Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva

COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
Autore
Stampa | Notifica email    
07/07/2010 09:52
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

45 Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: “Perché non lo avete condotto?”. 46 Risposero le guardie: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo! ”. 47 Ma i farisei replicarono loro: “Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? 48 Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi o fra i farisei? 49 Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”. 50 Disse allora Nicodemo, uno di loro, che era venuto precedentemente da Gesù: 51 “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa? ”. 52 Gli risposero: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea ”.
I farisei reagiscono inviperiti al mancato arresto di Gesù, maledicendo le guardie perché si dichiarano ammirate dal modo di parlare di Gesù ed ingiuriando Nicodemo, un loro pari, che pone la questione relativa alla predicazione di Gesù su un piano giuridico e religioso assolutamente legale e di chiaro buon senso: la Legge di Mosè, tanto citata dai farisei, vieta di condannare un uomo senza giusto processo ed equo giudizio. Ma tant’è, i farisei hanno già da qualche tempo preso la decisione di eliminare quel “galileo” scomodo, forse indotti dal timore di perdere il loro potere religioso ed intellettuale: chi non appartiene alla loro scelta schiera di “intenditori” della Legge è un “maledetto”. L’episodio squalifica, de facto, i giudici di Gesù, accusati dall’evangelista di essere dei faziosi e dei prevenuti in malafede. Per bocca delle guardie, persone generalmente rozze e poco istruite ma abili nel maneggiare le armi e pronte ad obbedire agli ordini ricevuti senza farsi tanti scrupoli morali, emerge con grande rilievo psicologico il contrasto tra la Parola di Dio, “fattasi carne” (1,14) per essere meglio compresa dagli uomini (“mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo! ”) e le “parole” degli uomini (i farisei), che esprimono arroganza e presunzione. Un uomo come Gesù viene squalificato dai farisei come “profeta” non perché non sappia parlare a nome di Dio, ma perché è di origine galilaica! Il pregiudizio etnico, religioso e culturale acceca l’intelligenza dell’uomo, che non sa più distinguere tra ciò che “è” e ciò che “appare”. Dalle parole, pronunciate con tanta ammirazione dalle guardie, emerge anche un’altra sottolineatura evidente: la forza bruta (le guardie) è più debole della forza della Parola (Gesù). Come afferma s. Paolo, (2Tm 2,9): “la Parola di Dio non è incatenata” ed è impossibile arrestarla (“alcuni volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise la mani addosso”) o piegarla alle egoistiche esigenze umane, anche se Dio sa quanti uomini più o meno famosi hanno tentato, nel corso della storia, di appropriarsi della Parola di Dio per dare una patente di autorevolezza e di dignità alle loro azioni malvagie. Il grido “Dio è con noi” è risuonato sulla bocca di molti assassini, che hanno voluto o preteso di giustificare come giusti dei massacri iniqui ed esecrabili, in netto contrasto con la Parola mite, misericordiosa, pacificatrice e perdonante di Dio.
I farisei usano la forza e ricorrono astutamente all’argomento più ovvio per esercitare la loro pressione sulla coscienza del popolo “ignorante”: la conoscenza minuziosa e pedante di tutta la Legge conferisce loro una riconosciuta autorità in campo intellettuale, religioso e morale e li autorizza a “maledire” chi non è in grado di osservare, come loro, le minuzie legali. I farisei sono l’esemplificazione di chi è pronto a tradire lo spirito della Legge divina per cullarsi nelle certezze rassicuranti della legalità, basata sulle eccezioni alle eccezioni della Legge (legalismo). Ai farisei “ipocriti”, preoccupati più di apparire che di essere, Gesù non ha mai risparmiato i suoi aspri rimproveri, essendo in grado di “leggere” nel profondo del loro cuore le vere intenzioni sottese alle loro azioni, spacciate per virtuose e smascherate da Gesù come inique e malvagie. Per i farisei è giunto il momento di presentare a Gesù il conto della loro vendetta.
L’anatema sul popolino, troppo sprovveduto per osservare integralmente la Legge, non è una trovata dell’evangelista per giustificare l’indignazione dei farisei, ma un comportamento assai ben attestato dalla letteratura rabbinica, secondo la quale la conoscenza della Legge è assai superiore alla pratica di quanto è in essa contenuto. Riconoscendo a Gesù un modo di parlare che non ha eguali, le guardie si collocano tra coloro che hanno a cuore la volontà di Dio (7,17), ma per i notabili ebrei la conoscenza della Legge è oggetto di una scienza riservata alla loro casta, mentre, al contrario, essa dovrebbe essere la Legge che esige da loro di agire con giustizia e di discernere le vie di Dio. È quanto rimprovera loro con molto garbo e tatto Nicodemo, secondo cui la Legge sta al di sopra d’ogni pregiudizio umano. In questo senso, Nicodemo dimostra di essere un miglior conoscitore dello spirito della Legge rispetto ai suoi compari farisei. Il senso del suo intervento è ovvio: prima di giudicare occorre ascoltare l’accusato e conoscere i fatti. I verbi messi in bocca a Nicodemo dall’evangelista Giovanni, però, andrebbero valutati secondo una prospettiva teologica che risulta un po’ differente rispetto a quella giuridica, come sarebbe ovvio attendersi ad una lettura superficiale del testo. Infatti, secondo gli esperti nella Torâh non si fa cenno ad un’audizione dell’imputato durante una procedura processuale, bensì all’audizione dei testimoni a carico. Ascoltare, sapere (conoscere) e fare sono verbi usati dall’evangelista con significati teologicamente assai pregnanti.
Ascoltare (in greco, akùein) è spesso usato da Giovanni col significato di un ascolto spirituale, che conduce ad un’accoglienza di fede ed ha, pertanto, un significato simile a quello di credere. L’implicita accusa, fatta da Nicodemo ai farisei, è di una preclusione intellettuale e spirituale ad avere fede in Gesù a causa della loro arroganza. I farisei non solo non ascoltano, non hanno fede, ma neppure sono disposti ad ascoltare ed a credere.
Sapere, o l’equivalente conoscere, significa saper cogliere la rivelazione che promana dall’agire di Gesù, il cui valore specifico consiste nel fare o compiere l’opera del Padre (i “segni”).
Solo chi sa ascoltare, cioè accogliere la Parola di Dio (Gesù Cristo), è in grado di conoscere la relazione intima tra Dio e Gesù e può, con buon diritto, pronunciarsi su Gesù giudicandolo dalle opere che Egli compie. Sembra di poter leggere, nelle parole di Nicodemo, il cammino di fede compiuto da quest’uomo onesto dalla notte dell’incontro col Maestro (3,1-21) venuto dalla lontana e mal tollerata terra di Galilea, una regione che i presuntuosi giudei giudicavano “impura” per la sua vicinanza con le popolazioni pagane. Dopo l’incontro notturno con Gesù, Nicodemo si è aperto alla lettura della Legge da interpretare come un cammino interiore, che conduce al mistero di Cristo (5,46ss). Se la questione sollevata da Nicodemo può essere letta in senso apparente o reale, certamente l’evangelista mira al solo senso reale: i farisei trasgrediscono la Legge, in nome della quale condannano Gesù, non tanto perché violano la procedura giuridica quivi contenuta, ma perché sono sordi al messaggio che essa contiene: essere propedeutica all’incontro di fede con Cristo Gesù.
La replica dei farisei a Nicodemo è astiosa ed insieme pretestuosa; ad un loro pari, essi ordinano di “studiare” la Scrittura e di mettersi il cuore in pace, perché dalla Galilea non può venire profeta alcuno (anche se ciò non è vero, visto che il profeta Giona ben Amittai era originario di una località a 5 km da Nazareth, come riferito in 2Re 14,25). Forse i farisei non fanno riferimento ad un profeta generico, ma al Profeta preannunciato da Mosè (Dt 18,15) come suo degno successore e pari a lui in autorità e carisma profetico.
Invitando Nicodemo a studiare bene le Sacre Scritture, i farisei condannano se stessi e la loro presuntuosa conoscenza della Legge. Nonostante il loro “scrutare” la Parola di Dio, non hanno capito nulla di ciò che essa ha “detto” agli uomini e sono rimasti prigionieri della loro “maledetta ignoranza” di Dio.

Io sono
(Gv 8,12-59)

Il capitolo 8 è tra i più discussi dell’intero testo evangelico di Giovanni. Esso presenta il seguito dell’insegnamento iniziato da Gesù durante la feste delle Capanne ed interrotto, dal punto di vista narrativo, dall’episodio assai controverso dell’adultera salvata da Gesù da un sicuro linciaggio mediante lapidazione (7,53-8,11).
Gesù sta insegnando all’interno dell’area sacra del Tempio, presso la camera del tesoro, adiacente alla spianata riservata alle donne. La sala del tesoro del Tempio era un luogo chiuso ed inaccessibile al pubblico (Ne 10,39; Mt 27,6) ma tutti i giudei, donne comprese, avevano accesso ai tredici recipienti a forma di tromba, in cui venivano raccolti i doni e le offerte da destinare al culto ed ai sacrifici. In occasione della festa delle Capanne venivano eretti, nell’atrio delle donne quattro enormi lampadari d’oro e nelle loro grandi coppe d’oro veniva versata una grande quantità di olio (circa 65 litri per ogni lampadario). I lampadari sopravanzavano le mura di cinta del tempio e, durante la notte, essi diffondevano la loro luce su tutta Gerusalemme, illuminandola quasi a giorno. Oltre che dalla luce, la Città Santa era rallegrata dai canti e dal suono dei cembali, delle arpe e delle cetre che ritmavano le danze degli uomini, nelle cui mani brillavano le torce accese e le cui movenze contribuivano a creare un clima di festa e di giubilo collettivo e, nello stesso tempo, a fornire uno spettacolare gioco di luci.
Il clima gioioso della festa viene in qualche modo guastato da una disputa drammatica tra Gesù ed i farisei, all’improvviso rimpiazzati dai “giudei” ostili al rabbì venuto dalla Galilea.
Gv 8,12-59 si presenta come una grande inclusione racchiusa dalla solenne auto-rivelazione di Gesù, che afferma di essere “IO SONO”, ovvero la rivelazione umana di YHWH, il Dio di Israele, il cui sacro Nome è impronunciabile e generalmente sostituito da appellativi alternativi (come Adonàj, Signore, oppure El Shaddàj, l’Onnipotente, oppure ancora come il Santo di Israele o l’Altissimo).
Il capitolo 8 racchiude, secondo gli esperti, diverse tradizioni, confluite in unità letterarie che il redattore finale ha cercato di armonizzare, creando un dibattito dalle forti tinte espressive ed assimilabile ad un processo consumato ai danni di Gesù, che per un soffio si sottrae ad un linciaggio per lapidazione, tipo di esecuzione capitale prevista per i bestemmiatori.
L’intero capitolo, pertanto, potrebbe essere intitolato “IO SONO” (in greco Egò eimi, 8,12.58), ma tale espressione va intesa correttamente. Gesù dichiara di non “essere” se non mediante Dio, con il quale è in relazione costitutiva. In tal modo, l’Io di Gesù diventa esemplare per ogni uomo: se la fede richiesta ha per oggetto non solo la parola che Gesù pronuncia da parte di Dio ma la sua stessa persona, è perché il discepolo deve riconoscere in Lui il Figlio e quello che egli stesso è chiamato a diventare. Il lettore si trova alla presenza del Lògos di Dio, che si esprime in Gesù di Nazareth. A ben vedere, il capitolo 8 del IV Vangelo fa da contraltare al Prologo.
Dal punto di vista della forma, questo capitolo non è un vero e proprio dialogo, se per dialogo s’intende una ricerca serena della verità sia pure sotto la guida di un saggio che “sa”, ma il testo si presenta come un susseguirsi di confronti serrati, che mettono Gesù non solo di fronte a dei malintesi, ma ad un’opposizione sistematica e ad un’incomprensione sostanziale tra Lui ed i suoi interlocutori, quantunque da una parte e dall’altra si faccia uso di un linguaggio che appartiene ad una medesima tradizione culturale e religiosa, quella d’Israele. Ad un certo punto del confronto serrato, Gesù è costretto a prendere atto dell’incomunicabilità esistente tra Lui ed i suoi avversari giudei: “Perché non comprendete il mio linguaggio?” (8,43), chiede sconsolato ai suoi uditori rigidamente fermi sulle loro posizioni ed incapaci di afferrare il senso delle sue parole. Al culmine del rifiuto del mistero racchiuso in Gesù, si verifica il tentativo del linciaggio, che obbliga Gesù a “ritirarsi” e ad “abbandonare” il Tempio, fatto di una valenza simbolica inquietante (cf. Ez 10,18-22).
Occorre precisare che il testo evangelico riflette la situazione storica e l’ambiente vitale (Sitz im Leben) della comunità cristiana guidata dall’apostolo Giovanni, alcuni membri della quale, specie quelli di provenienza giudaica (i cosiddetti giudeo-cristiani), avvertivano acuto il disagio per essere stati estromessi dalla sinagoga e “maledetti” come eretici dal loro popolo di appartenenza, per aver voltato le spalle alla Legge mosaica ed aver scommesso il proprio futuro seguendo le orme dell’Uomo-Dio. Molti di questi cristiani tentennanti e nostalgici del giudaismo erano seriamente tentati di abiurare la nuova fede e rientrare nell’alveo rassicurante della fede dei padri. Le dure parole pronunciate da Gesù contro i farisei ed i giudei nel Tempio di Gerusalemme sembrano suonare come un monito severo di condanna nei confronti di coloro che sono pronti a tradirlo ed a respingere il dono della salvezza, cadendo nelle mani di Satana e diventandone “figli e schiavi”.

8,12 Di nuovo Gesù parlò loro: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”.
Nel Nuovo Testamento, il tema della luce si sviluppa secondo tre linee principali:
1-come il sole illumina una strada, così è “luce” tutto quello che rischiara la strada che conduce verso Dio; un tempo erano la Legge, la sapienza e la Parola di Dio (Qo 2,13; Pr 4,18-19; 6,23; Sal 119,105), ora è il Cristo (Gv 1,9; 9,1-39; 12,35; 1Gv 2,8-11; Mt 17,2; 2Cor 4,6), paragonabile alla nube luminosa dell’esodo (Gv 18,12; Es 13,21ss; Sap 18,3ss), ma anche ogni cristiano che manifesta Dio agli occhi del mondo (Mt 5,14-16; Lc 8,16; Rm 2,19; Fil 2,15; Ap 21,24);
2-la luce è simbolo di vita, di felicità e di gioia, mentre le tenebre sono simbolo di morte, di sventura e di lacrime (Gb30,26; Is 45,7; Sal 17,15+). Alle tenebre della prigionia si oppone la luce della liberazione e della salvezza messianica (Is 8,22-9,1; Mt 4,16; Lc 1,79; Rm 13,11-12), che raggiunge anche le nazioni pagane (Lc 2,32; At 13,47) mediante il Cristo-luce (cf. i testi di Gv citati sopra; cf. anche Ef 5,14), per consumarsi nel regno dei cieli (Mt 8,12; 22,13; 25,30; Ap 22,5);
3-il dualismo luce-tenebre caratterizza i due mondi opposti del bene e del male. Nel Nuovo Testamento affiorano i due “imperi”, sottomessi l’uno al dominio di Cristo e l’altro a quello di Satana (2Cor 6,14-15; Col 1,12-13; At 26,18; 1Pt 2,9). L’uno cerca di sconfiggere l’altro (Lc 22,53; Gv 13,27-30), mentre gli uomini si dividono in “figli della luce” e “figli delle tenebre” (Lc 16,8; 1Ts 5,4-5; Ef 5,7-8; Gv 12,36) secondo che vivano sotto l’influenza della luce (Cristo) o delle tenebre (Satana) facendosi riconoscere tramite le opere che compiono (Mt 6,23; 1Ts 5,4s; 1Gv 1,6-7; 2,9-10; Rm 13,12-14; Ef 5,8-11). Tale separazione o “giudizio” (in greco, krìsis) tra gli uomini si è resa manifesta con la venuta della luce, che obbliga ciascuno a pronunciarsi per o contro di essa (Gv 3,19-21; 7,7; 9,39; 12,46; Ef 5,12-13). La prospettiva resta ottimistica: le tenebre dovranno un giorno sparire davanti alla potenza invincibile della luce (Gv 1,5; 1Gv 2,8; Rm 13,12).
Di nuovo. Con quest’avverbio di tempo, l’evangelista si ricollega al dibattito contenuto nella pericope 7,14-52 di cui l’inserimento dell’episodio dell’adultera, molto probabilmente appartenente alla tradizione sinottica e non del tutto coerente con il linguaggio teologico proprio di Giovanni, ha interrotto in qualche modo il filo logico. Come tutti gli ebrei che affollavano Gerusalemme in occasione della festività delle Capanne, anche Gesù osservava ammirato la spettacolare illuminazione della città per opera dei grandi bracieri che erano stati eretti nell’atrio del Tempio riservato alle donne. Gesù, però, ha la consapevolezza d’essere assai superiore alla luce della festa notturna, che illumina e rallegra tutta Gerusalemme; Egli è la “luce” che illumina il mondo intero. Nella sua coscienza è maturato il superamento dei confini del mondo giudaico (11,52) e si è sviluppata la convinzione di essere venuto al mondo come luce escatologica (3,19; 12,46) per donare a tutti gli uomini la luce e la vita. Fin dal “principio”, cioè dall’eternità, il Lògos era la luce degli uomini (1,4) ma, con la sua venuta storica, diventa tale in modo unico e speciale (1,9).
Io sono la luce del mondo. Il ruolo rivelatore e salvifico di Gesù è definito dalla formula d’auto-presentazione tipica del Dio d’Israele, YHWH (“Io sono”) e dal simbolo evocatore della luce, senza la quale il mondo sarebbe perennemente immerso nelle “tenebre” del nulla esistenziale, della malvagità, dell’ignoranza, della totale assenza di qualsiasi progetto di vita. C’è una stretta correlazione tra la “luce” e la “vita” (1,4.9-10), intesa non tanto in senso biologico (bìos) quanto piuttosto in senso ontologico, esistenziale (zoè) ed attributo costitutivo dell’eterno Vivente (Dio), origine e fine d’ogni esistenza. Coloro che ascoltano la rivelazione di Cristo, Parola eterna del Dio vivente “diventata carne” nell’Uomo-Gesù e credono in Lui, diventano “figli della luce” (12,36). L’attività storica del rivelatore si è assoggettata al dominio del tempo materiale, di cui il sole, luce di questo mondo, scandisce il fluire delle ore, dei giorni e delle stagioni (9,4ss; 11,9ss), ma il tempo riservato alla dimensione umana della Parola di Dio sta per scadere, perciò Gesù sollecita i suoi interlocutori ad affrettarsi a prendere una decisione di fronte alla rivelazione.
Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita. La seconda parte della frase d’auto-rivelazione annuncia una promessa, formulata dapprima in forma negativa (“non camminerà nelle tenebre”) e poi in forma positiva (“ma avrà la luce della vita”), sottolineando il forte contrasto esistente tra la luce, che proviene dall’alto, cioè da Dio e le tenebre, che soffocano ed uccidono nella loro incredulità coloro che abitano in basso, nel regno di satana (1,5; 8,23). Per gli gnostici esisteva una duplice realtà metafisica, l’una soggetta al Dio del bene e destinata alla salvezza, in virtù della conoscenza della propria appartenenza al regno della luce e l’altra, invece, soggiogata al Dio del male e destinata alla distruzione totale. Per Giovanni il dualismo luce-tenebre non si consuma sul piano metafisico, bensì su quello storico ed umano della decisione a favore o contro la parola del Redentore. La fede in Gesù Cristo viene espressa dal verbo “seguire” (“chi segue me”), assai usato dalla tradizione sinottica per indicare dapprima la vocazione dei discepoli e poi quella degli ascoltatori di ogni tempo a diventare dei credenti in Cristo e suoi imitatori. La sequenza dinamica della fede si basa su queste tappe fondamentali: chiamata (o vocazione) da parte di Dio, sequela messa in atto liberamente e consapevolmente da parte dei chiamati, imitazione del Maestro divino da parte dei discepoli, ingresso nel regno della luce da parte di coloro che sono rimasti fedeli alla vocazione ed hanno creduto nonostante le avversità della vita e gli attacchi provenienti dal regno del male (“non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”). Rispetto ai Sinottici, secondo i quali la sequela era originariamente da intendersi come una chiamata di singoli uomini ad unirsi a Gesù in una comunione più stretta e, successivamente, fu estesa dagli stessi evangelisti alla situazione degli ascoltatori dei tempi futuri, Giovanni ha compiuto un passo ulteriore ed ha equiparato la sequela di Gesù all’unione di fede con Lui, possibile in ogni tempo e richiesta a ciascun uomo per la sua salvezza. Seguire Cristo compiendo un cammino di fede implica la volontà di non retrocedere di fronte alle difficoltà, neppure di fronte al martirio di sangue (13,36ss; 21,19.22); la morte, intesa non solo in senso fisico, bensì anche in senso metafisico (cioè come morte a se stessi, ai propri istinti primordiali) diventa quasi un passaggio obbligato per raggiungere Cristo nella gloria (12,26). Per seguire Cristo ed avere fede in Lui occorre saper ascoltare, nella più totale obbedienza, la voce del Rivelatore, dimostrando nei fatti di appartenere a Lui solo (10,4.5.27). Giovanni ha elaborato questo pensiero ponendo l’accento sul contrasto stridente tra luce (phòs) e tenebra (skotìa), vocabolo tipico dell’autore del IV Vangelo.
Camminare nelle tenebre non è espressione da intendersi esclusivamente in senso etico (come in 1Gv 2,11), ma anche in senso esistenziale; senza la luce della vita divina e della rivelazione salvifica, l’uomo non ha né meta né direzione e non sa dove va (12,35). Lontano da Dio, l’uomo non ha più speranza ed è abbandonato al suo destino mortale, cadendo nella sfera della morte eterna. In questo senso, il verbo “camminare” (cf. anche 11,9ss; 12,35; 1Gv 1,6ss; 2,11) è rigorosamente mutuato dal pensiero giudaico, che considera la vita dell’uomo un camminare sotto la guida e la disposizione di Dio, sotto il suo appello od il suo comandamento.
A chi si unisce a Lui nella fede, Gesù promette la luce della vita (zoè) eterna nella sfera divina della luce (cf. 1Gv 1,7) mediante la partecipazione all’eterna vita di Dio. Il verbo avere espresso al futuro (“avrà”) appartiene al linguaggio tipico della promessa, che è garantita da Dio in persona: ciò che Dio promette è già di per sé una certezza perché il contenuto delle sue promesse non si realizzerà in un futuro lontano ed incerto, ma piuttosto in un futuro immediato e non avrà mai fine. Chi crede ha già “ora” in pegno la vita eterna (3,16) ed ha la garanzia che vivrà in eterno (6,51.58; 8,15ss; 10,28; 11,26). La parola di Gesù suona come un invito, rivolto a ciascun uomo, a trovare una via d’uscita dalla propria esistenza misera e miserabile seguendolo e confidando in Lui che, grazie alla propria esaltazione sulla croce, ha ricevuto dal Padre il potere di condurre i suoi là dove Egli stesso è per l’eternità (cioè presso il Padre; cf. 12,26; 14,3; 17,24).

13 Gli dissero allora i farisei: “Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera”. 14 Gesù rispose: “Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado. 15 Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. 16 E anche se giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. 17 Nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera: 18 orbene, sono io che do testimonianza di me stesso, ma anche il Padre che mi ha mandato mi dà testimonianza”. 19 Gli dissero allora: “Dov’è tuo Padre?”. Rispose Gesù: “Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”. 20 Queste parole Gesù le pronunziò nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora giunta la sua ora.
Il dibattito vero e proprio inizia con l’intervento dei farisei, che sollevano un’obiezione di carattere giuridico. Essi si soffermano sulla pretesa di Gesù d’essere portatore di luce e donatore di vita e s’inquietano soprattutto di fronte alla formula teofanica da Lui usata (“Io sono”; cf. anche i vv.24.28.58). Sulla base di un principio che affonda le proprie radici nella legislazione biblica e che si prolunga nella giurisdizione ebraica, i farisei rinfacciano a Gesù l’uso improprio di una testimonianza condotta a proprio favore. Gesù respinge l’obiezione dei farisei con una duplice argomentazione, tesa a confermare la validità e legittimità della sua testimonianza riguardo alla sua missione: in primo luogo, Egli è l’unico autorizzato a rendere testimonianza su se stesso perché sa da dove viene e dove va, quindi le credenziali per la sua autotestimonianza coincidono con quelle della sua missione e questa, a sua volta, definisce la sua identità; in secondo luogo, la presenza di una seconda Persona, quella del Padre, rende assolutamente legale il valore della testimonianza che Gesù rende di se stesso. Strettamente connesso al tema della testimonianza, emerge anche la tematica del giudizio (divino sugli uomini).
I farisei, come tutti quelli che si trovano fuori della prospettiva della fede in Cristo, giudicano Gesù secondo criteri storici umani (“voi giudicate secondo la carne”), sia pure ispirati ai modelli religiosi del proprio ambiente culturale e religioso. I suoi contraddittori si arrogano il diritto di giudicarlo da uomini, quali sono, senza essere minimamente legittimati a farlo, perché l’origine divina di Gesù lo sottrae al giudizio improprio ed illegittimo degli esseri umani. Gesù trae da Dio il suo diritto ed il giudizio umano non lo tocca affatto, anche se, sul piano storico, il giudizio degli uomini coincide con una condanna di Gesù alla morte di croce. Mentre gli uomini s’ingegnano in tutti i modi di giudicarlo e condannarlo a morte, Gesù dichiara che esulano dalla sua missione il giudizio e la condanna degli uomini (“io non giudico nessuno”; cf. anche 3,17), anche se la sua parola provoca nei suoi ascoltatori una decisione (krìsis), che rende palese il giudizio di Dio (3,18; 9,39; 12,47-48). Il giudizio di Gesù, pertanto, è autentico ed efficace perché Egli partecipa, per propria natura, al giudizio di Dio Padre, dal quale è stato inviato in missione tra gli uomini (5,22.27). Con questo rimando al Padre, autentico garante dell’attività giudiziale di Gesù, viene preparato il terreno per la ripresa e la conclusione del dibattito circa la legittimità della testimonianza. Anche a rigor di legge, la testimonianza di Gesù è valida ed autentica perché fondata sulla deposizione concorde di due testimoni: la sua e quella del Padre che lo ha inviato.
Anche se Egli rende testimonianza a se stesso, la sua testimonianza è vera e valida perché dotato di una conoscenza chiara, la qualità più importante di un testimone. Gesù, infatti, sa qual è la sua origine e quale la sua meta, per questo conosce veramente e pienamente se stesso e può, quindi, parlare di sé con pieno diritto anche sul piano strettamente giuridico. Egli è il solo che “viene dall’alto”, dal regno celeste di Dio, quindi può “attestare” ciò che ha veduto ed udito (3,31ss), mentre nessun altro può fare altrettanto. Per questo la rivelazione di Gesù deve essere necessariamente un’autotestimonianza. In Dio Padre risiedono la sua origine e la sua meta finale, ma, quale suo Inviato, Gesù deve “parlare al mondo” di ciò che “ha udito da Lui” (8,26). Se le sue parole fossero dette da un semplice uomo, sarebbero segno di grandissima e sfacciata presunzione, ma dette da Lui, che è il Rivelatore escatologico e l’unico deputato a riportare le notizie su Dio, tali parole non possono essere diverse, comprese quelle riguardanti la testimonianza resa a se stesso. Gesù non può che riferire le “parole” di Dio suo Padre, anche se gli increduli non possono o non vogliono comprenderle (8, 25.43.46ss).
Chi cerca nel IV Vangelo l’immagine di un Gesù terreno edulcorato o “addomesticato” a proprio uso e consumo, rimane deluso ed urtato dall’intransigente linguaggio del Cristo giovanneo.
I farisei, però, non demordono e, da buoni conoscitori della Legge e di tutte le sfumature giuridiche in essa contenute, considerano pretestuose le argomentazioni prodotte da Gesù per giustificare la validità della sua autotestimonianza. Secondo la Legge, infatti, l’imputato non può testimoniare su se stesso né tanto meno suo padre, sicché si comprende la domanda successiva: “Dov’è tuo Padre?”. A prima vista, potrebbe sembrare una richiesta piuttosto logica e legittima: ai farisei non dispiacerebbe per nulla mettere a confronto le affermazioni del padre e del figlio e smascherare le menzogne di quest’ultimo, ma Gesù sposta la loro attenzione sul legame strettissimo che lo lega al Padre, tanto che la conoscenza del Figlio comporta necessariamente anche quella del Padre. I farisei sono perplessi, perché sfugge loro la reale consistenza del Padre, invisibile ai loro occhi ma reale, incontestabile e ben visibile per Gesù (cf. 7,28). L’accusa che Gesù rivolge ai farisei in questo caso specifico ed ai giudei in senso più generale (7,28; 8,55) è piuttosto evidente: essi non “conoscono” Dio, pur essendo convinti del contrario, perché non hanno riconosciuto il suo Inviato e lo hanno, anzi, respinto. Ogni presunta conoscenza di Dio e della salvezza diventa impressionante e colpevole ignoranza se non si crede in colui che ha la vera conoscenza di Dio e che può rivelare la via della salvezza, cioè suo Figlio. Questa “ignoranza” di Dio da parte degli uomini in senso generale e da parte delle autorità religiose del mondo giudaico, in particolare, è indicata dall’evangelista come la causa principale delle persecuzioni subite dai discepoli di Gesù (15,21).
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi
Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
*****************************************
Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra | Regolamento | Privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 07:20. Versione: Stampabile | Mobile - © 2000-2024 www.freeforumzone.com