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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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04/06/2010 18:19
 
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Il Vangelo di Giovanni

3.1 C’era dunque tra i farisei un uomo, di nome Nicodemo, uno dei notabili giudei. 2 Questi venne a lui di notte.

Nicodemo è venuto a conoscenza dei “segni” compiuti da Gesù ed invece di limitarsi ad attribuirli ad un uomo posseduto da Beelzebul, si reca dal rabbì di Galilea per avere chiarimenti. Nicodemo è il prototipo dell’uomo “in ricerca”, seppur dotato di senso pratico. Egli non si fida del “sentito dire” e vuole vederci chiaro nei miracoli compiuti da Gesù, anche se istintivamente intuisce che quell’uomo di Galilea è tutt’altro che un ciarlatano.

Perché Nicodemo sceglie di incontrare Gesù proprio di notte? Per paura del giudizio dei “giudei”? (cf. 12,42; 19,38). Oppure perché l’usanza giudaica raccomanda lo studio della Torâh durante la notte, quando il silenzio ed il riposo da qualsiasi attività fisica favoriscono la meditazione? L’evangelista Giovanni ha già presentato nel Prologo al suo vangelo il contrasto fra la Luce, venuta nel mondo, e le tenebre dell’ignoranza e del peccato (1,5.7-9), per cui è ipotizzabile che la “notte” non sia interpretata dall’evangelista in senso strettamente temporale, ma anche e soprattutto in senso spirituale. Il IV Vangelo è ricco di doppi sensi e la presente pericope ne è un esempio tra i più classici.

Rivolgendosi a Gesù, Nicodemo viene “dalla notte verso la Luce”, ormai presente nel mondo (3,19), pronto ad accogliere la novità della salvezza con coraggio e disponibilità, qualità psicologiche che egli saprà mettere in mostra quando prenderà apertamente le difese di Gesù, in un contesto di aperta ostilità nei confronti del Maestro galileo (7,50-52) e quando richiederà a Pilato il cadavere di Gesù per dare degna sepoltura (19, 39-40) ad un Uomo profondamente buono e stimato, ma condannato a morte mediante l’infame patibolo degli assassini, dei traditori e degli schiavi. Compiendo questo gesto di pietà, Nicodemo sa benissimo di esporsi alla riprovazione ed al disprezzo dei farisei, gruppo sociale al quale egli appartiene e del quale è un membro assai autorevole e stimato.

Come Giovanni Battista aveva cercato lo Sconosciuto, non avendo ancora identificato il Messia (1, 25-27), allo stesso modo Nicodemo cerca Dio nella notte, non avendo ancora riconosciuto in Gesù la Luce.


2 [Nicodemo] gli disse: “Rabbì, noi sappiamo che sei venuto da parte di Dio come maestro. Nessuno infatti può fare i segni che tu fai se Dio non è con lui”.

Nicodemo, colpito dai segni clamorosi compiuti da Gesù, consulta direttamente il “maestro venuto da parte di Dio” non certo per semplice curiosità, bensì spinto da un profondo senso di inquietudine religiosa. Da buon giudeo egli si augura di poter conoscere da vicino un Uomo che ha un rapporto privilegiato con Dio. Nicodemo non si rivolge a Gesù in modo saccente od arrogante; egli fa una constatazione ovvia ma ricca di sottintesi: chi compie miracoli non può “venire” che da Dio. La domanda rimane indiretta ed inespressa, quasi sospesa nel timore di ricevere una risposta deludente: “Sei tu il Profeta che deve venire?”. Anche la risposta di Gesù è elusiva e, soprattutto, inaspettata.


3 Gesù rispose e gli disse: “In verità, in verità ti dico: se uno non è generato dall’alto, non può vedere il regno di Dio”.

A Nicodemo, fondamentalmente convinto che Gesù venga da parte di Dio e che Dio sia con lui, Gesù risponde in modo solenne (il duplice Amen) spostando l’attenzione sulla condizione necessaria ad ogni uomo per salvarsi: rinascere dall’alto (ànothen). L’avverbio greco ànothen può anche significare “di nuovo” ed è cosi che lo intende Nicodemo, equivocando il senso delle parole di Gesù. Questo è uno dei tanti esempi di “doppio senso” utilizzati dall’evangelista per uno scopo preciso: usando vocaboli a “doppio significato”, Giovanni crea le condizioni del “malinteso” da cui scaturisce la necessità di una spiegazione, con conseguente approfondimento del messaggio di Gesù. Nel testo greco il verbo, tradotto opportunamente con “…è generato”, è formulato nella forma passiva per rilevare che la nascita di un essere umano è essenzialmente opera di Dio: per diventare figlio di Dio, l’uomo deve essere generato da Dio (1,12-13).

Che cosa significa “essere generati dall’alto”? Se l’uomo vuole partecipare alla vita eterna deve ricevere da Dio il dono della sua stessa vita. In virtù di questo dono, l’uomo diviene “figlio nel Figlio” (Rm 8,29) per libera iniziativa di Dio stesso.

L’espressione “regno di Dio”, molto frequente nei Sinottici, è usata da Giovanni solo in questo passo del suo vangelo e significa “vita eterna”, cioè la vita divina che si espande quando “Dio regna”. Ne consegue che “vedere il regno di Dio “ (3,5) equivalga ad “entrare nel regno di Dio” o ad “entrare nella vita eterna” (Mt 7,21; 18,3.8s; 19,16-25), dove la vita è un esistere con Dio ed in Dio (3,36).


4 Nicodemo gli dice: “Come può essere generato un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre ed essere generato?”.

Gesù pensava “dall’alto” (ànothen), Nicodemo comprende “di nuovo” (dèuteron), il che non è del tutto sbagliato, anche se questa prospettiva non rende giustizia alla dimensione celeste della parola di Gesù. Infatti, dal suo punto di vista Nicodemo ha ragione di ritenere che sia impossibile per l’uomo nascere una seconda volta e, non senza umorismo, sottolinea l'assurdità di un vecchio che rientra nel seno della madre! L’ironia di Nicodemo non è segno di ottusità mentale, ma un modo tutto rabbinico di affrontare una disputa teologica; egli si aspetta da Gesù un’ulteriore spiegazione, un maggior chiarimento del proprio pensiero.


5 Gesù rispose: “In verità, in verità ti dico: se uno non è generato da acqua e da Spirito non può entrare nel regno di Dio. 6 Ciò che è nato dalla carne è carne, ciò che è nato dallo Spirito è spirito. 7 Non meravigliarti se ti ho detto: voi dovete essere generati dall’alto”.

Il duplice “amen” (v.5) esprime ancora una volta l’autorità della parola di Gesù e l’importanza di ciò che sta per dire. L’avverbio “dall’alto” viene ora chiarito con una perifrasi: “da acqua e da Spirito”. A Nicodemo non possono sfuggire le parole profetiche di Ezechiele: “Io verserò su di voi un’acqua pura… metterò in voi uno Spirito nuovo… Metterò in voi il mio Spirito” (Ez 36, 25-27). Se i profeti parlavano al futuro, Gesù sta, invece, parlando al presente e questo particolare non sfugge all’attento Nicodemo.

In Ezechiele l’associazione “acqua” e “Spirito” richiamava il versetto iniziale del racconto della creazione (Gen 1,2) ed alludeva ad una nuova creazione, pur non parlando esplicitamente di “rigenerazione”. Per Ezechiele lo Spirito che rinnoverà gli uomini è Dio stesso e tale rinnovamento, o “rinascita”, non riguarda principalmente il comportamento dell’uomo ma, piuttosto, il suo essere stesso. Secondo questa prospettiva, il comportamento (morale) dell’uomo è una conseguenza diretta del suo “essere”: se l’uomo rimane un “essere carnale” è soggetto alla debolezza ed alla corruttibilità propria della sua natura terrena; se, invece, si lascia rinnovare dallo Spirito, allora partecipa per sempre della vita di Dio perdendo la propria “carnalità” ed acquisendo una nuova dimensione “spirituale”, che non conosce la corruzione della morte. Senza l’intervento di Dio, l’uomo non può avere accesso alla “vita”.

Rivolgendosi a Nicodemo, Gesù passa improvvisamente dal “tu” al “voi” (“voi dovete rinascere dall’alto”, v. 7), quasi a porre l’accento sul distacco esistente tra gli uomini comuni e Gesù, il quale già “viene dall’alto”.


8 Il vento soffia dove vuole e tu senti la sua voce, ma non sai donde viene né dove va. Così è chiunque è nato dallo Spirito.

Secondo gli antichi, che ignoravano la meteorologia, le forze cosmiche evocavano i misteri divini. Il vento era considerato il respiro di Dio e, secondo i libri sapienziali, il fenomeno misterioso del vento suggeriva l’esistenza di realtà che sfuggono al dominio dell’uomo: “Come non conosci le vie del vento… così non puoi conoscere l’opera di Dio che dirige tutto” (Qo 11,5). Ancora: “La tempesta sfugge all’occhio dell’uomo e la maggior parte delle opere di Dio sono nascoste” (Sir 16,21). Per l’uomo esistono misteri celesti, che sono e restano fuori dalla sua portata e dalla sua comprensione. Il vento è imprevedibile e misterioso, poiché se ne coglie la presenza tramite il rumore (“la voce”) ma sfugge alla presa e non può essere posseduto e dominato: così è lo Spirito, così è Gesù che, per Nicodemo, rimane un essere avvolto nel “mistero”.

 

9 Nicodemo rispose e gli disse: “ Come può avvenire questo?”. 10 Gesù rispose e gli disse: “Tu sei maestro in Israele e non lo sai? 11 In verità, in verità ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto, ma voi non accogliete la nostra testimonianza!”.

Nicodemo ha già avuto una prima risposta da Gesù: la rinascita è di natura spirituale e ciò che è impossibile per l’uomo è, invece, possibile a Dio che è Spirito. Un dubbio, però, lo arrovella: come è possibile che l’uomo sia radicalmente rinnovato da Dio? La risposta dovrebbe svelare il mistero dell’azione divina. Il rimprovero di Gesù non è immotivato perché un esperto della Scrittura come Nicodemo dovrebbe ricordare quanto avevano percepito i profeti di Israele: alla venuta del Messia, alla fine dei tempi, lo Spirito creatore avrebbe rinnovato tutte le cose e sarebbe stato effuso nei cuori (Ger 31; Ez 36,25-27; Sal 87). Nicodemo, che aveva riconosciuto in Gesù, operatore di miracoli, un’autorità celeste (v.2), come poteva non riconoscere il Messia in quest’uomo, che osava introdurre le affermazioni con dei solenni “amen” e che si tirava fuori della comune condizione umana (“voi dovete…”)?!

Gesù riprende il discorso, che d’ora in poi diventa un monologo, con un perentorio “noi” (… “parliamo… sappiamo… testimoniamo… abbiamo veduto…”) che sembra fare il verso, con un velo di ironia, al “noi sappiamo” di Nicodemo (3,2). All’ortodossia giudaica, rappresentata da Nicodemo, si contrappone l’ortodossia cristiana ed in ciò si riconosce il contrasto tra le due comunità, giudaica e cristiana, assai drammatica al tempo in cui venne composto il vangelo di Giovanni.

Gesù non fa appello ai suoi miracoli per indurre Nicodemo ad avere fede in lui, ma gli prospetta il valore assoluto della propria “testimonianza” diretta del Padre, che Gesù “vede” dall’eternità (Nb: in greco il verbo eoràkamen, tradotto in italiano con “abbiamo veduto”, è un tempo perfetto che rende presente ed attuale un’azione iniziata nel passato e non ancora conclusa). Gesù mette in gioco la propria credibilità; poiché una testimonianza non è provata da una dimostrazione, essa viene accettata o respinta secondo la fiducia che si ha nel testimone e Gesù sa che molti, in Israele, esitano a credere nella sua rivelazione (“voi non accogliete…”).


12 Se non credete quando vi ho detto cose terrestri, come crederete se vi dirò cose celesti?”.

Le parole di Gesù riecheggiano le parole della Scrittura: “ A stento indoviniamo le cose terrene, ma chi potrà scoprire le cose celesti?” (Sap 9,16). La difficoltà per Israele di accogliere ed aderire alla parola di Cristo si è dilatata nel tempo, al punto da creare inquietudine nell’evangelista Giovanni e suscitare più di un interrogativo nella sua comunità cristiana alla fine del I secolo d.C. A ben vedere, l’incredulità d’Israele, che dura tuttora, è motivo di riflessione anche per i cristiani d’oggi, ma fa pure riflettere l’incredulità sostanziale di tanti cristiani, i quali sono tali perché hanno ricevuto il battesimo ma hanno voltato le spalle a Cristo perché incapaci di compiere una scelta di fede sincera, matura e consapevole nel Figlio di Dio.

A cosa si riferisce Gesù quando parla di “cose terrestri” e di “cose celesti”? Egli si riferisce ai due differenti livelli di rivelazione, che hanno accompagnato la storia di fede del popolo eletto: il primo livello è quello rappresentato dalla Legge mosaica e dal contenuto dell’Antico Testamento; il secondo livello è quello relativo alla presenza carnale di Dio sulla terra, avvenuta nella persona di Gesù, al fine di riscattare l’umanità mediante l’effusione del proprio sangue sulla croce. Se Nicodemo fa fatica a comprendere il contenuto della Sacra Scrittura, come farà ad accettare ed a comprendere il mistero di un Dio che si fa uomo per salvare gli uomini morendo su una croce?

Il silenzio di Nicodemo, che non risponde alla domanda inquietante di Gesù, cala pesante come la notte in cui si svolge l’incontro tra il dotto fariseo ed il divino Maestro. Nel silenzio della notte e del dubbio, la figura di Nicodemo si dissolve per lasciare il posto alla Parola di Dio incarnata.


13 Sì! Nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. 14 E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell’Uomo, 15 affinché chiunque crede abbia mediante lui la vita eterna.

Con un espressivo e deciso “” Gesù sta per annunciare a Nicodemo e, attraverso lui, all’intero Israele ed a tutti gli uomini, le “cose celesti” promesse poco prima. Gesù può farlo perché è il Figlio dell’Uomo, il Messia inviato da Dio, il “luogo” privilegiato in cui Dio si rivela agli uomini. L’autorità di Gesù gli deriva dalla sua provenienza “dal cielo”; esprimendosi umanamente Egli, pur essendo Dio, può essere veduto ed ascoltato.

Nessuno mai, dice Gesù, è potuto salire al cielo per portarne sulla terra i segreti (cf. Dt 30,12; Pr 30,4; Bar 3,29; Sap 9,16-18); solo lui, che dall’eternità era presso il Padre (1,1), è disceso sulla terra per rivelare l’Amore del Padre per gli uomini e, per fare questo, il Figlio dell’uomo deve essere “innalzato” come il serpente di bronzo, che Mosè innalzò nel deserto per salvare dalla morte coloro che erano stati morsi dai serpenti. In questo modo Gesù annunzia il valore salvifico della sua morte sulla croce, che sarà seguita dalla risurrezione gloriosa. Secondo una valutazione umana, superficiale e parziale, la croce è intesa come uno strumento di sofferenza e d’umiliazione, ma dal punto di vista di Dio la croce è l’inizio della “gloria” escatologica del suo Cristo (8,28; 12,32). Il tema dell’umiliazione (discesa) e della successiva glorificazione (ascesa) ricorre più volte nella Sacra Scrittura, percorsa dalla profezia di Isaia sul “Servo sofferente di YHWH” (52,13). Negli scritti paolini troviamo un inno cristologico, che ripresenta in modo esemplare il percorso della salvezza progettato da Dio: il Figlio di Dio si è spogliato della sua natura divina per assumere la natura umana, umiliandosi fino alla morte di croce per poi assurgere alla gloria della pienezza della propria divinità, davanti alla quale l’intera umanità passata, presente e futura non può che “piegare le ginocchia” in atteggiamento d’adorazione perenne del mistero dell’incarnazione e della redenzione (Fil 2,6-11).


16 Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo unico, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. 17 Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18 Chi crede in lui non viene giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome del figlio unico di Dio.

Gesù svela a Nicodemo ed agli uomini tutti il progetto salvifico universale del Padre, realizzabile solo nei credenti. Dio si trova all’origine del movimento di salvezza, che scaturisce dal suo insondabile ed infinito amore per l’uomo. Al cuore della salvezza, specie del ruolo svolto dal “Figlio unico” nel suo cammino verso la croce, si trova Dio che ama il mondo, cioè l’intera umanità. Non c’è rapporto di reciprocità: Dio ama l’uomo a prescindere dalla risposta d’amore che l’uomo può offrire a Dio. Dio ama in modo assoluto ed il suo amore ha come progetto esclusivamente la salvezza e la vita dell'uomo e, per questo, non ha esitato a consegnare al sacrificio estremo il proprio Figlio unigenito, donandolo per la nostra salvezza (Rm 8,22). Lo scopo ultimo del progetto salvifico del Padre è la salvezza eterna, donata gratuitamente all’uomo tramite il Figlio. Dal progetto, quindi, viene esclusa la condanna (giudizio) precostituita dell’uomo alla “morte eterna”, purché l’uomo accetti, senza condizioni, il dono della salvezza manifestando la propria adesione di fede al progetto salvifico del Padre. Non è tanto Dio a condannare l’uomo, ma l’uomo stesso che, non credendo all’amore salvifico di Dio, si autoesclude dalla vita eterna.

L’incontro con Gesù determina necessariamente una scelta, una decisione (krìsis) inevitabile. Non c’è bisogno di aspettare il “giudizio universale” per essere collocati tra coloro che saranno posti “alla destra” (i salvati) od “alla sinistra” (i dannati) di Cristo giusto Giudice: il giudizio è già presente ora, nell’incontro quotidiano con Gesù. La vita e la morte dipendono dalla fede in Cristo Gesù e sono determinate dall’adesione o meno alla Legge di Dio, luce e guida dell’uomo (Sal 119,105; 18, 29; Pr 6,23). La fedeltà ai precetti, rivelati da Dio, è la via mediante la quale l’uomo può raggiungere una pienezza che egli non possiede e realizzare il suo profondo desiderio di “vita”. Sottrarsi a questa Legge significa scegliere la morte, dal momento che la Legge di Dio è Cristo in persona (cf. anche Dt 30,15-19).

Nella venuta del Figlio in questo mondo, nel suo messaggio e nel suo itinerario verso la croce, si è rivelato l’amore stesso di Dio; in Gesù si è reso visibile il desiderio di Dio di salvare il mondo intero, riscattandolo dalla tragedia del peccato. Nel mondo dell’Antico Testamento la salvezza era incentrata sulla decisione libera e personale dell’uomo, sull’osservanza scrupolosa di una serie di precetti e sulla soddisfazione delle esigenze proprie del culto da rendere a Dio. Nella prospettiva del Nuovo Testamento, fatta salva la libera scelta dell’uomo, il fulcro della salvezza è Cristo, il quale esige che si abbia fede in Lui, l’amore di Dio rivelato.


19 Ora il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più la tenebra che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20 Chiunque infatti fa il male odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano smascherate. 21 Colui invece che fa la verità viene alla luce affinché si riveli che le sue opere sono fatte in Dio.

L’evangelista riprende il tema del conflitto fra luce (vale a dire Gesù, il Lògos, ossia la Parola di Dio) e tenebre (cioè il male, il peccato di cui Satana è la personificazione) già trattato nel Prologo al IV Vangelo (1,4-5.8-12). Fermo restando che l’azione salvifica di Dio avviene indipendentemente dalle buone opere che l’uomo può compiere, rimane da capire a quali “opere”, buone o malvagie che siano, faccia riferimento l’evangelista.

Per l’autore del IV Vangelo l’opzione religiosa fondamentale (opera) è l’accoglienza od il rifiuto del Figlio di Dio. L’opera fondamentale è, quindi, la fede. Ne consegue che chi compie malvagità difficilmente sa orientare la propria scelta di vita alla fede, cioè alla piena adesione al progetto salvifico di Dio; al contrario, chi compie opere buone, cioè si attiene alla Legge divina come scelta e norma di vita, è già orientato verso la fede in Cristo salvatore. La scelta da parte dell’uomo è e rimane sempre libera e personale.

Ogni uomo in questo mondo si imbatte nella rivelazione e, anche se interviene un influsso divino o tenebroso (diabolico), spetta all’uomo, in definitiva, scegliere ed accettare l’influsso di Dio o di Satana in virtù della propria suprema libertà. Non sempre l’uomo malvagio agisce allo scoperto; anzi, il più delle volte agisce nell’ombra per non svelare le sue azioni e le sue intenzioni malvagie; i “figli della luce”, invece, non hanno timore di lasciare trasparire le loro rette intenzioni e le loro buone azioni, anche se ciò comporta spesso essere bersaglio dei malvagi.

Fin dalla creazione l’uomo è invitato a vivere nella luce aprendosi alla fede libera e responsabile nel Figlio unigenito di Dio Padre. Quando l’uomo crede in Gesù, avviene la sua “rinascita” per opera dello Spirito Santo, che lo inserisce di diritto nella pienezza di vita dei “figli di Dio”.


Gesù e la samaritana

(Gv 4,5-42)


Dopo averci fatto conoscere Nicodemo, esemplare figura di uomo di fede, ben inserito nell’establishment politico, culturale e religioso di Israele e ben disposto a mettere in discussione se stesso e la propria fede pur di trovare la retta via della salvezza, l’evangelista Giovanni pone, ora, alla nostra attenzione un’altra figura altrettanto esemplare. Si tratta, questa volta, di una donna appartenente ad un’identità etnica, culturale e religiosa diversa da quella israelitica, seppure lontana parente di questa. È inevitabile premettere alcune considerazioni di carattere generale all’analisi della pericope in esame.

Dopo la morte del grande re Salomone, architetto e costruttore del maestoso Tempio di Gerusalemme, il regno di Israele non aveva retto ai dissidi interni e si era diviso in due regni: il Regno del Nord, detto anche Regno di Israele o di Samaria, retto da Geroboamo ed il Regno del Sud, noto come Regno di Giuda, retto da Roboamo, erede legittimo di Salomone. Nel racconto biblico le vicende dei due regni vengono narrate in modo parallelo e, pur subendo entrambi una sorte simile, tuttavia emerge un disegno divino differente riguardante le due entità politiche e religiose. Il Regno del Nord, economicamente e militarmente più forte, abbandonò poco per volta la fede in YHWH ereditata dai Padri e si dedicò sempre più a pratiche idolatriche assimilate dai vicini popoli cananei. Come risultato di alleanze politiche e militari poco avvedute, il Regno d’Israele cessò di esistere verso il 721 a.C. per mano degli assiri, i quali avevano la pessima abitudine di deportare in massa le popolazioni sconfitte in guerra, sconvolgendo abitudini di vita e strutture economiche consolidate e sradicando completamente dal loro habitat naturale intere culture. È una triste abitudine di sopraffazione e di disprezzo dei vinti che, nel corso della storia, anche recente, si è ripetuta numerose volte! Gli israeliti autoctoni furono deportati in terre lontane mentre nei territori dell’ex Regno di Samaria furono innestate popolazioni di diversa provenienza etnico – religiosa. Così, nella regione della Samaria andò formandosi una nuova entità religiosa, frutto di un sincretismo fra l’antica fede in YHWH, conservata dai pochi superstiti israeliti scampati alla deportazione perché non appartenenti all’élite politica, militare ed economica del Regno di Samaria e le nuove realtà religiose, importate con la forza dal vincitore assiro.

Il Regno di Giuda subì una sorte simile, ma la sua agonia politica durò più a lungo. Sul trono di Giuda si succedettero per lo più re iniqui od incapaci e solo pochi furono i re capaci di distinguersi per rettitudine morale e religiosa, come Ezechia e Giosia; quest’ultimo fu autore di una vigorosa riforma religiosa e cultuale, interrottasi per il precipitare degli eventi politici e militari. Il piccolo Regno di Giuda era stretto fra le due superpotenze del tempo: l’Egitto a sud ed il Regno di Babilonia a nord. Nello scontro militare fra i due colossi fu il Regno di Giuda a rimetterci le penne. Nel 586 a.C. il re babilonese Nabucodonosor conquistò Gerusalemme, ne distrusse il famoso Tempio e ne deportò gran parte della popolazione a Babilonia. Ma Dio aveva un progetto diverso da quello interpretato dagli uomini. Da Giuda doveva scaturire la salvezza per il popolo ebraico e per tutta l’umanità, legata alla venuta del Messia. Dopo un sessantennio, gli ebrei deportati a Babilonia poterono ritornare in patria, grazie ad un editto di liberazione emanato dal vincitore dei babilonesi, il persiano Ciro il Grande. Ritornati a casa, gli ebrei ricostruirono il loro Tempio a Gerusalemme e ripristinarono l’antico culto, trovando nell’identità religiosa (il giudaismo) il supporto per una sempre più forte identità culturale, capace di resistere alle successive bufere della storia. Alessandro Magno, i suoi successori ed i romani non furono capaci di estirpare dalla terra la fede degli ebrei nel Dio dell’Antico Testamento. Quando giunse la “pienezza del tempo” (Gal 4,4) la Parola di Dio si compì incarnandosi in Gesù di Nazareth (Gv1,14), realizzando le attese e le promesse degli antichi profeti d’Israele.

All’epoca di Gesù, la Samaria era una regione “odiata” dai giudei perché abitata da eretici, che avevano stravolto la vera fede in YHWH. L’odio dei giudei era cordialmente ricambiato dai samaritani e tra le due popolazioni c’erano continue tensioni ed azioni di disturbo. In questo conteso storico si inserisce il racconto giovanneo dell’incontro fra Gesù e colei che, per i giudei, interpreta il massimo dell’indecenza morale e cultuale, poiché è samaritana, è donna ed è una pubblica peccatrice! Questi tre elementi, che rendono estremamente “sconveniente” l’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Sicàr, emergeranno durante il racconto e se ne analizzeranno i risvolti esegetici e storico - culturali.


4,5 Egli giunge dunque ad una città della Samaria, chiamata Sicàr, vicino al podere che Giacobbe aveva donato a suo figlio Giuseppe. 6 Là si trovava la sorgente di Giacobbe. Gesù, dunque, affaticato com’era dal viaggio, si era seduto accanto alla sorgente. Era circa l’ora sesta. 7 Una donna di Samaria viene ad attingere acqua. Gesù le dice: “Dammi da bere”. 8 I discepoli infatti se n’erano andati in città a comperare da mangiare.

L’evangelista non si sofferma troppo sulla cittadina di Sicàr, ma sul pozzo di Giacobbe, situato presso il podere dove il patriarca fu sepolto. Sicàr, forse l’attuale Askar, si trovava ai piedi del monte Ebal ed aveva preso il posto della cittadina di Sìchem, distrutta nel 128 e nel 107 a.C., ricostruita dopo il 72 d.C. col nome di Flavia Neàpolis (l’attuale Nablus). Circa il luogo di sepoltura del patriarca Giacobbe, anche le notizie rintracciabili nel testo sacro non sono del tutto concordi. Il patriarca avrebbe acquistato un appezzamento di terra a Sìchem (Gen 33,19; At 7,15ss) ma sarebbe stato sepolto a Hebron (Gen 49,30; 50,13) mentre fu Giuseppe ad essere sepolto a Sìchem (Gs 24,32). Secondo l’opinione della samaritana (v.12), il pozzo fu donato da Giacobbe ai samaritani, ma l’Antico Testamento afferma solo che Giacobbe, in punto di morte, donò la città di Sìchem al figlio Giuseppe (Gen 33,19; 48,21ss; Gs 24,32; cf. anche Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XI, 341). L’evangelista usa il vocabolo greco peghé, cioè sorgente, non fréar (pozzo), forse per preparare l’annuncio della sorgente che disseta per sempre, ma in realtà, sia in questa pericope giovannea (4,6.11s.14) che nell’Antico Testamento i due termini si alternano assumendo identico significato (troviamo “pozzo” in Gen 24,11.20 e “sorgente” in Gen 24,13.16.29.30.42.43.45). L’uso del termine “sorgente” potrebbe anche evocare un miracolo compiuto da Giacobbe: una leggenda rabbinica raccontava che il patriarca aveva fatto salire l’acqua dal pozzo fino a farla traboccare in abbondanza. Sullo sfondo del racconto di Giovanni vi sono, probabilmente, diverse tradizioni su Giacobbe, conosciute dai lettori contemporanei dell’evangelista.

Perché il dialogo si svolge presso un pozzo? In una regione in cui l’acqua scarseggiava, i pozzi di acqua sorgiva erano luoghi privilegiati di incontro, di conflitti e di riconciliazioni (Gen 21,25; 26,15-22), ma anche di antichi ricordi. Presso un pozzo Mosè aveva incontrato le figlie di Raguele e si erano preparate le nozze di Isacco e di Giacobbe. Il racconto giovanneo presenta chiari riferimenti e punti di contatto con il racconto - prototipo degli incontri presso il pozzo (Gen 24): appena lo straniero ha finito di parlare, Rebecca rientra di corsa in casa e dice ai suoi “Ecco come quest’uomo mi ha parlato”; la samaritana si comporta allo stesso modo (Es 2,15-20; Gen 24,10-30; 29,12; Gv 4,28ss).

Queste semplici considerazioni lasciano intendere che Giovanni abbia seguito un canovaccio letterario piuttosto consolidato dalla tradizione biblica per focalizzare l’attenzione sul tema del dialogo che, fra poco, si svilupperà tra Gesù e la donna di Samaria.

Gesù arriva nella cittadina di Sicàr, stanco ed assetato, sul far del mezzogiorno (ora sesta) e si siede accanto al pozzo. Non c’è nulla da mangiare ed i discepoli si allontanano in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. In quel mentre, una donna si avvicina al pozzo per attingere acqua e la cosa è alquanto strana; l’orario è inusuale, com’è insolito che una donna si rechi al pozzo del villaggio da sola e non in compagnia con altre donne. Il seguito del racconto ce ne farà comprendere il motivo.

Rappresentando Gesù seduto sull’orlo del pozzo, il narratore suggerisce una sorta di continuità fra la sua presenza e la passata esperienza di Israele: proprio presso il pozzo del patriarca la donna scoprirà, tra breve, la Sorgente che spegne per sempre la sete e, ancora lì, Gesù affermerà che la salvezza proviene dai giudei.

L’ora del mezzogiorno, anormale per attingere l’acqua ma più che normale per giustificare la sete di Gesù, è considerata da alcuni autori l’ora ideale della contemplazione. Salta subito all’occhio il contrasto tra la visita notturna di Nicodemo e l’incontro della samaritana con Gesù alla luce piena del sole. Il primo rimane avvolto dalle tenebre del dubbio e dell’incertezza e farà fatica a vincere i propri pregiudizi e schierarsi dalla parte di Gesù; la seconda, invece, resterà quasi subito colpita dal mistero presente in quel giudeo che le chiede da bere ed in lui scorgerà ben presto il Messia (4,29).

Una donna di Samaria viene ad attingere acqua. Il racconto la presenta come una persona che ha alle spalle una storia complicata e delle reazioni personali molto vivaci, ma ella rappresenta il popolo dei samaritani, di cui riflette la mentalità religiosa. Al di là del dato concreto contingente, come la necessità di attingere acqua per uso personale, la sua venuta al pozzo del patriarca Giacobbe significa che i samaritani hanno sete di qualcosa. La donna porta dentro di sé un’attesa profonda, come rivelano le sue affermazioni a proposito del luogo di culto e del Messia che verrà “a svelare tutto” (4,25). Gesù la guiderà per mano in questa ricerca interiore, che è un’esigenza avvertita da un popolo intero.

Il dialogo tra Gesù e la samaritana comincia per iniziativa del Maestro, come succede quasi sempre nel IV Vangelo, secondo una collaudata tecnica letterario – teologica propria di Giovanni; Gesù si rivolge al suo interlocutore e ne provoca la reazione. Il dialogo culminerà nell’affermazione di Gesù: “Sono io [il Messia], colui che ti parla”.

Struttura del dialogo:

  1. vv.7-15: due domande di Gesù (vv.7 e 10) provocano lo stupore della donna (vv.9 e 11-12). Ne scaturisce una prima rivelazione sull’acqua viva (vv.13-14), che porta alla domanda dell’acqua annunciata;

  2. vv.16-25: due domande di Gesù (vv.16 e 17-18) conducono la donna al riconoscimento del profeta (vv.19-20) ed alla scoperta dell’adorazione del Padre (vv.21-24). Da una domanda implicita (v.25) scaturisce la maestosa auto - proclamazione del Messia (v.26);


7 Una donna di Samaria viene ad attingere acqua. Gesù le dice: “Dammi da bere!” […] 9 Gli dice dunque la donna samaritana: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I giudei, infatti, non si servono di oggetti in comune con i samaritani.

Da queste poche righe si possono trarre diversi spunti di riflessione: 1) Gesù “ha sete”; 2) la richiesta di un po’ d’acqua è rivolta, in modo poco conveniente, da un “uomo” ad una “donna”; 3) colmo dei colmi, è un “uomo giudeo” che chiede un favore ad una “donna samaritana”. Come Uomo, Gesù non sta alle regole convenzionali che gli esseri umani si danno, creando palizzate d’incomprensione tra loro.

Gesù ha sete”. Come un qualunque uomo assetato, Gesù chiede da bere assicurandosi l’esistenza (cf. Mt 6,31-32 ss; 24,38ss), uno dei diritti fondamentali ed inviolabili dell’uomo e che l’uomo viola con estrema facilità. Chiedendo da bere, Gesù usa un’espressione “biblica” che ricorda le mormorazioni degli ebrei assetati durante la marcia nel Sinai, al seguito di Mosè (Es 17,2; Nm 21,16; cf. anche Nm 20,8; Ne 9,20; Sap 11, 4.7; Is 43,20). È facile intuire che l’evangelista abbia inteso invitare i lettori a vedere in Gesù non solo colui che ha assunto la natura umana nelle sue esigenze vitali, ma lo stesso Israele che, nel deserto, ha chiesto a Dio da bere interpellandolo nella persona del suo mediatore. Gesù, nuovo Israele, sperimenta la sete del suo popolo, una sete che non è solo materiale ma anche spirituale (cf. Am 8,11; Sal 42,2-3; Is 49,10; 43,20; 41,18). Non si può neppure dimenticare il grido di Gesù sulla croce: ”Ho sete!” (Gv 19,28); la sete di Gesù trascende le circostanze materiali (il solleone, la croce) ed esprime il “bisogno” di Dio di salvare l’uomo ad ogni costo. Solo salvandosi dall’eterna perdizione l’uomo può soddisfare la “sete” di Dio.

Nella società ebraica del tempo, le regole del buon comportamento limitavano molto i contatti tra il mondo maschile e quello femminile al di fuori delle mura domestiche. La donna si trovava in posizione assai subalterna rispetto all’uomo, acquistando valore solo nell’ambito della maternità. La sterilità era la sciagura più grande che potesse capitare ad una coppia di sposi ed il tema della gravidanza prodigiosa di una donna in età avanzata (in menopausa, diremmo noi oggi) ricorre con frequenza nella Bibbia, ad indicare l’intervento diretto di Dio per suscitare da situazioni assolutamente negative, come una sterilità senza più rimedio, uomini di grande importanza per l’economia della salvezza (Gen 18,9-14;21,1-3; Gdc 13,2-3.24; 1Sam 1,5.11.20-23; cf. anche Lc 1,36.57-58). Dal punto di vista sociale e giuridico, la donna era una persona di scarso valore, al punto che in sede giudiziaria non veniva nemmeno presa in considerazione la sua testimonianza (Dt 19,15-19). Se in età da marito, la donna era utile per combinare un matrimonio d’interesse e rischiava la pelle se non era trovata vergine dal promesso sposo; una volta sposata, la donna apparteneva al clan familiare del marito e, se diventava vedova, doveva risposarsi con un cognato secondo la legge del levirato (Dt 25,5-10). In caso contrario, la donna rimaneva priva di quella protezione sociale garantitale da un marito non potendo far ritorno alla famiglia d’origine; le divorziate non avevano miglior sorte e, in caso di flagrante adulterio, la pena capitale mediante lapidazione prevista per gli adulteri (Dt 22,22-29) veniva più facilmente applicata alla donna che all’uomo. Anche una donna dalla condotta morale integerrima veniva, in qualche modo, discriminata, se non altro dal punto di vista cultuale per la ricorrente “impurità” determinata dal ciclo mestruale piuttosto che dal periodo post – partum o puerperio (Lv 12; 15,19-30). Il peso specifico della donna nella società ebraica al tempo di Gesù era tutt’altro che rilevante. Quando i discepoli di Gesù fanno ritorno al pozzo di Sicàr con le provviste acquistate nel villaggio e vi trovano il Maestro in amabile conversare con una donna del posto, loro due soli, si scandalizzano non poco (4,27).

A Gesù che le parla trattandola alla pari, incurante delle convenzioni sociali e religiose, la donna risponde manifestando tutto il suo stupore: questo incredibile giudeo “osa” trasgredire il più fondamentale degli interdetti sociali e rituali che separano giudei e samaritani, mettendoli gli uni contro gli altri in una sorta di “guerra fredda” ante litteram! La convenienza imporrebbe che Gesù non attraversi nemmeno l’impura Samaria, figurarsi vederlo fermo ad un pozzo e chiedere ad una donna “eretica” di dargli dell’acqua usando strumenti altrettanto impuri (“i giudei… non si servono di oggetti in comune con i samaritani). La frattura tra la comunità giudaica e samaritana è così profonda che persino la donna di Sicàr rimane, quantomeno, perplessa di fronte ad una semplice richiesta d’aiuto da parte di quel giudeo, incurante delle elementari regole di un “odio razziale” allo stato puro!

Con la sua replica immediata al perentorio ordine di Gesù (“Dammi da bere!), la samaritana mostra di accettare il dialogo, nonostante la sua perplessità e, con molta intelligenza, pone l’accento non sul favore che Gesù le ha chiesto in modo molto diretto e senza preamboli, bensì sul rapporto personale che viene sottinteso dal favore stesso: “Tu… a me…?”. Pur riconoscendo implicitamente la sua condizione di “giudeo”, Gesù non dà dirette spiegazioni sul proprio comportamento ma riprende l’iniziativa, rispondendo solo indirettamente alla domanda della donna (“Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me…?) con un discorso di rivelazione, che la condurrà molto lontano dai limitati ed angusti confini di un conflitto razziale e religioso, privo di senso come lo sono tutti i contrasti che gli uomini si “inventano” in ogni epoca storica per affermare un proprio egoistico interesse personale.


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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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