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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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07/07/2010 09:47
 
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41 Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. 42 E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può costui dire: Sono disceso dal cielo?”.
I “giudei”, qui intesi non come gruppo etnico visto che ci troviamo in Galilea, ma nel senso di “avversari” di Gesù, mormorano come già avevano fatto tante volte i loro padri nel deserto del Sinai, durante l’esodo dall’Egitto. Nel contesto della storia della salvezza, ogni volta si ripropone il tema del rifiuto da parte degli uomini, reso da quel continuo mormorio della folla incredula e ribelle, così fastidioso e petulante da far perdere la pazienza anche a chi, come Dio, ha tanta pazienza da vendere in quantità cosmica. Lo scandalo scaturisce dall’evidente disparità tra la condizione umana di Gesù e la sua pretesa di essere d’origine celeste. I giudei parlottano tra loro, sussurrano e si danno di gomito: ma come, ma costui non è uno di noi? Non è forse lui il figlio di Giuseppe, il falegname? Ma certo che è lui, anch’io mi sono servito della sua bottega. Ah, gran brav’uomo quel Giuseppe, sapeva stare al proprio posto: gran lavoratore, sempre cordiale con tutti e pronto a dare buoni consigli. Ma che gli ha preso a suo figlio? Eppure, anche lui non era male come artigiano; forse era un po’ taciturno, sembrava perso nei suoi pensieri ma quello sguardo… eh sì, quando ti fissava negli occhi ti metteva un po’ a disagio, ti sentivi rimescolare tutto…a me non ha mai fatto mancare una parola, un sorriso, una gentilezza ed in questo era tutto sua madre…certo che a sentirlo parlare c’è da chiedersi come ha fatto ad imparare queste cose… e poi, vuoi mettere, compie prodigi come se ne leggono solo nel santo Libro…vero, ma Gesù sta esagerando davvero, ancora un po’ e si mette alla pari dell’Onnipotente (sia benedetto il suo santissimo Nome)…
Queste ed altre consimili considerazioni, tipiche di una folla numerosa che commenta a modo suo fatti ed opinioni tra i più disparati, possiedono un unico denominatore comune: l’incredulità. Tutti sanno, o presumono di sapere, da dove viene Gesù, ovvero le sue umili origini; tutti conoscono bene i suoi genitori, i nonni ed i vari membri del suo clan familiare (quelli che, nel modo tipico di esprimersi dei semiti, sono chiamati “fratelli”). Eppure Gesù, anche senza mettere in discussione la propria natura e condizione umana, lascia chiaramente capire di provenire dalla sfera divina (“disceso dal cielo”), ma per tutti Egli è soltanto un uomo come un altro. Come gli ebrei nel deserto hanno mormorato contro Mosè, quindi contro Dio (Es 16,7-8), così ora i giudei mormorano contro Gesù perché non accettano di vedere in Lui il progetto salvifico di Dio, che va realizzandosi.

43 Gesù rispose: “Non mormorate tra voi. 44 Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 45 Sta scritto nei profeti: e tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46 Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47 In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Eccoli sistemati, sia i giudei sia la loro incredulità. Non vogliono lasciarsi “attirare dal Padre”? Ebbene, non riusciranno ad entrare nella vita eterna nonostante che conoscano a menadito ogni parola della Scrittura! Posto di fronte all’obiezione sulla sua nascita, Gesù non si scompone per nulla e riafferma la sua origine divina, rendendo ancora più esplicito ciò che era già implicito nel movimento di “discesa dal cielo”. Gesù è l’unico che “era presso Dio” (1,1) dall’eternità e che “ha visto il Padre” (6,46) a differenza di tutti gli altri uomini. Appare evidente il richiamo all’ultimo versetto del Prologo (1,18): “Dio, nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. Secondo questo passo del Prologo è il Figlio ad essere disceso dal cielo per rivelare il Padre agli uomini, facendone l’esegesi, dandone cioè la spiegazione. In direzione contraria vanno i versetti 44-45 di questo sesto capitolo del Vangelo di Giovanni, secondo i quali non è il Figlio che fa conoscere il Padre, ma è il Padre che, attirando gli uomini, li orienta verso il Figlio. Affermando di non poter essere conosciuto senza il diretto intervento di Dio, Gesù suggerisce implicitamente la sua condizione divina. Posto all’origine ed al termine della missione di Gesù, Dio è situato anche all’origine dell’accoglienza riservata dagli uomini a suo Figlio. La conseguenza è che colui che è stato inviato dal Padre ed è disceso dal cielo non dona la propria vita se non compiendo e facendo propria la volontà del Padre medesimo (vv.38-40). Coloro ai quali Gesù è stato inviato non possono, così, ricevere la vita senza dimostrare una docilità interiore nei confronti del Padre. Il sottofondo teologico della pericope 6,35-47 è l’iniziativa salvifica del Padre.
In conclusione, è il Padre che “attira” gli uomini alla fede nel Figlio suo. Qualcuno potrebbe scorgere in quest’espressione una sorta di predestinazione alla salvezza di pochi e scelti individui od un presunto determinismo che nega, di fatto, la libertà umana. Gesù non prevede assolutamente la predestinazione, giacché ritocca la citazione del profeta Isaia (54,13) affermando che “tutti saranno ammaestrati da Dio”, non solo i membri del popolo eletto. La prospettiva della salvezza diventa, nel linguaggio chiaro e schietto di Gesù, assolutamente universale: tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, sono invitati alla fede ed alla salvezza. Acquista, così, un diverso significato anche il tema dell’attrazione esercitata da Dio sugli uomini: essa, infatti, è strettamente correlata all’amore, di cui è un’espressione suggestiva e fortemente caratterizzante. La forza d’attrazione dell’amore di Dio è tale da vincere anche la resistenza più ostinata dell’uomo (cf. Os 11,4) che sia, anche minimamente, disposto a cedere. È per questo che Gesù conclude con un appello a credere in Lui (v.47).
Il v.44 sottolinea la necessità dell’intervento del Padre affinché abbia inizio il processo di fede. Per l’evangelista Giovanni, la fede in Gesù implica l’ingresso nel mistero di Dio e ciò non può avvenire se Dio stesso non ne apre l’accesso mediante la chiave della Sacra Scrittura, la quale trasmette la Parola di Dio ed invita ad ascoltarla senza sosta, vivendo di essa. Citando Is 54,13 (collegato a Ger 31,3), Gesù ha inteso suggerire che il tempo del compimento della nuova ed eterna Alleanza va realizzandosi nel momento in cui la Legge non viene più semplicemente proposta dall’alto, ma è iscritta nel cuore d’ogni uomo (cf. anche Ger 31,33-34). La Legge, infatti, diventa oggetto di una conoscenza immediata, dovuta allo Spirito (cf. Ez 36,27), la cui azione è strettamente collegata alla presenza in questo mondo di Gesù, il “mediatore” che unisce nella sua Persona l’umanità e la divinità. L’insegnamento immediato e pieno del Padre trova la sua realizzazione concreta nella missione di Gesù, nel quale si avvera la parola del profeta Isaia: “…la saggezza del Signore riempirà il paese, come le acque ricoprono il mare (Is 11,9).
L’azione di Gesù e quella del Padre hanno un andamento circolare; tutto passa da Gesù e, tuttavia, tutto procede dal Padre e tutto troverà compimento presso il Padre, grazie alla resurrezione garantita da Gesù a coloro che crederanno in Lui.
In questa prima parte del discorso domina la necessità di credere che Gesù è disceso dal cielo e che Egli è l’Inviato escatologico di Dio. Il pane, che prima aveva designato la Legge e poi il dono di Dio, vita per il mondo (6,31.33), ora esprime la Persona stessa di Gesù, il Lògos divenuto uomo. La fede nel Verbo incarnato è interamente opera di Dio e chi si nutre del “pane vivo” disceso dal cielo, ossia di Cristo stesso, si proietta, come credente, nella comunione intima e vivificante con Dio.
Nella pericope seguente (6,48-58), Giovanni riprende e sviluppa il tema del “pane di vita”: Gesù è il pane vivente e dona Se stesso come cibo da mangiare. Il linguaggio usato da Gesù è molto realistico ed affatto metaforico. La discussione tra Gesù stesso ed i suoi ascoltatori, discepoli compresi, si surriscalda ed i toni si fanno vieppiù accesi ed accalorati da una parte e dall’altra; Gesù non ha paura di scandalizzare i presenti e questi vengono messi con le spalle al muro. Il tempo della scelta si è ormai consumato e l’opzione della fede o del rifiuto non può essere ulteriormente procrastinato. Anche il soggetto del dono celeste, cioè del pane di vita, cambia: se prima Gesù aveva individuato nel Padre il donatore della manna, della Legge e del proprio Figlio, ora Egli si pone al centro dell’azione. È Gesù, infatti, che dona Se stesso e l’opera da Lui compiuta è tesa alla realizzazione della salvezza per il mondo intero. A prima vista sembrerebbe che Gesù voglia sostituirsi all’azione del Padre, ma non è così, perché il Padre ed il Figlio suo Unigenito agiscono all’unisono ed entrambi manifestano un’unica volontà di salvezza. Pur distinti come Persone, il Padre ed il Figlio sono UNO. La conseguenza prospettata da Gesù a coloro che lo “mangeranno” è la vita eterna, che già ora si realizza mediante la reciproca inabitazione del Figlio nei credenti e di costoro nel Figlio, l’unico “mediatore” tra Dio e gli uomini. In questa seconda parte del suo discorso, Gesù rivela che morirà a breve per la vita del mondo e che la sua morte è condizione indispensabile affinché si realizzi l’intima unione (inabitazione) salvifica tra Lui ed i credenti.

48 Io sono il pane della vita. 49 I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50 questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51 Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno ed il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Ancora una volta Gesù sottolinea l’abissale distanza esistente tra la manna, cioè la Legge ricevuta dai padri sul monte Sinai e Lui stesso, “pane vivente” venuto dal cielo. Per i padri la Legge mosaica (ovvero la manna) si è rivelata un nutrimento insufficiente per comunicare la vita, giacché “sono morti”. Solo Gesù, “pane celeste”, abolisce per sempre la morte per colui che ne mangia (cf. 5,24: “chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”). Non solo Gesù definisce Se stesso come “pane della vita”, ma addirittura come “pane vivo” (o vivente). Quest’affermazione, unita all’invito di mangiare questo pane vivo, avvia uno sviluppo di pensiero esteso fino al v.58.
“Il pane che io darò è la mia CARNE “. In Gv 6,33.35.48.51a il donatore del pane celeste era Dio Padre; ora (6, 51c) è Gesù stesso che si presenta, in prima persona, come donatore del pane che dà la vita al mondo. La metafora del pane viene decodificata ed interpretata chiaramente da Gesù.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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