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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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04/06/2010 18:34
 
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Il Vangelo di Giovanni

Analisi del testo

6,1-15. Il luogo in cui si svolge l’azione del dramma giovanneo è Tabsga, una località montagnosa situata tra la cittadina di Cafàrnao e quella di Tiberiade, sul lago di Galilea. È prossima la festività di Pasqua, la grande festa dei giudei, l’ultima vissuta da Gesù. Il monte, che fa da cornice all’azione, ha un valore più teologico che geografico (6,3; cf. Mt 15,29). Qui si svolge il miracolo della moltiplicazione dei pani. Rispetto ai Sinottici, secondo i quali è un discepolo a distribuire i pani (ed i pesci), in Giovanni il protagonista assoluto dell’azione è Gesù, che prende i pani, rende grazie, li benedice e li distribuisce (gesto eucaristico), ordinando, poi, ai discepoli di raccogliere gli avanzi. I canestri usati per la raccolta del pane avanzato sono dodici, numero perfetto, che esprime l’abbondanza di cui gode il Popolo di Dio. Come risultato del miracolo, la folla tenta di rapire Gesù per farlo re. Tale particolare è presente solo in Giovanni, ma è certamente storico e trova riscontro in Marco, che riferisce in altro modo il rifiuto da parte di Gesù di qualunque ipotesi di messianismo regale e politico.


6,16-21. Siamo sulle rive del lago di Galilea (detto anche lago di Tiberiade, dal nome della cittadina romano - ellenistica che si affacciava sulle sue sponde, ma noto anche col nome di lago di Genesareth per la sua forma “a cetra”, in ebraico kinnéret). Sul lago soffia un forte vento (i Sinottici parlano di tempesta) ed è notte, simbolo del tempo del male e dell’opposizione, cioè della lotta fra luce e tenebre (cf. il commento al Prologo). In tale contesto avviene la rivelazione di Gesù: “Sono io” (6,20), formula corrispondente a quella usata da YHWH (= Io Sono) sul monte Sinai (cf, Es 3,14) per rivelare la propria identità a Mosè.


6,22-25. Si tratta di un sommario dei due temi, quello eucaristico (6,23) e quello cristologico (6,24). La folla va alla ricerca di Gesù, che l’ha sfamata col pane del miracolo. Gesù è un personaggio che va cercato, perché ogni tanto viene perso di vista. Di Gesù la folla non ha capito nulla, visto che vuole farlo re, ma ha almeno compreso che Egli ha fatto qualcosa che altri non sanno fare.


6,26-71. Il lungo discorso – dibattito, che si svolge nella sinagoga di Cafàrnao fra Gesù ed i giudei, ha i connotati di un processo, interpretato da alcuni come un’omelia pasquale. Gesù si presenta come Figlio dell’Uomo (noto titolo messianico) e “pane di vita”. Egli dona la propria persona (carne, sàrx) come cibo per la vita del mondo e per la vita eterna. Emergono due temi fondamentali per la comprensione della pericope: il tema delle opere (érga), che occorre compiere per avere la vita eterna (ossia la fede o pìstis) ed il tema del segno del cielo, richiesto dalla folla per credere in Gesù (vale a dire la manna). Agli attenti uditori, poco disposti però a dare credito alle sue parole, Gesù fornisce la spiegazione o esegési dell’Esodo: non è Mosè ad aver dato il pane (la manna) agli esuli ebrei nel deserto del Sinai, ma il Padre, il quale ha dato allora, come “segno” di oggi, il “pane di vita”. Il progetto di salvezza del Padre si è manifestato col dono della manna durante l’Esodo e si è compiuto col dono del pane vero che dà la vita, cioè Gesù stesso. La folla, come la samaritana al pozzo di Sicàr, non comprende e chiede di poter avere sempre di questo pane, denotando una visione terrena della salvezza.

In 6,35-48 Gesù definisce i termini della libertà dell’uomo di credere o di non credere in Lui, usando il verbo “vedere”. La fede è un dono di Dio, il quale attira a Sé ed ammaestra gli uomini disposti ad avere fiducia in Lui (6,45; cf. Is 54,13): teodidattica. Il “pane vivo” è Gesù stesso, che dà da mangiare la sua stessa carne (sàrx), cioè la sua Persona umana e divina (6,48-58).

La manna data ai padri nel deserto non era vero cibo, non avendoli preservati dalla morte (6,49.58); la vera manna, in grado di dare la vita per l’eternità (6,55-58) è Cristo. Da qui la necessità assoluta dell’Eucaristia sacramentale (6,51-58). Gesù ed il Padre sono in intima comunione tra loro e si trovano insieme (immanenza) in ogni credente (6,56-57).

Il discorso di Gesù causa scandalo, inciampo e molti si allontanano da Lui, a cominciare da tanti suoi discepoli, condizionati dalla sola “conoscenza carnale” di Gesù (crisi galilaica descritta in 6,60-71), perché non sanno compiere il passo decisivo della fede: senza lo Spirito, la carne da sola non può arrivare a credere in Gesù. Solo Dio può concedere il dono di una conoscenza superiore a coloro che sentono il bisogno di Lui, quelli che i Sinottici chiamano “i piccoli”, i “poveri in spirito” (in ebraico anawîm). Solo i Dodici credono in Gesù, ma anche tra costoro s’insinua il diavolo, poiché uno di loro tradirà il Maestro per un pugno di denari. Abbandonato da tutti e tradito da uno dei Dodici, Gesù è pronto per essere consegnato ai nemici ed essere messo a morte. Il capitolo 6 del IV Vangelo sostituisce, in ultima analisi, il racconto dell’Ultima Cena narrata dai Sinottici.


Considerazioni finali

Dal capitolo 6 di Giovanni si possono enucleare tre immagini: 1) il banchetto messianico; 2) la manna del cielo; 3) il banchetto sapienziale.

Il banchetto messianico (Is 25,6-8; 26,19) implica un discorso d’escatologia futura, ma Giovanni (6,39) sottolinea che il giudizio di Dio, la salvezza, è presente già ora, cioè adesso (in greco, nùn).

Per quanto riguarda la manna, si possono distinguere quattro tradizioni bibliche:

  1. la tradizione J (jahvista), secondo la quale la manna è una prova (Es 16,4) per vedere se il popolo cammina secondo la Legge di Dio;

  2. la tradizione D (deuteronomista), secondo cui la manna è immagine della Parola di Dio (Dt 8,3);

  3. nel periodo post-esilico (cf. Sal 78) la manna viene intesa come un dono fatto da Dio all’uomo con lo scopo di “sfamarlo”;

  4. la letteratura inter - testamentaria, di genere prevalentemente apocalittico (I° secolo a.C./ I° secolo d.C.), considera la manna come il segno dei tempi finali od escatologici, l’inizio dei tempi messianici.

Va precisato che Gesù utilizza soprattutto i primi due significati (manna come prova, manna come Parola di Dio).

Il banchetto sapienziale (cf. Sir 24) è l’elemento che permette di comprendere come Gesù, Sapienza personificata, si sia fatto Egli stesso ”pane di vita”.

Dio convoca tutta l’umanità al banchetto celeste per nutrirsi del pane, che dà la vita per l’eternità: Cristo eucaristico è, al contempo, pane, banchetto e vita eterna. Egli è il “dono” ed il generoso datore del “dono”, che è destinato a tutti gli uomini disposti ad accettarlo.

Problematiche storiche

Nel capitolo 6 del IV Vangelo emergono le difficoltà incontrate dalla comunità giovannea con le autorità della sinagoga ed identificate col termine “i giudei” (sono tali coloro che negano la divinità di Gesù, tormentano e perseguitano la Chiesa e, in modo particolare, la comunità di Giovanni). Nei primi tempi della Chiesa, i cristiani provenienti dal giudaismo (detti anche giudeo cristiani) erano assidui frequentatori delle sinagoghe locali. Una prima crisi col mondo giudaico si ebbe dopo il concilio di Gerusalemme, tenutosi nel 49 d.C., allorché si decise che i pagani convertiti al cristianesimo (o etnico cristiani) non dovessero sottostare all’usanza ebraica della circoncisione. Tale decisione determinò una contrapposizione non sempre pacifica tra i giudeo cristiani e gli etnico cristiani. Successivamente, i giudeo cristiani che frequentavano abitualmente la sinagoga furono espulsi come “eretici” dalle autorità giudaiche, cui fa riferimento Giovanni col termine, appunto, di “giudei”.

Come riferisce s. Ireneo, vescovo di Lione, nella sua lettera ai cristiani di Smirne (7,7), anche tra i cristiani c’erano difficoltà nel comprendere il mistero dell’Incarnazione di Gesù e dell’Eucaristia, problemi questi adombrati dal capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. Probabilmente il v. 51 allude anche alle polemiche sui falsi profeti (cf. anche 1Gv 4,5). Come si può notare dall’analisi del testo di Gv 6, si individuano tre passaggi fondamentali:

  1. l’esposizione del “segno”, ovvero la moltiplicazione dei pani (6,1-15);

  2. la spiegazione del “segno”, cioè le parole con le quali Gesù spiega il significato del pane (6,26-58);

  3. la crisi causata dalle parole di Gesù, ritenute troppo “dure” ed incomprensibili da molti discepoli, che decidono di abbandonare il Maestro (6,60-71). Solo pochi discepoli, i Dodici, decidono di scommettere la propria fiducia su Gesù e continuano a seguirlo (6,68).


Chiavi di lettura del capitolo 6 del IV Vangelo

I commentatori del Vangelo di Giovanni hanno fornito un notevole contributo alla comprensione teologica della lunga pericope, che stiamo per esaminare. Si possono individuare, schematicamente, almeno sei chiavi di lettura di Gv 6, da non confrontare tra di loro ma, semmai, da integrare per una lettura più approfondita e meditata del testo. Nel corso dei secoli, a partire dai Padri della Chiesa, molti si sono cimentati col linguaggio giovanneo, ricco di simbolismo e di profonde implicazioni teologiche. Non per nulla è stata assegnata al IV Vangelo la simbolica figura dell’aquila, per le vertiginose altezze di pensiero e di implicazioni teologiche contenute nel testo di Giovanni.

Prima lettura

Confrontando Gv 6 coi Sinottici si possono notare alcune differenze sostanziali. Prendiamo, come esempio, Mc 6,33-44 che riferisce lo stesso episodio della miracolosa moltiplicazione dei pani.

Secondo l’interpretazione dei fatti fornita da Gv 6 è Gesù che prende l’iniziativa di sfamare la folla, distribuendo personalmente il pane, perché solo Gesù può dare la salvezza simboleggiata dal pane.

Secondo Mc 6, invece, sono i discepoli che si preoccupano di sfamare la folla e, vedendo il problema con occhi puramente umani, non credono che Gesù possa trovare una soluzione soddisfacente.

In entrambi i casi, però, emerge l’abissale distanza fra Gesù ed i suoi discepoli, i quali sono condizionati da una valutazione umana dei fatti: ci vogliono tanti, troppi soldi per sfamare una folla simile! Se ne può trarre un insegnamento piuttosto ovvio: nessun uomo è in grado di dare la salvezza, cioè il pane, ma ciò è possibile a Gesù.

In Gv 6 la folla, dopo il miracolo, vuole prendere Gesù per farlo re, ma Gesù si ritira perché la folla ha male interpretato il “segno” ed ha frainteso il significato del pane. Se Gesù fosse un re terreno, non sarebbe in grado di donare la salvezza, per cui rifiuta tale attributo terreno.

In Mc 6 non c’è traccia di questo tentativo di fare re Gesù, ma tutto il Vangelo marciano sembra voler confermare l’episodio riferito da Giovanni sviluppando il tema del cosiddetto “segreto messianico”: il vero trionfo di Gesù non è quello che viene decretato dagli uomini dopo aver assistito ad un miracolo, ma è quello stabilito dal Padre con la resurrezione del Figlio, ucciso su una croce.

Sia il Vangelo giovanneo sia i Vangeli sinottici hanno in comune diversi elementi tematici, seppure sviluppati in modo differente: pane, vino, cena, alleanza, servo di YHWH, croce. A questo proposito, tutti gli evangelisti danno grande rilievo al significato teologico della “notte”, simbolo del rifiuto e del tradimento ed è interessante notare come l’Eucaristia sia strettamente collegata al tradimento ed al peccato, che si oppongono a ciò che concentra in sé tutta la vita di Cristo, di cui costituisce il culmine. Chi osteggia Gesù Cristo non può fare a meno di osteggiare l’Eucaristia, presenza sacramentale di Cristo.

C’è un diverso modo di tradurre in greco il termine ebraico basâr, corpo. Giovanni preferisce il termine sàrx (carne), mentre i Sinottici ricorrono al termine sôma (corpo). Nell’ambiente culturale, cui era rivolto il Vangelo giovanneo, il termine sôma era l’equivalente di “cadavere” ed era, pertanto, un termine ripugnante, che evocava la pratica dell’antropofagia. Il termine sàrx, invece, faceva riferimento alla persona umana intesa nella sua fragilità e debolezza.

In Giovanni il vocabolo sàrx, carne, riecheggia le polemiche con coloro che rifiutavano l’incarnazione di Dio, come i docetisti, vedendo in Gesù un essere puramente spirituale. Tra Dio e l’uomo, invece, esiste una “comunicazione incarnata”, senza la quale è impossibile incontrare Dio, Essere trascendente. L’abissale distanza tra Dio e l’uomo è stata colmata da Dio, che si è fatto uomo incarnandosi in Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e l’uomo.


Seconda lettura

Alcuni studiosi hanno interpretato l’intera pericope di Gv 6 come un’omelia sinagogale, di cui si può individuare lo schema in tre punti:

- partenza, costituita da una citazione della Tôrah

  • discorso, che spiega la frase citata dalla Tôrah

  • testo profetico sapienziale, che spiega quando e per chi si realizza la Tôrah.

Secondo tali studiosi, la citazione che darebbe avvio a Gv 6 sarebbe Es 16, di cui il Sal 78, 24-25 offre un’efficace sintesi: “Fece piovere su di essi la manna per cibo / e diede loro pane del cielo: / l’uomo mangiò il pane degli angeli, / diede loro cibo in abbondanza”. Sarebbe questo il contenuto del discorso esegetico tenuto da Gesù nella sinagoga, dopo il “segno” dei pani, mentre Is 54,13 (“E tutti saranno ammaestrati da Dio”, citato da Gv 6,45) spiegherebbe chi sono i destinatari del pane dato “per la vita” eterna: l’intera umanità.

In questa omelia si può riconoscere un filo conduttore: Gesù è il pane disceso dal cielo e chi lo mangia ha la vita se è attirato dal Padre (6,27.32.35.48.51.53.58). Gesù afferma di essere Pane, non ancora in senso eucaristico, bensì nel senso di Parola, di Lògos (di ragione che dà senso al mondo, di progetto di salvezza attorno al quale tutto è “ricapitolato”). L’auto-definizione di Gesù: “Io sono il pane disceso dal cielo” (6,41) riecheggia il nome sacro di Dio, YHWH (=IO SONO). Gesù solo, non altri, è il vero pane; nemmeno la manna, anche se donata da Dio al popolo eletto, era vero pane.

In Gv 6 è sottesa una vera e propria cristologia, condensata in un movimento di discesa e di ascesa (cf. anche Fil 2,6-11): il Verbo si è fatto carne (=è disceso), ritorna al Padre (=è asceso) e porta l’uomo al Padre. Gesù è il Cristo e porta l’uomo a Dio Padre: sono questi i termini di un’antropologia teologica, secondo la quale l’uomo trova il senso del suo esistere e del suo essere uomo solo in Cristo. L’uomo è libero in quanto è l’unico essere non determinato, perché quando nasce può diventare, dal punto di vista etico morale, ciò che vuole essere ed il prototipo da imitare è Gesù Cristo.


Terza lettura

Il capitolo 6 del IV Vangelo viene letto da alcuni autori in chiave eucaristica. Secondo tale prospettiva, la parola di Cristo è pane ed Eucaristia (o sacramento eucaristico). I due temi, in verità, s’incrociano dal momento che si intende per sacramento una realtà concreta che ne rivela e sottende un’altra più profonda. In Gv 6 c’è la Parola di Gesù e c’è l’Eucaristia, tra loro intimamente legate: senza la prima si può cadere nel ritualismo, senza la seconda nello spiritualismo. S’ipotizza che la comunità di Giovanni fosse turbata da fazioni in lotta tra loro: cristiani ritualisti troppo attaccati al gesto in sé e per sé e cristiani troppo inclini allo spiritualismo di matrice giudaica od ellenistica.

Allora come oggi si ripropone ogni volta il conflitto culturale ed ideologico circa il rapporto tra fede e religione. Va subito precisato che la fede vissuta storicamente, o fede incarnata, è religione e che non ha senso una separazione tra fede e religione come proposto dal teologo tedesco K. Barth, secondo il quale la fede è tale solamente se è assolutamente pura, mentre la religione è un semplice artificio umano da scartare in blocco perché nulla ha a che fare con la fede. Non può, però, esistere una fede che non sia incarnata e che non soffra i limiti della vita concreta; per rivelare il Padre e mettere l’uomo in relazione con Lui, Gesù, Parola eterna del Dio vivente, ha scelto di farsi uomo ed ebreo e quando la fede ha per oggetto il divino, che è entrato concretamente nella storia dell’uomo, diventa religione pur con tutti i limiti del vivere umano. Chi afferma di aver fede (in Dio) ma rifiuta la religione (e la Chiesa, perché fatta di pochi santi e di tanti peccatori) nega, di fatto, la Rivelazione avvenuta storicamente in Gesù di Nazareth e non accetta la redenzione dell’uomo, sancita dalla Nuova Alleanza nel segno concreto della morte in croce di Cristo e resa quotidianamente attuale da un atto liturgico (il rito). Infatti, il nostro rapporto con Dio non è diretto, perché noi non possiamo vederLo, ma è necessariamente mediato da Gesù Cristo, Dio incarnato ed entrato nella storia umana; grazie a Cristo l’uomo ha potuto incontrarsi con Dio mediante la religione ed il rito, cioè mediante fatti storici. Per far capire Dio all’uomo, Gesù si è espresso con parole umane e con gesti concreti, affidandosi al rito ed alle preghiere del suo popolo ed illuminando il senso delle Scritture con la sua personale vicenda storica. In ultima analisi, il rito religioso diventa necessario ed essenziale per stabilire il rapporto tra gli eventi salvifici avvenuti nel passato (memoriale) ed il futuro storico della salvezza (“…fate questo in memoria di me”).

Quarta lettura

Gv 6 potrebbe essere letto come un dibattito centrato sull’incredulità. Durante tutto il periodo antico testamentario la manna era stata il simbolo del sogno messianico ed in quest’ottica si colloca il dibattito, dinamico e ricco di colpi di scena, che vede da una parte Gesù, il quale si autodefinisce la “nuova manna” discesa dal cielo (6,32-35.48-51) e, dall’altra, i giudei, i nemici, gli avversari di Gesù. Dalla parte dei “nemici” di Cristo vengono annoverati i discepoli che abbandonano il Maestro e la folla, il cui comportamento è ambiguo e che viene coinvolta direttamente nel dibattito serrato. Sono pochi coloro che si schierano con Gesù, i Dodici (e nemmeno tutti!).

Sono almeno tre le ragioni del rifiuto di Gesù e delle sue parole da parte dei suoi “nemici”:

  1. la folla, dopo aver mangiato il pane del miracolo, vuole fare re Gesù, il quale rifugge dal bisogno di un facile miracolismo espresso dalla folla. Per Gesù la salvezza non risiede nella capacità di compiere prodigi, ma nel dono di sé fino al sacrificio della croce. La folla resta delusa da Gesù e tale delusione si sfogherà nell’invocazione e nella brutale richiesta a Pilato, il dominatore straniero, di crocifiggere Gesù. Dopo aver trovato Dio nel prodigio della moltiplicazione dei pani (il dono della manna), la folla va in crisi perché respinge l’incontro antropologico con Dio, divenuto uomo come uno di loro;

  2. la folla non accetta l’idea di un Messia noto a tutti come figlio di Giuseppe, il falegname di Nazareth (6,42) e di Maria, donna di umili condizioni. Un falegname ed una popolana non sono il massimo come genitori per chi deve essere il condottiero di Israele! Per gli ebrei è inconcepibile che Dio si renda visibile come uomo, proprio Lui che è l’Altissimo, l’Onnipotente, l’Invisibile, il totalmente Altro, il Signore dei Signori il cui santo Nome è impronunciabile. Il rifiuto dell’Incarnazione di Dio non era poi così facile da digerire per chi era abituato da secoli a farsi un simile concetto di Dio (e tale rifiuto radicale riguarda ancora oggi ebrei ed islamici, che pure adorano l’unico e vero Dio adorato dai cristiani!);

  3. mangiare il corpo e bere il sangue di Gesù (6,53-54), che si offre come cibo e bevanda per donare la vita e la risurrezione, è uno scandalo inaudito per gli ebrei non solo e non tanto per il rifiuto ancestrale dell’antropofagia, ma piuttosto perché essi comprendono che Gesù vuole la piena condivisione del suo destino umano da parte di chi vuole essere suo discepolo. È la paura delle conseguenze di una simile sequela a spaventare la gente: la croce si sta profilando all’orizzonte prossimo del Maestro galileo e se questo è il destino riservato a Lui, figuriamoci cosa devono aspettarsi i suoi discepoli! Se Cristo ha scelto la croce per salvare l’uomo, senza Cristo la croce diventa veramente una tortura insopportabile, una morte orrenda. Incredulo ed ottuso, l’uomo fa fatica ad accettare l’umiltà dell’Incarnazione di Dio e lo scandalo della croce, simbolo forte del dono totale di sé.

Dopo la colpa originale, radice di ogni male (Gen 3), l’uomo è deluso della vita perché le promesse, insite nella sua libertà, non vengono soddisfatte all’interno di un progetto umano e la fede in Dio non gli dà la certezza che le sue aspettative non andranno deluse. È troppo forte nell’uomo la volontà di autodeterminazione del proprio destino, troppo tenace il desiderio di decidere da solo ciò che è bene e ciò che male, troppo radicata la convinzione di poter fare a meno di Dio. La fede è una sorta di scommessa che, spesso, l’uomo non vuole e no si sente di fare.


Quinta lettura

Un’altra chiave di interpretazione di Gv 6 è la ricerca di Dio (6,24-29). Vi sono diversi modi, veri e falsi, di cercare Dio, il quale si sottrae ad una ricerca superficiale, interessata, egoistica, non ispirata dall’amore. La folla non capisce che dietro il segno della manna (Dt 8,2-4; Es 16) e del pane c’è il grande Amore di Dio, che si dona all’uomo.

Il tema della ricerca è anticipato dal Prologo (1,35-39) con la vocazione dei primi discepoli; spinti dalle parole del Battista (“Ecco l’Agnello di Dio…”) ad andare oltre le apparenze, essi vanno alla ricerca del mistero presente in quell’uomo (“Maestro, dove abiti?”) e su di lui scommettono tutta la propria esistenza (“Videro dove abitava”).

Nicodemo, la folla, i giudei ed i discepoli che abbandonano al proprio destino Gesù sono i prototipi “sbagliati” della ricerca di Dio.

Nicodemo è condizionato dai suoi angusti schemi mentali e dai suoi pregiudizi ed impiega molto tempo prima di scoprire che Gesù è Dio (deve “rinascere” dall’alto); la folla sbaglia l’obiettivo della ricerca, perché si accontenta del miracolo; i giudei guardano al passato, alla manna, e non sanno vedere ed interpretare il presente ed il futuro, che si realizzano in Gesù, vera manna discesa dal cielo.

Solo Giovanni il Battista comprende che Gesù offre qualcosa di nuovo e rappresenta, per così dire, l’anello di congiunzione tra l’Antico ed il Nuovo Testamento. Pur essendo ancora legato a Mosè ed all’antica manna data ai padri, esuli dall’Egitto, il Battista sa cogliere subito il significato della novità presente in Gesù, la manna vera.

Insieme al Battista, solo i Dodici riconoscono in Gesù la nuova manna: pochi!

Mentre i giudei sono alla ricerca di Dio sempre e solo mediante le pratiche religiose (6,28-29), Gesù propone come metodo di ricerca esclusivamente la fede. Chi legge il Vangelo soltanto in chiave moralistica e legalistica, lo rende insopportabile, lo banalizza. Gesù fa rilevare che la fede è fondamentale per compiere le opere di Dio e salvarsi: da sole, le opere (cioè, l’osservanza della Legge) non ottengono la salvezza, perchè Dio soltanto può salvare l’uomo. Le virtù umane, che s. Agostino definiva “splendidi vizi”, non hanno consistenza senza la fede: possono diventare semplice autocompiacimento.


Sesta lettura

Gv 6 è un racconto eucaristico e, insieme a Gv 17, sostituisce il racconto sinottico dell’istituzione dell’Eucaristia durante l’Ultima Cena del Signore. Possiamo rilevare i seguenti passaggi interpretativi:

  1. nutrimento escatologico: il racconto di Gv 6 inizia con la moltiplicazione dei pani, che suscita entusiasmo nella folla, la quale interpreta il miracolo in chiave messianica, ma con una prospettiva terrena, umana. La folla vede in Gesù il profeta che deve venire (attesa escatologica), ma riduce tale attesa a puro fatto politico (vuole farlo re). Gesù si ritira e la folla rimane delusa perché non ha capito nulla. Nella notte Gesù si rivela ai suoi sul lago: “­Io sono” (εγώ ειμι = egò eimi = YHWH). Gesù è Dio;

  2. cecità: la folla è cieca, non riconosce il segno (6,26) ma ne coglie solo i risvolti materiali. Gesù annuncia una nuova esistenza, che viene da Dio (incarnazione) e finirà in Dio (glorificazione). Salvando l’uomo, Gesù lo porta con sé al Padre. Per far comprendere il significato del cibo, Gesù si serve dei testi antico-testamentari (Pr 9,5; Sir 24,19-21; Is 55,1-3), i quali suggeriscono che gli insegnamenti di Dio diventano vera vita (= pane). Il simbolo non precede la realtà perché la realtà è già simbolo: il pane dato da Gesù è già la nuova vita, ne è il simbolo;

  3. colui che accoglie la Sapienza, il Lògos (= Dio stesso) diventa figlio di Dio, anticipando in questa vita la vita eterna. Il cibo mangiato dai padri è un cibo che perisce, ma Gesù è la nuova manna, il pane disceso dal cielo, il cibo che non perisce e che dura per la vita eterna. Egli è il pane escatologico mangiando il quale si è già inseriti nella vita eterna (cf. Es 16,7; Sal 78). Il discorso di Gv 6, considerato nel suo proprio contesto sapienziale, è un midrash: da un racconto se ne trae un’applicazione. Gesù parte dalla manna per parlare del suo pane, infinitamente superiore all’antica manna perché dona la vita eterna. Il pane di Gesù ci inserisce già ora in Dio (6,27.33.51), perché Egli è il pane di vita, il Regno, la vita eterna (6,35.42.48.51), il Figlio che viene dal cielo (= incarnazione). Attraverso il segno di Gesù il credente si dispone ad avere fede e ad unirsi a Cristo. Senza il segno non si può giungere agevolmente alla fede, ma attraverso il segno si può accogliere Gesù nella fede con maggior consapevolezza ed il segno può essere accolto solo se si viene istruiti da Dio (teodidattica, Is 54,13). Probabilmente in questi passaggi Giovanni ha presente le eresie, che negavano la vera umanità di Cristo (docetismo). Il pane dato da Gesù è per la vita del mondo; la morte di Cristo è vita se viene considerata nella sua dimensione redentrice. È donando la propria vita sulla croce che Gesù ha dato la vita agli uomini;

  4. discorso eucaristico: col sacramento si mangia il “corpo” e si beve il “sangue” di Cristo (6,53-58), entrando nella sua vita. Il discorso fatto da Gesù nella sinagoga è estremamente realistico, non metaforico come alcuni hanno voluto intendere riducendo la comunione con Cristo eucaristico a pura e semplice con Lui comunione spirituale. Il Lògos si è fatto “carne” e questa diventa nutrimento che dà la vita (sacramento). Masticando (l’evangelista usa proprio questo verbo piuttosto crudo, per indicare l’azione del mangiare il corpo di Cristo: trògō) il pane eucaristico, cioè il corpo (sàrx) di Gesù, si giunge al compimento della vera libertà entrando in comunione col Padre. L’Eucaristia ci conduce al Padre celeste, poiché Gesù ci ha rivelato il Padre attraverso di essa;

  5. crisi: Gesù è un Essere divino, che da sempre partecipa della gloria del Padre e che si è fatto uomo per condurre la sua e la nostra “carne” alla comunione col Padre attraverso la croce (dalla croce alla gloria mediante l’Eucaristia), con l’intervento vivificante dello Spirito. Donato da Cristo risorto e trasfigurato nella gloria, lo Spirito Santo trasfigura la nostra “carne” e ci consente di incontrarci col Risorto, che “siede alla destra della potenza di Dio” (Sal 110,1; Dn 7,13; Mt,26,64; Mc 14,62; Lc 23,69; At 2,33ss). Mediante la comunione con Gesù eucaristico, il credente ha già entrambi i piedi nella vita eterna!


La moltiplicazione dei pani

(Gv 6,1-15)


6,1 Dopo questi fatti, Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, 2 e una grande folla lo seguiva vedendo i segni che faceva sugli infermi. 3 Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. 4 Era vicina la Pasqua, la festa dei giudei.

L’episodio della moltiplicazione dei pani viene riportato da tutti e quattro gli evangelisti e l’interpretazione eucaristica del prodigio traspare in tutte le recensioni. In ogni caso si suppone un fondamento storico dell’accaduto, che, pur nella sua straordinarietà, non ha giovato gran che a Gesù ed alla sua causa. A motivo del fraintendimento del significato del miracolo da parte della folla ed anche a causa dell’ostilità dei farisei e di Erode (Mc 8,15; Lc 13,31) Gesù si vede costretto ad abbandonare la Galilea, costringendo i discepoli, disorientati dalla piega presa dagli avvenimenti, ad allontanarsi in barca dal luogo in cui si sta profilando la tentazione di un messianismo temporale. Lo storico può concludere che fra queste due evidenze, cioè il ritiro di Gesù e la partenza forzata dei suoi discepoli, è accaduto un evento che ha suscitato meraviglia e scalpore.

Gesù compie il ”segno” dei pani in Galilea, la sua “patria” tanto amata ed altrettanto ingrata, nonostante che qui Egli abbia compiuto numerosi prodigi (Mt 13,57; Gv 4,44). L’autore del IV Vangelo mette in scena gli attori dell’episodio: Gesù, i discepoli, la grande folla. Nessuno degli evangelisti specifica la località nella quale è avvenuto il miracolo; solo Matteo (15,29) e Giovanni (6,3) situano l’evento su un monte con evidente intenzione di stampo teologico. Si suppone, però, che l’episodio della moltiplicazione dei pani sia avvenuto nella regione montuosa di Tabsga, prospiciente il lago di Galilea, tra le località di Tiberiade e di Cafàrnao, sulla riva occidentale del lago.

Gesù andò all’altra riva… Perché Gesù si sposta? Secondo Mt 14,13 Gesù aveva intenzione di sottrarsi al clima minaccioso ed a Lui ostile fomentato dai giudei, mentre secondo Mc 6,31 il Maestro voleva prendersi un momento di pausa e di riposo insieme ai suoi discepoli. Giovanni, invece, non specifica il motivo dello spostamento di Gesù, ma lascia intendere che Egli volesse prendere le distanze dai luoghi a Lui familiari ed ormai ostili. Nel destino umano di Gesù è chiaramente previsto il rifiuto della sua Parola, della sua opera e della sua stessa Persona!

Una grande folla lo seguiva. Attratta dai miracoli compiuti da Gesù, la folla segue con entusiasmo il taumaturgo, ma si tratta di un entusiasmo superficiale alimentato da un interesse egoistico e dalle vedute assai strette. Il grande entusiasmo d’oggi prepara l’accoglienza trionfale del “Profeta” quando entrerà in Gerusalemme, poco prima della passione, ma contrasta in modo stridente con le urla scomposte che chiederanno a Pilato di mandare in croce quest’Uomo che ha deluso le loro attese. L’esperienza della storia insegna che le adunate oceaniche non consentono quasi mai alla “folla anonima” di poter esprimere sentimenti genuini e sinceri nei confronti di coloro che sanno coagulare attorno a se l’interesse di tante persone, specie quando sono in gioco interessi politici od ideologici; spesso la volontà decisa di poche persone sa orientare ed influenzare il comportamento di molti. Oggi sugli altari e domani nella polvere…, anzi, su una croce! Dall’osanna al crucifige il passo è, spesso, assai breve.

Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Il riferimento alla montagna dà un tocco di solennità all’episodio; Gesù ripete il gesto di Mosè, salito sul monte Sinai per ricevere da Dio la Legge (Es 9,20; 24,1ss;34,2-4) ed il fatto che si metta seduto attorniato dai suoi discepoli sembrerebbe avvalorare tale accostamento tra Gesù e Mosè. Quando un maestro (o rabbì) si metteva seduto, circondato dai suoi allievi, significava che stava per impartire il suo insegnamento sulla Legge e Gesù, che è la Nuova Legge di Dio, sta accingendosi ad istruire i suoi discepoli sul contenuto e sul significato di questa Legge, fondata sull’amore e sul dono di sé fino al sacrificio supremo della propria vita. La scelta del monte non è casuale, considerato il significato simbolico che esso riveste nel linguaggio biblico, sia in rapporto al dono delle Dieci Parole avvenuto sul Sinai che in rapporto alle esigenze cultuali, visto che proprio sulle cime dei monti sorgevano i più importanti luoghi di culto perché si riteneva che fossero i luoghi più vicini alla divinità, che aveva la sua residenza “in alto”, nel cielo. La scelta del monte potrebbe collegarsi anche all’immagine del monte di Dio (Is 2,2ss) su cui viene preparato il grande banchetto messianico (Is 25,6-10) per tutti i popoli (Is 56,7; 66,20). Nel suo commento al Vangelo di Giovanni, s. Agostino ritiene che “il Signore sulla montagna è il Verbo nelle altezze dei cieli” (In Joannem 24,3).

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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