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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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04/06/2010 18:25
 
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Il Vangelo di Giovanni

La storia della Chiesa è ricca di questi reciproci scambi di testimonianza di fede. Popoli evangelizzati nei secoli scorsi da missionari provenienti da paesi cristiani, ora sono pronti ad evangelizzare questi stessi paesi, che hanno perso per strada la fede e si sono “scristianizzati” o “secolarizzati”.

Lo invitarono a rimanere”. Quest’invito sarà rivolto a Gesù risorto anche dai due discepoli di Emmaus, rapiti ed intimamente infiammati dalle parole del Maestro, che spiegava loro il senso delle Scritture (Lc 24,29). Chi “rimane” con Gesù o “dimora” presso di Lui (Gv 1,39), entra in comunione intima col Verbo eterno di Dio, ne “respira” l’eternità, ne “sperimenta” l’infinita bontà e misericordia e ne diventa “testimone” verace e credibile. Coloro che sanno “rimanere” con Gesù hanno le carte in regola per essere i “veri adoratori in spirito e verità”, che il Padre va continuamente cercando (4,23).

Vi rimase due giorni”. L’esperienza del Cristo fatta dai samaritani è chiaramente limitata, pre-pasquale, non ancora illuminata dal bagliore della risurrezione di Gesù, che avverrà il terzo giorno. I discepoli, che saranno di lì a poco i testimoni privilegiati della risurrezione di Gesù, “rimarranno” col Risorto per ben quaranta giorni (At 1,3), un tempo molto lungo per indicare ed esprimere la pienezza dell’esperienza che un uomo può fare di Dio.

Basti ricordare i 40 giorni del diluvio (Gen 7,17), i 40 anni trascorsi dagli ebrei nel deserto durante l’esodo dall’Egitto (Dt 1,3), i 40 giorni trascorsi da Mosè sul monte Sinai prima di ricevere il Decalogo (Es 24,18), i 40 giorni trascorsi nel deserto dal profeta Elia in fuga dal re Acab (1Re 19,8), i 40 giorni trascorsi da Gesù nel deserto prima dell’inizio della vita pubblica (Mt 4,2; Mc 1,12; Lc 4,2). Il continuo ricorrere nella Bibbia del numero quaranta (e di svariati altri numeri, come il 2, il 3, il 4, il 6, il 7, il 10, il 12, il 70, il 1000 e multipli vari) ne sottolinea il chiaro valore simbolico e sacro, tanto caro alla cultura semitica in genere ed ebraica in particolare. Attribuire ai numeri un valore assoluto può essere causa di confusione, di sconcerto se non di scetticismo per la nostra mentalità eccessivamente razionalistica (come i sette giorni della creazione di Gen 1,3-2,4a), ma può prestarsi anche a letture errate specie da parte di movimenti religiosi d’impronta apocalittica, che cercano nei numeri la “lettura” della fine del mondo e della salvezza di un’élite di pochi e scelti eletti (come i 144mila salvati di Ap 7,4).

Il Salvatore del mondo”. In un primo momento Gesù è stato riconosciuto come giudeo, poi è stato paragonato a Giacobbe, quindi ritenuto capace di dare un’acqua che disseta per sempre e, infine, considerato come profeta. Gesù conclude il suo dialogo con la samaritana autoproclamandosi messia. La donna riferisce questo annuncio di proclamazione (4,29) sotto forma di domanda (“Non sarà forse lui il Cristo?”), lasciando ai suoi concittadini il compito di impegnarsi, ognuno per conto proprio, nei confronti del probabile Unto del Signore. Ben difficilmente i samaritani si sarebbero spinti ad usare un termine estraneo alla loro cultura, presente invece nel contesto culturale ellenistico. Forse Giovanni ha inteso polemizzare, in questo passo del suo Vangelo, con l’usanza pagana di divinizzare i monarchi del tempo, ai quali veniva attribuito il titolo di “salvatore” (in greco sotèr) con evidente intento adulatorio o, forse, ha voluto ridicolizzare il culto di Asclepio (o Esculapio), medico divino, figlio di Apollo, di cui si celebravano le qualità taumaturgiche e filantropiche e che veniva venerato proprio in Epidauro.

Mondo. In questo caso il termine “mondo” è usato in senso positivo; non si tratta qui del mondo malvagio, che altrove l’evangelista stigmatizza e considera con disprezzo, ma del mondo amato da Dio e destinato alla salvezza per opera del Figlio (3,16-17), quello da cui sarà tolto il peccato (1,29). Il termine “mondo” consente di spaziare oltre gli angusti confini della nazione samaritana e di coinvolgere nel progetto della salvezza il mondo intero. Tutto il racconto è teso al superamento di ogni confine geopolitico, sociale, culturale e religioso.

La conversione della samaritana e di gran parte della popolazione di Sicàr ha consentito a Gesù di superare, anche agli occhi dei suoi discepoli, le barriere etniche (4,9) e le differenze cultuali vincolate a specifici luoghi di culto (4,21). Ora Gesù “dimora” a pieno titolo anche presso gli eretici samaritani. Il superamento d’ogni frontiera non elimina il legame della salvezza con Israele, poiché “la salvezza proviene dai giudei” (4,22). Il mondo, destinatario della salvezza, rimane incluso nella prospettiva di Israele, la cui vocazione di essere segno della volontà salvifica universale di Dio viene avvalorata dalla vicenda storica di Gesù di Nazareth (cf. Es 19,5-6).

Dal punto di vista teologico, il mondo esiste solo se messo in riferimento ad Israele e la riconciliazione, in Cristo, di Samaria con Giuda anticipa la riconciliazione universale di tutti i popoli tra loro e con Dio. Così, mediante la parola ed il comportamento di Gesù, il giudeo venuto tra loro, i samaritani si sono proiettati verso un futuro di pace e di fratellanza con gli altri popoli ed hanno compreso che quest’uomo non è solo un Messia nazionale, ma “veramente il Salvatore del mondo”.


La guarigione del paralitico

(Gv 5,1-15)


Il racconto della guarigione di un uomo, paralitico da ben 38 anni, presenta alcune anomalie rispetto agli altri racconti di prodigi compiuti da Gesù. Il miracolo viene operato per libera iniziativa di Gesù, senza che il malato ne faccia specifica richiesta; il miracolato rimane, almeno in apparenza e ad una lettura superficiale del testo, una figura alquanto scialba, incapace di un gesto di vera riconoscenza nei confronti del suo benefattore e di una testimonianza sia pur minimamente coraggiosa; per la prima ed unica volta nel IV Vangelo Gesù associa la malattia fisica ad un disordine morale del malato. Alcuni elementi narrativi lasciano sconcertato il lettore, come la scelta casuale di quel particolare malato, che giaceva a terra in mezzo ad una moltitudine d’altri malati conciati come lui o peggio di lui; l’atteggiamento sconfortato di quest’infermo di fronte a Gesù, che gli chiede se vuole essere guarito; la sua ignoranza di colui che lo ha guarito ed il suo silenzio allorquando Gesù lo ritrova nel tempio. Per contro, l’evangelista sviluppa un tema teologico interessante su una gestualità tipica dell’essere umano, l’unico essere del creato abilitato dalla natura a “camminare”.

Nel contesto letterario e teologico dell’Antico Testamento, il verbo “camminare” ha frequentemente un valore metaforico ed indica il modo con cui un credente sa condurre la propria esistenza e sa compiere delle scelte morali in relazione alle opzioni di fede (“con Dio” o “dinnanzi a Dio”). Rimanendo nell’ambito del racconto in esame, il “camminare” si contrappone all’incapacità di muoversi, il che equivale ad una condizione di morte. Colui che giace malato ed impossibilitato a muoversi è come se fosse morto (condizione espressa dal verbo “giacere”). Per far camminare nuovamente il paralitico, Gesù usa il verbo “alzati! ”, che in greco viene espresso con un “égheire”, termine tradizionalmente usato per indicare la risurrezione.

Il miracolo viene ambientato nella piscina di Bethesda in occasione di una non meglio precisata “festa dei giudei”. Viene solo evidenziato il fatto che il prodigio è stato compiuto da Gesù in giorno di sabato.


5,1 Dopo queste cose, ci fu una festa dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2 Ora, a Gerusalemme presso la porta delle pecore vi è una piscina chiamata in ebraico Bethesda, che ha cinque portici. 3 Sotto di essi giaceva una moltitudine di infermi: ciechi, zoppi, invalidi che attendevano il movimento dell’acqua. 4 L’angelo del Signore infatti discendeva in determinati momenti nella piscina e agitava l’acqua; il primo che vi entrava dopo che l’acqua era stata agitata recuperava la salute, qualunque fosse la sua malattia.

L’evangelista non specifica volutamente di che festa si tratta, forse anche per non creare una sorta di dualismo o di concorrenza tra questa festa particolare ed il sabato, che sarà ricordato più avanti nel corso del racconto. Si tratterebbe, però, di una delle grandi feste ebraiche in occasione delle quali i pellegrini ebrei si recavano in gran numero a Gerusalemme per offrire i loro sacrifici presso il Tempio. La menzione di “una festa dei giudei” non avrebbe solo lo scopo di giustificare la presenza di Gesù a Gerusalemme, ma avrebbe piuttosto la finalità di collocare l’attività di Gesù, “in parole ed opere”, in quella prospettiva della salvezza che Israele celebrava quando commemorava la sua relazione con il Dio dell’Alleanza.

Gesù salì a Gerusalemme. Come ogni giudeo osservante, Gesù si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme, la città santa dove prenderà forma e si svilupperà il contrasto tra Lui e le autorità religiose giudaiche, fino alla tragica conclusione del Gòlgota. Da ogni regione della Palestina si può arrivare a Gerusalemme solo affrontando una salita, dal momento che la città santa si trova a circa 850 m di altitudine sul monte Sion (la cima di un monte veniva considerata il punto della terra più vicino a Dio e qui sorgevano abitualmente altari e luoghi di culto, oltre alle roccheforti) e, come ogni normale e pio pellegrino, anche Gesù canta i salmi graduali o delle ascensioni (Sal 120-134) man mano che si avvicina alla città di Davide. Il verbo “salire” assume anche un significato teologico, racchiuso nel movimento interiore suscitato dalla grazia e compiuto dall’uomo per avvicinarsi a Dio mediante uno sforzo della volontà, la quale scaturisce da una decisione consapevole della propria coscienza, è sorretta dalle facoltà intellettive e sfocia in una scelta di vita, spesso coraggiosa e controcorrente. Per camminare e salire verso Dio non è sufficiente, di solito, affidarsi al solo slancio emotivo che, il più delle volte, si esaurisce con il sorgere delle prime vere difficoltà della vita.

La piscina di Bethesda, dove Gesù si reca una volta giunto in città, viene descritta e localizzata dall’evangelista con dettagli che ne indicano una buona conoscenza personale. La piscina, come è stato confermato anche dagli scavi archeologici, si trovava vicino alla Porta Probatica (o delle pecore), cioè quella porta d’ingresso delle mura di cinta attraverso cui erano fatte passare le pecore, destinate ai sacrifici nel Tempio. Le proprietà taumaturgiche dell’acqua della piscina erano note fin dall’antichità semitica pre-giudaica e questo spiega la presenza di una numerosa folla di sventurati, pronti a gettarsi od a farsi gettare in acqua al primo accenno d’increspatura della sua superficie per opera “dell’angelo del Signore”. La tradizione popolare annetteva al “movimento dell’acqua” una grandissima importanza, nella convinzione che Dio stesso (“l’angelo del Signore”) volesse premiare con la pronta guarigione i malati più lesti o più furbi a cogliere al volo la buona occasione. L’evangelista potrebbe aver scelto questo scenario di carattere cultuale (pagano o giudaico) allo scopo di squalificarlo di fronte all’unico Salvatore, l’uomo Gesù, che può guarire senza il bisogno di ricorrere all’acqua della piscina “miracolosa”, sostituendosi all’angelo del Signore dal momento che Egli stesso è il Signore.


5 C’era là un uomo che viveva da trentotto anni nella sua infermità. 6 Gesù, vedendolo giacere disteso e sapendo che si trovava in questa condizione già da lungo tempo, gli dice: “Vuoi diventare sano?”. 7 L’infermo gli rispose: “Signore, non ho nessuno che mi porti nella piscina quando l’acqua si agita e, mentre io cerco di arrivarci, un altro vi scende prima di me”. 8 Gesù gli dice: “Alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina!”. 9 E subito quell’uomo divenne sano e prese il suo giaciglio e camminava. Ma quel giorno era sabato.

Gesù “vede” un uomo tra tanti e, come al solito, “sa” che quell’uomo è malato “fuori e dentro” (più dentro che fuori…) da tanto, troppo tempo. Di che cosa soffre quest’uomo, di cui l’evangelista dice solo che è affetto da asthéneia (in italiano, astenia)?

Qualche autore ha contestato il presupposto tradizionale secondo il quale l’infermo del racconto fosse un paralitico, avanzando l’ipotesi che egli non fosse altro che un nevrastenico, il quale si compiaceva in un rifiuto di vivere (“viveva nella sua infermità”). Si spiegherebbe così la sua passività disarmante e sconcertante anche davanti alla prospettiva di una pronta guarigione, implicita nella domanda di Gesù, il quale non domanda “vuoi guarire?” ma, in modo assai curioso e strano, “Vuoi diventare sano?”.

Evidentemente quest’uomo ha bisogno di una scossa, in grado di riscuoterlo dall’apatia e dall’autocommiserazione, che lo divora dal di dentro come un cancro dello spirito da ben trentotto anni. Sollecitato da Gesù con una domanda che, di per sé, richiederebbe un “sì” od un “no”, l’infermo tergiversa e risponde con una constatazione di impotenza che suona quasi come una scusa: “Non ho nessuno che mi porti nella piscina...”. Se era così gravemente infermo, chi lo aveva condotto alla piscina o come aveva fatto ad arrivarci? “Mentre io cerco di arrivarci, un altro vi scende prima di me”.

Questo sventurato sembra avere l’abitudine di scaricare su altri la responsabilità del proprio profondo disagio interiore, confermando la diagnosi di una malattia psichica. Impotente (“giaceva disteso”) e condannato all’isolamento, quest’uomo sembra essere una specie di escluso dalla vita, un emarginato rassegnato e disperato (“Io non ho nessuno…”), incapace anche di verificare l’esistenza, accanto a sé, di una presenza amica che gli sta offrendo un aiuto. Gesù gli è assai vicino, ma l’infermo sembra non accorgersene. In realtà, quest’uomo è morto “dentro” e Gesù gli ordina di tornare alla vita: “Alzati (égheire), prendi il tuo giaciglio e cammina”.

Più che la guarigione di un infermo sembra la risurrezione di un morto, anche se si tratta di una morte spirituale, dell’anima.

Alzati” e scrollati di dosso la paura di vivere e di assumerti le tue responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini; smettila di piangerti addosso e di aspettare che altri decidano per te cosa devi fare della tua vita e del tuo destino.

Prendi il tuo giaciglio” e non pensare di dover sempre dipendere dagli altri. Anzi, saranno gli altri a doversi aspettare qualcosa da te; aiutando gli altri, aiuti anche a trovare te stesso ed a comprendere cosa Dio vuole da te nella vita che ti ha donato.

Cammina”, perché d’ora in poi non avrai più scuse. La responsabilità di una conversione radicale è solo ed esclusivamente tua e non puoi più incolpare qualcun altro della tua incapacità di affrontare la vita con dignità, con senso di responsabilità e con coraggio.

E subito quell’uomo divenne sano. La guarigione fa immediatamente seguito alle parole di Gesù. La paura di vivere di quell’uomo si dissolve come nebbia al sole e l’impossibilità a muoversi ed a prendere decisioni autonome (paralisi del corpo e dello spirito) si risolve immediatamente: “prese il suo giaciglio e camminava”. Per poter camminare con le proprie gambe, il malato deve dimostrare di essere capace anche di portare su di sé il fardello delle proprie pene, delle angosce esistenziali, delle incertezze e delle scelte difficili (“prese il suo giaciglio”) che ogni essere umano deve saper affrontare nella vita di ogni giorno, diffidando di coloro che offrono una facile soluzione a tutti i problemi dell’esistenza.

Ma quel giorno era sabato. I giudei osservanti si rendono conto di due cose: 1) Gesù agisce in piena libertà di fronte alla Legge; 2) una guarigione miracolosa in giorno di sabato deve necessariamente far pensare alle parole dei profeti (Is 29,18; 35,4-6; 42,16; Sof 3,19), che hanno identificato nella guarigione degli infermi il contrassegno del tempo della salvezza definitiva. Se Gesù ha ordinato al miracolato di trasportare la propria barella, nonostante l’esplicito divieto legale di portare pesi e di compiere qualsiasi tipo di lavoro manuale in giorno di sabato, lo ha fatto perché fosse evidente a tutti la presenza della salvezza escatologica, di cui la guarigione prodigiosa era il segno evidente e concreto.

Era sabato. L’istituzione del sabato caratterizzava la tradizione religiosa di Israele. Dando equilibrio al ritmo dell’esistenza, il sabato liberava l’uomo dal suo lavoro, affinché si rivolgesse esclusivamente verso Dio, suo Creatore e Salvatore ed affinché Israele, un tempo schiavo in Egitto, si ricordasse di Colui che lo aveva liberato dalla schiavitù (Dt 5,12-15). Nel corso dei secoli, però, la casuistica aveva moltiplicato le proibizioni, aumentando le penalità. Operando una guarigione miracolosa su di un uomo malato da ben trentotto anni (colpiti da questa cifra, alcuni commentatori hanno pensato a Dt 2,14 e cioè al tempo trascorso nel deserto da Israele, “generazione ribelle” ed errante, sorretto solo dalla speranza di arrivare alla terra che Dio gli aveva promesso), Gesù dimostra d’essere superiore all’istituzione del sabato e di collocarsi nel contesto dell’agire divino, che conduce la creazione verso il suo compimento definitivo. Il giorno, cui si riferisce indirettamente l’evangelista, è il vero sabato, quello in cui culmina l’opera di Dio mediante l’agire di suo Figlio.


10 Dicevano dunque i giudei a colui che era stato guarito: “E’ sabato! Non ti è lecito portare il tuo giaciglio”. 11 Ma egli rispose loro: “ Colui che mi ha reso sano, quello mi ha detto : «Prendi il tuo giaciglio e cammina»”. 12 Gli domandarono: “Chi è l’uomo che ti ha detto : «Prendi e cammina»?”. 13 Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù era scomparso perché quel luogo era affollato. 14 Poco dopo, Gesù lo trova nel Tempio e gli dice: “Ecco, sei divenuto sano! Non peccare più, affinché non ti succeda qualcosa di peggio!”. 15 L’uomo se ne andò e disse ai giudei che era Gesù colui che lo aveva reso sano.

Prigionieri del legalismo più rigoroso ed intransigente, i giudei mettono in secondo piano l’evento prodigioso della guarigione del paralitico e fanno risaltare solamente l’interdetto legale: non è lecito trasportare alcunché in giorno di sabato. La dignità umana viene subordinata alla Legge, resa dagli uomini motivo di morte invece che essere messa al servizio della vita (Rm 7,10). Le autorità religiose giudaiche non sanno comprendere che se Dio opera segni prodigiosi nel giorno a Lui consacrato da quella stessa Legge, che Egli aveva consegnato a Mosè, è perché si sono inaugurati i tempi nuovi, quelli della salvezza per Israele e per l’intero genere umano: “Ecco il vostro Dio, è colui che viene a salvarvi…Allora gli occhi dei ciechi si apriranno, le orecchie dei sordi si schiuderanno, allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto griderà di gioia” (Is 35,4-6). La guarigione di quell’uomo è il segno evidente che la salvezza escatologica si è resa presente storicamente in Gesù, ma i giudei sono accecati dalla loro supponenza ed arroganza, già denunciata e condannata dagli antichi profeti di Israele (cf. Is 6,9-10): essi ascoltano con le orecchie ma non sanno comprendere le parole che sentono, vedono con gli occhi ma non sanno interpretare gli eventi di cui sono spettatori, perché la loro intelligenza s’ è fatta ottusa ed il loro cuore si è appesantito nell’orgoglioso compiacimento di se stessi e della loro conoscenza della Legge, perciò si sentono legittimati a giudicare le azioni e le intenzioni dei loro simili.

Quando i custodi della legalità religiosa gli fanno notare la gravità della sua azione (“Non ti è lecito portare il tuo giaciglio”) per la flagrante violazione del sabato, il miracolato non sa trovare di meglio che addossare la responsabilità del suo agire a chi lo ha guarito: “Colui che mi ha reso sano mi ha detto…”. In fin dei conti, il pover’uomo è da capire; probabilmente non si è nemmeno reso conto di contravvenire alla Legge. Dopo anni di sofferenza fisica e morale, contrassegnati da disperazione, solitudine, risentimenti contro tutti (“Non ho nessuno…”) e, forse, anche contro Dio che gli ha tolto la salute, il paralitico si ritrova improvvisamente in piedi e pronto a ricominciare a “vivere” come un uomo normale. L’ultimo dei suoi pensieri è che quell’uomo, che lo ha miracolosamente guarito, gli stia facendo violare la Legge in modo grave; la risposta data ai giudei potrebbe sembrare, a prima vista, un’elusione di responsabilità ma, in realtà, si tratta di una attestazione dell’autorità del guaritore. “Colui che mi ha reso sano…” è una formula un po’ ridondante, quasi reverenziale, che rimanda al misterioso personaggio di cui non conosce il nome, ma di cui ha udito la parola (“..quello mi ha detto”) capace di dissolvere in un istante anni ed anni di sofferenze e di delusioni. Ma è proprio quella “parola” che scandalizza i benpensanti giudei, i quali non sanno capacitarsi del fatto che un uomo, in grado di operare prodigi, possa permettersi di impartire un ordine così palesemente trasgressivo ed offensivo della sacra Tôrah.

Chi è l’uomo che ti ha detto…? Coloro che si reputano come gli unici depositari della conoscenza ed i legittimi interpreti della Legge prendono le debite distanze da chi ha apertamente violato una delle norme più rigorose, meglio circostanziate e sanzionate dell’intera Tôrah. Anche se ha compiuto un prodigio, quest’uomo ha preteso di sostituirsi a Dio ed alla sua santa Legge e va, quindi, neutralizzato al più presto; dal momento che Gesù compie miracoli in giorno di sabato, è del tutto probabile che agisca per conto ed in nome di Beelzebul (Lc 11,14-20).

Il miracolato non “sa” chi sia il suo benefattore, che, nel frattempo, si è eclissato tra la folla e non ha nemmeno atteso di essere ringraziato. La sua “ignoranza”, però, dura poco, visto che l’incontro con Gesù si ripete a breve distanza dalla piscina. Il miracolato ha così l’opportunità di “fare conoscenza” di Colui che lo ha guarito in un luogo più adatto; la piscina, infatti, è uno spazio più o meno pagano perché vi si rifugiano coloro che sono esclusi dal Tempio a causa delle loro infermità, in ossequio alla legge della purità legale (Lv 11,1-16,34). Per iniziativa di Gesù, dunque, il secondo incontro con l’ormai ex paralitico, avviene nel Tempio, la casa del Padre, il luogo della Presenza dove, con tutta probabilità, il miracolato si è recato per far constatare l’avvenuta guarigione ai sacerdoti, deputati a riammetterlo al culto del Tempio come prescritto dalla Legge. Nel Tempio Gesù si fa “conoscere”, provocando nel suo interlocutore una decisione.

Ecco, sei divenuto sano! Non peccare più…”. L’avvenuta guarigione fisica viene confermata da Gesù insieme a quella dello spirito (“non peccare più”). A prima vista, sembra che Gesù colleghi la malattia del corpo con il peccato, di cui sarebbe l’ovvia conseguenza ma, in realtà, Egli mette sullo stesso piano la salute del corpo e quella dello spirito, la cui malattia più grave è il peccato. Spesso ci si preoccupa del benessere fisico, dimenticando che una situazione di peccato uccide la propria anima, destinandola alla morte eterna! Se si pone tanta cura ed attenzione per la salute fisica del proprio corpo, a maggior ragione ci si dovrebbe preoccupare della salute dello spirito e, quindi, di una condotta senza peccato. Il malato del racconto, prima di essere guarito da Gesù, non era solo fisicamente “paralizzato”, impossibilitato a muoversi, ad essere autonomo ed autosufficiente, ma era, molto probabilmente, incapace di slanci interiori e di rapporti personali con gli uomini e con Dio, prigioniero del proprio egoismo, di un’insanabile disperazione e del più cupo pessimismo. Guarendolo soprattutto da se stesso, Gesù gli ha offerto l’opportunità più unica che rara di elevare nuovamente il cuore e la mente verso la fonte stessa della vita, mediante il rinnovamento del rapporto personale con Dio e di ampliare l’orizzonte dei rapporti umani abbandonando ogni atteggiamento di meschino egoismo e di superba presunzione. La condizione essenziale per “mantenersi sano” è quella di evitare di ricadere in una situazione di peccato “affinché non ti succeda qualcosa di peggio”. Cosa c’è di peggio della malattia? Ovvio, la morte.

Il miracolato ha con tutta probabilità compreso la lezione e tace. Non c’è alcun bisogno di replicare all’ammonimento severo e minaccioso di Gesù, le cui parole sono penetrate in profondità in quel cuore ormai aperto all’ascolto e pronto alla testimonianza. Allontanatosi da Gesù e portando dentro di sé l’eco di quelle parole, che suonano più come un incoraggiamento alla conversione vera e radicale del cuore che come una semplice minaccia di punizioni future, quell’uomo si reca dalle autorità giudaiche e riferisce di essere stato guarito da Gesù.

Il racconto del miracolo di Bethesda suggerisce due considerazioni finali: 1) Gesù, attraverso la guarigione di una malattia sia fisica che psichica, dimostra di poter disporre della vita intesa nella sua totalità; 2) a Lui compete anche il giudizio finale sull’uomo.

Disteso sul suo giaciglio, tra una folla di altri esseri umani distesi a terra come lui, l’infermo del racconto è l’immagine simbolica dei “morti” che il Padre ed il Figlio vogliono “vivificare”. Il verbo usato da Gesù per guarire il malato (“Alzati! ”) è identico a quello da Lui utilizzato per indicare il potere del Padre di resuscitare i morti (cf. 5,21), potere condiviso anche dal Figlio e riguardante l’intera umanità. Ecco perché questo personaggio rimane senza nome (viene semplicemente indicato col sostantivo generico di uomo) ed il suo male, di così lunga durata, non viene specificato (la “paralisi”, come viene generalmente indicata la malattia di questo infermo, esemplifica solo la sua situazione di non autosufficienza psico-fisica), per indicare la condizione comune di coloro che sono incapaci di “camminare” in senso biblico, cioè sono incapaci di “camminare con Dio” e sono impotenti a rimettersi in piedi da se stessi. Ponendo il protagonista tra i ciechi e gli zoppi, l’evangelista lo inserisce nel novero di coloro che sono i beneficiari della Promessa, invitati dal padrone di casa al banchetto escatologico della fine dei tempi (cf. Lc 14,21). A Gesù che gli chiede: “Vuoi divenire sano?”, il malato risponde con un tono passivo e disilluso. La sua risposta potrebbe essere interpretata in questo senso: la guarigione è impossibile se un “uomo” non viene a lui e lo immerge nella piscina. Gesù restituisce la salute a questo morto-vivente, ma non con l’acqua agitata e curativa della piscina, bensì con la sola efficacia terapeutica della sua “parola”, mediante la quale il Figlio, l’Inviato del Padre, comunica la vita (cf. 5,24). L’enunciazione del comando (“Alzati… e cammina”) e la constatazione del risultato immediato (“E subito quell’uomo divenne sano”) è un procedimento che ricorda Gn1,3: “Dio disse:«Sia la luce»; e la luce fu”. Camminando liberamente, il protagonista è entrato in un nuovo ordine di esistenza pur portando come segno della propria “morte” il giaciglio, ormai reso inutile dalla Parola sanante di Gesù. Il giaciglio resta come testimonianza del gesto salvifico di Dio avvenuto “in quel giorno”. Secondo questa prospettiva, la “festa dei giudei” non meglio precisata potrebbe già orientare verso l’evento della salvezza, prima ancora che il racconto si concentri sul sabato escatologico.

Dal canto suo il giudizio esprime, in senso negativo, il carattere assoluto del dono di Dio. Più che il giudizio in sé e per sé, a Dio interessa la vita simboleggiata dalla salute recuperata, che caratterizza la prima parte del racconto. Il giudizio incombe pesantemente nella seconda parte della pericope, quando Gesù ritrova il malato, ormai guarito, nel Tempio. Presso la piscina, dopo averlo avvicinato con una domanda riguardante la sua stessa esistenza (“Vuoi diventare sano?”), Gesù aveva rimesso in piedi l’infermo di propria iniziativa e senza farsi prima riconoscere, ma nel Tempio, fattosi conoscere dal miracolato, Egli lo provoca ad un impegno personale senza soluzioni di continuità (“Non peccare più!), dal che si può dedurre che quell’uomo era in precedenza colpevole di una situazione di disperazione, che gli impediva di comprendere che Dio vuole solo la vita e non la morte dell’anima. Per Giovanni la vera essenza del peccato è l’incredulità, che aveva fatto dire al malato:”Non ho nessuno” (che mi salvi). All’invito di non peccare più, Gesù fa seguire una minaccia piuttosto pesante: ”…affinché non ti succeda qualcosa di peggio”. Questo “peggio” è il giudizio, la morte definitiva che avverrebbe qualora l’uomo non sapesse cogliere il senso della sua nuova situazione e non ne traesse le debite conclusioni. La risposta del miracolato è l’azione immediata, che contrasta con la precedente situazione di “paralisi”: egli si reca immediatamente dai giudei per annunciare che colui che lo ha guarito è Gesù, dimostrando, così, di essere divenuto “credente” e di aver accolto in sé la “vita”.


Gesù “pane di vita”

(Gv 6,1-71)


L’evangelista Giovanni, pur essendo stato testimone diretto dei fatti avvenuti durante l’Ultima Cena, non ha tramandato il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia come hanno fatto, invece, gli evangelisti sinottici (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) e s. Paolo (1Cor 11,23-25), ma ne ha fatto una chiara allusione (6,51-58) nel contesto di un grande discorso, avvenuto presso la sinagoga di Cafàrnao il giorno dopo aver compiuto il prodigioso “segno” della moltiplicazione dei pani, riportato con poche varianti anche dai Sinottici (Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10-17). Più che narrare i fatti come si sono realmente svolti, cioè l’istituzione dell’Eucaristia durante l’Ultima Cena, probabilmente Giovanni si è preoccupato di fornire l’interpretazione teologica del grande dono che il Figlio di Dio ha voluto fare all’umanità: il dono di Se stesso come “pane di vita”.

Il capitolo sesto del IV Vangelo si compone di tre quadri narrativi strettamente collegati tra loro ed il cui sviluppo temporale occupa lo spazio di due intense “giornate” di rivelazione: 1) nel primo di questi due giorni Gesù compie il “segno” della moltiplicazione dei pani su un monte, prospiciente il lago di Galilea (6,1-15);

2) nel corso della notte successiva Gesù compie un altro “segno”, camminando sulle acque del lago di Galilea (6,16-21);

3) il giorno dopo Gesù spiega il senso del miracolo della moltiplicazione dei pani alla folla riunita nella sinagoga di Cafàrnao (6,22-65).

La conseguenza del discorso di auto-rivelazione, in cui Gesù definisce Se stesso come “pane di vita” (6,48) “disceso dal cielo… per la vita del mondo” (6,51), è l’abbandono del Maestro da parte di molti dei suoi discepoli (6,66) e la dichiarazione di fede da parte dei Dodici per bocca di Pietro (6,67-69) con la predizione di Gesù del futuro tradimento da parte di Giuda Iscariota (6,70-71).

Nonostante l’enorme portata del prodigio della moltiplicazione dei pani, se non altro dal punto di vista quantitativo, la risposta di fede nei confronti di Colui che ha compiuto il miracolo è veramente deludente: pochi sono disposti a credere in Gesù e tra questi pochi c’è anche chi è pronto a tradirlo! Viene spontaneo collegare le reazioni così contrastanti dei testimoni del prodigio della moltiplicazione dei pani alle “due giornate” di rivelazione. Come può ben notare un attento lettore del IV Vangelo, Giovanni ama ricorrere alla simbologia del secondo giorno (cf., ad esempio, 1,35-2,1), che sta ad indicare l’incompletezza della rivelazione. Solo chi viene reso partecipe dell’evento del terzo giorno (cioè della Pasqua di Resurrezione) può, con giusta ragione, comprendere la portata del mistero racchiuso nella Persona di Gesù, il Signore Risorto e capirne i gesti e le parole. A ben vedere, non solo la folla non è stata testimone della Resurrezione di Cristo, ma neppure Giuda Iscariota, suicidatosi per disperazione prima di “vedere” il Risorto; se la folla può essere in qualche modo giustificata per l’incapacità di arrivare ad una fede piena, non essendo stata “scelta” in vista della testimonianza della Pasqua di Cristo, Giuda Iscariota, invece, non ha scusanti per la sua mancanza di fede sfociata nel tradimento perché, pur essendo uno dei “prescelti”, si è volontariamente autoescluso dalla “testimonianza” dell’esperienza pasquale. La sua scelta di non-fede è ancora più grave della mancanza di fede della folla e di quegli anonimi discepoli che hanno trovato troppo “dure” le parole del Maestro.

Il vino (donato in abbondanza alle nozze di Cana), l’acqua (tema centrale del dialogo tra Gesù e la samaritana) ed il pane (filo conduttore del sesto capitolo del IV Vangelo) sono i simboli giovannei per eccellenza, che tra loro si completano per significare la vita comunicata da Gesù a coloro che credono in Lui attraverso il dono dell’Eucaristia.

Il sesto capitolo di Giovanni può essere suddiviso in una parte cristologica (6,1-51), centrata su tema pane/parola ed una parte eucaristica (6,52-58), imperniata sul tema pane/cibo di vita. Giovanni si comporta da abile drammaturgo, capace di animare la scena con un continuo intreccio di azione e di movimento, i cui protagonisti sono Gesù, i discepoli e la folla. Dapprima i discepoli e la folla stanno con Gesù (6,1-14), avendo compreso la portata del miracolo da Lui compiuto e di cui tutti hanno beneficiato; quindi, per sottrarsi alla folla che intende farlo re, Gesù si ritira sul monte per pregare in solitudine, mentre i discepoli sono soli sulla barca e la folla è come abbandonata a se stessa (6,15-18); a questo punto Gesù si ricongiunge coi suoi discepoli apparendo come una visione, che assume il significato di una vera e propria teofania (6,19-21); la gente va nuovamente alla ricerca di Gesù (6,22-25) e, infine, Gesù, i discepoli e la folla sono di nuovo insieme (6,26-59).

Improvvisamente, durante il discorso nella sinagoga, la folla diventa ostile a Gesù e si fa minacciosa ed emerge acuto il conflitto tra Gesù stesso ed i giudei, i nemici dichiarati di Gesù. Il risultato concreto del discorso di auto-rivelazione di Gesù è la crisi galilaica: molti discepoli si allontanano ed abbandonano Gesù (6,60-66), che rimane solo con i Dodici (6,67-69), tra i quali c’è anche il “traditore” (6,70-71). La crisi è motivata dal fatto che il discorso di Gesù viene ritenuto “duro” dai più: non è possibile accettare un Dio troppo umano. Qui si intravedono le prime eresie circolanti già alla fine del I° secolo d.C. in ambiente giovanneo, come il docetismo (dal greco dokésis, apparenza), secondo cui sulla croce non era morto realmente Gesù Cristo, Figlio di Dio, bensì una sua controfigura. Alla base di questa eresia, molto pericolosa per la fede cristiana, stava la negazione della vera umanità di Cristo.

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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