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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/07/2010 09:48
 
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Col termine “carne” (in greco sàrx) Gesù non intende la sostanza corporea dell’organismo umano, ma Se stesso nella sua condizione mortale, debole e fragile, soggetta alla sofferenza ed alla morte. Giovanni evita il termine sôma (corpo), che nel contesto culturale della sua comunità aveva il significato di cadavere. Ma perché usare il vocabolo “carne” invece di quello, forse più elegante, di “anima” o “vita” (in greco psykhé)? Forse perché è ovvia la correlazione tra la “carne” ed un elemento materiale come il “pane”, o forse e più probabilmente perché la parola “carne” specifica nel Prologo (1,14) il modo in cui il Lògos di Dio si è reso presente tra gli uomini. La “carne”, quindi, rimanda al mistero dell’Incarnazione, messo in evidenza nel corso del dialogo tra Gesù ed i galilei grazie al tema della “discesa dal cielo”.
La vita e la morte di Gesù hanno uno scopo ben preciso: donare la vita (eterna) agli uomini, collettivamente abbracciati nel vocabolo “mondo”, al quale Giovanni annette di volta in volta un significato diverso, secondo il contesto in cui si svolge il racconto evangelico. In questo caso la parola “mondo” ha un significato assolutamente positivo; Gesù sacrifica la propria vita a vantaggio di tutti coloro che scelgono di credere in Lui ed alla sua Parola di vita e di verità. La morte di Gesù diventa per i credenti una sorgente di vita, che trascende il tempo materiale e storico per assumere il valore di una condivisione dell’eternità di Dio medesimo. A molti commentatori appare evidente il significato sacramentale, eucaristico, dei termini “carne”, “pane”, “mangiare”, “vivere in eterno” e “dare” contenuti in questa breve pericope così ricca di significato teologico. Di certo, questi elementi tradizionalmente associati al sacramento eucaristico possono evocare l’intimo rapporto tra il tempo passato di Gesù, che va incontro all sua morte volontaria e redentrice ed il tempo presente della comunità cristiana di Giovanni, che vive il sacrificio eucaristico secondo lo spirito e la sensibilità trasmessale dall’apostolo evangelista.

52 Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.
Come appare del tutto ovvio, gli interlocutori di Gesù prendono alla lettera le sue parole e, forse, non può essere altrimenti, visto che non riescono a cogliere la dimensione mistica, seppure reale, del suo pensiero. Secondo il loro modo di procedere nel dibattito, i giudei si limitano allo stretto senso letterale delle parole di Gesù, ritenute assurde e prive di senso logico. Viene da pensare allo stesso Nicodemo, incapace di comprendere il significato di rinascita propostogli da Cristo ma sufficientemente intelligente da fare dell’umorismo sulla prospettiva di rientrare nel seno materno, lui, ormai vecchio, per nascere ancora e diventare un “uomo nuovo”. Qui, invece, non c’è alcuna traccia d’umorismo nella riflessione della folla sconcertata. I galilei sono indignati ed assai poco propensi a fare uno sforzo di fantasia per cercare di elevare il proprio pensiero appena un poco al di sopra della pura materialità delle parole ascoltate e di coglierne, quindi, un qualche significato simbolico. A ben vedere, tutto il contesto del dialogo si oppone ad una comprensione materiale delle parole di Gesù, prese alla lettera in modo pedante e poco intelligente dalla folla. Era già evidente dalle prime battute del discorso di Gesù (v.31) che il pane (o manna) mangiato dai padri all’epoca dell’esodo si riferiva alla Legge mosaica e che mangiando di questo “pane” gli ebrei si erano ben disposti ad accettare il dono della Legge e di vivere di essa. Questa simbolica del pane-manna-Legge era stata mantenuta nel corso dell’intero dibattito; come mai ora si crea un’improvvisa e radicale frattura tra Gesù e la sua amata gente di Galilea? Sembrerebbe ovvio ritenere che la folla, presente nella sinagoga, abbia capito assai bene che Gesù si sta attribuendo un’origine divina, che suona come una bestemmia ai loro orecchi. È quindi evidente che la parola di Gesù è stata rifiutata in modo assai deciso perché n’è stata compresa pienamente la portata. I giudei, come li chiama Giovanni, non sono solo i diretti ascoltatori di Gesù (in questo caso i galilei), ma tutti coloro che a vario titolo e per diversi motivi si rifiutano di accettare che Gesù possa offrire in pasto la propria Persona e che da Lui possa derivare la salvezza universale. I contemporanei e conterranei di Gesù non vogliono far dipendere il proprio destino futuro da un uomo uguale a loro e che si arroga il potere di salvare l’uomo prendendo niente meno che il posto di Dio, l’unico da cui può provenire la salvezza. Con molta probabilità, il sospetto che Gesù abbia formulato una proposta d’antropofagia non ha nemmeno sfiorato la gente presente nella sinagoga, che ha invece ben compreso la sua pretesa origine divina, assolutamente incompatibile con il rigido monoteismo della fede ebraica. Sottolineando l’umile origine di Gesù, figlio di un falegname e di una popolana di Nazareth (6,42), i giudei si erano già espressi in modo negativo sulla possibilità che Gesù potesse avere un’origine diversa da quella meramente umana (rifiuto dell’Incarnazione del Lògos), ma ora, chiedendosi come possa “costui dare la sua carne da mangiare”, si dispongono a rifiutare che la morte di Gesù possa avere un valore salvifico e redentore a vantaggio di tutti gli uomini. Affiora lo scandalo ed il rifiuto radicale della Croce.
Se in un primo tempo (6,44-47) i giudei erano invitati ad ascoltare il Padre per poter “venire” a Gesù (ovvero, credere in Lui), ora sono sollecitati a “mangiare e bere”, cioè ad accogliere la rivelazione del sacrificio redentore del Figlio dell’uomo (6,53-58). Solo chi accetterà questa prospettiva di redenzione personale ed universale vivrà della stessa vita eterna del Figlio di Dio. Per la prima volta affiora nel IV Vangelo il tema dell’immanenza mutua di Gesù e del credente.

53 Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo resusciterò nell’ultimo giorno.
Il solenne, duplice “amen” di apertura enfatizza e mette in grande risalto l’espressione “mangiare la carne”, che ha tanto scandalizzato la folla e che Gesù, invece, ribadisce a più riprese riponendo ogni speranza di salvezza per l’uomo nell’integrale assimilazione (“mangiare - bere”) della Persona (“corpo – sangue”) del Figlio di Dio. Dal momento che i giudei vedono in Gesù un uomo comune e normale come loro (“costui”), ragione per cui ne rifiutano il messaggio, Gesù con molto tatto evita di dire: “Se non mangiate la mia carne”, bensì: ”Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo”, facendo capire ai suoi interlocutori che Egli non appartiene a questo mondo né a questa creazione, ma al mondo dall’alto. Gesù sollecita i giudei a non fissare il loro sguardo sull’essere umano che sta loro di fronte, ma di sollevarlo su Colui che, secondo la tradizione apocalittica, domina i secoli. Il Figlio dell’uomo è in permanente comunicazione col cielo (1,51), da cui è disceso per “essere innalzato” (3,14ss) e verso il quale risalirà (6,62) al momento opportuno, dopo aver “attirato” verso di sé ogni creatura (12,32). Dopo aver nominato il Figlio dell’uomo all’inizio del suo dialogo coi giudei (6,27), attribuendo a questa figura celeste il ruolo di datore del cibo che dura per la vita eterna, Gesù lo ripropone ora per specificare la natura del “cibo” che occorre “mangiare” per essere salvi ed “avere la vita”: il cibo s’identifica con il donatore, cioè con lo stesso Figlio dell’uomo il quale, disceso dal cielo, si è donato senza riserve affinché la sua vita sia trasfusa nel discepolo. L’atto di fede si rivolge al Vivente, che ha attraversato la morte al fine di vincerla in coloro che, senza di Lui, perirebbero come sono morti i padri. I verbi “mangiare” e “bere” esprimono un unico concetto di base: la fede nel Figlio dell’uomo, condizione indispensabile per avere la “vita eterna”. Il binomio “carne e sangue” ha un fondamento biblico, poiché indica tutto l’uomo sotto l’aspetto della sua condizione nativa, che è terrestre (cf. Mt 16,17; Eb2,14; 1Cor 15,50; Gal 1,16; Ef 6,12; Gv 1,13). Per l’evangelista, la condizione mortale del Figlio dell’uomo era fondamentale affinché l’Inviato potesse assolvere la sua missione di redenzione mediante la morte di croce. Tuttavia, nei vv.53.54.56 il tradizionale binomio “carne e sangue”, pur designando un unico essere, viene separato a motivo dei verbi differenti cui ciascun termine si accompagna; anche nel v.55 “carne” e “sangue” restano distinti, quasi prefigurando la diversa destinazione di questi elementi nei sacrifici giudaici. Infatti, il sangue della vittima sacrificata a Dio sull’altare dei sacrifici era versato sull’altare medesimo, mentre la carne era mangiata (cf. Lv 7,14ss; Dt 12,27). Secondo il testo or ora commentato, la carne è mangiata ed il sangue è bevuto per far meglio comprendere il valore reale della morte di Gesù, che sulla croce ha veramente versato il suo sangue. Per un giudeo, poi, il sangue simboleggia la vita stessa, di cui solo Dio può disporre, motivo per cui il sangue degli animali sacrificati viene versato sull’altare del sacrificio, al quale è interamente riservato, acquistando in tal modo un esclusivo valore espiatorio. Credere al sacrificio del Figlio dell’uomo, vittorioso sulla morte, significa avere la vita eterna, essere inseriti nella vita stessa di Dio (“..avrete in voi la vita”).

55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. 57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 58 Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Il v.55 contiene parole di un realismo crudo ed efficace, tale da non dare adito ad alcun equivoco interpretativo. Gesù si qualifica come vero cibo e vera bevanda in senso reale e sacramentale, non certo in senso puramente metaforico e chi sa intendere queste parole nella loro giusta prospettiva si trova immerso in una nuova dimensione di vita e di relazione con Gesù (v.56). La reciproca inabitazione del credente nel Figlio di Dio e viceversa stabilisce il presupposto per una nuova relazione col Padre, capace di annullare l’abissale distacco esistente tra la divinità creatrice e l’umanità creata. Limitandoci alla pura materialità della manducazione, si potrebbe pensare ad un’assimilazione del nutrimento da parte di chi mangia, come avviene in natura, ma Gesù afferma il contrario. Infatti, è colui che mangia/beve a dover “inabitare” in Cristo come immediata conseguenza della manducazione del suo Corpo e dell’assunzione del suo Sangue come bevanda (“dimora in me…”). Un simile effetto viene riferito nel linguaggio sapienziale (Pr 9,5ss) a proposito di coloro che si appropriano di quel nutrimento che è l’insegnamento celeste, consumando il quale entrano nell’amicizia divina: la Parola che li nutre rimane al di sopra degli uomini e li introduce nell’orizzonte del rapporto privilegiato con Dio, che essa sola è in grado di aprire e di donare loro. La stessa cosa avviene quando l’uomo accoglie e riceve come cibo la sostanza trascendente del Figlio di Dio, la cui inabitazione nella creatura umana chiude mirabilmente il cerchio di una stupenda relazione interpersonale, misteriosa e reciprocamente impegnativa tra Dio e l’uomo. Questa formula d’inabitazione (”…dimora in me e io in lui) è uno dei messaggi più profondi che ci siano stati trasmessi dal IV Vangelo. Essa ci viene proposta dall’evangelista su un duplice registro, quello della relazione Padre/Figlio, quindi della relazione propria a Dio stesso (“Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre”) e quello della relazione Figlio/discepolo. La tipica formula dell’immanenza è espressa dal verbo “rimanere / dimorare”, che ha come fondamento culturale e religioso le formule di reciprocità caratteristiche della Prima Alleanza, rivisitata dall’esperienza dei profeti d’Israele (cf. Ger 31,31-35). Per Giovanni, la reciproca relazione che viene a stabilirsi tra il Figlio ed il credente non è assolutamente dissociabile dall’intima relazione che unisce il Padre ed il Figlio; se nel Prologo osa affermare che il Lògos è “Dio”, lo fa dopo aver mostrato che il Lògos è “presso Dio”, cioè “rivolto verso Dio”. Indubbiamente il Padre e Gesù sono DUE, ma al tempo stesso essi sono UNO.
Nel corso del IV Vangelo si trovano diverse formulazioni di questo dato dell’unità di due Persone; parlando di Sé e di Dio, Gesù usa il NOI (17,11.22) oppure l’UNO (6,56; 10,38; 14,10s.20; 15,4.5.7.9.10; 17,21.23.26). Altrove Gesù lascia intendere l’unità di due Persone (10,30; 17,11.22), ma la formula più caratteristica di quest’unità è: “Il Padre è in me ed io nel Padre” (10,38). Enumerando due Persone, questa formula d’immanenza ha il vantaggio di prevenire il rischio di una loro totale identificazione, quasi una fusione, pur esprimendo la loro perfetta comunione. La relazione Padre/Figlio genera la relazione Figlio/credente, così schematizzabile:

il Padre fa vivere il Figlio (che vive mediante il Padre) fa vivere
__________________ = _____________________________________
il Figlio (che ha inviato) il credente (che lo mangia)
La rassomiglianza tra queste due relazioni viene espressa con la proposizione greca dià, tradotta in italiano con la corrispondente proposizione “per” o “mediante”: “Io vivo per (mediante) il Padre”; allo stesso modo il credente “vivrà per (mediante) me”. Ciò significa che ogni vita, la quale trae la propria origine dal Padre, il Vivente (“…che ha la vita”), può esistere solo ed esclusivamente nella comunione con Lui, sia nel Figlio sia nel credente. Tale “dimora” esprimerà, d’ora in poi, la duplice relazione Padre/Figlio e Figlio/credente. Il Figlio si trova al centro, come mediatore, della relazione Padre/credente (14,6), o meglio, Egli rappresenta il luogo privilegiato e permanente in cui tale relazione si realizza e si consolida.
Mentre Gesù è il Figlio, il discepolo diventa figlio di Dio mediante la sua unione con Gesù; grazie alla sua inabitazione nel Figlio unigenito di Dio, anche l’uomo è ormai “presso Dio” e “rivolto verso Dio”. Ad imitazione del Figlio, che è, per definizione, l’Inviato del Padre e da Lui perfettamente dipendente, il credente è, per definizione, colui che “mangia il Pane” e che vive mediante la sua fede. Il discorso sul “pane di vita” può essere così sintetizzato: l’Alleanza, che Dio ha promesso, è realizzata da Gesù Cristo.
Il v.58 raccoglie tutti i dati precedentemente acquisiti nel corso del dialogo fra Gesù ed i giudei. La manna/Legge, di cui si sono abbondantemente nutriti i padri del popolo eletto, è stata indispensabile per la vita spirituale d’Israele, ma non ha un valore definitivo; se la sua importanza è stata innegabile per il passato, ora la Legge non può più essere considerata come riferimento normativo del presente e del futuro dell’uomo. La nuova “norma”, che deve ispirare l’etica e la vita spirituale dell’uomo, si fonda sull’intima relazione d’amore tra il Padre ed il Figlio e tra Gesù ed il discepolo.
Il popolo della Prima Alleanza aveva ricevuto da Dio la manna e la Legge, prefigurazione del vero pane, che è Gesù, dato da Dio e fattosi Egli stesso dono fino alla morte di croce per compiere il nostro passaggio dalla morte alla vita. La pericope 6,53-58 può essere letta in prospettiva sacramentale, soprattutto a causa del linguaggio usato da Gesù.
Ad una lettura di tipo letterario del testo evangelico, si nota subito che Gesù insiste con i suoi uditori affinché credano nel Figlio dell’uomo, che ha dato se stesso attraverso la morte, allo scopo di ottenere anch’essi la vita. Il testo culmina nell’affermazione che il frutto della fede nel Figlio dell’uomo è la vita eterna e la mutua inabitazione del Figlio e del credente.
Applicando al testo una lettura sacramentale, ci si accorge che Gesù sollecita i credenti, già entrati in comunione con Lui, a rinnovare la loro fede ed a significare tale comunione con la pratica del sacramento: questo dà corpo al mistero di cui Gesù ha parlato e di cui s. Paolo ha dato una mirabile interpretazione nella prima lettera ai cristiani di Corinto; “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché Egli venga” (1Cor 11,26). Ogni comunità cristiana, che celebra nella liturgia eucaristica la presenza di Cristo risorto, non può esimersi dal ricordare e ripresentare la morte di croce, mediante la quale Gesù ha amato i suoi fino alle estreme conseguenze. Allora si può affermare che l’Eucaristia (o azione di grazie) attualizza ogni volta il dono che il Figlio dell’uomo ha fatto di Se stesso per noi. Allo stesso tempo, attraverso l’azione simbolica della condivisione del pane e del calice del Signore, l’Eucaristia esprime e rende concreta la realtà invisibile espressa da Giovanni mediante il concetto della mutua inabitazione di Cristo e del credente, attualizzando, sempre di nuovo, la comunione del credente con Colui che vive mediante il Padre.
A sua volta, la simbolica sapienziale del discorso ben si adatta all’evocazione del sacramento, non soltanto perché il suo elemento significante è il “pane” ma, anche e soprattutto, perché essa consente di evitare qualsiasi esagerazione di tipo magico. La duplice azione del “mangiare la carne” e del “bere il sangue” va riferita non propriamente a Gesù di Nazareth ma al Figlio dell’uomo, che ha attraversato e vinto la morte per la vita del mondo; anche a livello eucaristico, allora, queste espressioni così crude e realistiche diventano meglio comprensibili. Il Figlio dell’uomo ha assunto la nostra condizione terrena e si è consegnato veramente e volontariamente alla morte, mostrando il carattere “personale”, non meramente materiale, della manducazione eucaristica. Mediante il sacramento eucaristico, il credente si “ciba” dell’intera Persona umana e divina di Cristo, senza scadere nella dimensione di un banale ritualismo magico primitivo, legato alla pratica dell’antropofagia. L’evangelista Giovanni non ha riportato il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia ed il suo racconto dell’Ultima Cena è centrato sull’azione simbolica della lavanda dei piedi, che significa la consegna della carità fraterna fatta da Gesù. La pericope giovannea, testé commentata (6,53-58), c’indica il senso del sacramento praticato dalla comunità e ne mostra il frutto, vale a dire la vita nuova del discepolo nel Figlio. Tale frutto è identico a quello prodotto dalla fede stessa, ma nella celebrazione liturgica esso trova la sua espressione privilegiata.
Nutrirsi sacramentalmente del Pane di vita significa aderire alla Persona di Gesù, Figlio di Dio disceso dal cielo per salvare il mondo dal disastro della sua lontananza da Dio; di più, significa raggiungere in cielo il Figlio dell’uomo. È questo il mistero dell’Esaltazione rivelato nella parte conclusiva del discorso presso la sinagoga di Cafàrnao.

59 Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga di Cafàrnao.
Questo versetto funge da chiusura delle due precedenti parti del discorso e da cerniera con la terza ed ultima parte dello stesso. Si tratta di una breve pausa di riflessione prima di affrontare la prova decisiva, quella del rifiuto quasi totale del dono di Gesù da parte degli uomini di Galilea e di gran parte dei suoi stessi discepoli. Le parole di Gesù hanno colpito duro e la folla rimane per un momento senza fiato, muta e sorpresa da tanto ardimento. I primi ad esprimere il loro sgomento sono proprio i discepoli di Gesù.

60 Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?”. 61 Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: “Questo vi scandalizza?”.
Gli oppositori di Gesù non sono più solamente i “giudei” (6,41.52), bensì “molti dei suoi discepoli”, un gruppo ben distinto dai Dodici, di cui si parla, invece, più avanti (6,67). I discepoli “scandalizzati” rappresentano tutti quei cristiani che hanno una fede vacillante e che vanno facilmente in crisi di fronte ad una decisa opzione di fede. La rivelazione di Gesù è stata respinta non solo da una folla incostante e facilmente suggestionabile, né solamente da avversari agguerriti e pronti a ribattere a suon di citazioni bibliche come i “giudei”, ma anche da chi era stato attratto inizialmente dalle molte “opere” prodigiose compiute dal Maestro e dalle sue “parole” ricche di fascino e di novità. La resistenza alla fede è un dato di fatto in ogni epoca storica e sarà superata quando il percorso del Figlio dell’uomo sarà compiuto alla fine dei tempi. Rimasti fino allora silenziosi, animati dalla speranza che Gesù sia davvero l’Inviato escatologico di Dio, specie dopo aver visto il “segno dei pani”, questi “discepoli” inciampano (skàndalon, inciampo) contro la pretesa di Gesù di essere il Salvatore del mondo e di instaurare, con la sua morte, la comunione degli uomini con Dio. Si profila all’orizzonte lo scandalo della croce, cioè il rifiuto di una salvezza procurata attraverso una morte ingloriosa ed infamante. Essi trovano “duro” (skleròs) il discorso di Gesù, anche se lo hanno inteso molto bene; non possono “ascoltarlo”, non possono aderire ad una simile rivelazione, anzi, la rifiutano integralmente e “mormorano” come avevano già fatto i loro padri nel deserto, durante l’esodo. La “mormorazione” dei discepoli, delusi e scandalizzati, esprime la profonda insoddisfazione degli uomini, che vedono frustrati i loro tentativi di condurre la storia secondo i propri progetti e che non sanno accettare la sapiente provvidenza con cui Dio li guida alle soglie dell’eternità, usando talvolta dei mezzi misteriosi ed imponendo spesso dei tempi molto lunghi, che non sempre l’impaziente razionalità umana sa comprendere.
62 E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?
Concentriamo la nostra attenzione sui due verbi della frase: salire e vedere. Gesù è il Lògos, il Verbo, la Parola che dall’eternità è “presso Dio” e da questa sfera divina, simbolicamente situata “in alto”, Egli “è disceso” in basso, sulla terra, assumendo la natura fragile, debole e mortale propria d’ogni essere umano. Il Lògos eterno di Dio “si è fatto carne” (1,14) per rivelare la volontà amante del Padre, che ha voluto donare agli uomini il vero Pane (6,32); una volta conclusa la sua missione, il Figlio deve “salire là dov’era prima”, fuori del tempo e dello spazio, accanto all’infinita eternità di Dio, suo Padre (1,1), riappropriandosi del “posto” che solo per poco aveva lasciato per portare a compimento la volontà salvifica del Padre e sua. Questo movimento di “discesa” e di “risalita” del Verbo di Dio era già stata annunciata dal profeta Isaia (Is 55,11): “La mia parola non ritorna a me senza avere eseguito ciò che desidero e fatto riuscire ciò per cui l’ho mandata”. Il ritorno di Gesù al Padre non avviene senza aver prima lasciato un “segno” evidente della buona riuscita della sua missione tra gli uomini: la morte in croce e la gloriosa resurrezione. Dopo la sua morte salvifica, Gesù risale verso il Padre suo, divenuto ormai il Padre di tutti gli uomini (20,17) in virtù della nuova ed eterna Alleanza con Dio sancita dal sangue del Figlio suo unigenito. Ma i giudei e, con loro, i discepoli ormai decisi all’abbandono del progetto salvifico di Dio, saranno in grado di “vedere” (= credere) il ritorno di Gesù al Padre? Testimoni della resurrezione di Gesù saranno i pochi che avranno avuto fede in Lui; per gli altri, per gli increduli, rimarrà l’ombra del dubbio circa la sua “scomparsa”, che non sarà seguita dal fallimento dell’opera di Gesù ma che, al contrario, segnerà l’inizio di una nuova era. Più gli increduli cercheranno di soffocare la novità del Vangelo e più questo irromperà con tutta la sua forza nella storia dell’uomo.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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