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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/07/2010 09:50
 
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63 E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita. 64 Ma vi sono alcuni tra voi che non credono”. Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65 E continuò: “ Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”. 66 Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
Tra Gesù e lo Spirito c’è un vincolo assai stretto; il Figlio in cui dimora lo Spirito (1,33), fonte della nuova nascita (3,3-8), ha ricevuto da lui il potere di dare la vita (5,21). Adesso, colui che “dà lo Spirito senza misura” identifica le sue parole con il dono dello Spirito (6,63; cf. anche 3,34). C’è identità tra lo Spirito e la vita, così come risulta evidente l’affinità tra la “carne” e la morte.
Secondo la tradizione biblica, la “carne” designa la condizione terrestre dell’uomo nella sua tragica precarietà: solo il soffio di Dio può dare consistenza e significato al suo essere (Gen 2,7; 6,3.17; Nm 16,22; 27,16; Sal 104,29s; 146,4, Rm 8,11; 1Cor 15,45; 2Cor 3,17; Gv 4,24). Messa in relazione con lo Spirito, la “carne” esprime l’incapacità dell’uomo di comprendere la Parola di Dio nonché la sua presuntuosa inclinazione a giudicare secondo le apparenze e non secondo la sostanza vera delle cose (7,24; 8,15). Ora, gli interlocutori di Gesù si limitano all’evidenza della realtà e non sono disposti a lasciarsi guidare dallo Spirito, che li condurrebbe alla comprensione del messaggio di vita racchiuso nelle parole di Gesù, il quale offre la sua “carne per la vita del mondo”. Per i giudei vale solo il senso letterale e non quello spirituale dell’intero discorso di Gesù e rimangono bloccati nella loro incredulità, come quei cristiani che non riescono ad attualizzare l’incontro con il Signore risorto e vivente mediante un’assidua vita sacramentale perché indifferenti all’azione dello Spirito (cf, 1Cor 11,17-34).
Le parole di Gesù “sono Spirito e vita”: l’evangelista sembra voler sottolineare come l’uno e l’altra abbiano un valore proprio, ma tale formulazione andrebbe intesa più propriamente come un’endiadi. Le parole di Gesù sono, allora, da collocare nel raggio d’azione dello Spirito, che dà la vita e che fa risaltare la natura spirituale delle parole provenienti dalla Parola stessa di Dio fattasi “carne”. La chiave d’interpretazione del discorso (lògos) sul Pane di vita è l’ascolto delle parole dette da Gesù accogliendo dentro di noi la potenza dello Spirito, da cui dipende la nuova nascita (3,5-8) e la comprensione del messaggio di salvezza, che proviene da Dio mediante il Figlio. C’è un’interazione dinamica tra le parole pronunciate da Gesù e l’azione vivificante dello Spirito: le parole di Gesù vengono “dall’alto” e producono la vita nel senso più vero e pieno, come tra poco saprà comprendere molto bene Pietro, dalla cui bocca usciranno parole di fede e di piena adesione al mistero racchiuso nella Persona di Gesù: “Signore, tu ha parole di vita eterna”.
Non appena Gesù ha elevato il tono del discorso, concentrando l’attenzione dei presenti sulla figura e sull’azione dello Spirito, ecco allungarsi sul dibattito l’ombra inquietante del rifiuto e del tradimento. Colui che si presenta come il Rivelatore del Padre deve fare i conti con la libertà dell’uomo, che può respingere in blocco il contenuto della Rivelazione di Dio e chi la incarna. Tra coloro che assumono un atteggiamento di radicale incredulità c’è anche un “traditore”, che Gesù conosce molto bene “fin da principio” e che funge da catalizzatore d’ogni atteggiamento d’opposizione umana al progetto di Dio. Il traditore simboleggia non solo coloro che rifiutano la fede, ma anche coloro che la combattono per estirparla dalla coscienza degli uomini. Gesù non esprime parole di condanna nei confronti degli increduli e neppure nei confronti del traditore; consapevole del proprio destino, Egli lo padroneggia e lo accetta, consapevolmente e volontariamente, in forza della sua prescienza, collocando in Dio Padre il mistero della libertà umana, capace di esprimere in piena autonomia l’accettazione od il rifiuto della Persona del Figlio di Dio: “Nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”. Viene così sottolineata con forza l’azione della grazia divina nel suscitare la fede nell’uomo (azione storicamente rifiutata dai pelagiani e dai semipelagiani). Attraverso queste parole l’evangelista propone ai cristiani della sua comunità di non giudicare il rifiuto di Gesù da parte dei fratelli ebrei e di rimettersi, come Gesù, al segreto del Padre, che tutto sa ed al quale solo compete il giudizio.
A questo punto, molti discepoli se ne vanno ed abbandonano il Maestro al suo destino. Allontanandosi, i discepoli danno sostanza al loro distacco interiore ed alla responsabilità degli uomini nella condanna a morte di Gesù.

67 Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?”. 68 Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; 69 noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. 70 Rispose Gesù: “Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!”. 71 Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici.
Attorno a Gesù si è creato un vuoto pauroso; i “giudei” e molti discepoli si ritirano e Gesù rimane solo coi Dodici (undici, visto che uno sta già progettando il tradimento in cambio di denaro, che per questo viene anche definito “il fieno del diavolo”), così come si era trovato prima che la folla lo raggiungesse sulla cima della montagna. Da un punto di vista umano, la vicenda storica di Gesù ha tutte le caratteristiche di un clamoroso e doloroso fallimento. Solo Pietro prende la parola, quasi a volerci lasciare intendere che egli sia considerato, a tutti gli effetti, il responsabile del gruppo ristretto dei Dodici. La professione di fede pronunciata, con candore e semplicità, dal capo degli apostoli è la risposta che Gesù si attendeva all’inizio del suo discorso a Cafàrnao. I “giudei” ed i “discepoli” che si erano allontanati dal gruppo dei suoi seguaci, non avevano manifestato a Gesù le loro perplessità od obiezioni, ma si erano limitati a “mormorare” tra loro. Ora, invece, Pietro si rivolge direttamente al Maestro con un vigoroso e convinto “TU”, che esprime il rapporto sincero del vero interlocutore di Cristo, cioè del credente. Di fronte alla domanda se intendono tornarsene a casa ed alle loro precedenti occupazioni e preoccupazioni quotidiane, i Dodici esprimono, per bocca di Pietro, la loro scelta di campo. Seppure scombussolati dalle parole pronunciate da Maestro, i Dodici impegnano la loro fiducia in Lui, non senza aver superato qualche impaccio interiore: “ da chi andremo?”. Questa domanda fa eco ad una constatazione che la gente ha fatto più e più volte durante la vita pubblica del Signore: “ nessuno ha mai parlato come parla costui”, poteva essere il commento della gente dopo aver ascoltato Gesù nelle piazze, nel Tempio, nelle sinagoghe e negli spazi aperti della Palestina (cf. Mt 8,29; Mc 1,22; Lc 4,32; Gv 7,12.15). Implicitamente Pietro ed i suoi compagni di ventura accettano, senza riserve, ciò che gli altri, i discepoli “disertori”, hanno respinto come “parole dure” da comprendere e da accettare. Forse a Pietro ed agli altri apostoli sfugge il profondo significato delle parole di Gesù, ma la loro fiducia punta all’essenziale: il messaggio di Gesù è portatore di vita eterna. In nome e per conto dei Dodici, Pietro conferma la sua e loro posizione: “ Noi abbiamo creduto e conosciuto…”. La connessione dei verbi “credere” e “conoscere” chiarisce il contenuto della vera fede: essa non è una conoscenza astratta, ma una relazione esistenziale, come quella che unisce il buon pastore alle sue pecore (10,14ss; cf. 17,3).
Come intendere, poi, il titolo assegnato da Pietro a Cristo? “Santo di Dio” è un appellativo raro e di difficile interpretazione. Pietro non usa nessuno dei titoli con cui Gesù ha qualificato Se stesso durante il discorso alla sinagoga di Cafàrnao (Figlio, Pane della vita, Inviato di Dio, Figlio dell’uomo) e neppure alcuno dei titoli messianici più noti all’attesa giudaica (Messia, Figlio di Dio, re di Israele), ma a modo suo dichiara chi è Gesù per lui: il Santo di Dio (cf. Sal16; At 2,27). Il salmo canta la profonda intimità tra Dio e l’orante e, forse, Pietro pensa alla profondità della preghiera del suo Maestro quando passa le notti in intimo colloquio col Padre, lontano da tutto e da tutti. Certamente gli apostoli sono rimasti edificati nel vedere Gesù in atteggiamento orante ed adorante e, incuriositi dal suo modo di pregare, gli hanno chiesto di insegnare loro a fare altrettanto. D’altra parte, Gesù ha proclamato più volte la sua intima unione col Padre (5,19-30) e più tardi dichiarerà di essere stato santificato dal Padre (10,36; 17,19). L’appellativo “Santo di Dio” supera ampiamente quello di “Messia” e si avvicina assai al titolo di “Figlio di Dio” confessato da Pietro in Mt 16,16. Diversamente da quanto avviene in Mt 16,17 Gesù non si congratula con Pietro per essere giunto alla verità circa la sua Persona, guidato in ciò dalla luce che proviene dal Padre, ma, per contrasto, si rattrista profondamente all’idea che proprio uno dei Dodici, uno dei prediletti, sta per tradirlo. Eppure, anche il traditore è stato scelto da Gesù per essere uno dei privilegiati testimoni della sua resurrezione. Evidentemente, questa scelta “sbagliata” di Gesù, almeno secondo il modo di pensare degli uomini, turbava le primitive comunità cristiane; l’evangelista, allora, risponde che Gesù sapeva “fin dal principio” che sarebbe stato tradito da Giuda, figlio di Simone Iscariota e sembra quasi voler proiettare questa conoscenza di Gesù ben di là del tempo, nell’eternità di Dio da cui il Figlio-Verbo proviene. Gesù non ne pronuncia il nome, ma ne svela la provenienza e la vera identità, qualificando Giuda come un “diavolo”, un appartenente alla categoria dei nemici più accaniti, subdoli, traditori, menzogneri della Verità e dell’Amore infinito di Dio. È il diavolo mentitore ed assassino (8,44) che suggerisce a Giuda di tradire il Signore (13,2), conquistando alla sua causa uno dei prescelti e trasformandolo in un “avversario” del Regno di Dio. Con la citazione del tradimento di Giuda, l’evangelista riconduce chiaramente il discorso sul “Pane di vita” al suo significato eucaristico, pur senza riportare nel racconto dell’Ultima Cena il particolare importante dell’istituzione dell’Eucaristia. L’evangelista, concludendo il lungo discorso di Gesù sul dono del pane disceso dal cielo con la menzione dell’abbandono di gran parte dei discepoli e del tradimento di Giuda, sembra voler rimarcare la difficoltà per l’uomo di rimanere aperto e disponibile alla novità di Dio. Volendo scegliere autonomamente il proprio destino, l’uomo si consegna alle forze del male e va incontro alla morte eterna, dalla quale potrebbe essere salvato solo se accettasse il mistero di un Dio che si fa uomo e dono per portare tutti gli uomini alla salvezza ed alla condivisione della sua vita senza fine.

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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