e verità (4,23-24) ed è liberato dalla menzogna (8,44).
I giudei, come il solito, fraintendono il concetto di libertà e di liberazione ed a Gesù, che promette la libertà, essi obiettano di non essere mai stati schiavi di nessuno in virtù della loro appartenenza alla stirpe d’Abramo, grazie alla quale godono, per diritto di nascita, della libertà. L’ombra d’Abramo si allunga, in modo inquietante, sugli stessi giudei che lo invocano come origine della loro appartenenza “genetica” al Dio unico dell’universo; essere discendenti d’Abramo costituisce un privilegio, sbandierato quasi fosse un talismano che protegge il popolo eletto da ogni sciagura. Gesù intende dimostrare ai suoi interlocutori che la loro appartenenza alla stirpe d’Abramo non li preserva da un destino di morte e distruzione, se rifiutano di riconoscere in Lui l’Inviato di Dio, al quale persino Abramo ha reso testimonianza con la propria fede. Essere figli del patriarca Abramo significa vivere come lui, rivolti verso l’Unico da cui Israele riceve e riceverà la vita, ma i giudei hanno stravolto il significato della loro discendenza “etnica”, attribuendole un valore puramente storico-politico e dimenticando la dimensione spirituale della loro appartenenza al popolo che Dio si è scelto, attraverso la fede d’Abramo, per farsi conoscere a tutti i popoli come il Dio unico e vero, che tutti gli uomini devono amare ed adorare. Si può essere “geneticamente “ appartenenti alla grande famiglia d’Abramo, ma al tempo stesso, essere spiritualmente degli estranei al popolo eletto; una simile inquietante osservazione può essere fatta anche per tanti cristiani, che sono tali in virtù del battesimo ricevuto ma sono avversari e nemici di Cristo in forza di scelte di vita contrarie al Vangelo. Alla risentita replica dei giudei (“siamo discendenza di Abramo”), Gesù risponde con una breve sentenza, introdotta dal solenne duplice amen.
“In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”. La colpa di cui si macchiano i giudei, compromettendo la propria salvezza ed alla quale si riferisce Gesù, è la loro incapacità di riconoscere la presenza di Io Sono nel Maestro venuto dalla Galilea e presentatosi come colui che gode di una relazione unica con Dio, che Egli chiama Padre definendo se stesso come il Figlio. Poiché è Figlio di Dio, Gesù ha la vera e piena libertà di stare a proprio piacimento ed in modo stabile nella casa del Padre, mentre i suoi interlocutori, che sono schiavi del peccato, non possono vantare questo privilegio né possono accampare alcun diritto nei confronti di Dio. Gesù allude al diverso destino che segnò la vita di Isacco e di Ismaele; il primo era il figlio che Abramo aveva avuto da Sara, la donna libera e sposa legittima del patriarca, per cui aveva goduto tutti i privilegi propri dell’erede legittimo, mentre il secondo, frutto della relazione di Abramo con la schiava Agar, aveva dovuto lasciare la casa paterna, perdendo così ogni diritto di successione ereditaria (Gen 1,1-16; 21,10-21). Il testo greco rileva la dimensione eterna della residenza del Figlio nella casa del Padre (èis tòn aiòna, per sempre, per l’eternità) alludendo allo statuto nativo di colui che è il Figlio legittimo ed unico di Dio, nel quale si realizzano, in modo eminente, le promesse fatte alla discendenza d’Abramo. Gesù conclude la sua osservazione circa la propria libertà, in evidente contrasto con la schiavitù dei giudei, sentenziando che solo Lui è in grado di donare la libertà ai suoi discepoli, non solo facendo loro superare la minaccia di morte connessa col peccato d’incredulità, ma rendendoli partecipi del suo statuto filiale, assolutamente unico, con Dio.

39 Gli risposero: “Il nostro padre è Abramo”. Rispose Gesù: “Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! 40 Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l’ha fatto. 41 Voi fate le opere del padre vostro”. Gli risposero: “Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!”. 42 Disse loro Gesù: “Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. 43 Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, 44 voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. 45 A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. 46 Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? 47 Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio”.
Se i giudei fossero davvero figli di Abramo, come dicono di essere, non cercherebbero di uccidere Gesù ma, anzi, ne accoglierebbero la parola; la realtà dei fatti, invece, dimostra proprio il contrario. Le intenzioni omicide espresse dai giudei ai danni di Gesù confermerebbero un dato inequivocabile: essi sono figli del diavolo, non d’Abramo.
Ad una simile accusa, i giudei rispondono piccati a Gesù e dichiarano la loro fede in Dio, negando di essere “nati da prostituzione”. Nel linguaggio profetico, la prostituzione esprime l’infedeltà religiosa e l’idolatria (cf. Os 1,2 ss) ed i giudei sono profondamente offesi dalle parole di Gesù, che insinua una loro infedeltà esistenziale al Dio dell’Alleanza. Essi, al contrario, si considerano partecipi, a pieno titolo, dello statuto del popolo di Dio che è stato liberato dalla schiavitù dell’esilio, è divenuto partner dell’Alleanza ed è stato designato destinatario delle benedizioni divine. Alla presa di posizione dei giudei, che rivendicano per sé lo statuto di figli legittimi e membri fedeli dell’Alleanza, Gesù replica con una dura requisitoria per dimostrare che essi non sono figli di Dio, ma, al contrario, figli del diavolo, menzognero, padre della menzogna, omicida e nemico di Dio. Sono le “opere” compiute dai giudei a denunciare la loro vera natura ed origine. Il punto sul quale fa leva Gesù per sostenere la sua tesi è il rifiuto ottuso ed ostinato dei giudei a considerarlo come l’Inviato di Dio e suo portavoce autorevole, veritiero e definitivo. L’incredulità radicale dei giudei è definita con vari vocaboli, cari al linguaggio teologico di Giovanni: essi “non amano” Gesù (8,42), “non comprendono il suo linguaggio” (8,43), “non ascoltano la sua parola” (8,43.47) e “non gli credono” (8,45.46). Questa è la prova irrefutabile che essi “non sono da Dio” (8,47), perché chi è da Dio ascolta le parole di Dio (8,47). Uscito da Dio, Gesù si presenta nel suo nome e, nella sua qualità d’Inviato da Dio, dice in modo inconfondibile la verità di Dio, al punto che nessuno può confutarlo. Se i giudei lo contestano e non gli credono, allora vuol dire che essi sono estranei alla sfera d’influenza divina ed appartengono al nemico giurato di Dio: satana (o diavolo).
Per l’evangelista, il rifiuto radicale di Gesù e del suo Vangelo equivale alla suprema “menzogna” di colui che è maestro nel negare la verità ed è “padre” del male e del peccato. Il conflitto tra Dio ed il principe delle tenebre, satana, assume dimensioni di carattere universale ed è profondamente radicato nella storia dell’uomo (12,31; 13,2.27; 14,30; 16,11), che è sempre in bilico fra la luce e le tenebre; attratto dalla luce abbagliante della verità (Dio), spesso l’uomo si lascia ingannare dall’ingannevole illusione della tenebra (satana), all’ombra della quale cerca di nascondere i propri misfatti agli occhi di Dio. Ispiratore dell’omicida Caino, il diavolo è “padre della menzogna” perché è radicalmente estraneo al mondo di Dio ed al suo progetto di salvezza culminante in Gesù Cristo, che è la verità suprema dell’amore di Dio per gli uomini. Per ostacolare la Verità di Dio, satana non esita a ricorrere alla violenza omicida e cerca di estirpare dal cuore dell’uomo ogni anelito alla verità ed alla salvezza, ricorrendo alle armi più subdole a sua disposizione: la menzogna, l’inganno, l’alterazione sfacciata della realtà. Cercando di uccidere Gesù, i giudei rivelano la loro vera identità “diabolica”.
La reazione rabbiosa dei giudei non si fa attendere e la loro replica è astiosa ed offensiva. Essi ripagano Gesù con la stessa moneta e lo accusano, a loro volta, di essere posseduto da un demonio nel tentativo maldestro di delegittimare la sua missione e sminuire la sua autorevolezza di fronte al popolo d’Israele.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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