Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva

COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
Autore
Stampa | Notifica email    
04/06/2010 18:12
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Il Vangelo di Giovanni

il Verbo”

Questo titolo cristologico ricorre solo nel Prologo del IV Vangelo, per un totale di quattro volte: tre volte nel solo v. 1 e, la quarta ed ultima volta, nel v. 14. Nel momento in cui il Verbo “si fece carne”, esso sparisce dal Vangelo e rimane solo Gesù, che lascia “vedere” la sua piena umanità. In altri scritti giovannei il vocabolo “Verbo” ricorre con specificazioni proprie: 1Gv 1,1 (“ il Verbo della vita”) e Ap 19,13 (“il Verbo di Dio”).

“Verbo” è un titolo solenne, usato solo in ambiente liturgico giovanneo e collocabile in un contesto culturale giudeo – ellenistico. Il Verbo o Lògos (in italiano è reso con Parola) giovanneo va inteso, secondo il concetto filosofico greco, come idea, oppure come illuminazione della realtà o, anche, come progetto o ragione (latino ratio). Il vocabolo Lògos (parola, verbo) è strettamente apparentato con l’ebraico khokmà (Gen 3,1: il serpente è la più sapiente ed astuta di tutte le creature) e col termine greco sofìa (sapienza), tanto caro alla letteratura sapienziale. In latino il termine lògos è stato tradotto con verbum (in italiano “parola”).


ed il Verbo era presso [ il ] Dio e Dio era il Verbo”

Usato in forma assoluta, il Lògos (o Verbo o Parola) del Prologo è un essere personificato, ma ben diverso dal lògos dei filosofi stoici, che lo consideravano come lo spirito del mondo, intento a controllare ed a dirigere ogni cosa. Filone, filosofo giudeo di Alessandria d’Egitto, nel tentativo di conciliare giudaismo ed ellenismo, considerava il lògos come una creatura di Dio, una specie di intermediario tra Dio e gli uomini. Il Lògos del Prologo, però, e da interpretare più come Parola creatrice di Dio (Sap 9,1) o, tutt’al più, come personificazione della Sapienza (Sir 24,3), che sin dall’eternità si trova accanto a Dio (Pr 8,22-24) come principio attivo della creazione, presente quando Dio ha fatto il mondo, luce e vita per gli uomini. Negli scritti rabbinici, il Lògos potrebbe essere l’equivalente della Torâh, la Legge che Dio ha creato prima dell’universo e che è servita come modello per la creazione del medesimo.

Il poeta teologo, autore del Prologo, ha adattato tutte queste tradizioni culturali e religiose a Gesù di Nazareth, nel quale si è realizzata tutta la Scrittura. La Parola di Dio, che ha creato l’universo ed è presente nei Profeti, è divenuta Persona in Gesù, rivelazione di Dio, progetto di salvezza, colui che “ricapitola tutte le cose” del cielo e della terra (Ef 1,10). Gesù è, insieme, la Sapienza personificata e la Torâh, che sono datrici di vita. Gesù è il progetto salvifico di Dio sull’uomo.


Egli era in principio presso [ il ] Dio

Dalla comunità cristiana, quindi, il Lògos (Verbo, Parola) celebrato nel Prologo del IV Vangelo venne identificato in modo inequivocabile col Figlio di Dio incarnato: Gesù di Nazareth. In conclusione, del Verbo si dicono tre cose:

  1. “era in principio”, cioè al di là dell’inizio della creazione, dentro il mistero stesso di Dio e della sua eternità. L’azione del Verbo è come una nuova creazione;

  2. “era presso (rivolto verso) il Dio”. Va precisato che, nel Nuovo Testamento, il sostantivo “Dio” preceduto dall’articolo “il” ( in greco ò Theòs = il Dio) indica il Padre. Il Verbo era, dunque, presso il Padre e distinto da Lui, verso il quale è “rivolto” per ricevere il messaggio da trasmettere agli uomini, cioè di rivelare il Padre agli uomini;

  3. “il Verbo era Dio” (in questo caso il sostantivo “Dio” non è preceduto dall’articolo, onde evitare il pericolo del diteismo, vale a dire l’esistenza di due distinte divinità). Il Verbo non viene definito “divino”, ma “Dio”, distinto dal Padre ma insieme al quale forma una sola ed unica divinità. Due Persone divine, un unico Dio.


3 Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

Questo versetto ci presenta il Verbo – Lògos creatore. Tutto è stato creato mediante il Verbo e tutta la storia prende origine dalla Parola di Dio, cioè dal Verbo che “in principio era presso [il] Dio” (1,2). Questo concetto viene ribadito con forza, quasi a voler escludere ogni fraintendimento. Il ruolo del Verbo nella creazione è espresso in forma positiva e negativa, sottolineato da un “niente” che, in greco (oudè én), può essere tradotto anche con un “assolutamente nulla così categorico da non concedere spazio ad interpretazioni ambigue. Si avverte qui la polemica contro gli eretici gnostici presente anche in Col 1,16-17, pericope in cui s. Paolo tratteggia il ruolo di Cristo come capo dell’universo ed immagine del Dio invisibile, per mezzo del quale tutto è stato creato e nel quale tutto esiste in vista di lui.

Tutto è stato fatto per mezzo di lui. Il verbo greco eghéneto (fu fatto, è stato fatto) esprime bene il concetto di creazione di ogni cosa dal nulla (“ex nihilo”); se la materia stessa è stata creata, non c’è spazio per alcuna forma di dualismo metafisico, come sostenevano gli gnostici, i quali credevano nell’esistenza di due distinte entità divine, una malvagia ed una benevola e nella distinzione tra male assoluto (la realtà corporea) e bene assoluto (la realtà spirituale), tra loro in continuo conflitto. Il Verbo viene, invece, presentato come il mediatore grazie al quale e per mezzo del quale tutto (pànta) è stato creato senza eccezione alcuna (1Cor 8,6). Dal momento che precede la creazione, Cristo (il Verbo) ne è anche il capo costruttore.

E senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. Questa forma negativa rivela un parallelismo tipicamente semitico, che consiste nel rafforzare ciò che è stato appena detto in modo positivo facendo un’affermazione analoga con modalità negativa. È tassativamente esclusa qualsiasi possibilità di esistenza fuori del Verbo.


4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5 la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.

Vicino a Dio e Dio egli stesso, il Verbo è in relazione unica con gli uomini fin dalle origini. Ogni essere umano riceve l’essere da Lui ed è da Lui illuminato. Grazie a Lui, ogni uomo può comprendere se stesso, la propria condizione di creatura dipendente in tutto e per tutto dal suo creatore, dal quale ha ricevuto un’esistenza materiale e spirituale ed un’identità unica ed irripetibile.

In lui era la vita. Non si tratta di vita in senso biologico ( che in greco suona come bìos), ma di vita qualitativamente di livello superiore. Nel testo viene usato il vocabolo greco zoè, che indica la vita come valore assoluto e che corrisponde al significato di vita eterna. Nel IV Vangelo viene detto esplicitamente che la “vita eterna” è Gesù stesso.

E la vita era la luce degli uomini. Gesù è vita e luce in quanto è la rivelazione personale e storica di Dio, che salva (8,12; 9,5; 12,46). L’autore del Prologo annuncia solennemente che la rivelazione portata da Gesù, il Verbo, non è per pochi intimi, ma per tutti gli uomini di ogni tempo, luogo e condizione. Per alcuni, questa rivelazione consiste in una “illuminazione” del Verbo mediante la ragione umana (gli apologéti del II secolo d.C. parlavano di Lògos spermatikòs, cioè di germi di verità seminati dal Lògos nel cuore degli uomini) ma, per altri, essa è già la rivelazione storica del Verbo incarnato.

I termini vita e luce indicano la pienezza dell’esistenza umana e la rivelazione ne esprime il senso più profondo. La Vita diviene Luce, che ne illumina il senso; a sua volta, la luce è potenza di vita quando viene accolta nella fede.

La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. Inizia lo scontro storico ed esistenziale tra la luce e le tenebre; queste ultime non sono capaci di catturare, accogliere, prendere dentro di sé la luce. Si tratta di un tipico esempio di dualismo giovanneo. Le tenebre (in greco skotìa, vocabolo tipico di Giovanni) sono indicative del mondo lontano da Dio e chiuso in se stesso, incapace di credere e di accogliere la Luce, cioè Gesù – Parola rivelata di Dio, che dà la vita agli uomini. In poche parole l’autore del Prologo sintetizza tutto il contenuto del Vangelo: l’incredulità degli uomini respinge Gesù, colui che “dona la vita” (5,21), che è “la resurrezione e la vita” (11,25) e la “luce del mondo” (8,12) e, per ciò stesso, ne causa la morte sulla croce. Le tenebre indicano il mondo dominato dal male ed ostile alla rivelazione del Verbo.

Nel Vangelo di Giovanni, le tenebre si concretizzano nei giudei, figura di tutti coloro che sono ostili a Gesù, che non credono in lui e lo condannano a morte. Il verbo greco katélaben (tradotto in italiano “non accolsero, non hanno accolto) potrebbe essere tradotto in altri due modi: “non compresero (la luce)”, sottolineando il rifiuto di Gesù da parte di alcuni, oppure “non fermarono (la luce)”, sottolineando la forza del Verbo – Luce ed anticipando il trionfo futuro di Gesù contro le potenze delle tenebre (12,31; 16,11.33; 1Gv 5,4).


6 Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce.

Irrompe sulla scena un uomo inviato da Dio, di nome Giovanni, con l’incarico di rendere testimonianza a Gesù, che è il Verbo, la Vita, la Luce, Dio. La testimonianza di Giovanni viene resa davanti alle autorità giudaiche (1,19-28), al popolo di Israele (1,31-34) ed ai propri discepoli (1,35-37). Dal mondo soprannaturale e divino si scende bruscamente, attraverso Giovanni, nell’universo umano. Secondo diversi studiosi, Gv 1,6-8.15 è un’aggiunta tardiva intenzionale da parte del redattore finale, il cui scopo era di dissuadere i seguaci del Battista dal mettere sullo stesso piano questo pur grande personaggio, dotato di carisma profetico, e Gesù, di cui il Battista è solo il Precursore e testimone.

La figura di Giovanni Battista sembra ben conosciuta e di lui si riconosce la missione profetica. È l’ultimo profeta mandato da Dio prima di Gesù, il Profeta per antonomasia, colui che non solo parla in nome di Dio, ma colui che è, addirittura, la Parola di Dio divenuta carne ed ossa. Il compito di Giovanni viene esemplificato dal vocabolo martyrìa (testimonianza) e dal verbo corrispondente martyrèin (testimoniare), parole chiave della teologia giovannea. “Testimone” è colui che attesta una realtà la quale, pur immersa nella storia umana, la sorpassa e la rende per ciò stesso credibile anche alla ragione umana. Pur tuttavia, solo chi ha ricevuto il dono dello Spirito come il Battista (1,32-34) sa “vedere” in Gesù la Luce e rendergli testimonianza.

Scopo della testimonianza è la fede, cioè credere che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio (1,34). Ciò premesso, l’evangelista tiene a sottolineare che Giovanni Battista è solo la lampada (5,35) “ardente e splendente”, ma non la Luce. Esaurito il suo compito, il Battista uscirà di scena per far posto alla Luce vera che illumina ogni uomo (1,9).


9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.

È un versetto costruito in modo maldestro, forse perché aggiunto dall’evangelista all’inno cristologico originale. In greco, il predicato verbale erchòmenon (= veniente) potrebbe essere riferito sia all’uomo (ànthropon) che alla luce (phòs). Secondo la versione più accreditata e seguita, erchòmenon (= veniente) andrebbe riferito a phòs (= luce), per cui si parlerebbe della venuta del Verbo, vera Luce, in quel mondo che sarebbe da intendersi ancora in senso generale. L’aggettivo “vera” (alethinòn) è caratteristico di Giovanni ed indica insieme l’autenticità, in opposizione a ciò che è “falso” e la realtà, in opposizione a ciò che è tipo, immagine, figura.

In questo caso, la “luce vera” sottolinea il confronto tra Gesù (vera Luce) e tutti gli altri, tra cui il Battista, che sono solo portatori di luce. L’aggettivo “vero” ricorre spesso nel IV Vangelo: “pane vero” (6,32); “vera bevanda” (6,55); “vera vite” (15,1). Va sottolineato che la “vera Luce”, il Verbo, illumina ogni uomo che si affaccia alla vita. A partire dalla creazione il Lògos è la luce interiore che permette ad ogni essere umano di conoscere e comprendere se stesso ed il proprio destino.


10 Egli era nel mondo ed il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. 11 Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.

Viene qua introdotta la tematica scottante del rifiuto, che si compone di due fasi: quella cosmica (“ il mondo non lo riconobbe”) e quella etnico – religiosa (“i suoi non l’hanno accolto”) dalla visuale più ridotta.

Venuto nel mondo, il Lògos, per mezzo del quale il mondo è stato creato dal nulla, incontra resistenza. “Mondo” è un termine collettivo, che indica l’insieme del genere umano chiuso in se stesso ed opposto a Dio. Il Lògos, Parola eterna del Dio vivente, venne nella sua “vigna prediletta” o “proprietà” (eis tà ìdia), termine col quale Israele definiva se stesso nel suo rapporto esclusivo con YHWH (Is 5,1; Ger 2,21; Ez 15,1-8; Sal 80,9-19; Mt 20,1; 21,28-39), ma anche Israele non fu migliore del mondo ribelle, rispetto al quale si sentiva tanto superiore in virtù della propria elezione. Israele non seppe riconoscere ed accogliere il proprio Dio, venuto ad abitare ed a “mettere la sua tenda” in mezzo al suo popolo (1,14).


12 A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13 i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.

Respinto dal mondo e dal suo popolo, il Verbo è stato accolto da un gruppo ristretto di uomini, divenuti per ciò stesso “figli di Dio”. Da costoro si è costituito il nuovo Popolo di Dio. All’incredulità del giudaismo ufficiale si oppone la fede personale.

“Accogliere” è un verbo che esprime la fede in senso passivo: è un accettare la persona ed il messaggio che porta. A costoro il Verbo – Luce ha dato il potere di diventare “figli di Dio”, di essere cioè generati da Dio per mezzo del Lògos. Nascere da Dio implica l’esclusione dell’intervento di qualsiasi elemento umano, sia biologico (“sangue”) che psicologico (“volere di carne”, vale a dire la volontà dell’uomo di avere un erede). La triplice forte negazione, contrapposta alla generazione divina, esclude ogni mediazione naturale ed ogni concezione mitica. Si diventa “figli di Dio” solo in virtù del sangue di Cristo e della volontà dello Spirito e di Dio, non certo per volontà umana. Mediante la fede ed il battesimo si viene generati alla nuova vita (3,5).


14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.

Senza cessare di essere “Lògos”, il Verbo entra nel tempo e diviene parte integrante ed essenziale della storia umana, (“nella pienezza del tempo”, come afferma s. Paolo in Gal 4,4). Colui che “era” (= esisteva) da tutta l’eternità (= “in principio”) ha colmato l’abisso tra l’essere divino (Theòs = Dio) e l’umanità fragile e corrotta, mortale e peritura (sàrx = carne).

Il Verbo eterno di Dio si fece carne. Il vocabolo “carne” (in greco, sàrx) indica l’uomo nella sua condizione di totale debolezza e di destino mortale. Il vocabolo “uomo” (in greco, ànthropos) non avrebbe reso con la stessa crudezza la realtà carnale del Lògos divino fattosi creatura.

Del Verbo si dice che “si fece” (in greco, eghéneto) carne, non che “divenne” carne quasi subendo una trasformazione sostanziale. Pur rimanendo divino, infatti, il Lògos cominciò a vivere nella sua nuova condizione umana, debole e temporale. Il Verbo – Gesù è veramente Uomo e Dio. Tale affermazione è assolutamente antignostica. Occorre aprire una doverosa parentesi sullo gnosticismo, una pericolosa eresia dell’antichità greco – ellenistica inquinata da elementi religiosi ebraici e orientali. Si trattava di una dottrina filosofico – religiosa, frutto di un disinvolto sincretismo culturale e religioso, basata essenzialmente sulla convinzione che l’uomo è in grado di salvarsi da sé, senza bisogno dell’intervento di un Dio personale, che guidi l’uomo verso la salvezza intervenendo in modo sostanziale nelle vicende umane. Nello gnosticismo, l’elemento divino viene ridotto a “mito”, a bella favola, utile giusto per soddisfare il bisogno di mistero presente in ogni uomo, ma sostanzialmente non indispensabile per chi è dotato di una buona e sana razionalità. In altre parole, demitizzare un “mito” è un’operazione sempre possibile e piuttosto facile e di un mito si può fare tranquillamente a meno! A ben vedere, l’errore gnostico serpeggia ancora oggi nella civiltà occidentale, che a poco a poco si sta scristianizzando per abbracciare nuove (?!) forme di spiritualità e di sentimento religioso, come la New Age, che presuppongono la centralità dell’uomo, al servizio del quale si piegano le forze del cosmo, mentre Dio viene spersonalizzato e ridotto ad una presenza impalpabile ed indefinita, di cui pochi individui, particolarmente dotati di sensibilità interiore, sanno cogliere l’energia nelle cose, negli animali e nelle persone.

Secondo il mito gnostico l’uomo primitivo, invaghitosi della terra, lasciata la sfera celeste della luce da lui posseduta fin dall’inizio, si divise in tante piccole scintille, corrispondenti alle anime dei singoli esseri umani e divenute prigioniere della materia tenebrosa, cioè del corpo. Non potendo più l’uomo primitivo, così frammentato e prigioniero della realtà materiale, ritornare alla sfera celeste della luce, Dio decise di inviare un “salvatore” che, lasciata la sfera della luce celeste, scese sulla terra per rendere gli uomini coscienti (gnòsi = conoscenza) della luce che hanno in sé e della loro origine divina e per liberarli dalla materia, favorendone il ritorno nel mondo celeste della luce. Compiuta la sua missione, il “salvatore” gnòstico è ritornato alla sfera celeste da dove era disceso.

Venne ad abitare in mezzo a noi. Il verbo greco eskénosen, tradotto con “venne ad abitare”, andrebbe tradotto più correttamente con l’espressione “pose la tenda”. L’ebraico shkn (=abitare) è anche la radice del vocabolo shekinâh, ovvero la Tenda del Convegno, la Dimora di YHWH in mezzo al suo popolo, il luogo santo per eccellenza contenente l’arca dell’Alleanza, sul cui coperchio (il Propiziatorio) si posa la Gloria di Dio durante la sua permanenza tra gli uomini. Questa santa dimora in mezzo agli uomini non è una semplice parvenza e non è riducibile ad una presenza simbolica; essa è reale e storicamente determinante.

E noi vedemmo la sua gloria. Riferita all’abitazione del Verbo tra noi, la gloria (dòxa) è la manifestazione della potenza salvifica di Dio, rivelatasi storicamente nel Verbo incarnato e testimoniata da testimoni oculari (“noi vedemmo”). Costoro hanno visto con gli occhi del corpo ma, attraverso gli occhi della fede, hanno colto la Gloria dell’Unigenito, nascosta e svelata nei segni di salvezza (1,50-51; 2,11; 11,40).

Gloria come di unigenito del Padre. Solo Giovanni usa il titolo “Unigenito” nel Nuovo Testamento (1,18; 3,16-18; 1Gv 4,9) e sempre in rapporto col Padre. Gesù è il Figlio unico amato dal Padre, in intimità perfettamente reciproca con Lui (10,30-38; 14,10-11; 17,21), nella conoscenza e nell’amore (5,20.30; 10,15; 14,31; Mt 11,27).

Pieno di grazia e di verità. Si tratta di un’endiadi, cioè di un concetto espresso da due termini coordinati tra loro ed è tipica del contesto culturale antico testamentario. “Grazia” e “verità” corrispondono a “grazia (o amore) e fedeltà” nella definizione che Dio dà di se stesso a Mosè (Es 34,6; Os 2,16-22) ed esprimono la fedele bontà di Dio verso il suo popolo, a lui unito mediante l’alleanza. Il vocabolo “grazia” (chàris) è una parola chiave tipicamente paolina, tanto che in Giovanni si trova solo nel Prologo (1,14.16.17) essendo estranea alla teologia giovannea, ma proviene dalla tradizione innica. Essa indica sia il dono del Verbo incarnato (1,14), sia il dono di grazia che Egli offre agli uomini (1,16) e di cui Egli stesso è sorgente (1,17).

Il vocabolo “verità” (alétheia) potrebbe significare fedeltà e stabilità nel mantenere le promesse.


A partire da Gv 1,14 la parola Verbo (Lògos) sparisce dal Vangelo giovanneo. Ormai si vede solo l’Uomo Gesù e Giovanni sottolinea con compiacimento l’umanità di Gesù:

4,29 “Venite a vedere un uomo, che mi ha detto tutto ciò che ho fatto

7,46 “Nessun uomo ha mai parlato così

10,33 “Tu che sei uomo, ti fai Dio

18,29 “Quale accusa portate contro quest’uomo?”

19,5 “Ecco l’uomo”.

La comunità di Giovanni ha saputo vedere in Gesù Uomo la gloria di Dio. Col rifiuto di Gesù da parte del giudaismo ufficiale è nata una nuova comunità, sotto il segno della “grazia” e della “verità”.


15 Giovanni gli rende testimonianza e grida: “Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me”.

Continua la testimonianza del Battista che, fra coloro che hanno veduto la Gloria del Verbo, è stato il primo a proclamare a gran voce il mistero: Gesù non solo è prima di Giovanni il Battista, ma si colloca al principio assoluto. Venuto cronologicamente dopo il Battista, Gesù, il Verbo incarnato, lo precede in dignità perché Egli era “in principio”. Giovanni capisce che, per lui, è venuto il momento di eclissarsi e di lasciare spazio a chi è “più grande di lui” perché viene dalle infinite profondità del tempo ed è all’origine di tutte le cose. Giovanni è “il più grande tra i nati da donna” (Mt 11,11) perché sa comprendere la relatività della propria grandezza e la propedeuticità della propria missione.


16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. 17 Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

La comunità, che ha creduto, attesta di aver ricevuto la rivelazione ultima di colui che era “dono di grazia e rivelazione” (grazia e verità). Segue l’accostamento fra Mosè e Gesù, i due mediatori spesso messi a confronto in modo polemico nei Vangeli. I giudei si appellano sovente a Mosè ed alla Legge e non comprendono che Mosè è testimone di Gesù, il quale porta a compimento la Legge mosaica. Anche il vocabolo “pienezza” (pléroma) è un termine estraneo alla teologia di Giovanni ed ha un significato salvifico. La “pienezza di grazia” promana ininterrottamente dal Verbo incarnato agli uomini, letteralmente immersi nell’immenso ed interminabile fluire dell’Amore divino, che dona salvezza a tutti coloro che non lo rifiutano.

Vengono messe a confronto le due economie della salvezza, quella dell’Antico e quella del Nuovo Testamento al fine di evidenziare la superiorità e la definitività escatologica della salvezza, portata dalla grazia e dalla verità, concretizzatesi per mezzo di Gesù Cristo. Mosè e Gesù vengono posti in parallelismo né sinonimico né antitetico, ma sintetico. Gesù non può essere paragonato a Mosè ed alla sua Legge, ma neppure va messo in opposizione a ciò che Mosè rappresenta per Israele. Semmai, Gesù costituisce il punto di arrivo di tutta la Sacra Scrittura, la realizzazione della Legge (Torâh) e dei Profeti (Nebiîm).


18 Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

Venuto dal Padre, il Figlio vi ritorna dopo aver offerto agli uomini la possibilità di rinascere. All’infuori di Gesù, il Verbo Unigenito, nessuno ha mai visto Dio Padre. Solo il Figlio ha fatto l’esegesi del Padre, lo ha cioè esposto, spiegato, rivelato. Solo Gesù è l’unico interprete di Dio, la via che conduce a Dio (Gv 14,6).

Interpretazione del Prologo

Il Prologo privilegia l’immagine di Dio in relazione con gli uomini. Dio è Colui che fa esistere tutto, è fonte di vita e luce nella vicenda cosmica ed umana per mezzo della “Parola”. Questa Parola, nella quale si attua l’azione creatrice e comunicativa di Dio, è Gesù Cristo. Gesù è la manifestazione storica ed umana della realtà di relazione personalizzata chiamata Lògos. L’autore del Prologo non ha scelto a caso questa figura simbolica, tipica della comunicazione relazionale umana, per esprimere l’incontro di Dio con l’uomo per mezzo di Gesù Cristo. La comunicazione tra Dio, fonte e meta di tutte le realtà, e l’uomo si concretizza nell’incontro.

La Parola originaria, che era in relazione con Dio, quando si fa “carne umana” viene chiamata Unigenito e Dio diventa il Padre. Questa relazione filiale, intima e permanente, di Gesù Cristo col Padre sta alla base della relazione filiale di quelli che credono nel suo nome, in forza della comunicazione della “grazia e verità” per mezzo di Gesù Cristo. Il testimone Giovanni e Mosè, il mediatore della Legge, danno concretezza storica al processo di comunicazione, che parte dal gesto creativo per concludersi nella comunione filiale con Dio Padre.

La manifestazione del Lògos come “vita e luce” e la comunicazione dell’Unigenito come “pienezza di verità e di grazia” provocano accoglienza o rifiuto da parte del mondo umano. La testimonianza di Giovanni alla “luce vera, che illumina ogni uomo” offre la possibilità di un atteggiamento di accoglienza, di una presa di posizione a suo favore.

Mosè, invece, è in un certo qual modo il fulcro del “malinteso”. Da una parte la Legge mosaica, identificata con la rivelazione storica di Dio e della sua volontà, rende testimonianza a Gesù ed al suo ruolo di rivelatore definitivo (1,45; 5,39; 10,34; 15,25) ma, dall’altra, i giudei si appellano proprio al magistero di Mosè per giudicare e rifiutare Gesù in quanto inviato da Dio (9,28-29). Il confronto Mosè – Gesù Cristo, anticipato nel Prologo, rimane come un’ombra che si allunga su tutto il IV Vangelo. La Legge, donata da Dio al suo popolo tramite Mosè, ha un ruolo positivo in quanto prepara e preannuncia la definitiva rivelazione salvifica per mezzo di Gesù Cristo, ma solo coloro che riconoscono Gesù come il Cristo hanno accesso pieno e permanente al dono della salvezza. I giudei, con la loro ostinata opposizione al Verbo di Dio, che è Luce, Grazia e Verità, si autoescludono dalla salvezza pur dichiarandosi “figli di Abramo” (8,39) e fedeli interpreti della Legge mosaica (7,19.22-23). È lo stesso Mosè che condanna, però, l’ottusità dei giudei (5,45-47).

La risposta umana positiva al Verbo – Luce, che è nel mondo e che comunica se stesso, è la fede. “Credere” a Gesù ed in Gesù comporta una relazione dinamica, che spazia dal riconoscere all’accogliere la Parola, fino al contemplare la Gloria dell’Unigenito per ricevere dalla sua pienezza la “grazia” e la “verità” comunicata da Gesù Cristo.

Dal “principio” assoluto (1,1) il Lògos progressivamente si immerge nel mondo e nella storia umana, illuminando l’uno e l’altra. La Parola primordiale, che era con Dio, diventa luce nel mondo e lo splendore contemplato dai credenti sul volto dell’Unigenito. Il Lògos è il volto di Dio divenuto visibile in Gesù Cristo ed è il tramite della comunicazione col Padre a favore di tutti gli altri figli (14,8-9).

L’incontro della Parola di Dio col mondo umano avviene in un contesto conflittuale drammatico, ma il confronto tra la Luce (Verbo – Dio) e le tenebre (mondo), tra la testimonianza coraggiosa (martyrìa) ed il rifiuto ostinato è, alla fine, un evento positivo. La Parola “accolta” introduce i credenti in un nuovo rapporto con Dio. Nonostante il conflitto cosmico tra Luce e tenebre ed il rifiuto della Parola da parte dei “suoi”, la comunicazione di Dio diventa un flusso ininterrotto di “grazia e verità” in Gesù Cristo, flusso che si riversa su coloro che contemplano il volto luminoso dell’Unigenito.

La Parola originaria, che dialogava con Dio e per mezzo della quale tutto è venuto all’esistenza ed ha vita, ora ha un volto storico: Gesù Cristo (1,14). La comunicazione di Dio coincide con la sua immersione irreversibile nel mondo umano, avvenuto in un momento preciso della storia umana (Gal 4,4). Dio è andato incontro al bisogno dell’uomo di incontrare e di dialogare con Dio. Nel Prologo possiamo riconoscere le linee guida del pensiero giovanneo:

  1. Dio ha preso l’iniziativa ed il Verbo si è fatto carne. L’iniziativa di Dio può essere riassunta dal “tutto è compiuto” di Gv 19,30;

  2. Dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto” lo Spirito, l’acqua (battesimo) ed il sangue (eucaristia);

  3. Abbiamo visto la sua gloria” attraverso la visione del trafitto, l’uomo della croce (Gv 19,37).


Dopo la solenne apertura del Vangelo con l’inno cristologico del Prologo, l’evangelista entra nel vivo del racconto evangelico introducendo la carismatica figura di Giovanni, detto il Battista, per rendere autorevole la testimonianza al Cristo mediante le parole pronunciate da questo profeta assai amato e rispettato in Israele. Sullo sfondo s’intravede la polemica strisciante e, talvolta, anche infuocata tra i seguaci del Battista ed i cristiani sul finire del primo secolo dell’era cristiana.

La tragica fine del Battista, nonché il suo comportamento “profetico” erano ancora ben impressi nella memoria collettiva degli strati più umili della popolazione ebraica, sopravvissuta ai drammatici fatti del 70 d.C. culminati nella distruzione di Gerusalemme e nella fine della nazione ebraica come identità politica. Per molti ebrei, Giovanni il Battista era l’ultimo vero profeta di Dio apparso in terra di Palestina e, per grandezza, paragonabile al grande Elia (1,21). Il ricordo delle sue parole e delle sue memorabili gesta era stato tramandato dai suoi stessi discepoli, che, com’era già avvenuto spesse volte in passato, avevano istituito una vera e propria “scuola” profetica incentrata sull’insegnamento del loro maestro. A circa settant’anni dai fatti narrati dall’evangelista, questa “scuola” era evidentemente molto attiva ed assai poco propensa a considerare Gesù superiore al venerato Giovanni. D’altro canto, i seguaci di Gesù erano altrettanto convinti che il loro Signore e Maestro fosse superiore a qualsiasi altro essere umano in virtù della sua figliolanza divina, resasi a tutti manifesta in virtù della sua resurrezione e, per di più, attestata persino dal grande Giovanni Battista (1,19-34).

L’autore del IV Vangelo non ripercorre le vicende storiche di Giovanni Battista come i colleghi sinottici (Mt 3,1-12; 14,1-12; Mc 1,1-8; 6,17-29; Lc 1,5-25.39-45.57-80; 3,1-20), ma riferisce solamente la sua testimonianza riguardo il Messia-Gesù. Le autorità giudaiche sanno di avere a che fare con un personaggio dotato di grande carisma e di notevole ascendenza sul popolo e sono a conoscenza del fatto che molti ricorrono a lui per sottoporsi al battesimo di penitenza. A tutti Giovanni dà utili consigli per attuare una vera conversione del cuore e dei costumi morali e non teme di essere critico nei confronti dei potenti del suo tempo. Neppure il re si sottrae agli strali del Battista, che gli rimprovera di condividere il proprio letto nientemeno che con la cognata (e nipote…), letteralmente strappata al fratello per soddisfare un capriccio personale.

Alle autorità religiose interessa sapere con chi devono confrontarsi: “Chi sei tu?” (1,19). Giovanni non ha peli sulla lingua e non intende appropriarsi di un ruolo che non gli compete: “Non sono il Cristo… né Elia… né il profeta” (1,20-21). In poche parole egli liquida la faccenda che più sta a cuore ai suoi interlocutori, ansiosi di sapere se Giovanni appartenga alla categoria delle persone più temute ed attese dell’intera storia d’Israele: tutti, infatti, sono in ansiosa attesa del Messia, il liberatore del popolo oppresso dal dominatore straniero, ma sanno anche che i profeti hanno annunciato il ritorno di Elia nell’imminenza della venuta del “giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,23), una specie di apocalittica resa dei conti e di inizio di una nuova era di prosperità e di pace sulla terra, dalla quale verrà spazzata via ogni iniquità morale.

Dall’elenco dei personaggi più attesi non può mancare il “profeta”, annunciato da Dio per bocca di Mosè (Dt 18,18) e simile a lui per carisma e doti profetiche. Giovanni si definisce la “voce” di Colui che viene mandato da Dio per battezzare non con acqua ma col fuoco dello Spirito di Dio (1,23.26; cf. Mt 3,11; At 1,5). Colui che viene dopo di lui è così grande da non essere nemmeno degno di legargli i lacci dei sandali, un gesto da schiavo (1,27). Le autorità giudaiche, c’è da giurarci, ne sanno quanto prima sulla reale importanza di Giovanni Battista nel panorama religioso del mondo ebraico: un profeta od un semplice visionario ed agitatore delle coscienze altrui?

Il giorno appresso è Gesù stesso che si reca da Giovanni (1,29), con ogni probabilità per ricevere da lui il battesimo di penitenza insieme a tanti altri connazionali. Pur non riferendo direttamente le circostanze del battesimo di Gesù per mano del Battista, l’autore del IV Vangelo ce ne offre una testimonianza indiretta mettendo sulla bocca dello stesso Giovanni la visione di una colomba che si è posata sul capo di Gesù come segno della presenza dello Spirito di Dio (1,32; cf. Mt 3,16). In Gesù, suo parente (cf. Lc 1,36), Giovanni percepisce (1,30) una grandezza misteriosa (“mi è passato davanti, perché era prima di me”) e ne intuisce (1,33) un destino assai speciale (“io non lo conoscevo… [egli] è colui che battezza in Spirito Santo”). Tanto basta a Giovanni per identificare in Gesù, che credeva di conoscere bene in quanto suo parente, “il Figlio di Dio” (1,34), vale a dire il Messia. “Ecco l’Agnello di Dio… che toglie il peccato del mondo” (1,29), proclama Giovanni, il quale, grazie ad un’illuminazione interiore folgorante, comprende la reale portata della missione salvifica di Cristo, che deve essere immolato come l’agnello pasquale per donare la salvezza agli uomini (cf. Es 12,1+; Is 53,7.12). Con quest’ultima profezia, Giovanni Battista “il più grande tra i nati da donna” (Mt 11,11), il novello Elia (Ml 3,1.23) inviato per annunciare il compimento dell’attesa messianica, esaurisce la sua missione e scompare di scena per lasciare il posto al suo Signore e Salvatore.


Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi
Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
*****************************************
Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra | Regolamento | Privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 00:32. Versione: Stampabile | Mobile - © 2000-2024 www.freeforumzone.com