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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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04/06/2010 18:02
 
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Il Vangelo di Giovanni


Parte prima (cc. 1-12)



Commento a cura di

Damiano Antonio Rossi

Con la collaborazione delle Suore Adoratrici Perpetue del S.S. Sacramento di Vigevano

Prefazione


Allorquando mi sono accinto a preparare un commento ad alcune pericopi del Quarto Vangelo, seguendo i principi classici della lectio divina, non mi sarei mai aspettato di farmi coinvolgere dallo studio e dalla meditazione del testo giovanneo fino al punto di rinunciare, molto volentieri, a parecchie ore di giusto e meritato riposo dopo quelle trascorse al lavoro in un ambulatorio medico, luogo che, per sua destinazione propria, catalizza e concentra l’afflusso del malessere umano per antonomasia: la malattia del corpo (e, molto spesso, anche quella dello spirito). Ispirandomi alle pagine evangeliche, mi sono convinto una volta di più del fatto che anche la professione medica non è immune da tale malessere, specie quando affronta esclusivamente sul piano scientifico le numerose malattie che affliggono l’umanità e dimentica di avere a che fare con “esseri umani malati”, ognuno dei quali necessita e richiede trattamenti del tutto personali ed il cui punto cruciale è l’ascolto della persona che è, o che si sente, malata. Assai frequentemente, a dire il vero, le patologie organiche scaturiscono o sono aggravate da profondi disagi psicologici e morali, ma l’odierna impostazione della professione medica sembra non farvi caso più di tanto, poiché prevale l’interesse per i numeri delle prestazioni professionali e degli interventi specialistici. Si curano più le malattie che gli ammalati, i quali costituiscono sovente un “peso” gravoso sia per il medico, oberato di lavoro, sia per la medicina istituzionale, alle prese con problemi di carattere economico-sociale sempre più pressanti. Rileggendo le pagine del testo evangelico di Giovanni, non può sfuggire all’attenzione la sorprendente finezza psicologica dimostrata da Gesù quando si accosta, interroga, ascolta, incoraggia ed esaudisce con la guarigione dei corpi e delle anime i malati del suo tempo, ma non può sfuggire neppure la durezza con cui si oppone a ciò che Egli considera la radice vera di tutti i mali: l’incredulità preconcetta e radicalizzata di quanti rifiutano di riconoscere in Lui la fonte ed il culmine d’ogni bene. Non solo la malattia, ma persino la dissoluzione fisica dei corpi nella morte possono essere superate e vinte mediante la fede in Colui che è “la resurrezione e la vita” (Gv 11,25).

La fede in Dio e nel suo Inviato, Gesù di Nazareth, è un dono assai prezioso ma da molti disprezzato, vilipeso, deriso o ridicolizzato a tutto vantaggio di una fede “cieca” nell’autosufficienza degli uomini, che ritengono di non aver bisogno del soprannaturale (considerato un peso insopportabile ereditato da un passato oscuro ed ignorante) per gestire autonomamente il proprio destino. Il desiderio dell’uomo di sconfiggere una volta per sempre la sofferenza, la guerra, la malattia e la morte è del tutto legittimo ma non fa i debiti conti con la provvisorietà e la fragilità della natura umana. In passato sono state le ideologie e le follie totalitarie a presumere di poter gettare le basi per la “costruzione” dell’uomo nuovo mediante l’eliminazione fisica di quanti sono “diversi” dal punto di vista razziale, culturale, fisico, mentale, psicologico o religioso; ora è la scienza, praticata ed ideologicamente sorretta da uomini radicalmente “atei” (cioè privi di qualsiasi riferimento a ciò che è sovrumano, divino) a presumere di sostituirsi al Creatore mediante il dominio e la manipolazione del codice della vita, con l’evidente intento non di migliorare, bensì di creare la vita stessa. Il rifiuto della Luce divina da parte delle Tenebre del male, dell’incredulità, del peccato (Gv 1,5.10) è attuale oggi come ai tempi dell’evangelista e le conseguenze di tale rifiuto sono sotto gli occhi di tutti, anche se vengono spacciate come “progresso” e come conquista della “libertà” da ogni forma di superstizione religiosa.

Il mio commento al Vangelo secondo Giovanni non si è limitato a poche pericopi, com’era nelle mie intenzioni originarie. Ho deciso, infatti, di affrontare per intero lo studio esegetico del testo giovanneo perché sollecitato dall’interesse dimostrato dalla gente intervenuta agli incontri di lectio divina, effettuati presso il Santuario Eucaristico di Vigevano ed organizzati dalla Madre Superiora e dalle suore Adoratrici Perpetue del S.S. Sacramento. Mi sono avvalso, per il presente lavoro, della consultazione di testi esegetici redatti da studiosi assai noti nel mondo cattolico e grandi esperti delle opere di Giovanni: tra tutti, R. Fabris, X. Léon-Dufour, R. Schnackemburg, A. Marchadour, R. E. Brown, G. Segalla, I. De La Potterie; oltre alle opere di questi autori contemporanei, che citano a loro volta i commenti di altri autorevoli esegeti cattolici e protestanti (M. E. Boismard, R. Bultmann, C. H. Dodd, M. J. Lagrange, A. Loisy, D. Mollat e numerosi altri), ho avuto l’opportunità di leggere anche il pregevole commento al Quarto Vangelo di s. Agostino, grande Padre della Chiesa e raffinato esegeta dell’opera giovannea, di cui restano memorabili alcune osservazioni lapidarie, che sanno cogliere l’essenzialità del messaggio evangelico in modo incisivo ed impossibili da dimenticare.

Per il testo, oggetto del commento, ho fatto ricorso alla versione greca originale proposta dal notissimo Nestle-Aland, alla traduzione latina di S. Girolamo ed alle traduzioni italiane proposte dalla Bibbia di Gerusalemme (adottata dalla CEI), dalla TOB, dalle Edizioni Paoline e da alcuni esegeti succitati (in particolare, nella lingua originale italiana R. Fabris e G. Segalla e, nelle traduzioni dal francese, X. Léon-Dufour e A. Marchadour). Il confronto tra i vari autori e le diverse traduzioni dall’originale greco, mi hanno permesso di cogliere le sfumature espressive di una lingua, il greco, che sfuggono ai più e che vengono fatte risaltare nelle varie traduzioni adottate dagli studiosi non per solo gusto stilistico-letterario, ma per una migliore comprensione ed attualizzazione del messaggio evangelico.

Sono grato per il sostegno avuto dalle suore Adoratrici Perpetue del S.S. Sacramento, per l’incoraggiamento ricevuto dalle tante persone, d’ogni età, che mi hanno manifestato il loro apprezzamento per il lavoro svolto sinora e, non ultimo, sono riconoscente ai miei familiari che hanno “sopportato” i disagi provocati dalle tantissime ore da me trascorse sui libri ed al computer, sottraendo tempo prezioso alle loro necessità quotidiane.

Sento di dovere un pensiero particolare di gratitudine a mia moglie Gabriella, a madre Maria Amore Plena, a suor Maria Pacis, a Massimo Pistoia, ai reverendi don M. Ferrari e don A. Negrelli, a tutti coloro che hanno contribuito alla mia formazione teologica durante cinque indimenticabili anni di studi in Scienze Religiose: senza di loro, questo lavoro non avrebbe visto la luce.

[Modificato da Credente 04/06/2019 15:05]
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04/06/2010 18:06
 
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Vangelo di Giovanni


L’opera giovannea

Gli scritti che vengono attribuiti all’apostolo Giovanni sono il IV Vangelo, l’Apocalisse e tre Lettere. Nel loro complesso, tali scritti costituiscono l’opera giovannea, che si caratterizza per l’utilizzo di un vocabolario proprio,1per essere unanimemente attribuito dalla tradizione all’apostolo Giovanni e per il fatto che risente di uno stesso ambiente vitale (Sitz im Leben).2

L’ambiente vitale dell’opera giovannea è caratterizzato dal clima di persecuzione che i cristiani subiscono per mano della sinagoga, cioè da parte delle autorità religiose giudaiche da una parte e, dall’altra, dalla minaccia alla fede in Cristo Signore per opera delle prime eresie (specie l’eresia gnostica).3 Probabilmente il IV Vangelo fu scritto ad Efeso, centro d’irradiazione della “scuola giovannea” e campo d’azione dell’apostolo Giovanni, anche se la comunità cristiana di quella città, ubicata nell’attuale Turchia, era stata fondata dall’apostolo Paolo in occasione del suo terzo viaggio missionario.4


L’autore del IV Vangelo

Dalla fine del XIX secolo molto si discute sull’autenticità giovannea del IV Vangelo. In effetti, tutti i Vangeli sono anonimi e le notizie circa i loro autori ci vengono dall’antica tradizione ecclesiastica. Risale circa al 180 d.C. la prima testimonianza sulla paternità giovannea del IV Vangelo ed è resa da s. Ireneo,5vescovo di Lione ma originario di Smirne, che si trovava nei pressi di Efeso. Egli ebbe modo di conoscere personalmente e di raccogliere, a sua volta, la testimonianza di s. Policarpo,6illustre vescovo di Smirne e discepolo diretto dell’apostolo Giovanni. Si può ben comprendere come la testimonianza di s. Ireneo sia un importante e valido anello di congiunzione con l’insegnamento apostolico ed elemento insostituibile della tradizione apostolica stessa.

L’autore del IV Vangelo sarebbe, dunque, l’apostolo Giovanni,7il cui nome significa “YHWH fece grazia”. Dai Sinottici sappiamo che Giovanni era figlio di Zebedeo e di Salòme, una delle pie donne che assistevano Gesù ed il gruppo degli apostoli durante il loro peregrinare sulle polverose strade di Palestina.8 Suo fratello era Giacomo, detto il Maggiore9per distinguerlo dall’altro Giacomo del gruppo apostolico, detto il Minore10 ed assai famoso nella primitiva Chiesa di Gerusalemme per essere il “fratello”, cioè il cugino del Signore e figlio di Alfeo e di Maria di Cléofa.

Giovanni e Giacomo erano pescatori originari di Betsaida, una cittadina affacciata sulle acque pescose del mare di Galilea e dovevano essere benestanti, visto che il padre si avvaleva del lavoro di dipendenti.11 I due fratelli erano soprannominati da Gesù “Boanerghès”, cioè “figli del tuono” per l’irruenza del loro carattere.12

Assieme al fratello Giacomo ed a Pietro, l’apostolo Giovanni appartiene al gruppo dei discepoli prediletti da Gesù, che li vuole unici testimoni della sua Trasfigurazione sul monte Tabor,13della risurrezione della figlia di Giàiro 14 e della sua agonia nel giardino del Getsémani.15

Il rapporto privilegiato col Maestro rende Giovanni e Giacomo alquanto sfrontati, al punto da indurli a chiedere a Gesù di sedere al suo fianco non appena si fosse realizzato l’avvento del Regno di Dio.16

Il nome di Giovanni non compare esplicitamente nel IV Vangelo; l’evangelista si presenta come “il discepolo che Gesù amava”. A lui Gesù confidò il nome del traditore durante l’ultima cena,17a lui affidò propria Madre sul Calvario18e fu lui a correre con Pietro al sepolcro vuoto il mattino di Pasqua per verificare il racconto di Maria Maddalena.19 Giovanni fu anche il primo a credere nella resurrezione di Gesù20ed il primo a riconoscere il Signore risorto sulla spiaggia del mare di Galilea.21 Nonostante il privilegio di essere “colui che Gesù amava” più degli altri (era forse il più giovane del gruppo?), Giovanni seppe mantenere una posizione subordinata rispetto a Pietro, il capo riconosciuto degli apostoli, pur venendo presentato da Paolo come una delle “colonne” della Chiesa madre di Gerusalemme.22 Con molta probabilità, Giovanni lasciò definitivamente la Città Santa poco prima che iniziasse la guerra giudaica, che si sarebbe conclusa nel 70 d.C. con la distruzione della città e del suo famoso Tempio, così come aveva previsto Gesù nell’imminenza della sua Passione e morte in croce.23 La sua destinazione fu la città di Efeso, sede di una comunità cristiana fondata da Paolo e nella quale si venerava Venere, la dea della fecondità e dove sorgeva un famoso tempio (l’Artemision), attorno al quale ruotavano enormi interessi commerciali legati alla continua affluenza di pellegrini in cerca di “emozioni forti”. Efeso era nota per i suoi costumi tutt’altro che morigerati e persino il battagliero e focoso Paolo di Tarso dovette allontanarsi in tutta fretta dalla città, non prima di aver provato i disagi della locale prigione, a causa di un tumulto suscitato da coloro cui aveva provocato, a causa della sua predicazione, un notevole danno economico.24 Giovanni portò con sé Maria, la Madre di Gesù e plasmò la fede della locale comunità cristiana con uno stile diverso da quello interpretato dal grande Tarsiota. Egli dovette rafforzare la fede in Gesù dei cristiani, presi di mira dalle persecuzioni perpetrate dalle autorità religiose ebraiche e colti di sorpresa anche dalle prime eresie, che tendevano a negare ora la vera umanità, ora la vera divinità del Signore. Dopo una vita lunga ed intensa, spesa per il Vangelo di Gesù Cristo, durante i primi anni dell’impero di Traiano (98-117 d.C.) Giovanni morì di vecchiaia in esilio nell’isola di Pathmos, dove era stato confinato dall’imperatore Domiziano.25



Genesi storica del Vangelo di Giovanni

Il racconto è stato definito la forma letteraria della memoria. Così, il racconto evangelico è la storia della primitiva comunità cristiana come emerge dalla “memoria” dell’evangelista. Il testo evangelico rimanda e rende testimonianza all’Evento dell’incarnazione, passione, morte e resurrezione del Figlio di Dio e si propone di suscitare la fede nel lettore di ogni epoca storica.

Il Vangelo è stato inizialmente soltanto predicato: testimonianza orale. Soltanto in seguito furono messi per iscritto alcuni elementi della testimonianza orale, centrati sulla passione, morte e resurrezione di Cristo ed oggetto di una costante e coraggiosa predicazione: testimonianza scritta. Giovanni utilizzò come prologo al suo Vangelo scritto un inno della primitiva comunità cristiana, di cui s’intuisce una formazione culturale greco-ellenistica. È un fatto marginale se a scrivere materialmente il Vangelo sia stato Giovanni in persona od un suo fidato discepolo; è fuor di dubbio che l’impronta dell’opera sia tipicamente giovannea, per cui l’eventuale discepolo scrittore può essere definito con buona ragione un testimone evangelista. Alcuni autori del XIX secolo hanno messo in dubbio il valore storico del Vangelo di Giovanni, attribuendogli un significato prettamente speculativo e negandogli un substrato palestinese. Un papiro scoperto ad Ossirinco, in Egitto, nel 1920 e noto come papiro Rylands (P52), riporta alcuni versetti del Vangelo di Giovanni: 18,31-33 e 18,37-38. Il papiro è stato datato intorno al 135-150 d.C., per cui il IV Vangelo circolava in Egitto pochi decenni dopo la scomparsa del suo autore o ispiratore. Oltre a ciò, nel 1947 sono stati scoperti a Qūmran, sul Mar Morto, dei manoscritti che hanno contribuito a confermare il substrato palestinese del Vangelo giovanneo, definito da Origene (III secolo d.C.) “il fiore dei Vangeli”. È in ogni caso certo che la redazione finale del IV Vangelo è opera di un discepolo dell’apostolo Giovanni, di cui raccolse gli elementi della predicazione orale e, forse, alcuni ricordi già fissati per iscritto, aggiungendo autonomamente il capitolo 21.


Scopo del IV Vangelo e suoi destinatari

Lo scopo principale del IV Vangelo è espressamente indicato nel versetto finale della conclusione originaria del testo evangelico (20,31): “Questi (segni) sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Se lo scopo è la fede in Gesù, Cristo Signore, la conseguenza di tale fede è la vita eterna; dallo scopo si è in grado di identificare i destinatari del Vangelo, vale a dire coloro che ancora non credono, sia pagani sia ebrei, ma anche coloro che, pur essendo già cristiani, devono crescere e diventare “adulti” nella fede. Alcuni autori ritengono che il Vangelo di Giovanni abbia anche un intento polemico nei confronti degli eretici, che negavano la reale umanità di Cristo (i docetisti), oppure delle autorità religiose ebraiche (i giudei), che nel concilio di Jamnia (85-90 d.C.) avevano sancito la definitiva espulsione dalle sinagoghe degli ebrei convertiti al cristianesimo, definiti “eretici” (in ebraico minîm) e colpiti da solenne maledizione.


Data e luogo di composizione

Secondo gli studiosi più accreditati, il Vangelo di Giovanni sarebbe stato composto tra il 90 ed il 100 d.C.: ad Efeso, a parere dei più, oppure ad Alessandria d’Egitto,26come proposto da alcuni in considerazione della diffusione di questo Vangelo in Egitto nei primi decenni del II secolo dell’era cristiana o ancora, secondo altri, ad Antiochia di Siria,27la più grande città dell’impero dopo Roma e centro d’irradiazione del primitivo cristianesimo nel mondo pagano. Quest’ultima ipotesi sarebbe avvalorata dalle somiglianze tra il pensiero giovanneo e quello formulato nelle sue opere da s. Ignazio, vescovo d’Antiochia nel II secolo d.C.


Struttura e contenuto del IV Vangelo

Il Vangelo di Giovanni si compone di tre parti:

  1. Prologo (1,1-18), testimonianza del Battista (1,19-34) e vocazione dei primi discepoli (1,35-51)

  2. Racconto evangelico (cc. 2-20) suddiviso in due blocchi:

  1. cc. 2-12 ovvero il libro dei segni o miracoli: nozze di Cana (2,1-12); la prima pasqua a Gerusalemme con la cacciata dal Tempio dei mercanti (2,13-25); Nicodemo (3,1-21) ed ultima testimonianza del Battista (3,22-36); la Samaritana (4,1-42), Gesù in Galilea ed il miracolo del figlio dell’ufficiale regio (4,43-54); la guarigione dell’infermo alla piscina di Bethesda (5,1-47); la moltiplicazione dei pani (6,1-15), Gesù cammina sulle acque (6,16-21) e discorso sul pane di vita (6,22-71); Gesù a Gerusalemme per la festa delle Capanne e la grande rivelazione messianica (7,1-53); l’adultera (8,1-11), Gesù luce del mondo (8,12-20) ed altre rivelazioni (8,21-59);

il cieco nato (9,1-41); il Buon Pastore (10,1-21), ultima rivelazione alla festa della Dedicazione e ritiro oltre il Giordano (10,22-42); resurrezione di Lazzaro (11,1-44), congiura dei Giudei e ritiro di Gesù ad Efraim (11,45-57); unzione di Betania (12,1-11), ingresso messianico in Gerusalemme (2,12-19) ed incredulità dei Giudei (12,20-50).

  1. Cc. 13-20 ovvero il libro dei discorsi (13-17) e racconto della passione, morte e resurrezione di Gesù (18-20): Ultima Cena con la lavanda dei piedi (13,1-20), annuncio del tradimento (13,21-30) ed inizio del discorso d’addio (13,31-38); continuazione del discorso di addio (14,1-31); Gesù vera vite (15,1-17); i discepoli ed il mondo (15,18-27); la promessa del dono dello Spirito (16,1-15) e del ritorno di Gesù (16,16-33); la preghiera sacerdotale (17,1-26).

La Passione e morte di Gesù (18,1-19,42); la Resurrezione e le apparizioni di Gesù (20,1-29); prima conclusione del Vangelo (20,30-31).

  1. Appendice: il capitolo 21 è chiaramente un’aggiunta tardiva composta da un discepolo di Giovanni e comprende

  • l’apparizione sul lago di Tiberiade (21,1-14)

  • il primato di Pietro e predizione sulla sua sorte (21,15-19)

  • predizione sulla sorte del discepolo prediletto (21,20-23)

  • ultima conclusione del Vangelo (21,24-25).


Significato del Vangelo giovanneo

Vangelo (dal greco euanghélion) significa “buona notizia”. Il Vangelo è la buona notizia che Dio ha accordato a tutti gli uomini la salvezza grazie al sacrificio sulla croce di Cristo Gesù, il Figlio di Dio divenuto Uomo. Il Vangelo è Gesù stesso, che è venuto a mostrare la Verità dell’Amore di Dio per tutti gli uomini di ogni tempo, cultura, religione ed appartenenza sociale. Gesù non è esclusivo appannaggio di nessun popolo e, sulla traccia della sua storia, ogni uomo può tracciare la propria storia. Gesù è universale come il suo Vangelo. L’evento fondatore del Vangelo è la “venuta di Dio tra gli uomini”. Dio, che nessun uomo può dimostrare, si è mostrato e rivelato all’uomo in Gesù. Chi ha visto Gesù ha visto Dio. Era necessario che Gesù s’incarnasse per dare un senso alla libertà umana, ove per libertà si intende la decisione di essere se stessi, di realizzarsi come uomini. Per l’uomo, essere al mondo significa diventare, grazie a Gesù, figlio di Dio e fratello di Gesù. Grazie a Cristo, che ha donato se stesso morendo sulla croce, l’uomo ha ricevuto il dono supremo della vita e della libertà. Dal racconto evangelico emerge una sostanziale verità: chi crede in Gesù lo comprende sempre di più; chi osteggia Gesù, sempre più si allontana da Lui. Per suscitare la fede in Lui, Gesù si esprime con “parole” e con “segni” (i miracoli). I “segni” da Lui compiuti mostrano la potenza di Dio, che agisce per mezzo suo ma, per evitare un’interpretazione ambigua dei suoi gesti, Gesù li spiega con “parole”. Chi non ha fede in Gesù, però, non riesce a cogliere il significato né delle sue “parole” né dei suoi “segni” e rimane avvolto dalle tenebre dell’incredulità.


Caratteristiche letterarie

Il IV Vangelo fu scritto originariamente in greco; pur denotando alcuni influssi del modo di esprimersi in aramaico,28la versione greca non è una traduzione di un originale aramaico, come avvenne per il Vangelo matteano. L’autore del Vangelo giovanneo si è espresso in greco pur conservando alcuni tratti del modo di pensare aramaico. Il Vangelo di Giovanni è piuttosto povero dal punto di vista lessicale. Seppure composto da 15.420 parole, il IV Vangelo è formato da soli 1.011 vocaboli diversi. Esso è assai meno colorito e pittoresco del Vangelo di Marco e meno letterario di quello di Luca, ma i pochi vocaboli usati da Giovanni hanno generalmente un profondo significato teologico. Frequentemente ci s’imbatte in nomi semitici, regolarmente tradotti in greco: rabbì (didàskalos = maestro), masiah (traslitterato nel greco messìas = christòs = cristo, unto), kefàs (Pétros = Pietro), Sìloe (apestalménos = inviato).

Il malinteso è uno dei procedimenti letterari più caratteristici del IV Vangelo. Le parole, che Gesù utilizza in senso spirituale, vengono intese dai suoi uditori in senso puramente materiale, terreno, causando fraintendimenti talora umoristici. Gesù si esprime in modo enigmatico, favorendo l’incomprensione in chi ascolta ed intende le parole di Gesù in modo concreto, materiale, fisico. A questo punto, Gesù ripete la parola non capita e ne spiega il senso vero da Lui inteso: nonostante ciò, chi non vuole capire non capisce del tutto (malinteso finale). Dal malinteso scaturisce l’ironia tipica di Giovanni e che traspare soprattutto nei dialoghi, che oppongono Gesù ai suoi interlocutori umani, incapaci di cogliere il senso profondo delle “parole” del Maestro.

Alcuni racconti del IV Vangelo sono molto drammatici e Giovanni sa tenere alta la tensione dei suoi lettori: es. la Samaritana (4,1-42), il cieco nato (9,1-41), la resurrezione di Lazzaro (11,1-44), Gesù davanti a Pilato (18,28-19,16).

Il linguaggio giovanneo è ricco di simbologia; l’evangelista sa mettere in evidenza il significato spirituale di avvenimenti e fatti del tutto ordinari, di cui si possono offrire alcuni esempi chiarificatori: il tempio di Gerusalemme viene presentato come simbolo del corpo glorioso di Gesù (2,19-21); l’acqua della piscina di Sìloe, di cui erano note le proprietà benefiche, anzi, talvolta anche miracolose, viene assunta come simbolo delle benedizioni messianiche (9,7); quando Giuda esce dal Cenacolo dopo il tradimento, viene avvolto dalle tenebre della notte, simbolo delle tenebre del male in cui viene avviluppata la sua anima; dal cuore trafitto di Gesù escono il sangue, simbolo dell’eucaristia, e l’acqua, simbolo del battesimo ed entrambi sono simbolo della Chiesa, nata come nuova Eva dal costato del nuovo Adamo.

I discorsi costituiscono la parte predominante del IV Vangelo. Essi sviluppano di solito un tema determinato, esaminato da diverse angolature da Gesù, spesso interrotto da domande di chiarimento o da obiezioni avanzate dai suoi interlocutori. Giovanni non si accontenta, come i Sinottici, di riportare sentenze (lòghia) brevi di Gesù, isolate od in serie, per costruire un discorso od un contesto di rivelazione. I discorsi di Giovanni sono per se stessi “discorsi di rivelazione”: Gesù si rivela per quello che è in Se stesso e nei riguardi dell’uomo; Egli parla in prima persona ed usa sovente il verbo essere, che è la radice del nome divino YHWH (= Colui che era, che è e che sarà per Se stesso ed in relazione con l’uomo). Quando Gesù afferma in forma assoluta “Io Sono” (8,24.28; 13,19), rivela la sua divinità. Quando il verbo essere è seguito da un predicato nominale, Gesù sottolinea una delle relazioni salvifiche che Egli ha con gli uomini, indicate dal nome del predicato: “Io sono il pane vivo” (6,51); “Io sono la luce del mondo” (8,12); “Io sono il buon pastore” (10,11); “Io sono la resurrezione e la vita” (11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (14,6); “Io sono la vera vite” (15,1).

Tali discorsi sono composti in prosa ritmica ed utilizzano il tipico parallelismo paritetico, antitetico e sintetico della poesia ebraica (un concetto è ribadito usando parole diverse ma col medesimo significato, oppure viene espresso dicendo il contrario di quanto affermato prima o completando il pensiero precedente). Le controversie ed i dialoghi sono ricchi di doppi sensi e di malintesi, che caratterizzano la ben nota ironia giovannea. Spesso i dialoghi del IV Vangelo si prolungano in lunghi monologhi di Gesù, dando spazio alla “Parola di Dio divenuta carne”.

1 Nell’opera giovannea ricorrono vocaboli propri come “mondo”, “rimanere”, “conoscere”, “Verbo”. Questo ultimo vocabolo viene usato come appellativo riferito a Gesù Cristo.

2 Per “ambiente vitale” o Sitz im Leben si intende il contesto umano, culturale, sociale, psicologico e storico in cui si svolgono, vengono narrati e contestualizzati i fatti descritti da un autore.

3 La “gnosi” era una complessa dottrina filosofico – religiosa, composta da elementi speculativi e da elementi religiosi di varia provenienza culturale (mistica orientale, filosofia greca), imperniata sulla convinzione che l’uomo si salva da se stesso, senza l’intervento di un Essere superiore, che è spesso ostile all’uomo.

4 Cf. At 19, 1-20.

5 S. Ireneo, la cui festa cade il 28 giugno, nacque a Smirne nel 130 d.C. e fu discepolo di s. Policarpo, vescovo di quella città. Divenne vescovo di Lione poco dopo il 177 d.C. e vi morì martire nel 200 circa.

66 S. Policarpo sarebbe diventato discepolo dell’apostolo Giovanni e, quindi, sarebbe diventato il primo vescovo di Smirne, dove morì martire nel 155 d.C. Secondo la tradizione fu arso vivo nello stadio della sua città. La sua festa si celebra il 23 febbraio. Egli può essere considerato, insieme ai discepoli degli apostoli, l’autorevole anello di congiunzione tra l’epoca apostolica e quella post-apostolica, garantendo l’autenticità e la veracità della trasmissione orale dei detti pronunciati da Gesù e dei gesti da Lui compiuti, non riportati dai Vangeli.

7 Affermare che Giovanni sia l’autore del IV Vangelo non significa asserire che lo abbia scritto di suo pugno, ma che ne sia stato comunque l’ispiratore. Era prassi normale per quell’epoca avvalersi dell’aiuto di scrivani, che mettevano per iscritto ciò che veniva loro dettato dall’autore di un’opera. L’ultimo capitolo del Vangelo giovanneo è sicuramente opera di un discepolo dell’apostolo Giovanni, probabilmente già morto all’epoca dell’aggiunta finale (cap. 21).

8 Cf. Mc 10,35; Mt 20,20.

9 S. Giacomo il Maggiore, figlio di Zebedeo, fu il primo apostolo a morire martire, intorno al 42 d.C.; viene festeggiato il 25 luglio.

10 S. Giacomo il Minore, figlio di Alfeo, fu vescovo di Gerusalemme e morì lapidato nel 62 d.C. La sua festa cade il 3 maggio e viene ricordato insieme a Filippo. L’appellativo di fratello del Signore, attribuito a Giacomo di Alfeo, ha dato adito a mille illazioni circa la verginità di Maria S. S. da parte di chi non conosce la realtà familiare tribale della popolazione ebraica, condivisa da buona parte delle popolazioni semitiche. Nella lingua ebraica non esistevano termini paragonabili a quelli oggi in uso per indicare la parentela tra consanguinei: il termine fratello indicava sia il cugino che lo zio, oltre che il fratello di sangue ed i vari membri maschi del clan familiare. Allo stesso modo il termine sorella si applicava anche alla cugina, alla zia ed ai membri femminili del clan.

11 Cf. Mc 1,20.

12 Cf. ibid. 3,17.

13 Cf. Mt 17,1; Mc 9,2; Lc 9,28.

14 Cf. Mc 5,37; Lc 8,5.

15 Cf. Mt 26,37; Mc 14,35.

16 Cf. Mc 10,35-45.

17 Cf. Gv 13, 23-26.

18 Cf. ibid. 19,26.

19 Cf. ibid. 20,2-3.

20 Cf. ibid. 20,8.

21 Cf. ibid. 21,7.

22 Cf. Gal 2,9.

23 Cf. Mt 23,37-24,2.

24 Cf. At 19,21-20,1.

25 Cf. Ap 1,1. Secondo la tradizione, l’apostolo Giovanni fu esiliato dopo aver subito diversi supplizi senza subirne alcun danno fisico. Durante l’esilio nell’isola di Pathmos avrebbe scritto o dettato l’Apocalisse.

26 Alessandria d’Egitto era, forse, il centro culturale più importante dell’impero romano ed era sede della biblioteca più attrezzata e famosa dell’antichità classica.

27 Antiochia di Siria era un vero e proprio crocevia etnico, linguistico, culturale, commerciale e religioso. In questa città comparve per la prima volta il nome di cristiani per indicare i seguaci di Cristo.

28 Mentre il periodo sintattico greco è piuttosto complesso, essendo costituito da una frase principale e da diverse frasi dipendenti, coordinate e subordinate (come l’attuale lingua italiana), la sintassi aramaica ed ebraica è alquanto semplice, caratterizzata dalla paratassi, che consiste nel collegare le diverse azioni, espresse dal verbo, con la congiunzione “e”. Si ottiene una serie di frasi principali collegate tra loro senza gradualità sintattica.

[Modificato da Coordin. 04/06/2010 18:09]
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04/06/2010 18:10
 
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Il Vangelo di Giovanni

Giovanni ed i Sinottici

Confrontando il testo del IV Vangelo con quello dei Sinottici, si osservano alcune divergenze di carattere cronologico e geografico solo apparentemente tra loro contrastanti, se non si tenesse conto della finalità teologica sottesa ai racconti evangelici. Chi legge i Sinottici ne ricava l’immediata sensazione che Gesù abbia svolto la sua attività pubblica senza alcuna soluzione di continuità, partendo dalla Galilea ed avvicinandosi gradualmente a Gerusalemme, luogo della sua morte violenta e della sua gloriosa resurrezione, portando a termine la sua missione di redenzione nell’arco di un lungo ed intensissimo anno solare. Se si legge poi il Vangelo giovanneo, ci si rende conto che Gesù si è recato a Gerusalemme più volte, celebrandovi tre differenti festività pasquali ebraiche e partecipando anche ad una festa dei Tabernacoli o Capanne (festa di sukkôt)1e ad una festa della Dedicazione o delle Luci (festa di hannukkà).2 Da queste notizie si deduce che il ministero pubblico di Gesù sia durato almeno tre anni. Per quanto riguarda le indicazioni topografiche, Giovanni è più preciso dei Sinottici, il che dimostra anche una conoscenza diretta dei luoghi descritti: egli distingue la cittadina di Betania che si trova in Transgiordania dall’omonimo villaggio residenziale di Lazzaro, ubicato in Cisgiordania (1,28; 11,18); precisa che il Battista svolgeva la sua attività ad Ennon, vicino a Salim (3,23); qualifica con precisione il pozzo di Giacobbe (4,5); descrive la piscina di Bethesda con cinque portici (5,2), com’è stato recentemente scoperto dagli archeologi; fornisce notizie precise sulla piscina di Siloe (9,11); ubica il giardino degli Ulivi di là del torrente Cedron (18,1). I critici danno la loro preferenza alle indicazioni cronologiche e topografiche di Giovanni, specie per ciò che attiene alle circostanze delle ultime ore di vita terrena del Signore Gesù. Secondo i Sinottici, i miracoli compiuti da Gesù hanno come movente la sua compassione nei confronti degli emarginati d’Israele (lebbrosi, ciechi, storpi, malati nel corpo e nello spirito come gli indemoniati); tali miracoli comportano poi, secondo Marco, l’imposizione del silenzio e del segreto da parte di Gesù, il quale non vuole che il suo potere taumaturgico sia frainteso. Le malattie fisiche, che vengono guarite, sono simbolo di quelle dell’anima ed è di queste che il Messia d’Israele deve occuparsi, non delle questioni politiche del suo popolo! La prospettiva teologica di Giovanni, riguardo il potere taumaturgico di Gesù, è differente. I miracoli compiuti da Cristo sono segni della sua divinità ed Egli stesso li indica come prova della sua messianicità (10,38). Dei miracoli narrati dai Sinottici, 29 per la precisione, Giovanni ne riporta soltanto 2 e comuni a tutti gli evangelisti: la moltiplicazione dei pani (6,1-13) ed il cammino sulle acque (6,16-21). Sono propri di Giovanni il miracolo compiuto da Gesù alle nozze di Cana di Galilea, la guarigione del paralitico presso la piscina di Betesda e del cieco nato, la resurrezione di Lazzaro. Nel Vangelo di Giovanni non sono descritti gli incontri di Gesù coi pubblicani, i lebbrosi e gli indemoniati, cui i Sinottici danno invece grande spazio. Nei Sinottici le parole di Gesù sono presentate in forma di “detti brevi” (in greco lòghia), coordinati da un’unità tematica; in Giovanni, invece, i discorsi del Maestro sono complessi, ben strutturati, ampi, sovente in forma dialogica e, talvolta, collegati a racconti di miracolo di cui svelano il senso profondo. Nei racconti sinottici gli uditori di Gesù compongono una folla eterogenea, intenta ad ascoltare una predicazione centrata sul Regno di Dio, impersonato da Cristo stesso. Nel Vangelo giovanneo la folla, che ascolta e segue Gesù, è sempre divisa in “buoni” e “cattivi”, in “credenti” e “giudei”. Anche i singoli interlocutori di Gesù, come Nicodemo e la Samaritana, non rappresentano solo se stessi ma un gruppo. In Giovanni il tema centrale della predicazione di Gesù è la sua stessa Persona; nel IV Vangelo mancano elementi narrativi che, per i Sinottici, sono rilevanti dal punto di vista teologico, come l’invito alla conversione (metànoia), il discorso della montagna, il discorso in parabole, l’invio dei Dodici in missione, la Trasfigurazione (di cui Giovanni fu diretto testimone), la preghiera del Padre Nostro. Detto delle divergenze tra Giovanni ed i Sinottici, occorre sottolineare anche le convergenze tra i quattro Vangeli, che hanno in comune: la cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme, la guarigione del figlio dell’ufficiale regio, la moltiplicazione dei pani ed il cammino di Gesù sulle acque, l’unzione di Betania, l’ingresso messianico in Gerusalemme. Le convergenze aumentano nel racconto della Passione, anche se Giovanni omette di raccontare l’istituzione dell’Eucaristia e l’agonia del Getsémani, la circostanza del bacio di Giuda e la fuga degli apostoli, il processo davanti al Sinedrio e gli oltraggi nella casa del sommo sacerdote ed alla corte di Erode, gli scherni ai piedi della croce ed il grido di Gesù prima di morire, l’esecuzione capitale dei due ladroni e la morte suicida di Giuda. Grande spazio ha, invece, nel racconto giovanneo il processo di Gesù davanti a Pilato. Sono propri di Giovanni i particolari della discussione tra Pilato ed i giudei circa la motivazione della condanna a morte di Gesù, fatta scrivere sulla tavoletta posta sulla croce, sopra la testa del condannato (titulum crucis); l’interpretazione della divisione delle vesti; la presenza di Maria ai piedi della croce; la trafittura del costato di Gesù, ormai morto, con una lancia.


Valore storico del IV Vangelo

Il vangelo appartiene ad un genere letterario sui generis, giacché non ha la pretesa di essere un libro di storia o di biografia, almeno non secondo i canoni storiografici e biografici del nostro tempo. Il vangelo è un libro di fede basato, però, su tradizioni storicamente fondate sui detti e sui fatti di Gesù, interpretati alla luce dell’esperienza apostolica della Pasqua di Resurrezione e della Pentecoste. Più dei Sinottici, il IV Vangelo si attiene ad una testimonianza di fede e ci fornisce uno scritto di elevato contenuto teologico. Va precisato che i fatti ed i detti, da esso riportati, sono impreziositi da informazioni ricche e ben documentate e sono collocati in una cornice storica, ambientale e topografica palestinese così circostanziata da trovare ampie conferme tanto nei rinvenimenti archeologici quanto negli scritti extra - biblici (su tutti, lo scrittore Giuseppe Flavio ed i manoscritti di Qūmran). L’autore riflette, anche, una conoscenza della Palestina anteriore al disastro politico e militare del 70 d.C., quando Gerusalemme fu distrutta dai romani e la Palestina fu devastata dagli eserciti di Vespasiano e di Tito, con la conseguente perdita di alcuni importanti punti di riferimento di carattere topografico e socio-culturale. Giovanni parla di:

  • Betania, al di là del Giordano (1,28)

  • Cana di Galilea (2,1; 4,46)

  • Pozzo di Giacobbe (4,6)

  • Villaggio di Sicàr (4,5)

  • Tempio dei samaritani (sul monte Garizim) in antagonismo con quello di Gerusalemme (4,20.21)

  • Piscina di Bethesda con cinque portici, recentemente riportati alla luce (5,3)

  • Portico di Salomone, come riparo invernale nell’interno del Tempio (10,23)

  • Lithòstrotos, situato fuori del pretorio di Pilato ed anch’esso riportato alla luce dagli archeologi (19,13)

  • Piscina di Siloe (9,7)

  • Efraim vicino al deserto (11,54)

  • Torrente Cedron (18,1)

  • Giardino accanto al Golgota, in cui c’era una tomba nuova (!9,17.41)

  • Uso del crurifragium per accelerare la morte dei condannati alla morte di croce (19, 31-32).

La cronologia di Giovanni è più precisa rispetto a quella dei Sinottici. Infatti, l’autore del IV Vangelo colloca la crocifissione di Gesù alla vigilia della Pasqua ebraica (19,14.31), mentre i Sinottici la situano lo stesso giorno di Pasqua, contro ogni logica; inoltre, Giovanni lascia intendere che il ministero di Gesù sia durato più di due anni ed è più preciso degli autori sinottici sui luoghi in cui Gesù ha esercitato il suo ministero nella valle del Giordano. Tutto ciò fa supporre che a scrivere il IV vangelo sia stato un diretto testimone dei luoghi, degli ambienti e dei costumi palestinesi o che, chi lo compose, abbia ricevuto direttamente le notizie di prima mano da questo testimone diretto.


Giovanni e la cultura del suo tempo

Il Vangelo di Giovanni non è un trattato di teologia, bensì il racconto di una storia vera, riguardante una Persona reale: Gesù Cristo.

Il valore del Vangelo è universale ma non generico, nel senso che ogni essere umano può trovare in esso una risposta personale alle proprie esigenze spirituali ed esistenziali. Quando Giovanni compose od ispirò la stesura del suo Vangelo dovette tenere presente le differenti culture espresse sia dal mondo greco sia da quello giudaico, ma anche quella vissuta dalla propria comunità cristiana.

I greci erano permeati dalla cultura ellenistica ed ispirati dalla filosofia platonica, in conseguenza della quale esprimevano una concezione del corpo e dello spirito ben diversa da quella propria della cultura ebraica. Per i greci valeva il principio del dualismo platonico: da una parte veniva affermata la realtà effimera e sostanzialmente negativa del corpo, alla morte del quale non rimaneva nulla e, dall’altra, s’inneggiava alla grandezza ed alla nobiltà dello spirito, valore positivo in assoluto ma autonomo e svincolato dalla realtà umana. Data una simile concezione filosofica dell’essere umano, si possono comprendere le ambiguità etiche che erano vissute da quei cristiani di origine ellenistica, i quali accettavano con disinvoltura gli atteggiamenti immorali, specie in materia sessuale, convinti che lo spirito non risentisse minimamente di un comportamento peccaminoso. Si possono anche comprendere i motivi culturali del sorgere delle prime eresie, specie dell’eresia gnostica.

Per Giovanni, invece, essendo di cultura ebraica, l’uomo è dal punto di vista ontologico un essere unico, formato “da corpo e da spirito”. Il corpo o carne (in greco sàrx) non è una realtà negativa, ma esprime soltanto il limite dell’uomo, la sua fragilità e debolezza, la sua tendenza al male. Divenendo “carne”, cioè uomo carnale, Gesù ha accettato ed assunto il limite proprio della natura umana, facendo di questo limite (il corpo) il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo. Facendosi uomo, Dio ha reso l’uomo partecipe della sua natura divina.

Per contro, lo spirito è la vita che dà sostegno e significato al corpo, da cui non è separato. Per dirla con s. Paolo, “il corpo è tempio dello spirito”. L’uomo, insieme di corpo e spirito, è un assoluto unico ed irripetibile, anche se limitato. Da ciò l’esplicita condanna di coloro che consideravano Gesù un essere puramente spirituale (un éone, secondo gli gnostici), che aveva preso a prestito un corpo “da schiavo” al solo scopo di poter giustificare un’apparente morte sulla croce. Secondo questi eretici era impossibile che il Figlio di Dio potesse morire sulla croce, in quanto Dio; sulla croce doveva essere morta una sua controfigura! Secondo gli gnostici, Gesù era vero Dio ma uomo da burla, poiché negavano la sua vera umanità. Descrivendo nei particolari la morte umiliante e dolorosa di Gesù, Giovanni ha inteso affermare che Egli è vero uomo e vero Dio.

Dal canto suo il mondo ebraico era in piena crisi negli anni in cui fu composto il IV Vangelo, cioè quasi 30 anni dopo la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio (70 d.C.). Il cristianesimo era, per i giudei, una setta giudaica e come tale era considerato anche dalle attente e sospettose autorità di Roma. In virtù di un particolare privilegio concesso da Augusto, quello ebraico era l’unico popolo di tutto l’immenso impero romano ad essere esentato dal rendere culto all’imperatore (a favore del quale però dovevano essere offerti a Dio dei sacrifici nel Tempio), libero di praticare la propria religione ed esentato anche dal servizio militare obbligatorio.

Furono proprio i giudei a perseguitare, per primi, i cristiani ritenendoli eretici e politeisti, adoratori di tre persone divine. In seguito a ciò, le autorità romane cominciarono a prendere di mira i cristiani tacciandoli di ateismo, poiché rifiutavano la religione dello stato romano. Persino in seno alla comunità cristiana si ebbe un momento di crisi: i cristiani provenienti dal giudaismo (giudeo cristiani) erano del parere che i confratelli provenienti dal paganesimo (etnico cristiani) dovessero sottostare alla Legge ebraica (Torâh) e farsi, pertanto, circoncidere. La questione era spinosa e, in un primo tempo, in occasione del primo Concilio (Gerusalemme, 49 d.C.) s. Paolo era riuscito a fare chiarezza nella disputa, ottenendo per gli etnico cristiani la sola astensione dal mangiare le carni offerte agli idoli pagani ed evitando loro una circoncisione coatta, in forza del fatto che la fede in Cristo era superiore alla forza salvifica della Torâh. In seguito, quando ormai la nazione ebraica era stata sconfitta, umiliata e dispersa (70 d.C.) dagli eserciti di Roma, i superstiti capi religiosi di Israele, in prevalenza farisei, si riunirono a Jamnia intorno al 90 d.C. e fissarono i fondamenti del giudaimo, religioso e politico:

  • fu ribadita la fede dei patriarchi di Israele (Genesi)

  • fu affermato il bene della libertà, ottenuta con l’uscita di Israele dall’Egitto oppressore (Esodo)

  • fu riconosciuto, come valore specifico del popolo eletto, il dono della Terra Promessa (Deuteronomio)

  • quanto al messia, questi sarebbe venuto a spiegare in modo definitivo la Torâh, rimanendo dentro di essa.

La chiusura del giudaismo nei confronti della nuova realtà cristiana era totale e senza ripensamenti. Dal canto suo, anche Giovanni era fermamente convinto che il Messia – Gesù è assai superiore alla Torâh, n’è anzi il padrone. Questa sua ferma fede in Cristo Gesù traspare dalle pagine del suo Vangelo, dalle quali emergono a forti tinte i termini del drammatico confronto tra Gesù stesso ed i suoi antagonisti “giudei”. La croce, su cui morì il Figlio di Dio a causa dell’iniqua condanna pronunziata dalle autorità giudaiche e da quelle di Roma, solo in apparenza fu una sconfitta; in realtà, sulla croce si è manifestata la gloria di Dio e del suo Cristo.

Infine, per quanto riguarda la Chiesa del I secolo d.C., Giovanni ha davanti ai suoi occhi le conseguenze causate dalle persecuzioni e dalle eresie sulla fede dei cristiani della seconda generazione. Come sostiene il Bultmann, il IV Vangelo è una sorta di grande processo al mondo, un giudizio divino che è anche un invito alla pazienza rivolto a tutti i cristiani (Ap 6): il tempo della prova finirà ed il mondo verrà giudicato.


Antropologia del Vangelo di Giovanni

Per antropologia s’intende lo studio dell’uomo nei suoi aspetti esistenziali, culturali, psichici, etici, comportamentali, sociali: si tratta di una valutazione a 360 gradi del “pianeta – uomo”.

Nel Prologo del suo Vangelo, Giovanni definisce Gesù come il LOGOS, vocabolo greco traducibile in diversi modi: parola, discorso, progetto. Gesù è il progetto di Dio, che si rende concreto in una persona umana. Da questa considerazione scaturiscono tre linee antropologiche:

  1. per vivere, l’uomo ha bisogno di conoscere se stesso. All’uomo incerto di sé, che s’interroga sulla sua origine e sullo scopo della sua vita, Gesù insegna cosa vuol dire essere uomo. L’uomo è figlio di Dio ed è fratello di tutti gli uomini, un essere donato, cioè creato da Dio. Non si può parlare dell’uomo se si ignora Gesù Cristo, attorno al quale l’uomo è “arrotolato” o “ricapitolato”, cioè avvolto come un libro attorno al suo bastone o “capitolo”, per dirla con s. Paolo.3 L’antropologia di Giovanni è fortemente cristologica, giacché l’uomo trova il suo senso compiuto solo se strettamente collegato a Cristo.

  2. L’uomo è un essere libero, non predeterminato. Per Giovanni, il vero uomo, cioè l’uomo libero, è colui che imita Gesù Cristo e che, ascoltando la parola di Gesù, sa tenerla a mente e metterla in pratica. Gesù è l’obbedienza perfetta e, poiché Gesù stesso si realizza obbedendo al Padre, così il cristiano si realizza se ascolta la Parola di Dio, rivelata in Gesù Cristo. Gesù, infatti, è colui che è “di fronte al Padre” (ovvero, ” presso Dio”) e riferisce all’uomo la Parola di Dio. La libertà è un obbligo ad essere liberi e tale obbligo deriva dal fatto che l’uomo è figlio di Dio. Il vero figlio è in comunione col Padre e fa la sua volontà, realizzandola nella sua vita. Gesù è la Parola di Dio rivelata e chi lo accoglie obbedisce a Dio ed è un uomo libero.

  3. L’antitesi giovannea luce – tenebre sta ad indicare che Dio si è incontrato con l’uomo sul terreno dell’esperienza umana, fatta di luce e di tenebre. Le tenebre non hanno accolto (com-preso, catturato) la Luce – Gesù. Il Lògos-Gesù s’incarna in un’umanità nuova, in cui esiste anche il male (le tenebre): in questo consiste il realismo giovanneo. I cristiani sono invitati ad essere il lievito capace di agire dentro la storia umana, che è la vera manifestazione (epifania) di Dio.


Storia di Gesù nel Vangelo di Giovanni

Quando Giovanni scrisse o dettò il suo Vangelo, l’evento storico di Gesù era già concluso da circa 60-70 anni, durante i quali si era svolto un vivace dibattito sulla figura del messia, imperniato sul contrasto tra Torâh (Mosè) e Parola di Dio (Gesù) in ambiente ebraico e sul sorgere delle prime eresie in ambiente culturale ellenistico. Per forza di cose, Giovanni dovette interpretare il fatto storico passato, ormai concluso e non più ripetibile, in funzione delle istanze religiose e culturali del momento.

La distanza temporale dell’evento storico di Gesù non fu un limite per il Vangelo di Giovanni, il quale, anzi, poté trasmettere ai cristiani della seconda generazione una conoscenza più distaccata e teologicamente più matura e riflessiva dell’evento stesso.

Oltre a ciò, negli scritti giovannei si arguisce che la comunità cristiana guidata da Giovanni era ben consolidata e radicata su due fondamenta: la tradizione e la testimonianza evangelica. Pur usando un linguaggio che cerca di conciliare la cultura greca e quell’ebraica, Giovanni è fedele alla Tradizione apostolica, cui aggiunge il tema dell’amore e dello Spirito Santo.


I termini più significativi del Vangelo di Giovanni

Il Vangelo di Giovanni ha un vocabolario piuttosto ridotto rispetto ai Sinottici, ma alcuni termini da lui usati sono ricchi di significato teologico e di sfumature interpretative.

VEDERE

In Gv 1,14 il verbo “vedere” è coniugato in aoristo (“noi vedemmo” ), un tempo che, in greco, conferisce un significato continuativo all’azione compiuta nel passato. L’incontro con Cristo è sì avvenuto nel passato, ma i suoi effetti permangono nel tempo, perciò l’incontro continua ad accadere. Inoltre, il verbo è coniugato al plurale, per sottolineare la testimonianza di più persone; si tratta di un “vedere” comunitario e ciò denota una forte sottolineatura ecclesiale. I giudei “hanno visto” Gesù, ma in realtà “non l’hanno visto”, cioè non gli hanno creduto poiché lo hanno visto solo con gli occhi della carne, con il ragionamento umano. Coloro che videro Gesù secondo lo Spirito, invece, credettero in Lui riconoscendolo come Salvatore già sul patibolo della croce.

ASCOLTARE

Nella lingua ebraica questo verbo (shemâ) non significa solo ascoltare con le orecchie, ma anche accogliere nel cuore e mettere in pratica ciò che si ascolta. La vicenda di Gesù non è solo da vedere ma anche da ascoltare, perché Gesù è la Parola di Dio. L’ascolto può essere superficiale e non coinvolgere la vita di chi ascolta, oppure può trasformare radicalmente la sua esistenza. Dio Padre parla e Gesù, Parola del Padre, è rivolto al Padre (pròs tòn Theòn, in greco) per riferire all’uomo ciò che gli dice il Padre. Su questa dinamica di testimonianza si modella la modalità di trasmissione della tradizione da una generazione cristiana all’altra lungo il corso dei secoli. Noi dobbiamo trasmettere alle generazioni future il messaggio evangelico, fedelmente, come l’abbiamo ricevuto dalle generazioni passate, che ci hanno preceduto.

CONOSCERE

Nella Bibbia questo verbo assume vari significati: dalla conoscenza in senso tecnico ed intellettuale, alla conoscenza carnale – sessuale tra uomo e donna, tra marito e moglie (rapporto sessuale). Nel linguaggio di Giovanni, conoscere significa “fidarsi di Dio” e sperimentare la vita in senso spirituale. Attraverso Gesù Cristo noi arriviamo a conoscere noi stessi. In Gv 8,55 “conoscere Dio” significa osservare la sua Parola e metterla in pratica. Chi ascolta il Padre è figlio di Dio e fratello di Cristo e chi conosce Cristo entra in comunione con Lui e, amando Lui, ama il prossimo.

RICORDARE

Questo verbo significa “mettere nel cuore, tenere nel cuore”. Giovanni usa il vocabolo “ricordo” nel senso di “memoria viva”, che collega un’anticipazione con un compimento. Molte delle parole dette da Gesù e molti dei gesti da Lui compiuti non furono compresi dagli apostoli nel momento in cui le une furono dette e gli altri compiuti, ma furono pienamente ricordati e compresi dopo l’evento pasquale. Ciò che fu compreso entrò nella vita della comunità. Dal ricordo del fatto vissuto conseguì la conservazione della tradizione, della fede per virtù dello Spirito Santo, che ispirò ciò che veniva tramandato dalla comunità.


Il peccato in Giovanni

Lo specifico cristiano del peccato può essere compreso solo quando viene pensato come rifiuto della chiamata in quella filiazione, la cui natura intrinseca consiste nell’essere l’irradiazione della filiazione eterna nella creazione. Veramente il peccato “accade” quando il proprio Io rifiuta la grazia di questo dono e rifiuta di essere il luogo terreno della dedizione trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La vera radice del peccato è l’egoismo. Il peccato si contrappone all’irradiazione di Cristo, che vuole rendere evidente questo rapporto trinitario presente dentro di noi. Peccare è andare fuori posto ed il nostro posto è essere figli nel Figlio. Peccare è non accettare la nostra vocazione ad essere figli a fianco di Gesù. Lontano dal Padre, il figlio non può vivere (v. parabola del figlio prodigo). Entrando nella nostra storia e salendo sulla croce, Gesù ha trasformato la nostra libertà sul piano storico ed ha accolto in Sé la libertà fuggiasca e peccaminosa di Adamo, per ricondurre il nuovo Adamo alla sua libertà di figlio. In questo consiste la redenzione.


Il tema della “rivelazione”

Dio si è manifestato al mondo incarnandosi, facendosi uomo in Gesù di Nazareth. Di fronte a questa “rivelazione” Giovanni registra diverse reazioni da parte del mondo (Gv 1-12) e da parte della comunità dei credenti (Gv 13-20).

Nell’ambito del mondo c’è chi reagisce alla novità della “rivelazione” accogliendo Gesù, crescendo nella Luce e vedendo sempre di più, ma c’è anche chi rifiuta Gesù ed il suo Vangelo, allontanandosi da Gesù e vedendo sempre meno. Lo sguardo della fede non ha bisogno degli occhi del corpo; anche uno cieco dalla nascita può avere fede e non sempre chi è sano di vista è anche capace di credere. Nei primi 12 capitoli del IV Vangelo i miracoli o “segni” (semèia) compiuti da Gesù sono l’annuncio della presenza di Dio in mezzo agli uomini e non devono essere per niente intesi come fatti magici. Quando l’evangelista parla di “opere” (èrga) fa sempre riferimento ai prodigi compiuti da Dio per liberare il suo popolo dall’Egitto oppressore.

Nella seconda parte del IV Vangelo (Gv 13-20) Giovanni concentra la sua attenzione e quella della sua comunità cristiana sul miracolo della croce, che per l’evangelista è l’equivalente della gloria. Morendo sulla croce, Gesù “esala lo spirito”, cioè effonde e dona lo Spirito Santo salvando l’intera umanità. Questo dono dello Spirito rende un tutt’uno la Pasqua e la Pentecoste. Con la creazione Dio dona lo Spirito ad Adamo, il quale, spinto dalla prepotente volontà dell’autodeterminazione, lo perde commettendo il peccato di disobbedienza, ma lo riceve nuovamente in dono da Cristo morente sulla croce. Ne derivano due atteggiamenti molto differenti nelle loro conseguenze: chi sa accogliere la vita come un dono è disposto ad accogliere anche la salvezza, mentre chi considera la vita come un diritto (peccato originale) rifiuta persino la salvezza, che gli viene donata gratuitamente. In questa seconda parte del suo Vangelo, Giovanni dà ampio spazio alle parole di Gesù, cioè ai suoi discorsi di addio (Gv 11-17) ed alle apparizioni successive alla sua Resurrezione (Gv 18-20).

Il filo conduttore del racconto evangelico è l’ORA, che fa da cornice ai cinque discorsi dell’addio per poi esplodere nel mistero pasquale della passione, morte e resurrezione di Cristo Signore.


L’atmosfera del Vangelo di Giovanni

Il fondale del IV Vangelo sarebbe, secondo alcuni autori, quello di un grande processo che si svolge sul piano storico e sul piano della fede.

Dal punto di vista puramente storico, la vicenda di Gesù di Nazareth si conclude con un grande insuccesso, un fallimento totale a causa della sua morte in croce.

Secondo la prospettiva della fede, invece, ogni giudizio circa la vicenda storica di Gesù va rivisto o, meglio, ribaltato. Non solo Gesù Cristo non è uno sconfitto, ma è anzi l’unico che, in virtù della sua obbedienza al Padre, esce “pulito” da questo processo, nel corso del quale tutti fanno una pessima e meschina figura, dai giudei che peccano di idolatria avendo riconosciuto come loro unico re Cesare, l’imperatore – dio, a Pilato che si rende ridicolo facendo la spola tra Gesù ed i giudei, al fine di conservare al processo - farsa la parvenza della legalità. La vicenda storica di Gesù può essere letta, anche, in una prospettiva liturgica. La sua vita pubblica, infatti, è scandita e ritmata dalle feste giudaiche, che l’evangelista reinterpreta alla luce dell’esperienza del Risorto. Giovanni seguirebbe il seguente schema liturgico:

  • cap. 2: Gesù, in occasione della sua prima Pasqua celebrata in Gerusalemme, purifica il Tempio cacciando i venditori ambulanti e propone Se stesso come il Nuovo Tempio;

  • cap. 5: Gesù rinnova e reinterpreta il riposo del Sabato, che è fatto per l’uomo e che ha un valore salvifico per l’uomo stesso (guarigione del paralitico);

  • cap. 7: durante la festa delle Capanne, Gesù dichiara di essere la luce del mondo ed affronta il tema dell’acqua, svelandone il significato salvifico;

  • cap. 10: la festa della Dedicazione del Tempio diventa l’occasione per Gesù di dichiararsi il Buon Pastore, la Porta del Nuovo Tempio attraverso cui passare per salvarsi;

  • cap. 12: durante la sua ultima Pasqua, la terza, Gesù viene ucciso proprio nel giorno in cui i sacerdoti uccidevano gli agnelli pasquali: Gesù è l’Agnello pasquale offerto in sacrificio per tutta l’umanità.


Prologo (Gv 1,1-18)


Il Prologo del IV Vangelo è un inno cristologico di composizione anteriore al Vangelo giovanneo ed è tipico dell’Asia Minore. Secondo gli studiosi, non si tratta di un inno gnostico cristianizzato. Il redattore, che lo ha utilizzato come introduzione al IV Vangelo, ha inserito degli adattamenti evidenti (vv. 6-8.15), facendo irrompere la figura di Giovanni il Battista, il quale nega di essere il messia (1,20; 3,27-28; 10,41) ma rende testimonianza alla messianicità di Gesù, l’Agnello di Dio venuto a togliere il peccato dal mondo (1,29-31) e di cui egli è solo il precursore.

Il Prologo è strutturato in modo chiasmatico, con parallelismo inverso (tipo a-b-c/ c’-b’-a’). Lo schema seguente è stato proposto da Boismard-Lamarche:

  1. il Verbo con Dio Padre vv. 1-2 a’- Unigenito del Padre vv. 18

  2. suo ruolo nella creazione “ 3 b’- suo ruolo nella nuova creazione “ 17

  3. il dono agli uomini “ 4-5 c’- dono agli uomini “ 16

  4. testimonianza del Battista “ 6-8 d’- testimonianza del Battista “ 15

  5. venuta del Verbo “ 9 e’ - Incarnazione “ 14

f- coloro che non accolgono il Vangelo “ 10-11 f ’ - coloro che accolgono il Verbo e credono “ 12-13

Questo movimento di discesa – ascesa è sintetizzato da Gv 16,28 (“Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora lascio il mondo e vado al Padre”) e ricorda Fil 2,6-11.


Analisi del testo

1,1 In principio era il Verbo ed il Verbo era presso [il ] Dio e Dio era il Verbo. 2 Egli era in principio presso [il ] Dio.

I primi due versetti del prologo formano un’unità letteraria racchiusa dall’inclusione “in principio”. Il v. 1 è formato da tre emistichi, posti in parallelismo progressivo; i primi due emistichi sono disposti in forma chiasmatica. Il v. 2 è una sintesi di 1,1.

a- In principio era il Verbo

b- il Verbo era presso [ il ] Dio

c- e Dio era il Verbo

a + b + c Egli era in principio presso [ il ] Dio


“In principio”

Sono le parole d’inizio di Gen 1,1 (in ebraico bereshît): non si tratta tanto dell’inizio del tempo nel mondo, quanto piuttosto del principio assoluto. Prima che l’universo avesse il suo inizio, esisteva già l’Inizio assoluto da cui tutto ha avuto origine e principio. Gesù si presenta agli uomini come il compimento di tutta la rivelazione, il dono ultimo e definitivo di Dio, il rivelatore supremo, la sola via di salvezza, il Volto di Dio in mezzo agli uomini (“Il Padre è in me ed io nel Padre” Gv 10,38).


era”

Quando le cose create hanno avuto inizio ed hanno cominciato ad esistere, “ad essere”, Egli “era” già, cioè esisteva fuori del tempo, nell’eternità. L’esistenza eterna, sottolineata dall’imperfetto, non impedisce al Verbo di entrare in una nuova dimensione, quella terrena, irrompendo nella storia dell’uomo. Questa irruzione è resa in greco con l’aoristo (passato remoto), tempo che indica un’azione compiuta nel passato ma i cui effetti non si esauriscono nel tempo (“il Verbo si fece carne” Gv 1,14).


1 Questa festa, detta anche delle Tende, era considerata “la festa più santa e più grande presso gli ebrei” da Giuseppe Flavio, autore di una storia d’Israele intitolata Antichità giudaiche (VIII, 4,1). Si trattava di una festa agricola, che celebrava il raccolto degli ultimi frutti della terra, le olive e l’uva, dalle quali erano estratti dei prodotti molto significativi per la cultura liturgica e religiosa di Israele: l’olio ed il vino. La Festa delle Tende era molto gioiosa, allietata da divertimenti popolari e vivacizzata da qualche ubriacatura di troppo per l’uso generoso del vino novello! La festa durava sette giorni e con essa s’intendeva celebrare il ricordo degli anni trascorsi da Israele nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto e durante i quali gli ebrei erano vissuti nelle tende. Essa era celebrata in autunno, dopo lo yom-hakippurîm o “giorno del perdono” (settembre – ottobre), che si teneva pochi giorni dopo il capodanno autunnale ebraico (rosh-ha-shanà).

2 La festa di hannukkà o delle Luci cadeva in dicembre e veniva celebrata per ricordare la purificazione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 164 a.C. ad opera di Giuda Maccabeo dopo la vittoria riportata su Antioco Epifane, colui che aveva profanato il Tempio avendovi collocato la statua di Zeus Olimpio. La festa durava otto giorni ed ogni giorno si aggiungeva, davanti ad ogni casa, una luce (una torcia), per un totale di otto luci. Nell’ultimo giorno di festa la città di Gerusalemme era illuminata a giorno dalle migliaia di torce accese! Doveva essere uno spettacolo affascinante per chi era abituato a trascorrere le notti nel buio più completo.

3 Cf. Ef 1,10. I libri antichi, di papiro o di pergamena, erano in realtà dei lunghi fogli avvolti attorno ad un bastone o capitulum. Quando si leggeva il “libro”, il foglio veniva svolto per la lettura ed il bastone o capitulum serviva per riavvolgerlo, una volta conclusa la lettura stessa. Solitamente c’erano due bastoni situati alle due estremità del foglio o “libro”, per facilitarne il riavvolgimento man mano che venivano lette le varie sezioni (le odierne pagine).

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04/06/2010 18:12
 
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Il Vangelo di Giovanni

il Verbo”

Questo titolo cristologico ricorre solo nel Prologo del IV Vangelo, per un totale di quattro volte: tre volte nel solo v. 1 e, la quarta ed ultima volta, nel v. 14. Nel momento in cui il Verbo “si fece carne”, esso sparisce dal Vangelo e rimane solo Gesù, che lascia “vedere” la sua piena umanità. In altri scritti giovannei il vocabolo “Verbo” ricorre con specificazioni proprie: 1Gv 1,1 (“ il Verbo della vita”) e Ap 19,13 (“il Verbo di Dio”).

“Verbo” è un titolo solenne, usato solo in ambiente liturgico giovanneo e collocabile in un contesto culturale giudeo – ellenistico. Il Verbo o Lògos (in italiano è reso con Parola) giovanneo va inteso, secondo il concetto filosofico greco, come idea, oppure come illuminazione della realtà o, anche, come progetto o ragione (latino ratio). Il vocabolo Lògos (parola, verbo) è strettamente apparentato con l’ebraico khokmà (Gen 3,1: il serpente è la più sapiente ed astuta di tutte le creature) e col termine greco sofìa (sapienza), tanto caro alla letteratura sapienziale. In latino il termine lògos è stato tradotto con verbum (in italiano “parola”).


ed il Verbo era presso [ il ] Dio e Dio era il Verbo”

Usato in forma assoluta, il Lògos (o Verbo o Parola) del Prologo è un essere personificato, ma ben diverso dal lògos dei filosofi stoici, che lo consideravano come lo spirito del mondo, intento a controllare ed a dirigere ogni cosa. Filone, filosofo giudeo di Alessandria d’Egitto, nel tentativo di conciliare giudaismo ed ellenismo, considerava il lògos come una creatura di Dio, una specie di intermediario tra Dio e gli uomini. Il Lògos del Prologo, però, e da interpretare più come Parola creatrice di Dio (Sap 9,1) o, tutt’al più, come personificazione della Sapienza (Sir 24,3), che sin dall’eternità si trova accanto a Dio (Pr 8,22-24) come principio attivo della creazione, presente quando Dio ha fatto il mondo, luce e vita per gli uomini. Negli scritti rabbinici, il Lògos potrebbe essere l’equivalente della Torâh, la Legge che Dio ha creato prima dell’universo e che è servita come modello per la creazione del medesimo.

Il poeta teologo, autore del Prologo, ha adattato tutte queste tradizioni culturali e religiose a Gesù di Nazareth, nel quale si è realizzata tutta la Scrittura. La Parola di Dio, che ha creato l’universo ed è presente nei Profeti, è divenuta Persona in Gesù, rivelazione di Dio, progetto di salvezza, colui che “ricapitola tutte le cose” del cielo e della terra (Ef 1,10). Gesù è, insieme, la Sapienza personificata e la Torâh, che sono datrici di vita. Gesù è il progetto salvifico di Dio sull’uomo.


Egli era in principio presso [ il ] Dio

Dalla comunità cristiana, quindi, il Lògos (Verbo, Parola) celebrato nel Prologo del IV Vangelo venne identificato in modo inequivocabile col Figlio di Dio incarnato: Gesù di Nazareth. In conclusione, del Verbo si dicono tre cose:

  1. “era in principio”, cioè al di là dell’inizio della creazione, dentro il mistero stesso di Dio e della sua eternità. L’azione del Verbo è come una nuova creazione;

  2. “era presso (rivolto verso) il Dio”. Va precisato che, nel Nuovo Testamento, il sostantivo “Dio” preceduto dall’articolo “il” ( in greco ò Theòs = il Dio) indica il Padre. Il Verbo era, dunque, presso il Padre e distinto da Lui, verso il quale è “rivolto” per ricevere il messaggio da trasmettere agli uomini, cioè di rivelare il Padre agli uomini;

  3. “il Verbo era Dio” (in questo caso il sostantivo “Dio” non è preceduto dall’articolo, onde evitare il pericolo del diteismo, vale a dire l’esistenza di due distinte divinità). Il Verbo non viene definito “divino”, ma “Dio”, distinto dal Padre ma insieme al quale forma una sola ed unica divinità. Due Persone divine, un unico Dio.


3 Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

Questo versetto ci presenta il Verbo – Lògos creatore. Tutto è stato creato mediante il Verbo e tutta la storia prende origine dalla Parola di Dio, cioè dal Verbo che “in principio era presso [il] Dio” (1,2). Questo concetto viene ribadito con forza, quasi a voler escludere ogni fraintendimento. Il ruolo del Verbo nella creazione è espresso in forma positiva e negativa, sottolineato da un “niente” che, in greco (oudè én), può essere tradotto anche con un “assolutamente nulla così categorico da non concedere spazio ad interpretazioni ambigue. Si avverte qui la polemica contro gli eretici gnostici presente anche in Col 1,16-17, pericope in cui s. Paolo tratteggia il ruolo di Cristo come capo dell’universo ed immagine del Dio invisibile, per mezzo del quale tutto è stato creato e nel quale tutto esiste in vista di lui.

Tutto è stato fatto per mezzo di lui. Il verbo greco eghéneto (fu fatto, è stato fatto) esprime bene il concetto di creazione di ogni cosa dal nulla (“ex nihilo”); se la materia stessa è stata creata, non c’è spazio per alcuna forma di dualismo metafisico, come sostenevano gli gnostici, i quali credevano nell’esistenza di due distinte entità divine, una malvagia ed una benevola e nella distinzione tra male assoluto (la realtà corporea) e bene assoluto (la realtà spirituale), tra loro in continuo conflitto. Il Verbo viene, invece, presentato come il mediatore grazie al quale e per mezzo del quale tutto (pànta) è stato creato senza eccezione alcuna (1Cor 8,6). Dal momento che precede la creazione, Cristo (il Verbo) ne è anche il capo costruttore.

E senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. Questa forma negativa rivela un parallelismo tipicamente semitico, che consiste nel rafforzare ciò che è stato appena detto in modo positivo facendo un’affermazione analoga con modalità negativa. È tassativamente esclusa qualsiasi possibilità di esistenza fuori del Verbo.


4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5 la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.

Vicino a Dio e Dio egli stesso, il Verbo è in relazione unica con gli uomini fin dalle origini. Ogni essere umano riceve l’essere da Lui ed è da Lui illuminato. Grazie a Lui, ogni uomo può comprendere se stesso, la propria condizione di creatura dipendente in tutto e per tutto dal suo creatore, dal quale ha ricevuto un’esistenza materiale e spirituale ed un’identità unica ed irripetibile.

In lui era la vita. Non si tratta di vita in senso biologico ( che in greco suona come bìos), ma di vita qualitativamente di livello superiore. Nel testo viene usato il vocabolo greco zoè, che indica la vita come valore assoluto e che corrisponde al significato di vita eterna. Nel IV Vangelo viene detto esplicitamente che la “vita eterna” è Gesù stesso.

E la vita era la luce degli uomini. Gesù è vita e luce in quanto è la rivelazione personale e storica di Dio, che salva (8,12; 9,5; 12,46). L’autore del Prologo annuncia solennemente che la rivelazione portata da Gesù, il Verbo, non è per pochi intimi, ma per tutti gli uomini di ogni tempo, luogo e condizione. Per alcuni, questa rivelazione consiste in una “illuminazione” del Verbo mediante la ragione umana (gli apologéti del II secolo d.C. parlavano di Lògos spermatikòs, cioè di germi di verità seminati dal Lògos nel cuore degli uomini) ma, per altri, essa è già la rivelazione storica del Verbo incarnato.

I termini vita e luce indicano la pienezza dell’esistenza umana e la rivelazione ne esprime il senso più profondo. La Vita diviene Luce, che ne illumina il senso; a sua volta, la luce è potenza di vita quando viene accolta nella fede.

La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. Inizia lo scontro storico ed esistenziale tra la luce e le tenebre; queste ultime non sono capaci di catturare, accogliere, prendere dentro di sé la luce. Si tratta di un tipico esempio di dualismo giovanneo. Le tenebre (in greco skotìa, vocabolo tipico di Giovanni) sono indicative del mondo lontano da Dio e chiuso in se stesso, incapace di credere e di accogliere la Luce, cioè Gesù – Parola rivelata di Dio, che dà la vita agli uomini. In poche parole l’autore del Prologo sintetizza tutto il contenuto del Vangelo: l’incredulità degli uomini respinge Gesù, colui che “dona la vita” (5,21), che è “la resurrezione e la vita” (11,25) e la “luce del mondo” (8,12) e, per ciò stesso, ne causa la morte sulla croce. Le tenebre indicano il mondo dominato dal male ed ostile alla rivelazione del Verbo.

Nel Vangelo di Giovanni, le tenebre si concretizzano nei giudei, figura di tutti coloro che sono ostili a Gesù, che non credono in lui e lo condannano a morte. Il verbo greco katélaben (tradotto in italiano “non accolsero, non hanno accolto) potrebbe essere tradotto in altri due modi: “non compresero (la luce)”, sottolineando il rifiuto di Gesù da parte di alcuni, oppure “non fermarono (la luce)”, sottolineando la forza del Verbo – Luce ed anticipando il trionfo futuro di Gesù contro le potenze delle tenebre (12,31; 16,11.33; 1Gv 5,4).


6 Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce.

Irrompe sulla scena un uomo inviato da Dio, di nome Giovanni, con l’incarico di rendere testimonianza a Gesù, che è il Verbo, la Vita, la Luce, Dio. La testimonianza di Giovanni viene resa davanti alle autorità giudaiche (1,19-28), al popolo di Israele (1,31-34) ed ai propri discepoli (1,35-37). Dal mondo soprannaturale e divino si scende bruscamente, attraverso Giovanni, nell’universo umano. Secondo diversi studiosi, Gv 1,6-8.15 è un’aggiunta tardiva intenzionale da parte del redattore finale, il cui scopo era di dissuadere i seguaci del Battista dal mettere sullo stesso piano questo pur grande personaggio, dotato di carisma profetico, e Gesù, di cui il Battista è solo il Precursore e testimone.

La figura di Giovanni Battista sembra ben conosciuta e di lui si riconosce la missione profetica. È l’ultimo profeta mandato da Dio prima di Gesù, il Profeta per antonomasia, colui che non solo parla in nome di Dio, ma colui che è, addirittura, la Parola di Dio divenuta carne ed ossa. Il compito di Giovanni viene esemplificato dal vocabolo martyrìa (testimonianza) e dal verbo corrispondente martyrèin (testimoniare), parole chiave della teologia giovannea. “Testimone” è colui che attesta una realtà la quale, pur immersa nella storia umana, la sorpassa e la rende per ciò stesso credibile anche alla ragione umana. Pur tuttavia, solo chi ha ricevuto il dono dello Spirito come il Battista (1,32-34) sa “vedere” in Gesù la Luce e rendergli testimonianza.

Scopo della testimonianza è la fede, cioè credere che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio (1,34). Ciò premesso, l’evangelista tiene a sottolineare che Giovanni Battista è solo la lampada (5,35) “ardente e splendente”, ma non la Luce. Esaurito il suo compito, il Battista uscirà di scena per far posto alla Luce vera che illumina ogni uomo (1,9).


9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.

È un versetto costruito in modo maldestro, forse perché aggiunto dall’evangelista all’inno cristologico originale. In greco, il predicato verbale erchòmenon (= veniente) potrebbe essere riferito sia all’uomo (ànthropon) che alla luce (phòs). Secondo la versione più accreditata e seguita, erchòmenon (= veniente) andrebbe riferito a phòs (= luce), per cui si parlerebbe della venuta del Verbo, vera Luce, in quel mondo che sarebbe da intendersi ancora in senso generale. L’aggettivo “vera” (alethinòn) è caratteristico di Giovanni ed indica insieme l’autenticità, in opposizione a ciò che è “falso” e la realtà, in opposizione a ciò che è tipo, immagine, figura.

In questo caso, la “luce vera” sottolinea il confronto tra Gesù (vera Luce) e tutti gli altri, tra cui il Battista, che sono solo portatori di luce. L’aggettivo “vero” ricorre spesso nel IV Vangelo: “pane vero” (6,32); “vera bevanda” (6,55); “vera vite” (15,1). Va sottolineato che la “vera Luce”, il Verbo, illumina ogni uomo che si affaccia alla vita. A partire dalla creazione il Lògos è la luce interiore che permette ad ogni essere umano di conoscere e comprendere se stesso ed il proprio destino.


10 Egli era nel mondo ed il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. 11 Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.

Viene qua introdotta la tematica scottante del rifiuto, che si compone di due fasi: quella cosmica (“ il mondo non lo riconobbe”) e quella etnico – religiosa (“i suoi non l’hanno accolto”) dalla visuale più ridotta.

Venuto nel mondo, il Lògos, per mezzo del quale il mondo è stato creato dal nulla, incontra resistenza. “Mondo” è un termine collettivo, che indica l’insieme del genere umano chiuso in se stesso ed opposto a Dio. Il Lògos, Parola eterna del Dio vivente, venne nella sua “vigna prediletta” o “proprietà” (eis tà ìdia), termine col quale Israele definiva se stesso nel suo rapporto esclusivo con YHWH (Is 5,1; Ger 2,21; Ez 15,1-8; Sal 80,9-19; Mt 20,1; 21,28-39), ma anche Israele non fu migliore del mondo ribelle, rispetto al quale si sentiva tanto superiore in virtù della propria elezione. Israele non seppe riconoscere ed accogliere il proprio Dio, venuto ad abitare ed a “mettere la sua tenda” in mezzo al suo popolo (1,14).


12 A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13 i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.

Respinto dal mondo e dal suo popolo, il Verbo è stato accolto da un gruppo ristretto di uomini, divenuti per ciò stesso “figli di Dio”. Da costoro si è costituito il nuovo Popolo di Dio. All’incredulità del giudaismo ufficiale si oppone la fede personale.

“Accogliere” è un verbo che esprime la fede in senso passivo: è un accettare la persona ed il messaggio che porta. A costoro il Verbo – Luce ha dato il potere di diventare “figli di Dio”, di essere cioè generati da Dio per mezzo del Lògos. Nascere da Dio implica l’esclusione dell’intervento di qualsiasi elemento umano, sia biologico (“sangue”) che psicologico (“volere di carne”, vale a dire la volontà dell’uomo di avere un erede). La triplice forte negazione, contrapposta alla generazione divina, esclude ogni mediazione naturale ed ogni concezione mitica. Si diventa “figli di Dio” solo in virtù del sangue di Cristo e della volontà dello Spirito e di Dio, non certo per volontà umana. Mediante la fede ed il battesimo si viene generati alla nuova vita (3,5).


14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.

Senza cessare di essere “Lògos”, il Verbo entra nel tempo e diviene parte integrante ed essenziale della storia umana, (“nella pienezza del tempo”, come afferma s. Paolo in Gal 4,4). Colui che “era” (= esisteva) da tutta l’eternità (= “in principio”) ha colmato l’abisso tra l’essere divino (Theòs = Dio) e l’umanità fragile e corrotta, mortale e peritura (sàrx = carne).

Il Verbo eterno di Dio si fece carne. Il vocabolo “carne” (in greco, sàrx) indica l’uomo nella sua condizione di totale debolezza e di destino mortale. Il vocabolo “uomo” (in greco, ànthropos) non avrebbe reso con la stessa crudezza la realtà carnale del Lògos divino fattosi creatura.

Del Verbo si dice che “si fece” (in greco, eghéneto) carne, non che “divenne” carne quasi subendo una trasformazione sostanziale. Pur rimanendo divino, infatti, il Lògos cominciò a vivere nella sua nuova condizione umana, debole e temporale. Il Verbo – Gesù è veramente Uomo e Dio. Tale affermazione è assolutamente antignostica. Occorre aprire una doverosa parentesi sullo gnosticismo, una pericolosa eresia dell’antichità greco – ellenistica inquinata da elementi religiosi ebraici e orientali. Si trattava di una dottrina filosofico – religiosa, frutto di un disinvolto sincretismo culturale e religioso, basata essenzialmente sulla convinzione che l’uomo è in grado di salvarsi da sé, senza bisogno dell’intervento di un Dio personale, che guidi l’uomo verso la salvezza intervenendo in modo sostanziale nelle vicende umane. Nello gnosticismo, l’elemento divino viene ridotto a “mito”, a bella favola, utile giusto per soddisfare il bisogno di mistero presente in ogni uomo, ma sostanzialmente non indispensabile per chi è dotato di una buona e sana razionalità. In altre parole, demitizzare un “mito” è un’operazione sempre possibile e piuttosto facile e di un mito si può fare tranquillamente a meno! A ben vedere, l’errore gnostico serpeggia ancora oggi nella civiltà occidentale, che a poco a poco si sta scristianizzando per abbracciare nuove (?!) forme di spiritualità e di sentimento religioso, come la New Age, che presuppongono la centralità dell’uomo, al servizio del quale si piegano le forze del cosmo, mentre Dio viene spersonalizzato e ridotto ad una presenza impalpabile ed indefinita, di cui pochi individui, particolarmente dotati di sensibilità interiore, sanno cogliere l’energia nelle cose, negli animali e nelle persone.

Secondo il mito gnostico l’uomo primitivo, invaghitosi della terra, lasciata la sfera celeste della luce da lui posseduta fin dall’inizio, si divise in tante piccole scintille, corrispondenti alle anime dei singoli esseri umani e divenute prigioniere della materia tenebrosa, cioè del corpo. Non potendo più l’uomo primitivo, così frammentato e prigioniero della realtà materiale, ritornare alla sfera celeste della luce, Dio decise di inviare un “salvatore” che, lasciata la sfera della luce celeste, scese sulla terra per rendere gli uomini coscienti (gnòsi = conoscenza) della luce che hanno in sé e della loro origine divina e per liberarli dalla materia, favorendone il ritorno nel mondo celeste della luce. Compiuta la sua missione, il “salvatore” gnòstico è ritornato alla sfera celeste da dove era disceso.

Venne ad abitare in mezzo a noi. Il verbo greco eskénosen, tradotto con “venne ad abitare”, andrebbe tradotto più correttamente con l’espressione “pose la tenda”. L’ebraico shkn (=abitare) è anche la radice del vocabolo shekinâh, ovvero la Tenda del Convegno, la Dimora di YHWH in mezzo al suo popolo, il luogo santo per eccellenza contenente l’arca dell’Alleanza, sul cui coperchio (il Propiziatorio) si posa la Gloria di Dio durante la sua permanenza tra gli uomini. Questa santa dimora in mezzo agli uomini non è una semplice parvenza e non è riducibile ad una presenza simbolica; essa è reale e storicamente determinante.

E noi vedemmo la sua gloria. Riferita all’abitazione del Verbo tra noi, la gloria (dòxa) è la manifestazione della potenza salvifica di Dio, rivelatasi storicamente nel Verbo incarnato e testimoniata da testimoni oculari (“noi vedemmo”). Costoro hanno visto con gli occhi del corpo ma, attraverso gli occhi della fede, hanno colto la Gloria dell’Unigenito, nascosta e svelata nei segni di salvezza (1,50-51; 2,11; 11,40).

Gloria come di unigenito del Padre. Solo Giovanni usa il titolo “Unigenito” nel Nuovo Testamento (1,18; 3,16-18; 1Gv 4,9) e sempre in rapporto col Padre. Gesù è il Figlio unico amato dal Padre, in intimità perfettamente reciproca con Lui (10,30-38; 14,10-11; 17,21), nella conoscenza e nell’amore (5,20.30; 10,15; 14,31; Mt 11,27).

Pieno di grazia e di verità. Si tratta di un’endiadi, cioè di un concetto espresso da due termini coordinati tra loro ed è tipica del contesto culturale antico testamentario. “Grazia” e “verità” corrispondono a “grazia (o amore) e fedeltà” nella definizione che Dio dà di se stesso a Mosè (Es 34,6; Os 2,16-22) ed esprimono la fedele bontà di Dio verso il suo popolo, a lui unito mediante l’alleanza. Il vocabolo “grazia” (chàris) è una parola chiave tipicamente paolina, tanto che in Giovanni si trova solo nel Prologo (1,14.16.17) essendo estranea alla teologia giovannea, ma proviene dalla tradizione innica. Essa indica sia il dono del Verbo incarnato (1,14), sia il dono di grazia che Egli offre agli uomini (1,16) e di cui Egli stesso è sorgente (1,17).

Il vocabolo “verità” (alétheia) potrebbe significare fedeltà e stabilità nel mantenere le promesse.


A partire da Gv 1,14 la parola Verbo (Lògos) sparisce dal Vangelo giovanneo. Ormai si vede solo l’Uomo Gesù e Giovanni sottolinea con compiacimento l’umanità di Gesù:

4,29 “Venite a vedere un uomo, che mi ha detto tutto ciò che ho fatto

7,46 “Nessun uomo ha mai parlato così

10,33 “Tu che sei uomo, ti fai Dio

18,29 “Quale accusa portate contro quest’uomo?”

19,5 “Ecco l’uomo”.

La comunità di Giovanni ha saputo vedere in Gesù Uomo la gloria di Dio. Col rifiuto di Gesù da parte del giudaismo ufficiale è nata una nuova comunità, sotto il segno della “grazia” e della “verità”.


15 Giovanni gli rende testimonianza e grida: “Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me”.

Continua la testimonianza del Battista che, fra coloro che hanno veduto la Gloria del Verbo, è stato il primo a proclamare a gran voce il mistero: Gesù non solo è prima di Giovanni il Battista, ma si colloca al principio assoluto. Venuto cronologicamente dopo il Battista, Gesù, il Verbo incarnato, lo precede in dignità perché Egli era “in principio”. Giovanni capisce che, per lui, è venuto il momento di eclissarsi e di lasciare spazio a chi è “più grande di lui” perché viene dalle infinite profondità del tempo ed è all’origine di tutte le cose. Giovanni è “il più grande tra i nati da donna” (Mt 11,11) perché sa comprendere la relatività della propria grandezza e la propedeuticità della propria missione.


16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. 17 Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

La comunità, che ha creduto, attesta di aver ricevuto la rivelazione ultima di colui che era “dono di grazia e rivelazione” (grazia e verità). Segue l’accostamento fra Mosè e Gesù, i due mediatori spesso messi a confronto in modo polemico nei Vangeli. I giudei si appellano sovente a Mosè ed alla Legge e non comprendono che Mosè è testimone di Gesù, il quale porta a compimento la Legge mosaica. Anche il vocabolo “pienezza” (pléroma) è un termine estraneo alla teologia di Giovanni ed ha un significato salvifico. La “pienezza di grazia” promana ininterrottamente dal Verbo incarnato agli uomini, letteralmente immersi nell’immenso ed interminabile fluire dell’Amore divino, che dona salvezza a tutti coloro che non lo rifiutano.

Vengono messe a confronto le due economie della salvezza, quella dell’Antico e quella del Nuovo Testamento al fine di evidenziare la superiorità e la definitività escatologica della salvezza, portata dalla grazia e dalla verità, concretizzatesi per mezzo di Gesù Cristo. Mosè e Gesù vengono posti in parallelismo né sinonimico né antitetico, ma sintetico. Gesù non può essere paragonato a Mosè ed alla sua Legge, ma neppure va messo in opposizione a ciò che Mosè rappresenta per Israele. Semmai, Gesù costituisce il punto di arrivo di tutta la Sacra Scrittura, la realizzazione della Legge (Torâh) e dei Profeti (Nebiîm).


18 Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

Venuto dal Padre, il Figlio vi ritorna dopo aver offerto agli uomini la possibilità di rinascere. All’infuori di Gesù, il Verbo Unigenito, nessuno ha mai visto Dio Padre. Solo il Figlio ha fatto l’esegesi del Padre, lo ha cioè esposto, spiegato, rivelato. Solo Gesù è l’unico interprete di Dio, la via che conduce a Dio (Gv 14,6).

Interpretazione del Prologo

Il Prologo privilegia l’immagine di Dio in relazione con gli uomini. Dio è Colui che fa esistere tutto, è fonte di vita e luce nella vicenda cosmica ed umana per mezzo della “Parola”. Questa Parola, nella quale si attua l’azione creatrice e comunicativa di Dio, è Gesù Cristo. Gesù è la manifestazione storica ed umana della realtà di relazione personalizzata chiamata Lògos. L’autore del Prologo non ha scelto a caso questa figura simbolica, tipica della comunicazione relazionale umana, per esprimere l’incontro di Dio con l’uomo per mezzo di Gesù Cristo. La comunicazione tra Dio, fonte e meta di tutte le realtà, e l’uomo si concretizza nell’incontro.

La Parola originaria, che era in relazione con Dio, quando si fa “carne umana” viene chiamata Unigenito e Dio diventa il Padre. Questa relazione filiale, intima e permanente, di Gesù Cristo col Padre sta alla base della relazione filiale di quelli che credono nel suo nome, in forza della comunicazione della “grazia e verità” per mezzo di Gesù Cristo. Il testimone Giovanni e Mosè, il mediatore della Legge, danno concretezza storica al processo di comunicazione, che parte dal gesto creativo per concludersi nella comunione filiale con Dio Padre.

La manifestazione del Lògos come “vita e luce” e la comunicazione dell’Unigenito come “pienezza di verità e di grazia” provocano accoglienza o rifiuto da parte del mondo umano. La testimonianza di Giovanni alla “luce vera, che illumina ogni uomo” offre la possibilità di un atteggiamento di accoglienza, di una presa di posizione a suo favore.

Mosè, invece, è in un certo qual modo il fulcro del “malinteso”. Da una parte la Legge mosaica, identificata con la rivelazione storica di Dio e della sua volontà, rende testimonianza a Gesù ed al suo ruolo di rivelatore definitivo (1,45; 5,39; 10,34; 15,25) ma, dall’altra, i giudei si appellano proprio al magistero di Mosè per giudicare e rifiutare Gesù in quanto inviato da Dio (9,28-29). Il confronto Mosè – Gesù Cristo, anticipato nel Prologo, rimane come un’ombra che si allunga su tutto il IV Vangelo. La Legge, donata da Dio al suo popolo tramite Mosè, ha un ruolo positivo in quanto prepara e preannuncia la definitiva rivelazione salvifica per mezzo di Gesù Cristo, ma solo coloro che riconoscono Gesù come il Cristo hanno accesso pieno e permanente al dono della salvezza. I giudei, con la loro ostinata opposizione al Verbo di Dio, che è Luce, Grazia e Verità, si autoescludono dalla salvezza pur dichiarandosi “figli di Abramo” (8,39) e fedeli interpreti della Legge mosaica (7,19.22-23). È lo stesso Mosè che condanna, però, l’ottusità dei giudei (5,45-47).

La risposta umana positiva al Verbo – Luce, che è nel mondo e che comunica se stesso, è la fede. “Credere” a Gesù ed in Gesù comporta una relazione dinamica, che spazia dal riconoscere all’accogliere la Parola, fino al contemplare la Gloria dell’Unigenito per ricevere dalla sua pienezza la “grazia” e la “verità” comunicata da Gesù Cristo.

Dal “principio” assoluto (1,1) il Lògos progressivamente si immerge nel mondo e nella storia umana, illuminando l’uno e l’altra. La Parola primordiale, che era con Dio, diventa luce nel mondo e lo splendore contemplato dai credenti sul volto dell’Unigenito. Il Lògos è il volto di Dio divenuto visibile in Gesù Cristo ed è il tramite della comunicazione col Padre a favore di tutti gli altri figli (14,8-9).

L’incontro della Parola di Dio col mondo umano avviene in un contesto conflittuale drammatico, ma il confronto tra la Luce (Verbo – Dio) e le tenebre (mondo), tra la testimonianza coraggiosa (martyrìa) ed il rifiuto ostinato è, alla fine, un evento positivo. La Parola “accolta” introduce i credenti in un nuovo rapporto con Dio. Nonostante il conflitto cosmico tra Luce e tenebre ed il rifiuto della Parola da parte dei “suoi”, la comunicazione di Dio diventa un flusso ininterrotto di “grazia e verità” in Gesù Cristo, flusso che si riversa su coloro che contemplano il volto luminoso dell’Unigenito.

La Parola originaria, che dialogava con Dio e per mezzo della quale tutto è venuto all’esistenza ed ha vita, ora ha un volto storico: Gesù Cristo (1,14). La comunicazione di Dio coincide con la sua immersione irreversibile nel mondo umano, avvenuto in un momento preciso della storia umana (Gal 4,4). Dio è andato incontro al bisogno dell’uomo di incontrare e di dialogare con Dio. Nel Prologo possiamo riconoscere le linee guida del pensiero giovanneo:

  1. Dio ha preso l’iniziativa ed il Verbo si è fatto carne. L’iniziativa di Dio può essere riassunta dal “tutto è compiuto” di Gv 19,30;

  2. Dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto” lo Spirito, l’acqua (battesimo) ed il sangue (eucaristia);

  3. Abbiamo visto la sua gloria” attraverso la visione del trafitto, l’uomo della croce (Gv 19,37).


Dopo la solenne apertura del Vangelo con l’inno cristologico del Prologo, l’evangelista entra nel vivo del racconto evangelico introducendo la carismatica figura di Giovanni, detto il Battista, per rendere autorevole la testimonianza al Cristo mediante le parole pronunciate da questo profeta assai amato e rispettato in Israele. Sullo sfondo s’intravede la polemica strisciante e, talvolta, anche infuocata tra i seguaci del Battista ed i cristiani sul finire del primo secolo dell’era cristiana.

La tragica fine del Battista, nonché il suo comportamento “profetico” erano ancora ben impressi nella memoria collettiva degli strati più umili della popolazione ebraica, sopravvissuta ai drammatici fatti del 70 d.C. culminati nella distruzione di Gerusalemme e nella fine della nazione ebraica come identità politica. Per molti ebrei, Giovanni il Battista era l’ultimo vero profeta di Dio apparso in terra di Palestina e, per grandezza, paragonabile al grande Elia (1,21). Il ricordo delle sue parole e delle sue memorabili gesta era stato tramandato dai suoi stessi discepoli, che, com’era già avvenuto spesse volte in passato, avevano istituito una vera e propria “scuola” profetica incentrata sull’insegnamento del loro maestro. A circa settant’anni dai fatti narrati dall’evangelista, questa “scuola” era evidentemente molto attiva ed assai poco propensa a considerare Gesù superiore al venerato Giovanni. D’altro canto, i seguaci di Gesù erano altrettanto convinti che il loro Signore e Maestro fosse superiore a qualsiasi altro essere umano in virtù della sua figliolanza divina, resasi a tutti manifesta in virtù della sua resurrezione e, per di più, attestata persino dal grande Giovanni Battista (1,19-34).

L’autore del IV Vangelo non ripercorre le vicende storiche di Giovanni Battista come i colleghi sinottici (Mt 3,1-12; 14,1-12; Mc 1,1-8; 6,17-29; Lc 1,5-25.39-45.57-80; 3,1-20), ma riferisce solamente la sua testimonianza riguardo il Messia-Gesù. Le autorità giudaiche sanno di avere a che fare con un personaggio dotato di grande carisma e di notevole ascendenza sul popolo e sono a conoscenza del fatto che molti ricorrono a lui per sottoporsi al battesimo di penitenza. A tutti Giovanni dà utili consigli per attuare una vera conversione del cuore e dei costumi morali e non teme di essere critico nei confronti dei potenti del suo tempo. Neppure il re si sottrae agli strali del Battista, che gli rimprovera di condividere il proprio letto nientemeno che con la cognata (e nipote…), letteralmente strappata al fratello per soddisfare un capriccio personale.

Alle autorità religiose interessa sapere con chi devono confrontarsi: “Chi sei tu?” (1,19). Giovanni non ha peli sulla lingua e non intende appropriarsi di un ruolo che non gli compete: “Non sono il Cristo… né Elia… né il profeta” (1,20-21). In poche parole egli liquida la faccenda che più sta a cuore ai suoi interlocutori, ansiosi di sapere se Giovanni appartenga alla categoria delle persone più temute ed attese dell’intera storia d’Israele: tutti, infatti, sono in ansiosa attesa del Messia, il liberatore del popolo oppresso dal dominatore straniero, ma sanno anche che i profeti hanno annunciato il ritorno di Elia nell’imminenza della venuta del “giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,23), una specie di apocalittica resa dei conti e di inizio di una nuova era di prosperità e di pace sulla terra, dalla quale verrà spazzata via ogni iniquità morale.

Dall’elenco dei personaggi più attesi non può mancare il “profeta”, annunciato da Dio per bocca di Mosè (Dt 18,18) e simile a lui per carisma e doti profetiche. Giovanni si definisce la “voce” di Colui che viene mandato da Dio per battezzare non con acqua ma col fuoco dello Spirito di Dio (1,23.26; cf. Mt 3,11; At 1,5). Colui che viene dopo di lui è così grande da non essere nemmeno degno di legargli i lacci dei sandali, un gesto da schiavo (1,27). Le autorità giudaiche, c’è da giurarci, ne sanno quanto prima sulla reale importanza di Giovanni Battista nel panorama religioso del mondo ebraico: un profeta od un semplice visionario ed agitatore delle coscienze altrui?

Il giorno appresso è Gesù stesso che si reca da Giovanni (1,29), con ogni probabilità per ricevere da lui il battesimo di penitenza insieme a tanti altri connazionali. Pur non riferendo direttamente le circostanze del battesimo di Gesù per mano del Battista, l’autore del IV Vangelo ce ne offre una testimonianza indiretta mettendo sulla bocca dello stesso Giovanni la visione di una colomba che si è posata sul capo di Gesù come segno della presenza dello Spirito di Dio (1,32; cf. Mt 3,16). In Gesù, suo parente (cf. Lc 1,36), Giovanni percepisce (1,30) una grandezza misteriosa (“mi è passato davanti, perché era prima di me”) e ne intuisce (1,33) un destino assai speciale (“io non lo conoscevo… [egli] è colui che battezza in Spirito Santo”). Tanto basta a Giovanni per identificare in Gesù, che credeva di conoscere bene in quanto suo parente, “il Figlio di Dio” (1,34), vale a dire il Messia. “Ecco l’Agnello di Dio… che toglie il peccato del mondo” (1,29), proclama Giovanni, il quale, grazie ad un’illuminazione interiore folgorante, comprende la reale portata della missione salvifica di Cristo, che deve essere immolato come l’agnello pasquale per donare la salvezza agli uomini (cf. Es 12,1+; Is 53,7.12). Con quest’ultima profezia, Giovanni Battista “il più grande tra i nati da donna” (Mt 11,11), il novello Elia (Ml 3,1.23) inviato per annunciare il compimento dell’attesa messianica, esaurisce la sua missione e scompare di scena per lasciare il posto al suo Signore e Salvatore.


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04/06/2010 18:13
 
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Il Vangelo di Giovanni

Al seguito di Gesù. “Maestro, dove abiti?”

(Gv 1,35-51)


Raccontando la vocazione dei primi quattro discepoli d’origine galilaica, appartenenti al gruppo dei Dodici, l’evangelista Giovanni si discosta dalla narrazione dei Sinottici. I futuri discepoli non sono chiamati direttamente da Gesù con un invito categorico (“Venite dietro a me e farò di voi pescatori di uomini”, (cf. Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-3.10-11), ma sono indirizzati a Gesù da Giovanni il Battista, testimone per eccellenza del Messia d’Israele.

Simone, detto Pietro, Andrea e Filippo sono nomi noti ai Sinottici, mentre Natanaele, figura di spicco di questa pericope del IV Vangelo, è ignorato dalla tradizione sinottica, salvo che non lo s’identifichi con Bartolomeo, il cui nome ha il medesimo significato (“Dio ha dato”) e che rientra, invece, nella lista dei Sinottici.

Dal punto di vista letterario, il testo è racchiuso tra due dichiarazioni solenni, quella del Battista (“Ecco l’Agnello di Dio”, 1,36) e quella di Gesù (“Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’Uomo”, 1,51). Il racconto ha uno sviluppo temporale racchiuso in due giorni, ognuno dei quali comprende due scene centrate su Gesù (1,37-39; 1,41-42; 1,43; 1,45-51) ed introdotte dalla scena iniziale del Battista, attorniato dai suoi discepoli (1,35-36).

Il fuoco dell’annuncio, proclamato dal Battista, si propaga progressivamente ed in modo incalzante. Sono numerosi i verbi di movimento: Gesù cammina, si gira, mentre i discepoli si muovono per seguirlo e vanno dove Egli dimora; un discepolo incontra un altro, che viene a Gesù; ci si dispone a partire per andare in Galilea.

Un altro verbo, caro all’autore del IV Vangelo e collegato al tema della fede, è vedere: il Battista indica Gesù con un “Ecco…” , espresso dal greco ide (una parola che appartiene alla famiglia del verbo oraô, che significa vedere), nel quale è possibile cogliere uno sguardo di tipo contemplativo, uno sguardo intenso che cerca di andare oltre le apparenze esteriori; “Vedrete gli angeli di Dio…” promette Gesù ai discepoli e questi “videro dove egli dimorava…” ; incontrando Simone e Natanaele, Gesù “fissò lo sguardo” su di loro.

Mentre il vedere dei discepoli è da interpretare come uno sguardo orientato alla fede, il vedere di Gesù è un conoscere nell’intimo più profondo ogni essere umano.


1,35 Il giorno dopo, di nuovo, Giovanni si trovava là con due dei suoi discepoli. 36 Fissando lo sguardo su Gesù che stava camminando, dice: “Ecco l’Agnello di Dio”. 37 I due discepoli l’udirono parlare così e seguirono Gesù.

Giovanni il Battista viene descritto all’imperfetto (“si trovava là”), in una posizione d’immobilità. Egli ha già compiuto la sua missione di testimone il giorno precedente, quando ha designato Colui che deve essere manifestato ad Israele (1,31). Tuttavia il Battista continua a parlare al presente (“dice”…), giacché il suo annuncio è sempre valido in ogni tempo e per ciascun uomo.

Gesù sta camminando, non si sa da dove venga né dove vada ma il Battista sembra saperlo: “Ecco l’Agnello di Dio”. Lo sguardo del Battista è intenso, contemplativo e si sforza di cogliere il mistero nascosto in quella persona che, dai Sinottici, sappiamo essere anche suo parente. Diversi commentatori dei testi evangelici ritengono che Gesù, prima di affrontare l’esperienza delle tentazioni nel deserto all’inizio della sua vita pubblica, sia stato anche Lui discepolo di Giovanni. Si potrebbe proprio dire che il discepolo abbia superato, e di gran lunga, il maestro. Il Battista ha potuto percepire che Gesù era un essere speciale: indicandolo con un significativo “Ecco”, il Battista ha orientato verso Gesù lo sguardo contemplativo dei suoi stessi discepoli, mettendosi umilmente in disparte. La sua missione si poteva ritenere conclusa. Dopo aver “udito” ed accolto con disponibilità la testimonianza del Battista, due dei suoi discepoli raccolsero il suo invito e si misero a “seguire” il nuovo Maestro, spinti più dalla curiosità che non da vera consapevolezza del contenuto dell’invito del Battista.

Com’era già avvenuto per il Battista, il quale durante il battesimo di Gesù aveva “ascoltato” la voce di Dio che invitava ad “ascoltare” il proprio Figlio diletto (Mt 3,15), anche per i nuovi discepoli di Gesù si rende necessario il momento dell’ascolto attento e riverente della Parola di Dio per poter accogliere, nella fede, il suo Inviato. La dinamica dell’ascolto si fonda sulla trasmissione del messaggio da parte di chi ci ha preceduto nella fede (1,37). Chiunque voglia, in ogni tempo, divenire discepolo di Cristo in modo non superficiale, deve compiere lo stesso percorso di fede del Battista e degli apostoli: mettersi in atteggiamento di “ascolto” per poter “vedere” in Gesù il vero Volto di Dio.

Diversamente dai Sinottici, l’autore del IV Vangelo ci presenta dei discepoli che non vengono strappati da Gesù, in modo autoritario, dalla loro attività di pescatori; essi sono già in ricerca di qualcosa o di qualcuno e proprio per questo sono entrati nella cerchia dei discepoli del Battista, figura profetica e carismatica di quel tempo. In definitiva, secondo il Vangelo giovanneo, è Dio che dona a suo Figlio i primi discepoli tramite il Battista, da Lui inviato appositamente per questo scopo (17,6).

Spinti quindi dalla curiosità, stimolata dall’ascolto della testimonianza diretta ed autorevole del Battista, i due discepoli seguono fisicamente Gesù, che sta andando incontro al suo destino. Per i giudei essere discepoli di un “maestro” (“rabbì”) significava seguirlo non solo fisicamente, ma anche nel senso dell’acquisizione del suo livello di saggezza e di conoscenza.

Dove conduce la sequela di Gesù? Verso il compimento delle promesse fatte da Dio ad Israele.


38 Allora Gesù si voltò e, vedendo che lo seguivano, dice loro: “Che cercate?”. Ed essi gli dissero: “Rabbì (cioè “maestro”), dove dimori?”. 39 Egli dice loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove dimorava e quel giorno dimorarono presso di lui; era circa l’ora decima.

Mentre Gesù cammina, si “volge indietro” quasi ad accogliere tutto il passato storico dell’uomo, che Dio ha guidato fin dal tempo della creazione per condurlo alla salvezza, incarnata da suo Figlio. Gesù viene messo in relazione con la profezia biblica, impersonata dal Battista, i cui due discepoli sintetizzano l’attesa messianica di tutto Israele.

È Gesù che prende l’iniziativa rivolgendo la fatidica domanda ai due che lo seguono: “Che cercate?”. Gesù rispetta la libertà di opinione e di volontà di chi vuole seguirlo, non impone scelte obbligate ma le sollecita nel rispetto della libertà individuale. Ogni uomo in ricerca del divino nella propria esistenza deve, alla fine, rispondere a questa domanda esistenziale e compiere una scelta di vita. I discepoli rispondono alla domanda di Gesù ponendo a loro volta un’altra domanda: “Rabbì, dove dimori?”. A prima vista sembrerebbe una banale richiesta della residenza “fisica” del nuovo maestro, ma in realtà i due discepoli vogliono conoscere il “programma” dell’insegnamento di Gesù: che cosa insegni? Che cosa proponi per la nostra vita? Chi ti conferisce l’autorità di maestro? Da quale scuola rabbinica provieni? Chi ci garantisce che ciò che insegni sia giusto?

La risposta di Gesù mette alla prova gli aspiranti discepoli con un espressivo “Venite e vedrete”. Per trovare una risposta esauriente ai loro interrogativi più che legittimi, i discepoli devono “muoversi”, abbandonare cioè i propri pregiudizi e le proprie certezze (“Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?”, chiederà di lì a poco lo scettico Natanaele) per constatare di persona l’intima relazione che unisce Gesù al Padre. L’oggetto della ricerca dei due discepoli andrà ben oltre le loro attese.

Cosa si dissero Gesù ed i discepoli? Nulla viene riferito del contenuto del colloquio, ma ne viene annotato il risultato: i due si mettono alla sequela del Maestro ed invitano altri a fare altrettanto. L’evangelista Giovanni (forse uno dei due discepoli, l’altro è Andrea) annota curiosamente l’ora dell’incontro con Gesù: è l’ora decima, cioè le 4 del pomeriggio. Forse è semplicemente il ricordo indelebile di un incontro che ha segnato per sempre la vita e l’anima dell’evangelista, ma c’è chi ha visto nel numero 10 il tempo del compimento (S. Agostino), riferendosi alla simbologia biblica dei numeri.

È curiosa anche l’annotazione del numero dei giorni, due, durante i quali si è sviluppato il primo incontro dei discepoli con Gesù. Nel linguaggio biblico il “giorno” non è solo la successione temporale di 24 ore (presso gli ebrei il nuovo giorno cominciava al tramonto del sole, alle sei di sera e coincideva con la prima ora di vigilia della notte, quando iniziava, con la chiusura delle porte della città, il primo dei quattro turni di guardia della durata di tre ore ciascuno), ma è un chiaro riferimento al “giorno della creazione”. Il giorno è il tempo del Signore, tempo di grazia (chairòs) e di rinnovamento del creato. I discepoli fanno la conoscenza di Gesù quasi al termine della giornata, pronti a cominciare col Maestro il nuovo giorno che sta per iniziare. L’incontro di fede col Signore Gesù non avviene mai troppo tardi e l’uomo è sempre in tempo a convertirsi ed a cambiare vita, sintonizzando il tempo dell’attesa col tempo della salvezza (“oggi sarai con me in paradiso” [Lc 43,23], promette Gesù al ladrone crocifisso vicino a lui, esempio di pentito dell’ultima ora). I due giorni d’intimità dei discepoli con Gesù pongono l’accento anche sul carattere d’incompletezza della loro fede nell’Uomo - Dio: solo nel terzo giorno, quello della resurrezione di Gesù, essi comprenderanno la vera natura del Maestro ed i propri occhi vedranno nel Risorto il loro Signore e Dio (21,28). La fede pasquale degli apostoli è la nostra fede ed insieme a loro noi siamo in attesa del definitivo compimento della salvezza, che sarà pienamente realizzata nell’ottavo giorno, cioè il giorno in cui Dio sarà “tutto in tutti” (1 Cor 15,28) nella Gerusalemme celeste, il giorno della Domenica (Dies Domini, il giorno del Signore) senza fine dell’eternità, il giorno del Paradiso e della pienezza dell’Amore.

L’ottavo giorno fa seguito, infatti, ai sei giorni della creazione materiale ed al settimo giorno del riposo di Dio (il sabato). Il “giorno dopo il sabato (Mt 28,1; Lc 24,1; Gv 20,19) è il giorno della salvezza per coloro che credono a Dio-che-salva (è il significato del nome Gesù), divenuto uomo, morto sulla croce e risorto per la salvezza di ogni uomo.


40 Andrea, il fratello di Simon Pietro, era uno dei due che avevano ascoltato Giovanni e seguito Gesù. 41 Egli incontra per primo suo fratello Simone e gli dice: “Abbiamo trovato il Messia (che significa Cristo)”. 42 E lo conduce a Gesù. Guardandolo Gesù dice: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni; tu sarai chiamato Kephàs (che significa Pietro)”.

L’incontro con Gesù ha acceso il fuoco, che si propaga inarrestabile come un incendio. Andrea, che ha riconosciuto in Gesù il Messia atteso da Israele, sente il bisogno di incontrare il fratello Simone, per il quale Gesù ha un progetto di vita tale da richiedere il cambio del nome, sul modello degli antichi patriarchi d’Israele (Abram ebbe il nome mutato in Abraham, Giacobbe fu chiamato da Dio col nome di Israel). A differenza di quanto narrato dai Sinottici, il primo a riconoscere la messianicità di Gesù fu, dunque, Andrea e non Pietro e ciò fu il risultato delle poche ore trascorse da Andrea con Gesù in quel primo incontro!

Perché Gesù chiama Simone col nome di Kephàs (pietra, roccia) dopo averlo fissato profondamente (emblépsas) nell’intimo? Così commenta questo passo Origene, grande Padre della Chiesa del II-III secolo d.C.: “Gesù dice che egli si sarebbe chiamato Pietro traendo questo nome dalla Pietra, che è Cristo, poiché come saggio viene da saggezza e santo da santità, così allo stesso modo Pietro dalla pietra”. Per i semiti il nome esprime l’essenza di una personalità od il suo destino; chi segue Cristo deve essere pronto ad “essere chiamato per nome”, a ricevere da Lui la propria missione nel mondo, a ricevere sulla fronte il “sigillo dell’Agnello” (Ap 7,3-49), che esprime l’appartenenza del cristiano a Cristo Signore.


43 Il giorno dopo [Andrea] decise di partire per la Galilea ed incontra Filippo. Gesù dice a costui: “Seguimi!”. 44 Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e Pietro.

Il testo greco omette di citare il soggetto della decisione di recarsi in Galilea. I traduttori attribuiscono generalmente a Gesù tale decisione, ma non si comprende come mai subito dopo, nella frase successiva, venga ripetuto in greco “Gesù dice a costui” invece di usare semplicemente la congiunzione “e”, visto che il soggetto delle due azioni è il medesimo. Evidentemente il soggetto della decisione è ancora Andrea, che prima incontra il fratello Pietro e poi il concittadino Filippo, rispettando la logica della diffusione dell’annuncio da un discepolo all’altro.

Filippo è il primo discepolo cui Gesù rivolga un imperioso comando: “Seguimi!”. L’invito non ammette tentennamenti e la risposta deve essere necessariamente un “sì” o un “no”. Come mai un simile cambiamento nell’atteggiamento di Gesù? Qualcuno ha ipotizzato che uno dei primi due discepoli del Battista, messisi sulle orme di Gesù, sia proprio Filippo e non l’evangelista Giovanni. Mentre Andrea ha aderito subito alla sequela del nuovo Maestro, Filippo si sarebbe presa una pausa di riflessione, cui Gesù avrebbe posto fine sollecitando da lui una risposta decisa e senza ripensamenti.

A questo punto l’evangelista introduce una figura di discepolo di diversa levatura culturale rispetto ai primi tre che, dai Sinottici, sappiamo essere stati pescatori.


45 Filippo incontra Natanaele e gli dice: “Colui di cui ha scritto Mosè nella Legge, come pure i profeti, l’abbiamo trovato: è Gesù, il figlio di Giuseppe di Nazareth”. 46 Natanaele gli rispose: “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?”. “Vieni e vedi” gli dice Filippo. 47 Gesù vide Natanaele venirgli incontro e dice di lui: “Ecco veramente un israelita in cui non c’è falsità!”. 48 Natanaele gli dice: “Donde mi conosci?”. Gesù gli rispose: “Prima che Filippo ti chiamasse, quando eri sotto il fico, io ti ho veduto”. 49 Natanaele rispose: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio! Tu sei il Re di Israele!”. 50 Gesù riprese: “Perché ti ho detto di averti veduto sotto il fico tu credi? Vedrai cose maggiori di queste”.

Alcuni identificano Natanaele con l’apostolo Bartolomeo, presente nella lista dei Sinottici, per il fatto che i due nomi hanno lo stesso significato: “Dio ha dato”. Gesù di Nazareth è, secondo Filippo, il Messia atteso da almeno dodici secoli a partire da Mosè e passando attraverso le profezie di uomini venerati (Isaia), temuti (Geremia), ritenuti strambi (Ezechiele) o di scarsa cultura (Amos) o controcorrente (Osea) ecc. In Israele i profeti facevano spesso una brutta fine, perché non erano mai allineati con il potere e non facevano nulla per ingraziarsi il popolo: quando le cose andavano bene ed il popolo viveva un periodo di prosperità e di pace, i profeti annunciavano sventure e punizioni divine e, quando le cose si mettevano davvero male, essi avevano la faccia tosta di affermare che la salvezza era imminente. Inoltre, i profeti tiravano spesso le orecchie sia ai potenti, re in testa, che alla gente comune, rimproverando loro ogni sorta di iniquità. In buona sostanza, i profeti erano persone scomode perché riferivano ciò che Dio pensava del suo popolo. Ad ogni buon conto, i profeti erano riusciti ad inculcare nel popolo ebraico l’attesa di un personaggio carismatico che avrebbe portato pace e prosperità a tutto Israele, un uomo “unto”, cioè consacrato da YHWH per restaurare e rendere stabile l’antica alleanza tra Dio ed il popolo eletto. Da tempo ormai non si vedevano più profeti in Israele, per cui quando fece la sua comparsa il Battista, del tutto simile agli antichi profeti sia nella condotta di vita che per il coraggio dimostrato nel denunciare gli abusi della casa regnante, tutto il popolo ebraico si fece attento alle sue esternazioni, fatte nel nome del Dio Altissimo. Soldati di professione, gente del popolo, esattori delle tasse (i famigerati pubblicani), cortigiani e quant’altro si recavano dal Battista per ricevere il battesimo di penitenza, nell’attesa del tempo messianico che Giovanni affermava essere imminente.

Nel contesto di questa spasmodica attesa messianica, Natanaele, davanti all’affermazione decisa e sicura di Filippo, inciampa nei suoi pregiudizi di studioso rigoroso della Sacra Scrittura. Come tutti gli studiosi dei testi sacri, Natanaele soleva sedersi all’ombra di un fico, albero ritenuto simbolo della conoscenza della felicità e della sventura (un po’ come l’albero della conoscenza del bene e del male). Natanaele sapeva benissimo che nella Scrittura non si fa alcun riferimento a Nazareth circa le origini del Messia mentre di Betlemme, piccola borgata alle porte di Gerusalemme, si dice che sarà la culla del dominatore d’Israele (Mi 5,1). Secondo la tradizione giudaica, poi, non si sapeva da dove sarebbe venuto il Messia; certo non dall’insignificante cittadina di Nazareth di Galilea. Seppur scettico, forte della sua conoscenza della Scrittura, Natanaele è, però, un uomo profondamente onesto e capace di aprirsi alla novità della buona Notizia. Basta un “vieni e vedi!” per scomodarlo dai suoi studi e farlo “mettere in movimento” verso la Verità. Gesù vide Natanaele “farglisi incontro” e, dal momento che la sua vista è molto diversa da quella dei comuni mortali, lo giudica in profondità e lo “vede” disposto a mettersi in discussione ed a spogliarsi dei suoi pregiudizi di studioso. Gesù vede in Natanaele un israelita di fede sincera e senza fronzoli, leale ed amante della verità.

Prima che sia Natanaele a credere (“vedere”) in Gesù, è Lui, il Maestro, che crede nella disponibilità sincera di Natanaele a credere nel Figlio di Dio, il Re di Israele e non solo nella Scrittura, così come egli è in grado di comprenderla.

Natanaele rimane senza parole quando si accorge che l’uomo di Nazareth lo ha capito nel più profondo del suo essere. Dichiarando di “aver visto” Natanaele sotto il fico, Gesù insinua che egli, studiando la Legge, si è preparato ad incontrare Gesù stesso nella fede. Natanaele individua subito in Gesù il Figlio - Re del salmo 2,6s (vale a dire, il messia davidico) e la sua professione di fede è istantanea e senza incertezze. Natanaele viene rassicurato da Gesù: la sua fede nel Figlio di Dio sarà confermata da fatti prodigiosi, di portata ben superiore all’essere stato “visto sotto il fico”!


51 “In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo”.

Quando Gesù fa un’affermazione solenne (“Io vi dico”) preceduta dal duplice “Amen”, ci troviamo di fronte ad una sua auto rivelazione circa la propria persona e funzione. I cieli, che erano stati chiusi da Dio dopo la cacciata di Adamo dal paradiso terrestre a causa del peccato di ribellione dei progenitori, sono stati definitivamente riaperti da Dio per ristabilire, grazie a Gesù, l’ormai irreversibile comunicazione tra cielo e terra, tra Dio e l’uomo.

Il segno che Dio si è riconciliato con l’uomo è il via vai di angeli, che salgono e scendono sul Figlio dell’Uomo (cf. Gen 28,12-17). In Gesù la nuova e definitiva Alleanza tra Dio e l’uomo è, ora, presente sulla terra sino alla consumazione del tempo, quando cielo e terra (cioè, tutta la creazione) saranno sostituiti da “cieli nuovi e terra nuova” (Ap 21,1), in cui l’intimità dell’uomo con Dio sarà definitiva e non più guastata da gesti di ribellione da parte dell’uomo.

La fede dei discepoli sarà messa a dura prova dallo scandalo del Gòlgota, davanti al quale essi fuggiranno spaventati, delusi, sconcertati ed angosciati per aver lasciato solo il Maestro. La Pasqua di Resurrezione consentirà ai discepoli pusillanimi di “vedere” con occhi nuovi il Risorto, riconoscendolo come “Signore e Dio”, con coraggio ed a prezzo del proprio sangue, davanti a tutti gli uomini.


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04/06/2010 18:15
 
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Il Vangelo di Giovanni

Le nozze di Cana

(Gv 2,1-12)


E’ il primo episodio del IV Vangelo in cui Gesù compare come protagonista centrale. Accanto a Gesù sta la madre sua, che svolge un ruolo attivo nella prima parte del racconto. Alla fine vengono menzionati, insieme con la madre e Gesù, i discepoli ed i “fratelli” di quest’ultimo. Fanno da sfondo al racconto il maestro di tavola (architrìklinos) e le impalpabili figure dello sposo e dei convitati. Della sposa non viene fatto nemmeno un cenno. La scena si svolge a Cana di Galilea, piccola borgata da cui proviene Natanaele (21,2) e menzionata anche dallo storico ebreo Giuseppe Flavio (Vita, § 86). Questa località, individuata con l’odierna cittadina di Hirbet Cana, si trova circa 14 Km a nord di Nazareth. Alla festa di nozze è presente, probabilmente come ospite di diritto, Maria, la madre di Gesù; i novelli sposi appartengono verosimilmente allo stesso clan familiare. Secondo l’usanza del tempo, vengono invitati alle nozze non solo i parenti (Gesù ed i suoi “fratelli”) ma anche gli amici del parentado (i discepoli).

Nella sua sequenza, il testo presenta le principali caratteristiche di un “racconto di miracolo”: situazione (vv.1-2), domanda di intervento (vv.3-5), intervento (vv.6-8), constatazione del prodigio (vv.9-10), espressione finale di ammirazione (v.11). Se l’evangelista è partito da un ricordo autentico, ha trasfigurato a tal punto la storia caricandola di un significato teologico così profondo e molto ben articolato, che conviene di più cogliere il messaggio del racconto in sé che cercare di definirne il genere letterario. Commentando l’accaduto (2,11), l’evangelista qualifica l’avvenimento come un “miracolo”, un “segno” (semèion). Questo termine tipico di Giovanni (i colleghi Sinottici preferiscono definire il miracolo come “atto di potenza” o dynamis) include sempre due aspetti: uno dimostrativo, in quanto il segno suscita la fede dei discepoli in Gesù, e l’altro espressivo, perché manifesta la gloria di colui che lo compie.

Per definizione, il “segno” rimanda a qualcosa d’altro oltre se stesso. Esso acquista il massimo valore se può venire messo in relazione con la presenza di testimoni, sollecitati a trarre delle conseguenze che sappiano andare al di là dell’evento prodigioso cui hanno assistito. Attraverso il potere sorprendente che esso fa constatare, il miracolo o “segno” ha la funzione di orientare la fede dei testimoni verso la persona e la dignità di chi lo ha compiuto. A conclusione del suo Vangelo (20,31), Giovanni precisa di aver descritto i “segni”, operati da Gesù, allo scopo di suscitare la fede in Lui. Quello di Cana è il primo miracolo compiuto da Gesù nella sua vita pubblica e si tratta di un prodigio sui generis, capace di illuminare il senso di tutti i miracoli attribuiti a Gesù dagli evangelisti; pur non comprendendo pienamente il senso dei “segni” compiuti da Gesù, “i discepoli credettero in Lui” (2,11). Con questa comprensione del miracolo, Giovanni si allinea all’antica tradizione biblica: attraverso i prodigi, Dio aveva manifestato la sua presenza salvatrice (cf. Es 3,20) ed aveva autenticato i suoi inviati (cf. Es 4). I miracoli compiuti da Gesù ne esprimono e sottolineano il mistero, racchiuso nella sua persona e, al contempo, anticipano ed esplicitano il messaggio di salvezza di cui Egli è il portatore nel nome del Padre.

L’evangelista Giovanni non si limita a chiamare “segno” il miracolo di Cana, ma lo qualifica come inizio (in greco, arché) dei segni. Non a caso l’evangelista usa il vocabolo arché: non si tratta, infatti, del semplice inizio numerico di una serie di prodigi, ma dell’inizio di una nuova era, quasi una nuova creazione (Gen 1,1). Mediante i gesti e le parole di Gesù di Nazareth, Dio comincia a regnare. Secondo la prospettiva teologica di Giovanni, il Regno di Dio si mostra all’opera mediante ciò che Gesù compie alle nozze di Cana, manifestando la sua gloria.

La “gloria” (dòxa) di Gesù si manifesta e si rende concreta in tutti i segni che egli opera, ma ciascun “segno” particolare mostra una sfaccettatura del mistero di Gesù salvatore. Così, il dono della vista ad un cieco nato attesta la gloria di Gesù, che dimostra di essere la luce del mondo (8,12); mediante la risurrezione di Lazzaro Gesù rivela d’essere Lui stesso la risurrezione e la vita (11,25); con la moltiplicazione dei pani Gesù si presenta come il pane di vita disceso dal cielo (6,33.48-51).

Il segno di Cana è un “miracolo – dono” e simboleggia la gratuità e la sovrabbondanza di vita che Dio comunica all’uomo, anche senza che sia richiesta una fede previa, ponendo l’accento sull’iniziativa di Dio nell’incontro col suo popolo. Per di più, il miracolo rimane nascosto; pochi se ne accorgono, cioè Maria, i servi, i discepoli che hanno assistito al dialogo tra Maria e Gesù. I beneficiari del dono ne restano all’oscuro. Le tante incongruenze del racconto c’inducono ad escluderne la finalità biografica e storico – “giornalistica”: perché i protagonisti delle nozze, vale a dire gli sposi, sono ignorati? Perché il vino era esaurito? Perché Maria, una dei tanti invitati, se ne accorge prima dei responsabili del banchetto? Perché ha tanto spazio il dialogo tra Maria e Gesù? Perché il dettaglio delle giare? Perché i servi sono così scrupolosamente obbedienti ai comandi che Gesù dà loro quasi in sordina? Perché la sottolineatura dell’ora?

Evidentemente il racconto del miracolo compiuto da Gesù a Cana è stato caricato dall’evangelista di un profondo significato “simbolico”, tutto da scoprire.


2,1 E al terzo giorno ci fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era là la madre di Gesù. 2 Fu invitato anche Gesù ed i suoi discepoli alle nozze.

Il tema delle nozze richiama subito alla mente un’immagine biblica divenuta tradizionale, a partire dall’esperienza coniugale del profeta Osea fino al Cantico dei Cantici ed a Gesù stesso, che ha presentato il Regno dei Cieli come un banchetto di nozze (Mt 22,2; 25,1). La festa umana per eccellenza, quella che dice l’amore dell’uomo e della donna, destinati a diventare “uno” (Gen 2,24) in conformità con l’immagine divina, è servita da metafora per esprimere l’alleanza di Dio con il suo popolo ed in modo più particolare la sua realizzazione escatologica, quando cioè Dio stringerà il patto non solo con Israele bensì col mondo intero (cf. Os 2,18-21; Ez 16,8; Is 62,3-5). La ripetizione della parola “nozze” all’inizio del racconto (vv.1-2) è chiaramente intenzionale ed intende rimarcare la connotazione simbolica dell’episodio, che è ben situato nello spazio e nel tempo. Le nozze, infatti, si svolgono in Galilea, altro dato ripetuto due volte (2,1.11); Gesù ha sempre mostrato una grande predilezione per questa terra, posta al confine con i popoli pagani e trampolino di lancio per l’annuncio della Buona Novella (= Vangelo) del Regno di Dio a tutti gli uomini (Gv 4,43-54; 6,1; 21,2). Anche la collocazione temporale delle nozze ha un preciso significato simbolico: esse sono celebrate “al terzo giorno”, ma è difficile precisare a quale data intenda riferirsi l’evangelista. Alcuni autori hanno cercato di agganciare “il terzo giorno” a quelli segnalati in precedenza, a partire cioè dalla testimonianza di Giovanni Battista (1,19-51) ed hanno così tentato di ricostruire una “settimana inaugurale” del IV Vangelo, con il chiaro intento di ricollegarla alla settimana della Creazione (Gen 1,3-2,3) e di caricarla di significato simbolico.

Molto probabilmente, però, l’evangelista ha inteso assimilare l’episodio delle nozze di Cana ai grandi eventi della storia sacra e che avvengono “al terzo giorno”. Questa datazione, infatti, richiama una svolta decisiva nella storia dell’alleanza come, ad esempio, la grande teofania del Sinai (Es 19,11; Lc 13,32ss; inoltre, Gen 22,4; 42,18; Os 6,2). Il “terzo giorno” è anche quello della risurrezione di Gesù, il giorno della nostra redenzione, del nostro definitivo riscatto da un tragico destino di morte ereditato a causa del peccato originale. Il “terzo giorno” è il giorno di Dio (yôm YHWH) e della sua giustizia, divenuta realtà storica nell’Uomo della croce, che ha conosciuto l’angoscia della morte e del sepolcro e che ha vinto la morte risorgendo dai morti.

Il lettore attento, che è già a conoscenza del fatto che nella persona del Figlio dell’Uomo il cielo e la terra hanno stabilito una relazione permanente (1,51), si aspetta che possa accadere, da un momento all’altro, qualcosa di straordinario. Questo inizio solenne ha lo scopo di rendere il lettore ancora più attento.

Come si è accennato in precedenza, prima che Gesù giunga a Cana come invitato alle nozze, Maria è già presente sul posto, forse per dare una mano nei preparativi delle nozze. D’altronde, le poche volte che Maria viene nominata in tutti e quattro i Vangeli viene sempre descritta in atteggiamento di servizio. Anche questa volta Maria non viene meno alla sua vocazione di Donna del “sì”, umile ed obbediente, al servizio di Dio e dell’uomo.


3 E poiché era venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli dice: “Non hanno più vino”. 4 Gesù le dice: “Che cosa c’è tra me e te? Donna, non è forse ancora arrivata la mia ora?”. 5 Sua madre dice ai servi: “Qualunque cosa vi dica, fatela!”.

Il racconto entra subito nel vivo, introdotto da un dialogo a due, rapido ed incalzante, tra Gesù e sua madre; il tono drammatico del dialogo ha fatto allibire ed inquietare anche gli antichi esegeti cristiani come s. Agostino e s. Ireneo.

Il vino accompagnava normalmente un banchetto di nozze ed era offerto con abbondanza. Col grano e l’olio, il vino è uno dei tre raccolti essenziali per la vita dell’uomo (Dt 7,13; 11,14) ed è un dono di Dio, creato per la gioia degli uomini come segno di prosperità (Sal 104,15; cf. anche Gdc 9,13; Sir 31,27ss; Zc 10,7). Ecco perché il vino scorrerà abbondante alle nozze escatologiche (Am 9,13; Is 25,6). Gesù di Nazareth si richiama alla simbolica del banchetto celeste quando annuncia che non berrà più del frutto della vite “fino a quando lo berrà nuovo nel regno del Padre” (Mt 26, 29). Così s. Papia, vescovo di Geràpoli all’inizio del II secolo d. C., s’immaginava la beatitudine celeste: ”Ecco dunque queste parole del Signore: «Verranno giorni in cui cresceranno delle vigne che avranno diecimila ceppi ciascuna e su ogni ceppo vi saranno diecimila rami e su ogni ramo diecimila tralci e su ogni tralcio diecimila grappoli e su ogni grappolo diecimila acini ed ogni acino spremuto darà venticinque metrete di vino»” (cit. da s. Ireneo, Adversus Haereses, V, 33,3). Una metreta corrispondeva a 40 litri, sicché 25 metrete corrispondevano a mille litri di vino per acino d’uva! Uno sproposito, per indicare la sovrabbondanza smisurata della grazia del tempo messianico, che si compie nella persona di Gesù. L’eccesso del dono è tipico dell’infinita generosità di Dio nel suo rapportarsi con gli uomini.

A Cana viene a mancare all’improvviso il vino e Maria, donna attenta, solerte e premurosa si accorge dell’imbarazzante inconveniente. Chi doveva preoccuparsi di questo non trascurabile dettaglio era il maestro di tavola, evidentemente incapace di calcolare la quantità di vino necessaria per affrontare una ricorrenza festosa, come le nozze, che in Israele durava anche sette giorni. Trasferendoci sul piano della simbologia, la mancanza del vino indica che la spiritualità dell’antico Israele ha esaurito il suo compito di essere premessa e preparazione dei tempi nuovi, dei tempi messianici. Venendo meno il suo rapporto assolutamente privilegiato con Dio, Israele si accorge di essere nella piena indigenza e di aver bisogno di un radicale rinnovamento interiore, peraltro già ampiamente previsto e preannunciato dai Profeti. Maria fa da tramite fra l’antico ed il nuovo popolo di Dio; Ella raccoglie l’esigenza del cambiamento (“… non hanno più vino”) e guida gli uomini, a Lei affidati da Gesù dall’alto della croce (19,25-27), ad accogliere il Figlio di Dio, da Lei generato alla vita umana con un gesto di fede umile ed obbediente, come la causa e lo scopo della conversione del cuore e della mente (metànoia).

Il progetto della salvezza si sviluppa e si realizza in modo dinamico; da una parte c’è l’offerta di un dono (Dio) e, dall’altra, l’accoglienza del dono (l’uomo). La dinamica della salvezza non sfugge alla logica del dialogo tra Dio (Gesù) e l’uomo (Maria), ma non può sottrarsi alla scelta decisiva della fede (“…Qualunque cosa vi dica, fatela!”).

Con la constatazione che “non hanno più vino”, la madre di Gesù non chiede semplicemente un miracolo; Maria sembra ancora ignorare la dignità messianica di suo Figlio (cf. 1,26) ma, ad ogni modo Ella mette Gesù in presenza della miseria di Israele, da Lei rappresentato. Apparentemente, Maria si pone al livello della concreta mancanza del vino, ma nel dialogo tra Maria e suo Figlio possiamo scorgere, simbolicamente, il dialogo tra Israele (Maria) e Dio (Gesù). La madre (Maria = Sion) dichiara la situazione soggettiva in cui si trovano i suoi figli (“…non hanno più vino”), dimostrando di non essere una testimone neutrale dello stato di indigenza e di bisogno; Ella si prende a cuore la pena del suo popolo e la esprime come, secondo la tradizione, faceva Israele che, nel momento del bisogno, esponeva a Dio nella preghiera le circostanze della sua afflizione, fiducioso che Egli sarebbe intervenuto secondo il suo beneplacito (Sal 12; 31; 38; 39; 44,10-27; 79; 130; Ne 9,16-37; Bar 3,1-8). Per l’evangelista, la parola di Maria implica la fede in un intervento che qui, nel contesto dell’Alleanza, è quello della salvezza definitiva.

Che cosa c’è fra me e te? Si tratta di una formula semitica (ma li walak) propria del linguaggio diplomatico ed il cui senso dipende dal tono e dal gesto che l’accompagnano. Questa espressione, estranea alla nostra cultura e sensibilità, metteva in questione il legame esistente fra due alleati e poteva indicare sia una rottura dell’alleanza (Gs 22,25; 2Re 3,13) che la presentazione, all’interlocutore, di un punto di divergenza su cui discutere per giungere ad un chiarimento e rafforzare l’alleanza (Gdc11,12; 2Sam 16,10; 19,23; 1Re 17,18; 2Re 9,18; 2Cr 35,21; Mc 1,24ss; 5,7ss; Mt 27,19). Certo è che Gesù non si pone al livello della madre, di cui pure accoglie la richiesta. Egli lascia intendere che, se si decide ad intervenire, non lo farà per un intervento umano, fosse pure di sua madre (Israele) e che, comunque, la sua azione avrà effetti molto superiori a quelle richieste dalle circostanze concrete. Se Maria si è limitata a richiedere un normalissimo intervento per rimediare ad una situazione imbarazzante per dei novelli sposi, che, con molta probabilità sono anche dei parenti, Gesù va ben oltre le buone intenzioni della madre ed agisce su un piano sicuramente superiore, secondo la missione ricevuta dal Padre. Egli darà compimento alle attese di Israele, ma superando l’interpretazione riduttiva della salvezza che il suo popolo si aspetta da Dio.

Donna. Il lettore moderno rimane perplesso di fronte ad un simile modo di rivolgersi a propria madre ma, se si considera l’ambiente sociale e culturale del tempo in cui fu scritto il Vangelo, ci si rende conto del fatto che Gesù ha usato un termine assai elogiativo nei confronti di colei che altri avrebbero semplicemente chiamato ‘immà (mamma), corrispondente ad ‘abbà (papà). Gesù sembrerebbe assumere, ad una lettura frettolosa e superficiale, un atteggiamento di distacco nei confronti di una donna che gli ha dato la vita (Mc 3,33ss; Lc 11,27ss), quasi volesse porre l’accento sulla sua origine ultraterrena e focalizzare l’attenzione dei suoi interlocutori sul Padre celeste, dal quale Egli è stato inviato sulla terra. Gesù, al contrario, vede nella madre sua la “Donna” che s’identifica non più con l’antico Israele, che gli ha dato la vita umana, ma con l’escatologica Sion, che attende e spera il tempo della salvezza definitiva. Con l’inatteso appellativo usato per rivolgersi a Maria, Gesù invita ad una nuova presa di coscienza sul tempo della salvezza, quell’ora tanto cara alla teologia giovannea.

Occorre, a questo punto, fare una breve considerazione sui segni di punteggiatura che caratterizzano gli scritti odierni e che rendono la traduzione degli scritti antichi, assolutamente privi di punteggiatura, non sempre univoca. Alcuni traduttori trasferiscono l’appellativo “donna” alla frase precedente, rendendo il senso dell’osservazione di Gesù in modo ancora più crudo: “che cosa c’è tra me e te, donna?”. Ma chi conosce le regole stilistiche della lingua greca sa che un vocativo (“donna!”) solitamente non segue la frase di cui fa parte, ma la precede. Vari altri passi del Vangelo confermano l’uso del vocativo nel senso ora descritto: “Figlio di Dio, abbi pietà di me!”; “Donna, ti sono perdonati i tuoi peccati!” e simili (cf. Mc 5,41ss; Mt 15,28; Lc 7,14; 13,12; Gv 19,26; 20,15). D’altra parte, non è forse normale che la rivelazione relativa all’ora sia preceduta da un vocativo solenne?

Non è forse arrivata la mia ora? Anche in questo caso, mancando negli antichi manoscritti la punteggiatura, la frase potrebbe essere tradotta come un’affermazione negativa (“La mia ora non è ancora arrivata!”) o come una domanda e, in tal senso si sono pronunciati autori autorevoli dell’antichità come Taziano, s. Gregorio di Nissa, s. Efrem oltre a diversi commentatori moderni (Viteau, Knabenbauer, Boismard, Vanhoye, Léon-Dufour et alii). I traduttori optano, in maggioranza per l’asserzione negativa, basandosi sui versetti in cui Giovanni, dopo i tentativi falliti di arrestare Gesù, annota che “la sua ora non era ancora arrivata” (7,30; 8,20). In questi passi, però, non è Gesù che parla, bensì il narratore, il quale riflette sugli eventi a cose fatte. Il seguito del racconto lascia supporre che Gesù si sia rivolto a sua madre non opponendo un rifiuto netto e deciso, nel qual caso Maria non avrebbe detto ai servi di assecondare i comandi del Figlio, ma in forma interrogativa, lasciando alla madre lo spazio per prendere autonomamente una decisione. La forma interrogativa, poi, permette di connettere molto bene la risposta data da Gesù con la reazione immediata di Maria, che sembra non aspettare altro per entrare in azione! La risposta di Gesù, infatti, sembra un incoraggiamento ad avere fede in Lui, per il quale è giunta l’ora di intervenire secondo il disegno del Padre (cf. anche Mt 16,8-9; Mc 4,40).

La mia ora. Qual è, in definitiva, l’ora di cui parla Gesù e su cui Giovanni ha costruito in buona misura l’architettura del suo pensiero teologico?

In senso strettamente fisico, Giovanni conosce l’ora come spazio di tempo ben preciso (1,39; 4,6; 4,52; 5,35; 11,9; 19,14; 19,27), mentre in senso propriamente teologico l’evangelista ha attinto il concetto di “ora” dalla letteratura apocalittica (Dn 8,17-19 ed altri testi extrabiblici), laddove l’ora indica il momento in cui si compirà definitivamente il disegno di Dio, ineluttabile proprio come il giorno del Signore (ovvero lo yôm YHWH di cui parla il libro di Gioele in 4,15-17). Tale terminologia apocalittica è presente anche nei Sinottici (Mt 24,36.44; 25,13; Lc 12,40.46), oltre che nel IV Vangelo (Gv 5,25.28).

Con la risurrezione di Gesù, i credenti hanno compreso che la fine dei tempi li ha raggiunti (1Cor 10,11) e sono stati indotti a vedere l’ora escatologica attualizzata negli eventi della Pasqua, se non già a partire dal momento dell’arresto di Gesù nel Getsémani (Mt 26,45; Mc 14,35.41; Lc 22,53). Secondo Giovanni, l’ora finale si compie al momento della glorificazione di Gesù sulla croce (12,23.27; 17,1; è questo il senso fatto proprio dal narratore: 7,30; 8,20; 13,1). L’ora di Gesù coincide col momento del suo ritorno al Padre (13,1), da Lui accettato pienamente e volontariamente (12,27), pur avendo chiesto al Padre suo di attraversare indenne il trapasso da questa vita. Quando i discepoli lo abbandonano al suo destino (16,32), fuggendo davanti alle guardie venute ad arrestarlo, Gesù affronta la sua “ora” completamente solo! L’ora è stata fissata dal Padre ed è in funzione di essa che Gesù coordina tutta la sua attività, perché in essa culmina la sua missione tra gli uomini. Tuttavia, dal momento stesso in cui inizia la sua vita pubblica, quest’ora, méta verso cui Egli avanza, è già presente in tutto ciò che Gesù dice e fa ed è già una manifestazione definitiva della salvezza che Dio offre agli uomini. Si può ben dire che tutta l’attività ministeriale di Gesù appartenga all’ora finale.

Nel contesto delle nozze di Cana l’ora, di cui parla Gesù, è quella della sua manifestazione, concretizzata dai “segni” che d’ora in poi accompagneranno la sua vita pubblica, dando corpo alla sua “gloria” (dòxa) ed è l’ora dell’annuncio del Regno da parte del Figlio di Dio. In questo senso si può ritenere che l’ora corrisponda all’inaugurazione del tempo messianico.

In questa prospettiva si può comprendere meglio il senso della replica, che Gesù rivolge alla madre formulando una domanda: “Donna, non è forse ancora arrivata la mia ora?”. Quando Gesù pone una domanda, di solito sollecita una risposta e questo succede spesso nel corso del IV Vangelo. Gli interlocutori di Gesù sono sempre indotti da Lui a prendere posizione nei confronti del mistero, racchiuso nella sua Persona. La forma interrogativa, allora, tradurrebbe una sorta di richiamo a Maria e, indirettamente, ad Israele di recepire e di accogliere il compimento del tempo della salvezza nella persona stessa di Gesù.

Secondo un’altra interpretazione, infine, la domanda rivolta da Gesù a sua madre è da porre sullo stesso piano di quella che, più avanti, Egli rivolgerà ai suoi discepoli nell’immediatezza della sua passione e morte: “Non berrò la coppa che mi ha dato il Padre?” (18,11). Dal momento che Giovanni non riporta nel suo Vangelo l’esperienza delle tentazioni, che Gesù ha voluto affrontare prima dell’inizio della sua vita pubblica, si sarebbe indotti a ritenere che Gesù rivolga più a se stesso che a Maria la domanda circa la sua ora, quasi sottintendendo che, davanti alla terribile prospettiva della croce, il Figlio di Dio possa aver tentennato. Gesù, però, nonostante la naturale ed umanissima paura della sofferenza e dell’annientamento, proprio della morte, non esita ad impegnare tutto se stesso nel dono totale del proprio essere, obbedendo alla volontà del Padre e mettendosi al servizio dell’uomo. Di fronte all’indigenza di Israele, Gesù è provocato a consentire di essere la via che conduce alla salvezza; la forma interrogativa sul proprio destino implica che, per Lui, è impensabile sottrarsi alla sua missione, il cui inizio è segnato dal prototipo dei “segni”, il miracolo di Cana di Galilea.

Sua madre dice ai servi: “Qualunque cosa vi dica, fatela!”. Maria non risponde direttamente alla domanda di Gesù. Resasi conto che per suo Figlio è giunta l’ora di agire secondo il volere del Padre, cessa di parlare come madre secondo la carne e trasmette ai servi la sua totale fiducia. È questo anche il tipico atteggiamento di Israele che, nelle sue prove, ripete continuamente di essere pronto a fare la volontà di Dio: “Tutto ciò che ha detto YHWH noi lo faremo” (Es 19,8; 24,3.7; Gs 24,24). Maria è figura d’Israele, che accoglie le ancora sconosciute condizioni della nuova e definitiva Alleanza, che Dio stringerà mediante Gesù. Ella non prende il posto d’alcun mediatore, sia esso Mosè od un profeta od il re; Ella è Israele che si dispone ad obbedire a Dio ed al suo inviato.

Maria è assai delicata almeno in due punti: non suggerisce ai servi di obbedire al figlio e non lo indica neppure per nome: ormai Gesù appartiene solo al Padre e non più a sua madre. L’ordine di Maria ai servi ricorda, alla lettera, quello rivolto dal faraone agli egiziani all’epoca della grande carestia, di cui si narra nel libro della Genesi: “Andate da Giuseppe e qualunque cosa vi dica, fatela” (Gen 41,55). L’analogia della situazione rende evidente la tipologia Giuseppe/Gesù, colta dalla Chiesa primitiva (At 7,9-13). Come Giuseppe ha donato il pane, Gesù dona il vino e dà compimento alla figura di Giuseppe, di cui il faraone affermava: ”Potremo trovare un uomo come costui, in cui vi sia lo Spirito di Dio?” (Gen 41,38). Secondo la prospettiva teologica di Giovanni, Maria vede nel Figlio suo il vero Giuseppe ed aderisce liberamente alle implicazioni suggerite dalla domanda di Gesù circa l’ora. Maria è veramente la “Donna” (Sion, Israele) interpellata e sollecitata ad avere fede in Gesù, il Figlio di Dio.


6 Ora c’erano là sei giare di pietra, destinate alla purificazione dei giudei e contenenti da ottanta a cento litri ciascuna. 7 Gesù dice loro: “Riempite le giare di acqua”. E le riempirono fino all’orlo. 8 Dice loro: “Ora attingete e portatene al direttore di mensa”. Ed essi gliene portarono.

Il particolare dettagliato delle giare di pietra, il loro numero, la loro capienza (dai 500 ai 700 litri circa) e la loro destinazione cultuale, è almeno curioso. Forse l’evangelista ha voluto fornire queste informazioni a lettori non propriamente a conoscenza delle usanze ebraiche o, più probabilmente, ha inteso esibire ancora una volta la sua predilezione per il significato simbolico dei “segni” compiuti da Gesù.

Mediante il suo gesto, Gesù manifesta in figura che è giunto il tempo in cui Israele entrerà nella comunione definitiva con Dio, come pure l’intera umanità. Al posto delle anfore di terracotta, in cui era normalmente conservato il vino e che a Cana erano ormai desolatamente vuote, Gesù si serve d’inusuali giare di pietra, destinate alla purificazione rituale e non alla conservazione delle bevande. Ciò conferma il carattere simbolico del racconto, tanto più che il numero delle giare (sei, cioè: sette meno una) implica un’idea d’imperfezione. Tenendo presente il rapporto che il Precursore ha stabilito tra il battesimo d’acqua ed il battesimo nello Spirito (1,33), si può supporre che il vino donato da Gesù sta all’acqua delle giare giudaiche come lo Spirito Santo sta all’acqua del rito battesimale amministrato da Giovanni Battista. Quest’accostamento è tanto più plausibile in quanto il battesimo di Giovanni prefigurava la purificazione che lo Spirito avrebbe operato alla fine dei tempi, ormai presente con Gesù.

Le giare erano dei grandi recipienti, di varie dimensioni (le più grandi potevano contenere anche 80-100 litri d’acqua) ed utilizzandole per i propri riti, riempiendole fino all’orlo, Israele aveva dato fondo a tutto ciò che poteva offrire nel suo desiderio di corrispondere alle esigenze del suo Signore.

L’acqua, che i servi mettono nelle giare per ordine di Gesù, diventa vino solo quando viene attinta e portata al direttore di mensa. “Ora attingete e portatene…”: la parola “ora” non è richiesta dal contesto e sottolinea che il tempo delle nozze escatologiche è ormai giunto. Con la presenza di Gesù, nel quale cielo e terra si uniscono (1,51), l’Alleanza di Dio con gli uomini raggiunge il suo compimento. È il momento inaugurale di una realtà che si prolunga lungo tutta la vita della Chiesa, nella quale si potrà attingere e gustare di giorno in giorno il frutto dell’acqua e della parola. Questo “ora” si apre su una presenza che non cesserà mai più.

Le giare sono di pietra perché, a differenza delle otri di pelle e delle anfore di terracotta, che usualmente contengono il vino, sono destinate a durare nel tempo. Gesù riconosce alle giare un gran valore simbolico, poiché in esse, per motivi religiosi, viene raccolta l’acqua della Creazione: le giare rappresentano l’istituzione di Israele. Dapprima l’acqua della creazione è diventata l’acqua della purificazione, quindi, in queste giare e mediante la parola di Gesù, quest’acqua può diventare vino. L’alleanza con Noè, che significa la presenza di Dio in tutta la creazione, è stata raccolta da Israele e, attraverso Israele, Gesù la riprende per portarla alla sua perfezione nell’Alleanza definitiva simboleggiata dal vino, prodigiosamente donato da Cristo in quantità sovrabbondante.

In breve: le anfore di vino, che nel bel mezzo della festa appaiono vuote, sono figura dell’antico Israele e dell’Alleanza mosaica. Entrambi hanno esaurito la loro tipica funzione, quella dell’attesa del messia e della preparazione dei tempi messianici. Le sei giare colme d’acqua sono figura della Legge (la Torâh), che, nonostante la sua imperfezione (racchiusa nel numero 6=7-1), è pur sempre un dono ricevuto da Dio in attesa della venuta della pienezza della Legge, cioè di Gesù Cristo. Il vino nuovo ed eccellente, che sostituisce l’acqua contenuta nelle giare di pietra, è la nuova e definitiva Alleanza stipulata tra Dio e gli Uomini in Cristo Signore. La quantità smisurata del buon vino è segno della sovrabbondante grazia, che scaturisce dal sacrificio di Cristo sulla croce. Il novello sposo, di cui si parla nella pericope, è lo stesso Cristo Gesù che presiede le nozze celesti (figura del Paradiso, il Regno di Dio). La sposa, che nel racconto non viene nemmeno citata ma di cui si intuisce la presenza discreta e silenziosa accanto allo sposo, è figura della Chiesa, la cui esistenza è giustificata dalla volontà redentrice di Cristo. Maria ed i servi sono la figura del nuovo Israele, cioè del popolo cristiano, che sa mettersi in ascolto con fiducia della Parola di Dio, incarnata in Gesù Cristo.

Come si può notare, il racconto del miracolo alle nozze di Cana va ben oltre il dato biografico o la semplice cronaca di un fatto realmente accaduto. L’evangelista vi ha colto tutti gli elementi giusti per costruire un preciso ed articolato pensiero teologico


9 Quando il direttore di mensa ebbe gustata l’acqua divenuta vino (egli non sapeva donde veniva, mentre lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiama lo sposo 10 e gli dice: “Ognuno offre da principio il vino buono e, quando si è brilli, quello meno buono. Tu, invece, hai conservato il vino buono fino a questo momento”.

Il miracolo avviene in modo “silenzioso”, senza clamore e senza alcun proclama da parte di Gesù. Solo Maria, che ha sentito l’ordine di Gesù, i servi di mensa, che hanno eseguito tale ordine ed i discepoli di Gesù, che con tutta probabilità erano i commensali a Lui più vicini, si sono accorti del prodigio. Il direttore di mensa non ne sa nulla e lo sposo ne sa ancora meno di lui, mentre gli altri invitati sono già un po’ alticci (“brilli”, dice il testo) e solo sorpresi dal fatto che sia arrivato a mensa del vino eccellente, sicuramente migliore di quello bevuto fino allora.

La battuta spiritosa del direttore di mensa serve a costatare l’avvenuto prodigio, senza che sia fatta menzione del suo autore. Senza attirare l’attenzione sul taumaturgo, l’evangelista dà risalto, in ogni caso, all’avvenimento: non solo l’acqua è diventata vino, ma questo è di qualità extra (come diremmo noi, oggi)!

Il commento sorpreso del direttore di mensa serve ad introdurre la figura dello sposo. Di lui si afferma che il direttore di mensa lo ha “chiamato”, come se fosse assente proprio sul più bello della festa. Attribuendo allo sposo l’iniziativa di far portare a mensa il vino eccellente dopo aver fatto servire del vino buono, ma di qualità inferiore, il direttore di mensa colloca lo sposo su un piano diverso dalla generalità degli uomini: “ognuno offre…Tu,invece…”. Elevare lo sposo sulla mediocrità degli uomini è un modo, utilizzato dall’evangelista, di procedere per simbolismi. La figura piuttosto anonima dello sposo si sovrappone a quella di Cristo, dalla quale viene sovrastata e “sostituita”; così, le nozze celebrate a Cana sono figura delle Nozze escatologiche celebrate da Cristo Signore nella Gerusalemme celeste.

Grazie all’esperienza religiosa di Israele, l’umanità ha avuto solo un “assaggio” delle delizie celesti promesse da Dio dopo il disastro del peccato originale. Donando agli uomini le “Dieci Parole” (Decalogo) tramite Mosè, sul monte Sinai, Dio aveva offerto uno spiraglio di salvezza; donando il proprio Figlio Unigenito, Dio ha inteso celebrare le sue Nozze eterne con l’Umanità, riscattata dal peccato grazie al sangue redentore di Cristo.


11 Facendo a Cana di Galilea questo prototipo dei segni, Gesù manifestò la sua gloria ed i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.

L’evangelista Giovanni non si limita a chiamare “segno” il miracolo di Cana, ma lo qualifica come il prototipo (o “inizio”) dei segni. L’uso del vocabolo greco archè (inizio) implica alcune considerazioni: non si tratta semplicemente del “primo” di una lunga serie di miracoli, ma sottolinea e caratterizza il “principio” di una nuova era, quella dell’affermazione su questa terra del Regno di Dio, che s’identifica con Gesù Cristo, la Buona Novella della salvezza (cf. Mc1,1; Mt 4,17; Lc 3,23; Gv1,1). Mediante i gesti e le parole di Gesù di Nazareth, Dio comincia a regnare nel cuore, nella mente e nella volontà degli uomini. Secondo tale prospettiva, il Regno di Dio si mostra all’opera mediante ciò che Gesù compie alle nozze di Cana, dove inizia a manifestarsi la “gloria” del Figlio di Dio. La “gloria” (dòxa) di Gesù si concretizza in tutti i segni da lui compiuti ed il segno compiuto a Cana è un “segno” originale, esemplare, che dà un senso a tutti i segni compiuti in seguito ed il cui scopo dichiarato è quello di suscitare la fede in Gesù di Nazareth.

I discepoli cominciarono a credere in lui. Come il miracolo di Cana è l’inizio dei segni, l’inizio dell’era messianica, l’inizio dell’affermazione del Regno di Dio tra gli uomini, così a Cana si registra l’inizio della fede degli uomini nel Figlio di Dio.

La fede dei discepoli, i primi a credere in Gesù, troverà un grande inciampo (skàndalon) nella croce, sulla quale finirà per morire in modo atroce l’oggetto della loro fede. Sarà necessaria l’esperienza sconvolgente e gioiosa della risurrezione per convincere definitivamente i discepoli di non essersi sbagliati nel fondare tutta la loro fiduciosa speranza in Gesù di Nazareth, di cui saranno testimoni fedeli e coraggiosi fino all’effusione del proprio sangue.

Cominciarono a credere. La fede è un dono che va, prima di tutto, accolto come tale nella sua totale gratuità dalle mani generose di Dio, il quale consente a tutti di credere in Lui e di salvarsi, anche percorrendo strade per noi misteriose; in secondo luogo, la fede va coltivata attraverso lo studio e l’ascolto attento della Parola di Dio, la preghiera perseverante e la continua disponibilità alla conversione personale. La fede, infatti, implica una relazione dinamica tra l’uomo e Dio e, come succede spesso nell’ambito delle relazioni umane, anche il rapporto tra l’uomo e Dio può interrompersi o modificarsi a causa della buona o della cattiva volontà dell’uomo, lasciato libero da Dio di decidere il proprio destino di salvezza o di perdizione. L’uomo non deve mai stancarsi di chiedere a Dio il dono della fede e della perseveranza, consapevole che la propria libertà, di cui va pure tanto fiero, subisce continui attentati da parte del male profondamente radicato nel suo cuore in forza dell’originario peccato di disobbedienza e di ribellione al progetto di Dio compiuto dai progenitori. Anche nel gruppo dei Dodici ci fu chi preferì barattare la propria libera scelta di fede con una manciata di monete e liberamente decise che non valeva la pena di “fidarsi” di Cristo.


L’incontro di Gesù con Nicodemo

(Gv 3,1-21)


Nicodemo è un fariseo, un maestro molto stimato in Israele e membro del Sinedrio, il tribunale amministrativo e religioso ebraico cui il potere romano concede autonomia in materia religiosa e nella gestione degli affari interni di Israele, avocando a sé, però, il diritto di comminare ed eseguire le eventuali condanne a morte pronunciate dal tribunale ebraico, in osservanza delle norme sancite dalla Torâh. Questo notabile autorevole di Israele si presenta a Gesù, di notte, non certo per una visita di pura cortesia.


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04/06/2010 18:19
 
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Il Vangelo di Giovanni

3.1 C’era dunque tra i farisei un uomo, di nome Nicodemo, uno dei notabili giudei. 2 Questi venne a lui di notte.

Nicodemo è venuto a conoscenza dei “segni” compiuti da Gesù ed invece di limitarsi ad attribuirli ad un uomo posseduto da Beelzebul, si reca dal rabbì di Galilea per avere chiarimenti. Nicodemo è il prototipo dell’uomo “in ricerca”, seppur dotato di senso pratico. Egli non si fida del “sentito dire” e vuole vederci chiaro nei miracoli compiuti da Gesù, anche se istintivamente intuisce che quell’uomo di Galilea è tutt’altro che un ciarlatano.

Perché Nicodemo sceglie di incontrare Gesù proprio di notte? Per paura del giudizio dei “giudei”? (cf. 12,42; 19,38). Oppure perché l’usanza giudaica raccomanda lo studio della Torâh durante la notte, quando il silenzio ed il riposo da qualsiasi attività fisica favoriscono la meditazione? L’evangelista Giovanni ha già presentato nel Prologo al suo vangelo il contrasto fra la Luce, venuta nel mondo, e le tenebre dell’ignoranza e del peccato (1,5.7-9), per cui è ipotizzabile che la “notte” non sia interpretata dall’evangelista in senso strettamente temporale, ma anche e soprattutto in senso spirituale. Il IV Vangelo è ricco di doppi sensi e la presente pericope ne è un esempio tra i più classici.

Rivolgendosi a Gesù, Nicodemo viene “dalla notte verso la Luce”, ormai presente nel mondo (3,19), pronto ad accogliere la novità della salvezza con coraggio e disponibilità, qualità psicologiche che egli saprà mettere in mostra quando prenderà apertamente le difese di Gesù, in un contesto di aperta ostilità nei confronti del Maestro galileo (7,50-52) e quando richiederà a Pilato il cadavere di Gesù per dare degna sepoltura (19, 39-40) ad un Uomo profondamente buono e stimato, ma condannato a morte mediante l’infame patibolo degli assassini, dei traditori e degli schiavi. Compiendo questo gesto di pietà, Nicodemo sa benissimo di esporsi alla riprovazione ed al disprezzo dei farisei, gruppo sociale al quale egli appartiene e del quale è un membro assai autorevole e stimato.

Come Giovanni Battista aveva cercato lo Sconosciuto, non avendo ancora identificato il Messia (1, 25-27), allo stesso modo Nicodemo cerca Dio nella notte, non avendo ancora riconosciuto in Gesù la Luce.


2 [Nicodemo] gli disse: “Rabbì, noi sappiamo che sei venuto da parte di Dio come maestro. Nessuno infatti può fare i segni che tu fai se Dio non è con lui”.

Nicodemo, colpito dai segni clamorosi compiuti da Gesù, consulta direttamente il “maestro venuto da parte di Dio” non certo per semplice curiosità, bensì spinto da un profondo senso di inquietudine religiosa. Da buon giudeo egli si augura di poter conoscere da vicino un Uomo che ha un rapporto privilegiato con Dio. Nicodemo non si rivolge a Gesù in modo saccente od arrogante; egli fa una constatazione ovvia ma ricca di sottintesi: chi compie miracoli non può “venire” che da Dio. La domanda rimane indiretta ed inespressa, quasi sospesa nel timore di ricevere una risposta deludente: “Sei tu il Profeta che deve venire?”. Anche la risposta di Gesù è elusiva e, soprattutto, inaspettata.


3 Gesù rispose e gli disse: “In verità, in verità ti dico: se uno non è generato dall’alto, non può vedere il regno di Dio”.

A Nicodemo, fondamentalmente convinto che Gesù venga da parte di Dio e che Dio sia con lui, Gesù risponde in modo solenne (il duplice Amen) spostando l’attenzione sulla condizione necessaria ad ogni uomo per salvarsi: rinascere dall’alto (ànothen). L’avverbio greco ànothen può anche significare “di nuovo” ed è cosi che lo intende Nicodemo, equivocando il senso delle parole di Gesù. Questo è uno dei tanti esempi di “doppio senso” utilizzati dall’evangelista per uno scopo preciso: usando vocaboli a “doppio significato”, Giovanni crea le condizioni del “malinteso” da cui scaturisce la necessità di una spiegazione, con conseguente approfondimento del messaggio di Gesù. Nel testo greco il verbo, tradotto opportunamente con “…è generato”, è formulato nella forma passiva per rilevare che la nascita di un essere umano è essenzialmente opera di Dio: per diventare figlio di Dio, l’uomo deve essere generato da Dio (1,12-13).

Che cosa significa “essere generati dall’alto”? Se l’uomo vuole partecipare alla vita eterna deve ricevere da Dio il dono della sua stessa vita. In virtù di questo dono, l’uomo diviene “figlio nel Figlio” (Rm 8,29) per libera iniziativa di Dio stesso.

L’espressione “regno di Dio”, molto frequente nei Sinottici, è usata da Giovanni solo in questo passo del suo vangelo e significa “vita eterna”, cioè la vita divina che si espande quando “Dio regna”. Ne consegue che “vedere il regno di Dio “ (3,5) equivalga ad “entrare nel regno di Dio” o ad “entrare nella vita eterna” (Mt 7,21; 18,3.8s; 19,16-25), dove la vita è un esistere con Dio ed in Dio (3,36).


4 Nicodemo gli dice: “Come può essere generato un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre ed essere generato?”.

Gesù pensava “dall’alto” (ànothen), Nicodemo comprende “di nuovo” (dèuteron), il che non è del tutto sbagliato, anche se questa prospettiva non rende giustizia alla dimensione celeste della parola di Gesù. Infatti, dal suo punto di vista Nicodemo ha ragione di ritenere che sia impossibile per l’uomo nascere una seconda volta e, non senza umorismo, sottolinea l'assurdità di un vecchio che rientra nel seno della madre! L’ironia di Nicodemo non è segno di ottusità mentale, ma un modo tutto rabbinico di affrontare una disputa teologica; egli si aspetta da Gesù un’ulteriore spiegazione, un maggior chiarimento del proprio pensiero.


5 Gesù rispose: “In verità, in verità ti dico: se uno non è generato da acqua e da Spirito non può entrare nel regno di Dio. 6 Ciò che è nato dalla carne è carne, ciò che è nato dallo Spirito è spirito. 7 Non meravigliarti se ti ho detto: voi dovete essere generati dall’alto”.

Il duplice “amen” (v.5) esprime ancora una volta l’autorità della parola di Gesù e l’importanza di ciò che sta per dire. L’avverbio “dall’alto” viene ora chiarito con una perifrasi: “da acqua e da Spirito”. A Nicodemo non possono sfuggire le parole profetiche di Ezechiele: “Io verserò su di voi un’acqua pura… metterò in voi uno Spirito nuovo… Metterò in voi il mio Spirito” (Ez 36, 25-27). Se i profeti parlavano al futuro, Gesù sta, invece, parlando al presente e questo particolare non sfugge all’attento Nicodemo.

In Ezechiele l’associazione “acqua” e “Spirito” richiamava il versetto iniziale del racconto della creazione (Gen 1,2) ed alludeva ad una nuova creazione, pur non parlando esplicitamente di “rigenerazione”. Per Ezechiele lo Spirito che rinnoverà gli uomini è Dio stesso e tale rinnovamento, o “rinascita”, non riguarda principalmente il comportamento dell’uomo ma, piuttosto, il suo essere stesso. Secondo questa prospettiva, il comportamento (morale) dell’uomo è una conseguenza diretta del suo “essere”: se l’uomo rimane un “essere carnale” è soggetto alla debolezza ed alla corruttibilità propria della sua natura terrena; se, invece, si lascia rinnovare dallo Spirito, allora partecipa per sempre della vita di Dio perdendo la propria “carnalità” ed acquisendo una nuova dimensione “spirituale”, che non conosce la corruzione della morte. Senza l’intervento di Dio, l’uomo non può avere accesso alla “vita”.

Rivolgendosi a Nicodemo, Gesù passa improvvisamente dal “tu” al “voi” (“voi dovete rinascere dall’alto”, v. 7), quasi a porre l’accento sul distacco esistente tra gli uomini comuni e Gesù, il quale già “viene dall’alto”.


8 Il vento soffia dove vuole e tu senti la sua voce, ma non sai donde viene né dove va. Così è chiunque è nato dallo Spirito.

Secondo gli antichi, che ignoravano la meteorologia, le forze cosmiche evocavano i misteri divini. Il vento era considerato il respiro di Dio e, secondo i libri sapienziali, il fenomeno misterioso del vento suggeriva l’esistenza di realtà che sfuggono al dominio dell’uomo: “Come non conosci le vie del vento… così non puoi conoscere l’opera di Dio che dirige tutto” (Qo 11,5). Ancora: “La tempesta sfugge all’occhio dell’uomo e la maggior parte delle opere di Dio sono nascoste” (Sir 16,21). Per l’uomo esistono misteri celesti, che sono e restano fuori dalla sua portata e dalla sua comprensione. Il vento è imprevedibile e misterioso, poiché se ne coglie la presenza tramite il rumore (“la voce”) ma sfugge alla presa e non può essere posseduto e dominato: così è lo Spirito, così è Gesù che, per Nicodemo, rimane un essere avvolto nel “mistero”.

 

9 Nicodemo rispose e gli disse: “ Come può avvenire questo?”. 10 Gesù rispose e gli disse: “Tu sei maestro in Israele e non lo sai? 11 In verità, in verità ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto, ma voi non accogliete la nostra testimonianza!”.

Nicodemo ha già avuto una prima risposta da Gesù: la rinascita è di natura spirituale e ciò che è impossibile per l’uomo è, invece, possibile a Dio che è Spirito. Un dubbio, però, lo arrovella: come è possibile che l’uomo sia radicalmente rinnovato da Dio? La risposta dovrebbe svelare il mistero dell’azione divina. Il rimprovero di Gesù non è immotivato perché un esperto della Scrittura come Nicodemo dovrebbe ricordare quanto avevano percepito i profeti di Israele: alla venuta del Messia, alla fine dei tempi, lo Spirito creatore avrebbe rinnovato tutte le cose e sarebbe stato effuso nei cuori (Ger 31; Ez 36,25-27; Sal 87). Nicodemo, che aveva riconosciuto in Gesù, operatore di miracoli, un’autorità celeste (v.2), come poteva non riconoscere il Messia in quest’uomo, che osava introdurre le affermazioni con dei solenni “amen” e che si tirava fuori della comune condizione umana (“voi dovete…”)?!

Gesù riprende il discorso, che d’ora in poi diventa un monologo, con un perentorio “noi” (… “parliamo… sappiamo… testimoniamo… abbiamo veduto…”) che sembra fare il verso, con un velo di ironia, al “noi sappiamo” di Nicodemo (3,2). All’ortodossia giudaica, rappresentata da Nicodemo, si contrappone l’ortodossia cristiana ed in ciò si riconosce il contrasto tra le due comunità, giudaica e cristiana, assai drammatica al tempo in cui venne composto il vangelo di Giovanni.

Gesù non fa appello ai suoi miracoli per indurre Nicodemo ad avere fede in lui, ma gli prospetta il valore assoluto della propria “testimonianza” diretta del Padre, che Gesù “vede” dall’eternità (Nb: in greco il verbo eoràkamen, tradotto in italiano con “abbiamo veduto”, è un tempo perfetto che rende presente ed attuale un’azione iniziata nel passato e non ancora conclusa). Gesù mette in gioco la propria credibilità; poiché una testimonianza non è provata da una dimostrazione, essa viene accettata o respinta secondo la fiducia che si ha nel testimone e Gesù sa che molti, in Israele, esitano a credere nella sua rivelazione (“voi non accogliete…”).


12 Se non credete quando vi ho detto cose terrestri, come crederete se vi dirò cose celesti?”.

Le parole di Gesù riecheggiano le parole della Scrittura: “ A stento indoviniamo le cose terrene, ma chi potrà scoprire le cose celesti?” (Sap 9,16). La difficoltà per Israele di accogliere ed aderire alla parola di Cristo si è dilatata nel tempo, al punto da creare inquietudine nell’evangelista Giovanni e suscitare più di un interrogativo nella sua comunità cristiana alla fine del I secolo d.C. A ben vedere, l’incredulità d’Israele, che dura tuttora, è motivo di riflessione anche per i cristiani d’oggi, ma fa pure riflettere l’incredulità sostanziale di tanti cristiani, i quali sono tali perché hanno ricevuto il battesimo ma hanno voltato le spalle a Cristo perché incapaci di compiere una scelta di fede sincera, matura e consapevole nel Figlio di Dio.

A cosa si riferisce Gesù quando parla di “cose terrestri” e di “cose celesti”? Egli si riferisce ai due differenti livelli di rivelazione, che hanno accompagnato la storia di fede del popolo eletto: il primo livello è quello rappresentato dalla Legge mosaica e dal contenuto dell’Antico Testamento; il secondo livello è quello relativo alla presenza carnale di Dio sulla terra, avvenuta nella persona di Gesù, al fine di riscattare l’umanità mediante l’effusione del proprio sangue sulla croce. Se Nicodemo fa fatica a comprendere il contenuto della Sacra Scrittura, come farà ad accettare ed a comprendere il mistero di un Dio che si fa uomo per salvare gli uomini morendo su una croce?

Il silenzio di Nicodemo, che non risponde alla domanda inquietante di Gesù, cala pesante come la notte in cui si svolge l’incontro tra il dotto fariseo ed il divino Maestro. Nel silenzio della notte e del dubbio, la figura di Nicodemo si dissolve per lasciare il posto alla Parola di Dio incarnata.


13 Sì! Nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. 14 E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell’Uomo, 15 affinché chiunque crede abbia mediante lui la vita eterna.

Con un espressivo e deciso “” Gesù sta per annunciare a Nicodemo e, attraverso lui, all’intero Israele ed a tutti gli uomini, le “cose celesti” promesse poco prima. Gesù può farlo perché è il Figlio dell’Uomo, il Messia inviato da Dio, il “luogo” privilegiato in cui Dio si rivela agli uomini. L’autorità di Gesù gli deriva dalla sua provenienza “dal cielo”; esprimendosi umanamente Egli, pur essendo Dio, può essere veduto ed ascoltato.

Nessuno mai, dice Gesù, è potuto salire al cielo per portarne sulla terra i segreti (cf. Dt 30,12; Pr 30,4; Bar 3,29; Sap 9,16-18); solo lui, che dall’eternità era presso il Padre (1,1), è disceso sulla terra per rivelare l’Amore del Padre per gli uomini e, per fare questo, il Figlio dell’uomo deve essere “innalzato” come il serpente di bronzo, che Mosè innalzò nel deserto per salvare dalla morte coloro che erano stati morsi dai serpenti. In questo modo Gesù annunzia il valore salvifico della sua morte sulla croce, che sarà seguita dalla risurrezione gloriosa. Secondo una valutazione umana, superficiale e parziale, la croce è intesa come uno strumento di sofferenza e d’umiliazione, ma dal punto di vista di Dio la croce è l’inizio della “gloria” escatologica del suo Cristo (8,28; 12,32). Il tema dell’umiliazione (discesa) e della successiva glorificazione (ascesa) ricorre più volte nella Sacra Scrittura, percorsa dalla profezia di Isaia sul “Servo sofferente di YHWH” (52,13). Negli scritti paolini troviamo un inno cristologico, che ripresenta in modo esemplare il percorso della salvezza progettato da Dio: il Figlio di Dio si è spogliato della sua natura divina per assumere la natura umana, umiliandosi fino alla morte di croce per poi assurgere alla gloria della pienezza della propria divinità, davanti alla quale l’intera umanità passata, presente e futura non può che “piegare le ginocchia” in atteggiamento d’adorazione perenne del mistero dell’incarnazione e della redenzione (Fil 2,6-11).


16 Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo unico, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. 17 Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18 Chi crede in lui non viene giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome del figlio unico di Dio.

Gesù svela a Nicodemo ed agli uomini tutti il progetto salvifico universale del Padre, realizzabile solo nei credenti. Dio si trova all’origine del movimento di salvezza, che scaturisce dal suo insondabile ed infinito amore per l’uomo. Al cuore della salvezza, specie del ruolo svolto dal “Figlio unico” nel suo cammino verso la croce, si trova Dio che ama il mondo, cioè l’intera umanità. Non c’è rapporto di reciprocità: Dio ama l’uomo a prescindere dalla risposta d’amore che l’uomo può offrire a Dio. Dio ama in modo assoluto ed il suo amore ha come progetto esclusivamente la salvezza e la vita dell'uomo e, per questo, non ha esitato a consegnare al sacrificio estremo il proprio Figlio unigenito, donandolo per la nostra salvezza (Rm 8,22). Lo scopo ultimo del progetto salvifico del Padre è la salvezza eterna, donata gratuitamente all’uomo tramite il Figlio. Dal progetto, quindi, viene esclusa la condanna (giudizio) precostituita dell’uomo alla “morte eterna”, purché l’uomo accetti, senza condizioni, il dono della salvezza manifestando la propria adesione di fede al progetto salvifico del Padre. Non è tanto Dio a condannare l’uomo, ma l’uomo stesso che, non credendo all’amore salvifico di Dio, si autoesclude dalla vita eterna.

L’incontro con Gesù determina necessariamente una scelta, una decisione (krìsis) inevitabile. Non c’è bisogno di aspettare il “giudizio universale” per essere collocati tra coloro che saranno posti “alla destra” (i salvati) od “alla sinistra” (i dannati) di Cristo giusto Giudice: il giudizio è già presente ora, nell’incontro quotidiano con Gesù. La vita e la morte dipendono dalla fede in Cristo Gesù e sono determinate dall’adesione o meno alla Legge di Dio, luce e guida dell’uomo (Sal 119,105; 18, 29; Pr 6,23). La fedeltà ai precetti, rivelati da Dio, è la via mediante la quale l’uomo può raggiungere una pienezza che egli non possiede e realizzare il suo profondo desiderio di “vita”. Sottrarsi a questa Legge significa scegliere la morte, dal momento che la Legge di Dio è Cristo in persona (cf. anche Dt 30,15-19).

Nella venuta del Figlio in questo mondo, nel suo messaggio e nel suo itinerario verso la croce, si è rivelato l’amore stesso di Dio; in Gesù si è reso visibile il desiderio di Dio di salvare il mondo intero, riscattandolo dalla tragedia del peccato. Nel mondo dell’Antico Testamento la salvezza era incentrata sulla decisione libera e personale dell’uomo, sull’osservanza scrupolosa di una serie di precetti e sulla soddisfazione delle esigenze proprie del culto da rendere a Dio. Nella prospettiva del Nuovo Testamento, fatta salva la libera scelta dell’uomo, il fulcro della salvezza è Cristo, il quale esige che si abbia fede in Lui, l’amore di Dio rivelato.


19 Ora il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più la tenebra che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20 Chiunque infatti fa il male odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano smascherate. 21 Colui invece che fa la verità viene alla luce affinché si riveli che le sue opere sono fatte in Dio.

L’evangelista riprende il tema del conflitto fra luce (vale a dire Gesù, il Lògos, ossia la Parola di Dio) e tenebre (cioè il male, il peccato di cui Satana è la personificazione) già trattato nel Prologo al IV Vangelo (1,4-5.8-12). Fermo restando che l’azione salvifica di Dio avviene indipendentemente dalle buone opere che l’uomo può compiere, rimane da capire a quali “opere”, buone o malvagie che siano, faccia riferimento l’evangelista.

Per l’autore del IV Vangelo l’opzione religiosa fondamentale (opera) è l’accoglienza od il rifiuto del Figlio di Dio. L’opera fondamentale è, quindi, la fede. Ne consegue che chi compie malvagità difficilmente sa orientare la propria scelta di vita alla fede, cioè alla piena adesione al progetto salvifico di Dio; al contrario, chi compie opere buone, cioè si attiene alla Legge divina come scelta e norma di vita, è già orientato verso la fede in Cristo salvatore. La scelta da parte dell’uomo è e rimane sempre libera e personale.

Ogni uomo in questo mondo si imbatte nella rivelazione e, anche se interviene un influsso divino o tenebroso (diabolico), spetta all’uomo, in definitiva, scegliere ed accettare l’influsso di Dio o di Satana in virtù della propria suprema libertà. Non sempre l’uomo malvagio agisce allo scoperto; anzi, il più delle volte agisce nell’ombra per non svelare le sue azioni e le sue intenzioni malvagie; i “figli della luce”, invece, non hanno timore di lasciare trasparire le loro rette intenzioni e le loro buone azioni, anche se ciò comporta spesso essere bersaglio dei malvagi.

Fin dalla creazione l’uomo è invitato a vivere nella luce aprendosi alla fede libera e responsabile nel Figlio unigenito di Dio Padre. Quando l’uomo crede in Gesù, avviene la sua “rinascita” per opera dello Spirito Santo, che lo inserisce di diritto nella pienezza di vita dei “figli di Dio”.


Gesù e la samaritana

(Gv 4,5-42)


Dopo averci fatto conoscere Nicodemo, esemplare figura di uomo di fede, ben inserito nell’establishment politico, culturale e religioso di Israele e ben disposto a mettere in discussione se stesso e la propria fede pur di trovare la retta via della salvezza, l’evangelista Giovanni pone, ora, alla nostra attenzione un’altra figura altrettanto esemplare. Si tratta, questa volta, di una donna appartenente ad un’identità etnica, culturale e religiosa diversa da quella israelitica, seppure lontana parente di questa. È inevitabile premettere alcune considerazioni di carattere generale all’analisi della pericope in esame.

Dopo la morte del grande re Salomone, architetto e costruttore del maestoso Tempio di Gerusalemme, il regno di Israele non aveva retto ai dissidi interni e si era diviso in due regni: il Regno del Nord, detto anche Regno di Israele o di Samaria, retto da Geroboamo ed il Regno del Sud, noto come Regno di Giuda, retto da Roboamo, erede legittimo di Salomone. Nel racconto biblico le vicende dei due regni vengono narrate in modo parallelo e, pur subendo entrambi una sorte simile, tuttavia emerge un disegno divino differente riguardante le due entità politiche e religiose. Il Regno del Nord, economicamente e militarmente più forte, abbandonò poco per volta la fede in YHWH ereditata dai Padri e si dedicò sempre più a pratiche idolatriche assimilate dai vicini popoli cananei. Come risultato di alleanze politiche e militari poco avvedute, il Regno d’Israele cessò di esistere verso il 721 a.C. per mano degli assiri, i quali avevano la pessima abitudine di deportare in massa le popolazioni sconfitte in guerra, sconvolgendo abitudini di vita e strutture economiche consolidate e sradicando completamente dal loro habitat naturale intere culture. È una triste abitudine di sopraffazione e di disprezzo dei vinti che, nel corso della storia, anche recente, si è ripetuta numerose volte! Gli israeliti autoctoni furono deportati in terre lontane mentre nei territori dell’ex Regno di Samaria furono innestate popolazioni di diversa provenienza etnico – religiosa. Così, nella regione della Samaria andò formandosi una nuova entità religiosa, frutto di un sincretismo fra l’antica fede in YHWH, conservata dai pochi superstiti israeliti scampati alla deportazione perché non appartenenti all’élite politica, militare ed economica del Regno di Samaria e le nuove realtà religiose, importate con la forza dal vincitore assiro.

Il Regno di Giuda subì una sorte simile, ma la sua agonia politica durò più a lungo. Sul trono di Giuda si succedettero per lo più re iniqui od incapaci e solo pochi furono i re capaci di distinguersi per rettitudine morale e religiosa, come Ezechia e Giosia; quest’ultimo fu autore di una vigorosa riforma religiosa e cultuale, interrottasi per il precipitare degli eventi politici e militari. Il piccolo Regno di Giuda era stretto fra le due superpotenze del tempo: l’Egitto a sud ed il Regno di Babilonia a nord. Nello scontro militare fra i due colossi fu il Regno di Giuda a rimetterci le penne. Nel 586 a.C. il re babilonese Nabucodonosor conquistò Gerusalemme, ne distrusse il famoso Tempio e ne deportò gran parte della popolazione a Babilonia. Ma Dio aveva un progetto diverso da quello interpretato dagli uomini. Da Giuda doveva scaturire la salvezza per il popolo ebraico e per tutta l’umanità, legata alla venuta del Messia. Dopo un sessantennio, gli ebrei deportati a Babilonia poterono ritornare in patria, grazie ad un editto di liberazione emanato dal vincitore dei babilonesi, il persiano Ciro il Grande. Ritornati a casa, gli ebrei ricostruirono il loro Tempio a Gerusalemme e ripristinarono l’antico culto, trovando nell’identità religiosa (il giudaismo) il supporto per una sempre più forte identità culturale, capace di resistere alle successive bufere della storia. Alessandro Magno, i suoi successori ed i romani non furono capaci di estirpare dalla terra la fede degli ebrei nel Dio dell’Antico Testamento. Quando giunse la “pienezza del tempo” (Gal 4,4) la Parola di Dio si compì incarnandosi in Gesù di Nazareth (Gv1,14), realizzando le attese e le promesse degli antichi profeti d’Israele.

All’epoca di Gesù, la Samaria era una regione “odiata” dai giudei perché abitata da eretici, che avevano stravolto la vera fede in YHWH. L’odio dei giudei era cordialmente ricambiato dai samaritani e tra le due popolazioni c’erano continue tensioni ed azioni di disturbo. In questo conteso storico si inserisce il racconto giovanneo dell’incontro fra Gesù e colei che, per i giudei, interpreta il massimo dell’indecenza morale e cultuale, poiché è samaritana, è donna ed è una pubblica peccatrice! Questi tre elementi, che rendono estremamente “sconveniente” l’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Sicàr, emergeranno durante il racconto e se ne analizzeranno i risvolti esegetici e storico - culturali.


4,5 Egli giunge dunque ad una città della Samaria, chiamata Sicàr, vicino al podere che Giacobbe aveva donato a suo figlio Giuseppe. 6 Là si trovava la sorgente di Giacobbe. Gesù, dunque, affaticato com’era dal viaggio, si era seduto accanto alla sorgente. Era circa l’ora sesta. 7 Una donna di Samaria viene ad attingere acqua. Gesù le dice: “Dammi da bere”. 8 I discepoli infatti se n’erano andati in città a comperare da mangiare.

L’evangelista non si sofferma troppo sulla cittadina di Sicàr, ma sul pozzo di Giacobbe, situato presso il podere dove il patriarca fu sepolto. Sicàr, forse l’attuale Askar, si trovava ai piedi del monte Ebal ed aveva preso il posto della cittadina di Sìchem, distrutta nel 128 e nel 107 a.C., ricostruita dopo il 72 d.C. col nome di Flavia Neàpolis (l’attuale Nablus). Circa il luogo di sepoltura del patriarca Giacobbe, anche le notizie rintracciabili nel testo sacro non sono del tutto concordi. Il patriarca avrebbe acquistato un appezzamento di terra a Sìchem (Gen 33,19; At 7,15ss) ma sarebbe stato sepolto a Hebron (Gen 49,30; 50,13) mentre fu Giuseppe ad essere sepolto a Sìchem (Gs 24,32). Secondo l’opinione della samaritana (v.12), il pozzo fu donato da Giacobbe ai samaritani, ma l’Antico Testamento afferma solo che Giacobbe, in punto di morte, donò la città di Sìchem al figlio Giuseppe (Gen 33,19; 48,21ss; Gs 24,32; cf. anche Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XI, 341). L’evangelista usa il vocabolo greco peghé, cioè sorgente, non fréar (pozzo), forse per preparare l’annuncio della sorgente che disseta per sempre, ma in realtà, sia in questa pericope giovannea (4,6.11s.14) che nell’Antico Testamento i due termini si alternano assumendo identico significato (troviamo “pozzo” in Gen 24,11.20 e “sorgente” in Gen 24,13.16.29.30.42.43.45). L’uso del termine “sorgente” potrebbe anche evocare un miracolo compiuto da Giacobbe: una leggenda rabbinica raccontava che il patriarca aveva fatto salire l’acqua dal pozzo fino a farla traboccare in abbondanza. Sullo sfondo del racconto di Giovanni vi sono, probabilmente, diverse tradizioni su Giacobbe, conosciute dai lettori contemporanei dell’evangelista.

Perché il dialogo si svolge presso un pozzo? In una regione in cui l’acqua scarseggiava, i pozzi di acqua sorgiva erano luoghi privilegiati di incontro, di conflitti e di riconciliazioni (Gen 21,25; 26,15-22), ma anche di antichi ricordi. Presso un pozzo Mosè aveva incontrato le figlie di Raguele e si erano preparate le nozze di Isacco e di Giacobbe. Il racconto giovanneo presenta chiari riferimenti e punti di contatto con il racconto - prototipo degli incontri presso il pozzo (Gen 24): appena lo straniero ha finito di parlare, Rebecca rientra di corsa in casa e dice ai suoi “Ecco come quest’uomo mi ha parlato”; la samaritana si comporta allo stesso modo (Es 2,15-20; Gen 24,10-30; 29,12; Gv 4,28ss).

Queste semplici considerazioni lasciano intendere che Giovanni abbia seguito un canovaccio letterario piuttosto consolidato dalla tradizione biblica per focalizzare l’attenzione sul tema del dialogo che, fra poco, si svilupperà tra Gesù e la donna di Samaria.

Gesù arriva nella cittadina di Sicàr, stanco ed assetato, sul far del mezzogiorno (ora sesta) e si siede accanto al pozzo. Non c’è nulla da mangiare ed i discepoli si allontanano in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. In quel mentre, una donna si avvicina al pozzo per attingere acqua e la cosa è alquanto strana; l’orario è inusuale, com’è insolito che una donna si rechi al pozzo del villaggio da sola e non in compagnia con altre donne. Il seguito del racconto ce ne farà comprendere il motivo.

Rappresentando Gesù seduto sull’orlo del pozzo, il narratore suggerisce una sorta di continuità fra la sua presenza e la passata esperienza di Israele: proprio presso il pozzo del patriarca la donna scoprirà, tra breve, la Sorgente che spegne per sempre la sete e, ancora lì, Gesù affermerà che la salvezza proviene dai giudei.

L’ora del mezzogiorno, anormale per attingere l’acqua ma più che normale per giustificare la sete di Gesù, è considerata da alcuni autori l’ora ideale della contemplazione. Salta subito all’occhio il contrasto tra la visita notturna di Nicodemo e l’incontro della samaritana con Gesù alla luce piena del sole. Il primo rimane avvolto dalle tenebre del dubbio e dell’incertezza e farà fatica a vincere i propri pregiudizi e schierarsi dalla parte di Gesù; la seconda, invece, resterà quasi subito colpita dal mistero presente in quel giudeo che le chiede da bere ed in lui scorgerà ben presto il Messia (4,29).

Una donna di Samaria viene ad attingere acqua. Il racconto la presenta come una persona che ha alle spalle una storia complicata e delle reazioni personali molto vivaci, ma ella rappresenta il popolo dei samaritani, di cui riflette la mentalità religiosa. Al di là del dato concreto contingente, come la necessità di attingere acqua per uso personale, la sua venuta al pozzo del patriarca Giacobbe significa che i samaritani hanno sete di qualcosa. La donna porta dentro di sé un’attesa profonda, come rivelano le sue affermazioni a proposito del luogo di culto e del Messia che verrà “a svelare tutto” (4,25). Gesù la guiderà per mano in questa ricerca interiore, che è un’esigenza avvertita da un popolo intero.

Il dialogo tra Gesù e la samaritana comincia per iniziativa del Maestro, come succede quasi sempre nel IV Vangelo, secondo una collaudata tecnica letterario – teologica propria di Giovanni; Gesù si rivolge al suo interlocutore e ne provoca la reazione. Il dialogo culminerà nell’affermazione di Gesù: “Sono io [il Messia], colui che ti parla”.

Struttura del dialogo:

  1. vv.7-15: due domande di Gesù (vv.7 e 10) provocano lo stupore della donna (vv.9 e 11-12). Ne scaturisce una prima rivelazione sull’acqua viva (vv.13-14), che porta alla domanda dell’acqua annunciata;

  2. vv.16-25: due domande di Gesù (vv.16 e 17-18) conducono la donna al riconoscimento del profeta (vv.19-20) ed alla scoperta dell’adorazione del Padre (vv.21-24). Da una domanda implicita (v.25) scaturisce la maestosa auto - proclamazione del Messia (v.26);


7 Una donna di Samaria viene ad attingere acqua. Gesù le dice: “Dammi da bere!” […] 9 Gli dice dunque la donna samaritana: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I giudei, infatti, non si servono di oggetti in comune con i samaritani.

Da queste poche righe si possono trarre diversi spunti di riflessione: 1) Gesù “ha sete”; 2) la richiesta di un po’ d’acqua è rivolta, in modo poco conveniente, da un “uomo” ad una “donna”; 3) colmo dei colmi, è un “uomo giudeo” che chiede un favore ad una “donna samaritana”. Come Uomo, Gesù non sta alle regole convenzionali che gli esseri umani si danno, creando palizzate d’incomprensione tra loro.

Gesù ha sete”. Come un qualunque uomo assetato, Gesù chiede da bere assicurandosi l’esistenza (cf. Mt 6,31-32 ss; 24,38ss), uno dei diritti fondamentali ed inviolabili dell’uomo e che l’uomo viola con estrema facilità. Chiedendo da bere, Gesù usa un’espressione “biblica” che ricorda le mormorazioni degli ebrei assetati durante la marcia nel Sinai, al seguito di Mosè (Es 17,2; Nm 21,16; cf. anche Nm 20,8; Ne 9,20; Sap 11, 4.7; Is 43,20). È facile intuire che l’evangelista abbia inteso invitare i lettori a vedere in Gesù non solo colui che ha assunto la natura umana nelle sue esigenze vitali, ma lo stesso Israele che, nel deserto, ha chiesto a Dio da bere interpellandolo nella persona del suo mediatore. Gesù, nuovo Israele, sperimenta la sete del suo popolo, una sete che non è solo materiale ma anche spirituale (cf. Am 8,11; Sal 42,2-3; Is 49,10; 43,20; 41,18). Non si può neppure dimenticare il grido di Gesù sulla croce: ”Ho sete!” (Gv 19,28); la sete di Gesù trascende le circostanze materiali (il solleone, la croce) ed esprime il “bisogno” di Dio di salvare l’uomo ad ogni costo. Solo salvandosi dall’eterna perdizione l’uomo può soddisfare la “sete” di Dio.

Nella società ebraica del tempo, le regole del buon comportamento limitavano molto i contatti tra il mondo maschile e quello femminile al di fuori delle mura domestiche. La donna si trovava in posizione assai subalterna rispetto all’uomo, acquistando valore solo nell’ambito della maternità. La sterilità era la sciagura più grande che potesse capitare ad una coppia di sposi ed il tema della gravidanza prodigiosa di una donna in età avanzata (in menopausa, diremmo noi oggi) ricorre con frequenza nella Bibbia, ad indicare l’intervento diretto di Dio per suscitare da situazioni assolutamente negative, come una sterilità senza più rimedio, uomini di grande importanza per l’economia della salvezza (Gen 18,9-14;21,1-3; Gdc 13,2-3.24; 1Sam 1,5.11.20-23; cf. anche Lc 1,36.57-58). Dal punto di vista sociale e giuridico, la donna era una persona di scarso valore, al punto che in sede giudiziaria non veniva nemmeno presa in considerazione la sua testimonianza (Dt 19,15-19). Se in età da marito, la donna era utile per combinare un matrimonio d’interesse e rischiava la pelle se non era trovata vergine dal promesso sposo; una volta sposata, la donna apparteneva al clan familiare del marito e, se diventava vedova, doveva risposarsi con un cognato secondo la legge del levirato (Dt 25,5-10). In caso contrario, la donna rimaneva priva di quella protezione sociale garantitale da un marito non potendo far ritorno alla famiglia d’origine; le divorziate non avevano miglior sorte e, in caso di flagrante adulterio, la pena capitale mediante lapidazione prevista per gli adulteri (Dt 22,22-29) veniva più facilmente applicata alla donna che all’uomo. Anche una donna dalla condotta morale integerrima veniva, in qualche modo, discriminata, se non altro dal punto di vista cultuale per la ricorrente “impurità” determinata dal ciclo mestruale piuttosto che dal periodo post – partum o puerperio (Lv 12; 15,19-30). Il peso specifico della donna nella società ebraica al tempo di Gesù era tutt’altro che rilevante. Quando i discepoli di Gesù fanno ritorno al pozzo di Sicàr con le provviste acquistate nel villaggio e vi trovano il Maestro in amabile conversare con una donna del posto, loro due soli, si scandalizzano non poco (4,27).

A Gesù che le parla trattandola alla pari, incurante delle convenzioni sociali e religiose, la donna risponde manifestando tutto il suo stupore: questo incredibile giudeo “osa” trasgredire il più fondamentale degli interdetti sociali e rituali che separano giudei e samaritani, mettendoli gli uni contro gli altri in una sorta di “guerra fredda” ante litteram! La convenienza imporrebbe che Gesù non attraversi nemmeno l’impura Samaria, figurarsi vederlo fermo ad un pozzo e chiedere ad una donna “eretica” di dargli dell’acqua usando strumenti altrettanto impuri (“i giudei… non si servono di oggetti in comune con i samaritani). La frattura tra la comunità giudaica e samaritana è così profonda che persino la donna di Sicàr rimane, quantomeno, perplessa di fronte ad una semplice richiesta d’aiuto da parte di quel giudeo, incurante delle elementari regole di un “odio razziale” allo stato puro!

Con la sua replica immediata al perentorio ordine di Gesù (“Dammi da bere!), la samaritana mostra di accettare il dialogo, nonostante la sua perplessità e, con molta intelligenza, pone l’accento non sul favore che Gesù le ha chiesto in modo molto diretto e senza preamboli, bensì sul rapporto personale che viene sottinteso dal favore stesso: “Tu… a me…?”. Pur riconoscendo implicitamente la sua condizione di “giudeo”, Gesù non dà dirette spiegazioni sul proprio comportamento ma riprende l’iniziativa, rispondendo solo indirettamente alla domanda della donna (“Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me…?) con un discorso di rivelazione, che la condurrà molto lontano dai limitati ed angusti confini di un conflitto razziale e religioso, privo di senso come lo sono tutti i contrasti che gli uomini si “inventano” in ogni epoca storica per affermare un proprio egoistico interesse personale.


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04/06/2010 18:21
 
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Il Vangelo di Giovanni

10 Gesù rispose e le disse: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice «Dammi da bere», tu stessa l’avresti pregato ed egli ti avrebbe dato acqua viva.

Gesù, questo sorprendente giudeo che esce dagli schemi usuali dei rapporti interumani, apre la mente ed il cuore della donna di Samaria, proiettandola verso orizzonti intellettuali e spirituali impensati, dove non è di casa l’opposizione etnica, culturale e religiosa e dove, per contro, tutto è incentrato sul “dono di Dio”, vale a dire sullo stesso Cristo Signore che trascende ogni meschina discriminazione umana. Se la samaritana conoscesse questo dono e colui che glielo offre, se sapesse identificare il dono con l’offerente, ella stessa gli chiederebbe l’acqua viva e vivificante capace di estinguere ogni sete di conoscenza, di amore e di eternità che ogni essere umano porta dentro di sé ed a motivo del quale avverte quell’inquietudine, che lo spinge alla continua ricerca dell’Infinito e dell’Eterno senza accorgersi, spesso, che Dio è proprio lì, a portata di mano (o di coscienza), Lui che è “più intimo di noi stessi” come afferma s. Agostino nelle sue Confessioni (III,6).

Da questo momento e fino al v.16 il dialogo procede sul filo del simbolismo dell’acqua viva, che risponde al tema iniziale della sete sollevato da Gesù stesso. Gesù ha sete, sì, ma della sete di quella donna, il cui desiderio di acqua viva può essere soddisfatta solo dal Figlio di Dio che si trova di fronte a lei. Del resto, come tra poco dirà Gesù, è lo stesso Padre suo che “cerca” adoratori autentici, capaci di adorarlo in spirito e verità (4,23). L’acqua, di cui parla Gesù, è notevolmente migliore di quella che la samaritana è venuta ad attingere e di cui il misterioso viandante sembra aver bisogno per placare la propria sete. La donna viene inizialmente tratta in inganno dall’aggettivo usato da Gesù per qualificare l’acqua, di cui vuole fare dono alla sua interlocutrice; l’acqua del pozzo non è forse anch’essa “viva”, dal momento che si tratta di acqua sorgiva? Che genere d’acqua “viva” è quella di cui parla il giudeo? Tra l’acqua del pozzo scavato dal patriarca Giacobbe e l’acqua, di cui fa cenno Gesù, c’è un abisso come quello che separa il cielo dalla terra. Com’è già avvenuto con Nicodemo, Gesù cerca di elevare la samaritana verso le “cose celesti” (3,12).


11Gli dice la donna: “Signore, non hai neppure un secchio ed il pozzo è profondo. Da dove hai dunque quest’acqua viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui, i suoi figli ed il suo bestiame?”.

La samaritana non è ancora in grado di comprendere dove Gesù stia cercando di condurla e colloca l’affermazione di Lui su un piano ancora puramente materiale, anche se la domanda “Da dove hai dunque quest’acqua viva?” rientra nella simbolica del testo giovanneo. Nel IV Vangelo, infatti, l’interrogazione “da dove?” è strettamente connessa al mistero di Gesù stesso (cf. 7,28; 8,14; 19,9). Il lettore sa già che l’acqua “viva”, che Gesù intende donare, è quella che scorrerà dal suo costato trafitto dalla lancia (19,34). Per ora, però, la samaritana scorge in Gesù soltanto un “uomo” come tanti, anche se un po’ strano, misterioso o, quanto meno, originale. Sarebbe forse costui più grande del patriarca Giacobbe? Assurdo! Senza saperlo, la samaritana stabilisce un parallelo tra Gesù e Giacobbe decretando, alla fine, la superiorità del primo sul secondo. Giovanni propone altrove dei confronti fra Gesù ed altri grandi padri del popolo eletto, come Mosè ed Abramo (1,17; 6,32; 8,53), col medesimo risultato: Gesù è il più grande di tutti!

Vedendo che Gesù non ha con sé alcuno strumento adatto per attingere l’acqua dal pozzo, la donna sembra quasi volerlo sfidare a compiere lo stesso prodigio operato da Giacobbe, stando almeno alla leggenda rabbinica cui si è fatto cenno per l’innanzi. L’espressione finale del v.12 (“ne bevve lui, i suoi figli ed il suo bestiame”) rimanda anche alla protesta veemente che gli ebrei assetati avevano rivolto al loro condottiero, il grande Mosè, durante la marcia nel deserto del Sinai (Es 17,3). Per essere paragonato ai grandi patriarchi del passato, Gesù dovrebbe compiere dei prodigi simili a quelli operati da loro. La samaritana dimostra un notevole senso dell’ironia e si rivela piuttosto perspicace. Gesù imprime al dialogo un direzione diversa da quella che la donna si potrebbe aspettare.


13 Gesù rispose e le disse: “Chiunque beve di quest’acqua avrà nuovamente sete, 14 ma chi berrà dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete; l’acqua che gli darò diverrà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”.

Gesù non risponde immediatamente sulla sua identità, ma mette a confronto l’acqua del pozzo di Giacobbe, incapace di placare per sempre la sete e l’acqua che darà Egli stesso, bevendo la quale non vi sarà mai più sete in eterno. Allo stesso modo Gesù contrapporrà la manna, mangiata dai padri nel deserto senza che fosse loro risparmiata la morte ed il pane vivo, donato da Gesù, in grado di dare la vita eterna (6,49ss). Se l’acqua che egli promette disseta per sempre (“eis tòn aiôna, ossia per l’eternità), allora Gesù è più grande di tutti i patriarchi del passato. Anzi, il suo dono implica che è giunto il tempo del compimento definitivo. Il profeta Ezechiele aveva previsto che, dopo la riunificazione degli israeliti dispersi, Dio avrebbe versato acqua pura per indicare la purificazione ed il rinnovamento dei cuori (Ez 36,25-27), ma Gesù promette molto di più: chi riceverà l’acqua da Lui donata, avrà in sé una sorgente “che zampilla per la vita eterna”. Fin da ora, cioè fin dal momento in cui l’uomo crede in Gesù, l’acqua ricevuta “diventa” vita eterna. Non c’è quindi bisogno di attendere la fine dei tempi per vedere realizzata la salvezza eterna sia personale sia comunitaria poiché essa trova compimento hic et nunc, qui e ora, quando la comunità ed ogni suo singolo membro professano, vivono e testimoniano la propria fede nel Figlio di Dio e nella potenza redentrice della sua morte in croce. Infatti, Dio “ha dato il Figlio suo affinché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna “ (3,16ss). Per quanto riguarda il termine “zampillare”, esso sembra fare riferimento alla leggenda giudaica del pozzo che “sale e trabocca” per dissetare gli ebrei assetati nel deserto (Nm 21,17). Se la sorgente di Gesù zampilla continuamente, allora può essere spenta la sete più profonda e più vera dell’uomo, cioè il suo desiderio d’essere partecipe della vita stessa di Dio. Nell’Antico Testamento l’acqua di sorgente simboleggia la vita, che nel caso dell’uomo viene fatta risalire e dipendere da Dio medesimo, per cui l’uomo non “esiste” soltanto ma il suo “essere” è teso verso un continuo sviluppo, pienamente e compiutamente realizzato nell’eternità stessa di Dio. La sete dell’uomo è la vita eterna in Dio e può essere placata “oggi” dall’acqua della Rivelazione; l’acqua promessa da Gesù è immagine dello Spirito Santo, datore di vita per l’eternità (7,39).


15 La donna gli dice: “Signore, dammi quest’acqua, affinché non abbia più sete e non debba più venire qui ad attingere”.

La samaritana non riesce ancora staccarsi dalla contingenza della realtà materiale ed equivoca le parole di Gesù. Sai che fortuna non dover più attingere quotidianamente l’acqua, evitando di recarsi al pozzo in orari scomodi per non incontrare la gente, pronta a giudicare il tuo operato ed a scansarti come se tu fossi un’appestata! Una cosa non sfugge alla donna, scaltra e dal cervello fino: Gesù le sta proponendo una soluzione personale “su misura”. Non le è ancora ben chiaro come, ma quell’uomo le sta prospettando un miglioramento delle sue difficili condizioni attuali di vita. Per la samaritana l’acqua è, essenzialmente, la sintesi ideale di tutte le necessità materiali o, tutt’al più, esprime il profondo bisogno di un riconoscimento sociale da parte di una cittadinanza, che tende ad emarginarla per la sua condotta morale poco accettabile anche da parte di coloro che hanno vedute spirituali ed etiche, per così dire, di “manica larga” ed assai poco conformi alle direttive della Legge consegnata da Dio al patriarca Mosè. Questo, almeno, è il giudizio espresso dai giudei nei confronti degli “odiati” cugini samaritani.

Secondo lo stile tipico dei dialoghi di Giovanni, la samaritana fraintende il senso delle parole di Gesù, ma a livello simbolico ella esprime il bisogno di verità presente in ogni essere umano. Anche il ruolo dei personaggi si è invertito: Gesù è riuscito a suscitare nella donna un’attesa che la induce a rivolgersi a Lui come all’unico capace di darle soddisfazione.

Come si può notare, il filo conduttore del dialogo è l’acqua di cui è sottolineata la sostanziale differenza tra quella data da Giacobbe, presente nel pozzo ed il cui valore è assai provvisorio e relativo, essendo incapace di placare la sete e quella donata da Gesù, della quale si prospetta un valore unico, assoluto e definitivo poiché scaturisce da Dio stesso. Infatti, Dio aveva dissetato il suo popolo nel deserto dandogli l’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,1-7) ed ora, giunta la pienezza del tempo (Gal 4,4), Egli ha donato all’umanità intera il proprio Figlio (Gv 3,16) per placarne la sete di eternità. Rivelando di essere Colui che dona l’acqua necessaria per entrare nell’eternità di Dio, Gesù invita la donna a rivolgere il proprio sguardo verso Dio stesso, da cui tutto ha avuto origine: il pozzo, che proviene da un passato provvidenziale; l’acqua viva, che zampilla per la vita eterna; Gesù, il Figlio unico che rivela e porta a compimento l’opera della salvezza. Si va delineando l’assoluta identità tra Dio, Gesù e l’acqua donata per essere sorgente di vita eterna.

Il dialogo subisce, ora, una svolta inattesa e, sia pure in diversa maniera, Gesù dà soddisfazione alle attese della donna samaritana.


16 Le dice: “Va’, chiama tuo marito e ritorna qui”. 17 La donna gli rispose e gli disse: “Non ho marito”. Gesù le dice: “Hai detto bene: «Non ho marito», 18 perché hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito. Quanto a questo hai detto il vero”.

Sembra evidente che, per bere l’acqua che dona la vita eterna, occorre prima cambiare stile di vita ed accettare un cammino di conversione, radicale e sincera. Il riferimento ai cinque mariti, avuti in precedenza dalla donna, ha del paradossale se si considera che la società del tempo ammetteva, al massimo, tre matrimoni successivi. Vari studiosi, pertanto, hanno scorto in questa affermazione un significato allegorico. I cinque “mariti” corrisponderebbero alle cinque “divinità” introdotte in Samaria dopo la conquista assira del 721 a.C.; in tal caso, quello che la donna adora attualmente non è il vero Dio. Nella prospettiva biblica, l’adozione di culti pagani corrisponde ad abbandonare la fede e l’infedeltà al Dio dell’Alleanza viene paragonata all’adulterio. Sempre nel linguaggio biblico, il termine “marito” (in ebraico ish, in greco anér) designava in pratica il Dio d’Israele, YHWH (Os 2,18). In tal modo, risulta più chiaro il motivo per cui Gesù invita la donna a chiamare, cioè ad invocare, il Signore YHWH come suo Dio, inducendola a confessare che essa “non ce l’ha”, dal momento che ha abbandonato l’antica fede per adottare culti stranieri, pagani. Dal modo in cui la donna risponde a Gesù, siamo indotti ad intuire che ella è cosciente del proprio traviamento rispetto al Dio unico e che l’itinerario religioso e spirituale da lei percorso rappresenta la storia religiosa del popolo di Samaria.

Da una situazione verosimilmente reale, consistente in una situazione di concubinaggio dopo precedenti esperienze matrimoniali, conclusesi forse anche con dei divorzi, l’evangelista trae spunto per una lettura simbolica del disordine sessuale vissuto dalla samaritana. Costei “non ha marito”, come non l’hanno i samaritani, che hanno abbandonato il culto al vero ed unico Dio, adorato dai “cugini” giudei.

Quasi “facendole la corte” presso il pozzo del patriarca Giacobbe, Gesù si presenta alla samaritana come Colui che, sostituendosi ai precedenti “mariti – déi”, è il suo vero ed unico Signore. La donna lo riconoscerà come tale quando vedrà in Lui il Messia tanto atteso da tutto il mondo ebraico (cf. 4,29).

La chiaroveggenza di Gesù colpisce la samaritana, pronta a riconoscere in Lui un profeta, tipica figura biblica d’uomo capace di trasmettere le “parole di Dio” anche quando esse sono scomode e creano fastidio alla coscienza ed all’intelligenza (“orecchie”) degli uomini.


19 La donna gli dice: “Signore, vedo che tu sei un profeta. 20 I nostri padri hanno adorato su questa montagna e voi dite che è a Gerusalemme il Luogo in cui si deve adorare”.

Forse Gesù non è ancora il Profeta annunciato per la fine dei tempi (Dt 18,15), ma è di certo un uomo ispirato da Dio ed al quale è possibile sottoporre una questione religiosa piuttosto spinosa, che preoccupa lei ed i suoi compatrioti: in quale “Luogo” è lecito adorare Dio? Nel Tempio di Gerusalemme, come affermano i giudei, o sul monte Garìzim in Samaria, come ritengono i samaritani? Chi “adora” il vero Dio? Non si tratta di interrogativi di poco conto in un mondo in cui, a differenza del nostro attuale, non trovava posto l’ateismo né teorico né pratico, almeno a livello di massa. Il senso religioso della vita era patrimonio comune a tutti i popoli, ognuno dei quali possedeva un proprio pàntheon più o meno ampio e fantasioso e la pubblica professione d’ateismo era piuttosto pericolosa, specie là dove persino un qualsiasi sovrano, grande o piccolo che fosse, si faceva adorare come una divinità incarnata!

La samaritana, dunque, è portatrice di un’esigenza spirituale e religiosa, che il dialogo con Gesù rende molto ben evidente ed esplicita. In sostanza, la sua domanda riguarda il luogo del pellegrinaggio in cui sia possibile, senza ombra di dubbio, incontrarsi con la divinità ed una simile preoccupazione riflette bene la mentalità dell’epoca, che un lettore moderno, specie se incapace di aprire il cuore e la mente al senso del messaggio del testo biblico, fa fatica a comprendere. La rivelazione divina è di regola vincolata a luoghi particolari e privilegiati: erigendo degli altari, i patriarchi hanno reso sacri quei luoghi in cui era loro apparso YHWH (Gen 28,10-22; 33,18-20; 35,1-15). Da un tempo ormai lontano, quando vi era stata pronunciata la benedizione su Israele (Dt 11,29; 27,12; Gs 8,33), il monte Garìzim (m 870, a 3 km da Sichem) era la montagna sacra dei samaritani. Qui essi rendevano il loro culto a YHWH nonostante la centralizzazione del culto a Gerusalemme a partire dal 622 a.C. (2Re 18,4; 23) e la distruzione del tempio, erettovi secoli prima, per mano di Giovanni Ircano, conquistatore di quella regione nel 129-128 a.C. I samaritani fondavano la loro prassi cultuale sia sul privilegio dell’antichità di quel luogo sacro, sia sulla convinzione che fosse proprio il monte Garìzim il Bet-El, cioè la “casa di Dio”, il luogo sacro in cui il patriarca Giacobbe aveva avuto la visione di Dio (Gen 28,17). D’altra parte, il patriarca non aveva forse innalzato un altare proprio a Sìchem (Gen 33,19-20)? Con analoga procedura storica e commemorativa, i giudei avevano identificato il monte Moriah, luogo del sacrificio (mancato) d’Isacco col monte Sion, dove sorgeva il grandioso Tempio di Gerusalemme, costruito da Salomone e recentemente restaurato ed ampliato da Erode il Grande. Se è vero che tutto il mondo giudaico, compreso quello della diaspora, già da tempo riconosceva l’unicità del Tempio di Gerusalemme, verso il quale si “saliva” in pellegrinaggio da ogni luogo, è altrettanto vero che la concorrenza tra i due luoghi di culto aveva una sua fondatezza storica e giuridica ed i samaritani non si sentivano “inferiori” nella fede ai giudei. All’epoca di Gesù, la questione riguardante la legittimità del culto svolto nei due templi era molto viva; di lì a poco, ci avrebbero pensato le legioni romane a porre fine, una volta per tutte, all’annosa quérelle.

Gesù imprime una svolta definitiva al dialogo e focalizza su di sé l’attenzione della donna, ormai orientata verso la Verità.


21 Gesù le dice: “Credimi, donna: viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai giudei. 23 Sì, viene l’ora ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca di questi adoratori: 24 Dio è spirito e coloro che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”.

A colei che lo ha già riconosciuto come un “profeta”, Gesù rivolge un perentorio invito alla fede: “Credimi!”. Si potrebbe tradurre anche con : ”Fidati di me!” (cf. anche Gv 2,24; 4,50; 9,18). La rivelazione riguarda l’adorazione del Padre “in spirito e verità”, che può realizzarsi già “ora” e senza limiti di luogo. Dio, infatti, è “Spirito” e nulla lo può imprigionare, né un tempio né una qualsiasi pretesa cultuale umana. La questione sollevata dalla donna, circa il luogo del culto legittimo, è del tutto marginale e privo ormai di importanza, superato dagli eventi della storia della salvezza. Con Gesù è giunta l’ora in cui il culto non dipende più da un luogo determinato, sia pure il più antico e venerabile (Is 11,9; 66,1; Mal 1,11): il mondo intero è il luogo adatto per lodare, adorare ed amare in “spirito e verità” Colui che è, per essenza, “Spirito e Verità”. Nei tempi messianici inaugurati da Cristo, Dio Padre continua a ricevere “offerte pure” (il culto non viene abolito!), ma ci­ò avverrà in ogni luogo e sotto forma di lode (Sal 50,14). L’Eucaristia è il “sacrificio di lode” per eccellenza, che può essere offerta al Padre come sacrificio a Lui gradito, fino alla fine dei tempi!

Gesù non si limita ad annunciare l’imminenza di questo tempo escatologico, ma dà un nuovo valore all’adorazione del Padre. La samaritana era abituata ad un’adorazione “astratta” ed impersonale del “Dio dei padri”, ma, d’ora in poi, dovrà abituarsi ad un rapporto personale e profondamente impegnativo con Colui che è il Padre di tutti e che non sa che farsene dei sacrifici di animali né del preciso ma freddo rituale liturgico celebrato in qualsiasi tempio, costruito dalle mani degli uomini. Il Padre vuole essere adorato nel profondo del cuore di ogni uomo.

Voi non conoscete…noi conosciamo”. Gesù sembra fare il verso alla samaritana, che aveva sottolineata la differenza tra i samaritani ed i giudei: “I nostri padri hanno adoratovoi invece dite”. La differenza tra giudei e samaritani esiste, lascia intendere Gesù, ed è sostanziale; i giudei sono già abituati a meditare sulla paternità di Dio nei confronti di Israele, ampiamente attestata nelle Scritture, ma di queste Scritture i samaritani hanno accolto solo i primi cinque libri, il Pentateuco, privandosi della ricchezza della rivelazione contenuta nei rimanenti Libri Sacri, che sono stati scartati dai samaritani perché non sono stati ritenuti ispirati. Nel Pentateuco l’idea della paternità di Dio può essere desunta da Es 4,22: “Israele è il mio figlio primogenito” (cf. anche Dt 32,5ss.18-20; 14,1). Nella Bibbia la paternità di Dio viene espressa in due modi: Dio è padre adottivo del re (2Sam 7,14; Sal 89,27) e degli israeliti (Is 63,16; 64,7; Ger 3,4.19; 31,20). Dio, inoltre, è Padre in senso metaforico (Dt 1,31; 8,5; Ml 3,17; Sal 103,13; Pr 3,12).

Se nel Pentateuco l’appellativo “Padre”, usato per designare Dio, è presente nella sola prospettiva collettiva e storica della protezione divina, che il popolo ha sperimentato soprattutto al tempo dell’esodo dall’Egitto, è solo coi profeti, i salmisti ed i sapienti di Israele che la designazione di “Padre” implica l’immensa tenerezza di YHWH, il suo perdono sempre rinnovato, l’invito ad entrare nella sua gloria. Dall’esperienza spirituale degli uomini ispirati da Dio stesso deriva la consapevolezza che ogni “giusto” può essere ritenuto “figlio di Dio” e non solo il re, in virtù dell’unzione da lui ricevuta al momento dell’investitura come pastore e guida del popolo di Israele. A differenza di tutti gli altri popoli, quello di Israele aveva la certezza di essere governato da Dio, di cui il re era solo un funzionario, un emissario; da qui si comprende come la divinizzazione del re, così abituale presso i popoli del vicino Oriente ed altrove, fosse un fenomeno sconosciuto in Israele.

Di fronte alla samaritana, Gesù riafferma il privilegio dei giudei di essere gli autentici depositari della rivelazione, mediante la quale Dio comunica Se stesso al mondo e la sua volontà di salvezza: “la salvezza proviene dai giudei”, tiene ancora a precisare Gesù, che è sì il Messia, il Figlio di Dio, il Salvatore di tutti, ma che ha scelto di nascere “giudeo” ed erede della cultura, della tradizione, della religiosità e della fede giudaica. In che senso la salvezza viene dai giudei? In base all’antica fede dei padri del popolo ebraico, di cui Gesù fa integralmente parte, il Dio unico e trascendente ha scelto proprio questo popolo come suo testimone di fronte a tutte le nazioni della terra; con gli ebrei Egli ha stipulato la sua Alleanza, cui l’umanità intera è invitata ad aderire. Il popolo giudaico è e rimane il primo destinatario del progetto salvifico di Dio e le Scritture, specie nella loro dimensione apocalittica, sono la chiave di lettura di un avvenire che gli ebrei attendono insieme ai fratelli cristiani, facendosi carico del destino di ogni uomo. Nella persona del giudeo Gesù si condensa tutto il mistero della vocazione di Israele, il cui compito non si è ancora esaurito a tanti secoli di distanza dall’Evento salvifico della Pasqua di Cristo.

Viene l’ora ed è adesso”. Gesù rileva l’urgenza assoluta del cambiamento di mentalità e di rotta anche in ambito di fede e di culto autentico. Dall’adorazione in sé, confinata al piano speculativo, ritualistico o sentimentale, occorre passare “adesso” all’adorazione “in spirito e verità” propria dei veri adoratori del Padre. Non solo i giudei ed i samaritani, ma ogni credente viene invitato ad adorare il Padre come un vero adoratore, che è tale solo se è rigenerato e permeato dallo Spirito di Dio. Proprio Gesù, nel quale dimora lo Spirito e che battezza nello Spirito (1,33), annuncia adoratori nati dallo Spirito (3,5-8). Come afferma anche s. Paolo: “E’ lo Spirito che ci fa gridare: Abbà! Padre! ” (Rm 8,15).

Che cos’è la verità di cui parla Gesù? Su questo termine, tipicamente giovanneo, i vari commentatori si sono ingegnati nel trovare una spiegazione plausibile, riferendolo ad un contesto ora cultuale (col significato di sincero, di veritiero) ora filosofico (nel senso di realtà, di essenza), ma questi concetti sembrerebbero piuttosto estranei alla mentalità dell’evangelista, diffidente nei confronti delle elaborazioni filosofiche astratte o puramente speculative e con una visione del culto radicalmente diversa da quella tipica del mondo ebraico. Quando usa il termine “verità”, Giovanni ha in mente la rivelazione portata da Gesù: l’adorazione del Padre implica l’accoglienza della sua parola. Sono “nella verità” tutti coloro che, animati dallo Spirito Santo, hanno creduto ciò che Gesù ha detto del Padre e che, in Lui, vivono il suo stesso atteggiamento filiale nei confronti di Dio Padre. Gesù Cristo è la Verità ed è il “luogo” veritiero del culto messianico, il nuovo Tempio spirituale. L’endiadi (forma letteraria tipica in Giovanni) “spirito e verità” vuole sottolineare che l’adorazione è autentica se viene prodotta, stimolata, suscitata dallo Spirito, che comunica la Verità, cioè la rivelazione del Cristo. I due temi principali del dialogo fra Gesù e la samaritana, cioè l’acqua e l’adorazione del Padre, sono tra loro strettamente collegati ed interdipendenti. L’acqua viva simboleggia sia la rivelazione di Gesù che lo Spirito Santo; ne consegue che se l’adorazione del Padre è propria, nei tempi nuovi, di coloro che credono nella parola di Gesù e che sono rinati dallo Spirito (mediante il battesimo), allora il dono dell’acqua è la condizione necessaria per essere veri adoratori del Padre e la vera adorazione è il risultato di questo dono.

Il Padre cerca di questi adoratori”. Certamente il Dio biblico è ben differente dal Dio dei filosofi, dai quali è stato definito come il “motore immobile dell’universo”, non propriamente interessato delle vicende umane. Gli autori sacri rappresentano e si immaginano Dio, nel suo agire nelle vicende storiche umane, con immagini fortemente antropomorfiche: Dio ama in modo viscerale, si commuove, si adira, si spazientisce o porta pazienza, chiama, parla, cerca, si inquieta. Il Dio trascendente non teme di “sporcarsi le mani” interessandosi direttamente dei bisogni dell’uomo (Sof 3,10). Dio vuole essere adorato ed amato, al punto da andare in cerca Egli stesso di uomini disposti ad amarlo ed adorarlo.

Dio è Spirito”, afferma Gesù e non sembra tanto una ovvia enunciazione dell’essenza di Dio, ma una sentenza che rivela l’intimo rapporto tra Dio e l’uomo e che fa il verso ad altre analoghe sentenze di Giovanni: Dio è luce (1Gv 1,5) ed è amore (1Gv 4,8.16). Attraverso il suo modo di manifestarsi all’uomo si può veramente cogliere l’intima essenza di Dio. La relazione tra Dio e l’uomo è mediata e resa possibile dallo Spirito, che consente la reciprocità di tale relazione e ciò che Dio si attende dagli uomini è la lode, resa possibile proprio dallo Spirito, da Lui stesso donato. Grazie allo Spirito, l’uomo diventa capace di ringraziare Dio in modo filiale.

Se questa è la nuova prospettiva dell’adorazione di Dio, allora non hanno più senso le divisioni tra gli uomini, sintetizzate dai differenti luoghi di culto, tra loro fortemente antagonisti, che separano e contrappongono i giudei ed i samaritani di ieri, d’oggi e di domani. Poiché i veri adoratori si caratterizzano unicamente per la qualità della loro adorazione, ecco prendere forma il concetto escatologico di unità suggerito da Giovanni (cf. 11,51; 17,21), che ne prevede la prospettiva futura universale. I samaritani simboleggiano coloro che, da ogni parte del mondo, “vanno” (cioè, si convertono) verso Gesù, il Giudeo.


25 La donna gli dice: “So che deve venire il Messia, colui che si chiama Cristo; quando egli verrà ci svelerà tutto”. 26 Gesù le dice: “Sono io, colui che ti parla”.

Il dialogo ha raggiunto il suo apice nell’auto-rivelazione di Gesù, che dichiara apertamente di essere Lui l’inviato di Dio, l’Unto (in ebraico masiah o messia, in greco christòs o cristo) del Signore, il Figlio di Dio. Gesù ha già in precedenza annunciato (4,23) che è giunta l’ora, quella della venuta del messia e adesso annuncia che il messia è proprio Lui. Il misterioso personaggio, atteso da secoli sia in Giudea sia in Samaria, è identificato con il Profeta di cui parla Es 20,21 e su di lui si coagulano le attese politiche e religiose di un intero popolo. Tutti gli ebrei, puri come i giudei o di origine mista come i samaritani, “sanno” (4,25; 11,24) che il messia avrebbe svelato tutto circa i segreti divini. Quando la samaritana si sente rivelare da Gesù la propria situazione coniugale disordinata e lo sente annunciare la nuova adorazione di Dio, comprende di avere di fronte a sé un profeta e spontaneamente pensa al Ta’eb (“colui che deve ritornare”), l’unico deputato a “svelare” ogni cosa. La proclamazione di Gesù, “Sono io [il Messia], colui che ti parla”, conferma le aspettative della donna e di tutti i samaritani (4,42); ormai non c’è più bisogno di attendere altri sedicenti messia: il messia è proprio Lui, Gesù di Nazareth.

Se al termine del dialogo la donna non professa apertamente la propria fede in Gesù, va in ogni caso sottolineata la sua ansia di comunicare ai concittadini la propria esperienza; quell’uomo ha in sé qualcosa di straordinario: “Mi ha detto tutto ciò che ho fatto”. Che non sia proprio lui il Cristo?

Ora ha inizio il secondo quadro del racconto, caratterizzato da due scene: a) scena esteriore (messi sull’avviso dalla donna, i samaritani di Sicàr si mettono in cammino verso Gesù); b) scena interiore (rimasto accanto al pozzo, Gesù parla coi suoi discepoli, sopraggiunti nel frattempo). Mediante l’opera di Gesù, il disegno salvifico del Padre è condotto a buon fine ed i discepoli sono invitati dal Maestro a raccogliere i frutti della sua azione tra gli uomini: la conversione dei samaritani.


27 A questo punto arrivarono i suoi discepoli e rimasero meravigliati che parlasse con una donna. Nessuno però disse: “Che cosa cerchi?” oppure “Di che cosa le parli?”. 28 La donna intanto lasciò lì la sua brocca e andò in città e diceva alla gente: 29 “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto. Non sarà forse il Cristo?”. 30 Uscirono dunque dalla città e venivano verso di lui.

I discepoli non comprendono l’agire del loro Maestro ma non osano interrogarlo. Certo, sono incuriositi dal fatto di vederlo violare le buone norme del comportamento tradizionale. Nessun uomo si permetterebbe di intrattenersi a tu per tu con una donna sola, se non per un motivo più che fondato. L’evangelista esplicita le possibili domande riaffiorate alla mente dei discepoli: “Che cosa cerchi?”. È la stessa domanda che Gesù aveva rivolto ai primi discepoli (1,38), alla ricerca di una risposta alle loro inquietudini interiori; anche Gesù, assetato di amore, va alla ricerca di uomini disposti a scommettere su di Lui, ad amarlo ed a seguirlo fino al dono della propria vita per Lui. “Di che cosa le parli?”. I discepoli vorrebbero entrare nei reconditi segreti della rivelazione che Gesù sta svelando alla donna, la quale, nel frattempo, ritorna in città senza nemmeno più curarsi del motivo che l’aveva indotta a sfidare il solleone. La brocca dell’acqua, vuota ed ormai inutile, resta a testimoniare il cambio di rotta della samaritana; le sue necessità naturali, materiali, possono aspettare ed è giunto il momento di pensare alle altrettanto fondamentali necessità dello spirito. Le personali vicende familiari ed i compromessi con le varie credenze pagane, presenti in quella regione, rendono inquieto quel cuore bisognoso di certezze, di stabilità, di “verità”. Se la donna corre dai suoi concittadini per renderli partecipi della sua straordinaria scoperta (“Non sarà forse il Cristo?”), forse si comporta in tal modo perché percepisce anche in loro la stessa ansia spirituale avvertita nell’intimo della propria coscienza. Sta di fatto che gli abitanti di Sicàr “escono” dalla città e “vanno” verso Gesù; essi sono disposti ad abbandonare le proprie certezze e le proprie comodità, simboleggiate dalla città, e ad affrontare un cammino di conversione e di fede. Essi “vanno” da Gesù, sono cioè pronti ad aver fiducia in Lui e nelle sue parole di verità.

Rimasto solo coi suoi discepoli, Gesù li rende edotti del segreto della propria esistenza e del senso degli avvenimenti, che si stanno compiendo. Da una parte c’è il rapporto del tutto personale di Gesù col Padre e, dall’altra, c’è il compito missionario dei discepoli, ai quali Gesù affida la raccolta della “messe”, frutto della Parola di Dio seminata nel cuore e nell’intelletto degli uomini. La Parola di Dio, infatti, è destinata a persone disposte e capaci di amare e di capire.

31 Nel frattempo i discepoli lo pregavano dicendo: “Rabbì, mangia!”. 32 Ma egli disse loro: “Io ho un cibo da mangiare che voi non conoscete”. 33 I discepoli si dicevano dunque fra loro: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”. 34 Gesù dice loro: “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e di portare a compimento la sua opera”.

Come il solito, i discepoli rimangono prigionieri della materialità e della quotidianità della vita ed ogni volta Gesù cerca di elevare la loro mente verso le realtà celesti, di cui quelle materiali e terrene sono solo delle immagini simboliche. Alla simbolica della bevanda, che ha caratterizzato il primo quadro della pericope, subentra la simbolica del cibo. Se prima era stato Gesù a chiedere da bere, ora sono i discepoli che invitano il loro Maestro a mangiare. In tal modo, Gesù ha la possibilità di rispondere a quanto essi avevano intenzione di chiedergli con la loro muta domanda, formulata soltanto nelle loro menti: “Che cosa cerchi?” (4,27). Gesù sa leggere nel cuore e nella mente degli uomini, svelando i loro sentimenti buoni o malvagi, anche quelli che vengono dissimulati ad arte. C’è solo un luogo che l’uomo ritiene essere assolutamente sacro ed inviolabile, la propria “coscienza”, identificata con l’io più profondo che rende ciascun essere umano unico ed irripetibile. Ebbene, Dio conosce la nostra coscienza meglio di quanto possiamo conoscerla noi stessi ed a Lui nulla è nascosto né è possibile tenere nascosto!

Ho un cibo da mangiare…”. All’inizio della sua vita pubblica, Gesù aveva risposto al tentatore (in ebraico satàn) che “l’uomo non vive di solo pane, ma d’ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4), rifacendosi a Dt 8,3. Nel contesto giovanneo, l’opposizione fra cibo terrestre e nutrimento celeste è ancora più radicale: l’unico cibo di cui si nutre Gesù è l’unione intima con il Padre, di cui compie la volontà in maniera integrale e con assoluta obbedienza. Gesù precisa che la volontà del Padre è di “portare a compimento la sua opera” di salvezza, attraverso il volontario sacrificio del Figlio unigenito sulla croce. La volontà del Padre si identifica con la volontà del Figlio: fare giungere gli uomini alla fede, pegno e garanzia della vita eterna, simboleggiata qui dalla riconciliazione tra samaritani e giudei.

I discepoli scoprono, ora, di far parte pure loro del disegno salvifico di Dio. Come il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per donare la propria vita a vantaggio dell’umanità intera, così Gesù sta mandando loro tra gli uomini per annunciare la buona notizia della salvezza.


35 Non dite voi: «Ancora quattro mesi e viene la mietitura?». Ecco io vi dico: Alzate i vostri occhi e osservate i campi; sono bianchi per la mietitura. 36 Già il mietitore riceve la sua ricompensa e raduna il suo raccolto nella vita eterna, così che seminatore e mietitore si rallegrano insieme. 37 In questo caso infatti è vero il proverbio: «Altro è il seminatore e altro è il mietitore». 38 Io vi ho mandato a mietere là dove voi non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica”.

Nella Bibbia l’immagine della messe è tradizionale per significare il raduno degli uomini alla fine dei tempi, sia in vista del giudizio (Gl 4,13; Is 27,12; 28,27; Ap 14,15ss) che della gioia per l’eternità (Am 9,13; Is 9,2; Sal 126,5). Mentre le parabole del Regno valorizzano il primo aspetto nella tradizione sinottica (Mt 13,24-30.36-43; Mc 4,29), Giovanni privilegia invece la gioia del raccolto finale. L’immagine della messe consente a Gesù di esprimere, in senso metaforico, la situazione in cui si trovano Lui ed i suoi discepoli. I samaritani sono “i campi bianchi per la mietitura”, pronti per la mietitura perché disposti ad avere fede in Gesù (la disponibilità dei samaritani a credere in Gesù è resa dall’espressione “venivano verso di lui” del v.30). Con la venuta dei samaritani alla fede, l’opera del Padre giunge al successo fin dal presente; i discepoli vengono associati alla gioia di Gesù, che è il “seminatore”. Dopo aver seminato nel cuore della samaritana in assenza dei discepoli (“voi non avete faticato”), Gesù raccoglie già la fede dei samaritani ed è, quindi, anche il “mietitore”. I discepoli saranno mietitori dopo di Lui e raccoglieranno i frutti del seminatore Gesù, mentre altri ancora, in precedenza, hanno faticato nel campo di Dio.

Non dite voi: “Ancora quattro mesi e viene la mietitura?”. Gesù interpella i suoi discepoli, i quali sanno che occorre un lasso di tempo ben preciso prima di procedere alla mietitura, cioè prima della fine dei tempi, il cui compimento è oltre il presente. Ma Gesù anticipa i tempi del giudizio finale: “Ecco che io vi dico”. Egli invita a guardare “in alto” (“Alzate i vostri occhi”) verso Colui che sta nei cieli e dal quale tutto proviene (cf. Sal 121,1; Is 40,26; 51,6; Mt 14,19; Gv 11,41) ed a prendere atto del fatto che il tempo della mietitura è imminente (“i campi sono bianchi per la mietitura”). La fine, dunque, riguarda già il presente. Certo, il tempo di Gesù è privilegiato poiché Egli è insieme sia il seminatore che il mietitore (“seminatore e mietitore si rallegrano insieme”) ma questa contrazione del tempo, presente in Gesù, non deve far dimenticare che esiste un “tempo intermedio”, quello della zizzania (Mt 13,30), tempo nel quale devono lavorare e faticare gli “operai del Signore”, il cui numero non è mai adeguato all’abbondanza delle messi (Lc 10,2).

Per Giovanni il tempo di Gesù è unico nella storia della salvezza, poiché in Lui si raccolgono insieme sia la semente che la messe, il seminatore ed il mietitore. In quanto mietitore escatologico, Gesù già contempla nelle sue primizie (i samaritani) la raccolta universale nel tempo del giudizio finale: dopo di Lui, saranno i discepoli a raccogliere la messe nel tempo futuro (“altro è il seminatore, altro è il mietitore”). Come Gesù è l’inviato del Padre, così i discepoli sono gli inviati di Gesù (“Io vi ho mandato a mietere”), ma la loro attività prolunga soltanto un aspetto della sua: la raccolta. Con Gesù, infatti, il tempo della semina si è concluso (Mt 13,4-9ss), mentre il tempo della raccolta continua ancora oggi e continuerà fino alla fine del tempo, allorquando la messe raccolta verrà ammassata per l’eternità (“il mietitore […] raduna il suo raccolto nella vita eterna”).

Diversamente dalla tradizione sinottica, secondo la quale i discepoli devono recarsi fino alle estremità della terra per annunciare la Buona Novella, secondo Giovanni i discepoli sono inviati da Gesù come mietitori a raccogliere una messe già matura ed abbondante (“altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica”). I discepoli non sono all’origine né della salvezza né della fede degli uomini, ma raffigurano sulla terra il raduno dei credenti; la loro funzione consiste nel lasciare che la parola di Gesù produca i suoi effetti nel mondo. Secondo la tradizione comune, i discepoli sono stati inviati da Gesù come messaggeri incaricati di far giungere la sua parola in ogni angolo della terra e, come tali, vengono considerati come i collaboratori del Seminatore. Nella prospettiva del IV Vangelo, invece, la missione dei discepoli (non seminatori, ma mietitori) va vista in funzione di quella compiuta personalmente da Gesù, che è venuto al termine di una lunga attesa, preceduto dai profeti e da Giovanni il Battista (“gli altri” che hanno faticato prima dei discepoli); ciò sta ad indicare la continuità dell’unico disegno salvifico di Dio, che abbraccia il passato ed il futuro con Gesù al centro. I discepoli ”subentrano” allo stadio finale di una storia cominciata molto tempo prima e possono “rallegrarsi” con Gesù per la buona riuscita dell’opera del Padre.


39 Molti samaritani di quella città credettero in lui a motivo della parola della donna che testimoniava: “Mi ha detto tutto ciò che ho fatto”. 40 Quando i samaritani arrivarono da lui, lo pregarono di rimanere presso di loro e vi rimase due giorni. 41 E furono molti di più coloro che credettero a motivo della parola di lui. 42 Alla donna poi dicevano: “Non è più per quello che hai detto tu che noi crediamo: noi stessi infatti abbiamo udito e sappiamo che è veramente lui il Salvatore del mondo”.

Il primo nucleo di credenti samaritani giunge alla fede attraverso la testimonianza (in greco martyrìa) di una donna, priva d’autorità e d’attendibilità, giacché è “donna” e, per di più, di dubbia moralità. Nella Chiesa di ogni tempo la fede si trasmette essenzialmente attraverso questa via. Frutto di un incontro personale con Gesù, la testimonianza induce l’uditore ad “ascoltare” la parola e ad approfondire la fede, che la testimonianza ha suscitato. Sono molti di più coloro che credono dopo aver ascoltato la parola stessa del Cristo; l’una e l’altra “parola” (vv. 39.41) offrono ai samaritani il giusto motivo per credere, ma non tutti sono disposti a credere. Dio dona a tutti la possibilità di avere la fede e di salvarsi, ma la libertà umana è tale da consentire ad ogni individuo di scegliere autonomamente il proprio destino, allora come oggi e come sempre. I samaritani sono stati spinti in qualche modo alla fede dalla “curiosità” di vedere di persona un uomo dotato di chiaroveggenza (“Mi ha detto tutto ciò che ho fatto”) e, stuzzicati dall’ipotesi fatta dalla loro concittadina (“Non sarà forse lui il Cristo?”), vogliono costatare di persona se costui può essere veramente il Ta’eb (vale a dire “colui che deve ritornare”, il Profeta promesso dagli antichi padri) oppure uno dei tanti ciarlatani che, periodicamente, si spacciavano per messia ed attraversavano come meteore il cielo delle speranze del popolo eletto, senza lasciare la minima traccia. Dopo averlo sentito “parlare”, gli abitanti di Sicàr invitano Gesù a ”rimanere” presso di loro avendo compreso che quest’uomo va ben oltre le loro attese. Se prima speravano, adesso sanno che costui è “veramente il Salvatore del mondo”. Che cosa può aver detto Gesù di così convincente ai samaritani da indurli a credere in Lui? Probabilmente Gesù ha detto loro le stesse cose già dette ai giudei, ma con risultati chiaramente differenti. Quasi mettendo in secondo piano l’evidenza del “segno” (la chiaroveggenza testimoniata dalla donna), i samaritani sono pervenuti alla fede in forza della sola “Parola” e, dopo essere stati “evangelizzati” dalla donna, ora sono loro ad “evangelizzare” la donna annunciandole chi veramente sia Gesù: “ il Salvatore del mondo

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04/06/2010 18:23
 
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Il Vangelo di Giovanni

La storia della Chiesa è ricca di questi reciproci scambi di testimonianza di fede. Popoli evangelizzati nei secoli scorsi da missionari provenienti da paesi cristiani, ora sono pronti ad evangelizzare questi stessi paesi, che hanno perso per strada la fede e si sono “scristianizzati” o “secolarizzati”.

Lo invitarono a rimanere”. Quest’invito sarà rivolto a Gesù risorto anche dai due discepoli di Emmaus, rapiti ed intimamente infiammati dalle parole del Maestro, che spiegava loro il senso delle Scritture (Lc 24,29). Chi “rimane” con Gesù o “dimora” presso di Lui (Gv 1,39), entra in comunione intima col Verbo eterno di Dio, ne “respira” l’eternità, ne “sperimenta” l’infinita bontà e misericordia e ne diventa “testimone” verace e credibile. Coloro che sanno “rimanere” con Gesù hanno le carte in regola per essere i “veri adoratori in spirito e verità”, che il Padre va continuamente cercando (4,23).

Vi rimase due giorni”. L’esperienza del Cristo fatta dai samaritani è chiaramente limitata, pre-pasquale, non ancora illuminata dal bagliore della risurrezione di Gesù, che avverrà il terzo giorno. I discepoli, che saranno di lì a poco i testimoni privilegiati della risurrezione di Gesù, “rimarranno” col Risorto per ben quaranta giorni (At 1,3), un tempo molto lungo per indicare ed esprimere la pienezza dell’esperienza che un uomo può fare di Dio.

Basti ricordare i 40 giorni del diluvio (Gen 7,17), i 40 anni trascorsi dagli ebrei nel deserto durante l’esodo dall’Egitto (Dt 1,3), i 40 giorni trascorsi da Mosè sul monte Sinai prima di ricevere il Decalogo (Es 24,18), i 40 giorni trascorsi nel deserto dal profeta Elia in fuga dal re Acab (1Re 19,8), i 40 giorni trascorsi da Gesù nel deserto prima dell’inizio della vita pubblica (Mt 4,2; Mc 1,12; Lc 4,2). Il continuo ricorrere nella Bibbia del numero quaranta (e di svariati altri numeri, come il 2, il 3, il 4, il 6, il 7, il 10, il 12, il 70, il 1000 e multipli vari) ne sottolinea il chiaro valore simbolico e sacro, tanto caro alla cultura semitica in genere ed ebraica in particolare. Attribuire ai numeri un valore assoluto può essere causa di confusione, di sconcerto se non di scetticismo per la nostra mentalità eccessivamente razionalistica (come i sette giorni della creazione di Gen 1,3-2,4a), ma può prestarsi anche a letture errate specie da parte di movimenti religiosi d’impronta apocalittica, che cercano nei numeri la “lettura” della fine del mondo e della salvezza di un’élite di pochi e scelti eletti (come i 144mila salvati di Ap 7,4).

Il Salvatore del mondo”. In un primo momento Gesù è stato riconosciuto come giudeo, poi è stato paragonato a Giacobbe, quindi ritenuto capace di dare un’acqua che disseta per sempre e, infine, considerato come profeta. Gesù conclude il suo dialogo con la samaritana autoproclamandosi messia. La donna riferisce questo annuncio di proclamazione (4,29) sotto forma di domanda (“Non sarà forse lui il Cristo?”), lasciando ai suoi concittadini il compito di impegnarsi, ognuno per conto proprio, nei confronti del probabile Unto del Signore. Ben difficilmente i samaritani si sarebbero spinti ad usare un termine estraneo alla loro cultura, presente invece nel contesto culturale ellenistico. Forse Giovanni ha inteso polemizzare, in questo passo del suo Vangelo, con l’usanza pagana di divinizzare i monarchi del tempo, ai quali veniva attribuito il titolo di “salvatore” (in greco sotèr) con evidente intento adulatorio o, forse, ha voluto ridicolizzare il culto di Asclepio (o Esculapio), medico divino, figlio di Apollo, di cui si celebravano le qualità taumaturgiche e filantropiche e che veniva venerato proprio in Epidauro.

Mondo. In questo caso il termine “mondo” è usato in senso positivo; non si tratta qui del mondo malvagio, che altrove l’evangelista stigmatizza e considera con disprezzo, ma del mondo amato da Dio e destinato alla salvezza per opera del Figlio (3,16-17), quello da cui sarà tolto il peccato (1,29). Il termine “mondo” consente di spaziare oltre gli angusti confini della nazione samaritana e di coinvolgere nel progetto della salvezza il mondo intero. Tutto il racconto è teso al superamento di ogni confine geopolitico, sociale, culturale e religioso.

La conversione della samaritana e di gran parte della popolazione di Sicàr ha consentito a Gesù di superare, anche agli occhi dei suoi discepoli, le barriere etniche (4,9) e le differenze cultuali vincolate a specifici luoghi di culto (4,21). Ora Gesù “dimora” a pieno titolo anche presso gli eretici samaritani. Il superamento d’ogni frontiera non elimina il legame della salvezza con Israele, poiché “la salvezza proviene dai giudei” (4,22). Il mondo, destinatario della salvezza, rimane incluso nella prospettiva di Israele, la cui vocazione di essere segno della volontà salvifica universale di Dio viene avvalorata dalla vicenda storica di Gesù di Nazareth (cf. Es 19,5-6).

Dal punto di vista teologico, il mondo esiste solo se messo in riferimento ad Israele e la riconciliazione, in Cristo, di Samaria con Giuda anticipa la riconciliazione universale di tutti i popoli tra loro e con Dio. Così, mediante la parola ed il comportamento di Gesù, il giudeo venuto tra loro, i samaritani si sono proiettati verso un futuro di pace e di fratellanza con gli altri popoli ed hanno compreso che quest’uomo non è solo un Messia nazionale, ma “veramente il Salvatore del mondo”.


La guarigione del paralitico

(Gv 5,1-15)


Il racconto della guarigione di un uomo, paralitico da ben 38 anni, presenta alcune anomalie rispetto agli altri racconti di prodigi compiuti da Gesù. Il miracolo viene operato per libera iniziativa di Gesù, senza che il malato ne faccia specifica richiesta; il miracolato rimane, almeno in apparenza e ad una lettura superficiale del testo, una figura alquanto scialba, incapace di un gesto di vera riconoscenza nei confronti del suo benefattore e di una testimonianza sia pur minimamente coraggiosa; per la prima ed unica volta nel IV Vangelo Gesù associa la malattia fisica ad un disordine morale del malato. Alcuni elementi narrativi lasciano sconcertato il lettore, come la scelta casuale di quel particolare malato, che giaceva a terra in mezzo ad una moltitudine d’altri malati conciati come lui o peggio di lui; l’atteggiamento sconfortato di quest’infermo di fronte a Gesù, che gli chiede se vuole essere guarito; la sua ignoranza di colui che lo ha guarito ed il suo silenzio allorquando Gesù lo ritrova nel tempio. Per contro, l’evangelista sviluppa un tema teologico interessante su una gestualità tipica dell’essere umano, l’unico essere del creato abilitato dalla natura a “camminare”.

Nel contesto letterario e teologico dell’Antico Testamento, il verbo “camminare” ha frequentemente un valore metaforico ed indica il modo con cui un credente sa condurre la propria esistenza e sa compiere delle scelte morali in relazione alle opzioni di fede (“con Dio” o “dinnanzi a Dio”). Rimanendo nell’ambito del racconto in esame, il “camminare” si contrappone all’incapacità di muoversi, il che equivale ad una condizione di morte. Colui che giace malato ed impossibilitato a muoversi è come se fosse morto (condizione espressa dal verbo “giacere”). Per far camminare nuovamente il paralitico, Gesù usa il verbo “alzati! ”, che in greco viene espresso con un “égheire”, termine tradizionalmente usato per indicare la risurrezione.

Il miracolo viene ambientato nella piscina di Bethesda in occasione di una non meglio precisata “festa dei giudei”. Viene solo evidenziato il fatto che il prodigio è stato compiuto da Gesù in giorno di sabato.


5,1 Dopo queste cose, ci fu una festa dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2 Ora, a Gerusalemme presso la porta delle pecore vi è una piscina chiamata in ebraico Bethesda, che ha cinque portici. 3 Sotto di essi giaceva una moltitudine di infermi: ciechi, zoppi, invalidi che attendevano il movimento dell’acqua. 4 L’angelo del Signore infatti discendeva in determinati momenti nella piscina e agitava l’acqua; il primo che vi entrava dopo che l’acqua era stata agitata recuperava la salute, qualunque fosse la sua malattia.

L’evangelista non specifica volutamente di che festa si tratta, forse anche per non creare una sorta di dualismo o di concorrenza tra questa festa particolare ed il sabato, che sarà ricordato più avanti nel corso del racconto. Si tratterebbe, però, di una delle grandi feste ebraiche in occasione delle quali i pellegrini ebrei si recavano in gran numero a Gerusalemme per offrire i loro sacrifici presso il Tempio. La menzione di “una festa dei giudei” non avrebbe solo lo scopo di giustificare la presenza di Gesù a Gerusalemme, ma avrebbe piuttosto la finalità di collocare l’attività di Gesù, “in parole ed opere”, in quella prospettiva della salvezza che Israele celebrava quando commemorava la sua relazione con il Dio dell’Alleanza.

Gesù salì a Gerusalemme. Come ogni giudeo osservante, Gesù si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme, la città santa dove prenderà forma e si svilupperà il contrasto tra Lui e le autorità religiose giudaiche, fino alla tragica conclusione del Gòlgota. Da ogni regione della Palestina si può arrivare a Gerusalemme solo affrontando una salita, dal momento che la città santa si trova a circa 850 m di altitudine sul monte Sion (la cima di un monte veniva considerata il punto della terra più vicino a Dio e qui sorgevano abitualmente altari e luoghi di culto, oltre alle roccheforti) e, come ogni normale e pio pellegrino, anche Gesù canta i salmi graduali o delle ascensioni (Sal 120-134) man mano che si avvicina alla città di Davide. Il verbo “salire” assume anche un significato teologico, racchiuso nel movimento interiore suscitato dalla grazia e compiuto dall’uomo per avvicinarsi a Dio mediante uno sforzo della volontà, la quale scaturisce da una decisione consapevole della propria coscienza, è sorretta dalle facoltà intellettive e sfocia in una scelta di vita, spesso coraggiosa e controcorrente. Per camminare e salire verso Dio non è sufficiente, di solito, affidarsi al solo slancio emotivo che, il più delle volte, si esaurisce con il sorgere delle prime vere difficoltà della vita.

La piscina di Bethesda, dove Gesù si reca una volta giunto in città, viene descritta e localizzata dall’evangelista con dettagli che ne indicano una buona conoscenza personale. La piscina, come è stato confermato anche dagli scavi archeologici, si trovava vicino alla Porta Probatica (o delle pecore), cioè quella porta d’ingresso delle mura di cinta attraverso cui erano fatte passare le pecore, destinate ai sacrifici nel Tempio. Le proprietà taumaturgiche dell’acqua della piscina erano note fin dall’antichità semitica pre-giudaica e questo spiega la presenza di una numerosa folla di sventurati, pronti a gettarsi od a farsi gettare in acqua al primo accenno d’increspatura della sua superficie per opera “dell’angelo del Signore”. La tradizione popolare annetteva al “movimento dell’acqua” una grandissima importanza, nella convinzione che Dio stesso (“l’angelo del Signore”) volesse premiare con la pronta guarigione i malati più lesti o più furbi a cogliere al volo la buona occasione. L’evangelista potrebbe aver scelto questo scenario di carattere cultuale (pagano o giudaico) allo scopo di squalificarlo di fronte all’unico Salvatore, l’uomo Gesù, che può guarire senza il bisogno di ricorrere all’acqua della piscina “miracolosa”, sostituendosi all’angelo del Signore dal momento che Egli stesso è il Signore.


5 C’era là un uomo che viveva da trentotto anni nella sua infermità. 6 Gesù, vedendolo giacere disteso e sapendo che si trovava in questa condizione già da lungo tempo, gli dice: “Vuoi diventare sano?”. 7 L’infermo gli rispose: “Signore, non ho nessuno che mi porti nella piscina quando l’acqua si agita e, mentre io cerco di arrivarci, un altro vi scende prima di me”. 8 Gesù gli dice: “Alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina!”. 9 E subito quell’uomo divenne sano e prese il suo giaciglio e camminava. Ma quel giorno era sabato.

Gesù “vede” un uomo tra tanti e, come al solito, “sa” che quell’uomo è malato “fuori e dentro” (più dentro che fuori…) da tanto, troppo tempo. Di che cosa soffre quest’uomo, di cui l’evangelista dice solo che è affetto da asthéneia (in italiano, astenia)?

Qualche autore ha contestato il presupposto tradizionale secondo il quale l’infermo del racconto fosse un paralitico, avanzando l’ipotesi che egli non fosse altro che un nevrastenico, il quale si compiaceva in un rifiuto di vivere (“viveva nella sua infermità”). Si spiegherebbe così la sua passività disarmante e sconcertante anche davanti alla prospettiva di una pronta guarigione, implicita nella domanda di Gesù, il quale non domanda “vuoi guarire?” ma, in modo assai curioso e strano, “Vuoi diventare sano?”.

Evidentemente quest’uomo ha bisogno di una scossa, in grado di riscuoterlo dall’apatia e dall’autocommiserazione, che lo divora dal di dentro come un cancro dello spirito da ben trentotto anni. Sollecitato da Gesù con una domanda che, di per sé, richiederebbe un “sì” od un “no”, l’infermo tergiversa e risponde con una constatazione di impotenza che suona quasi come una scusa: “Non ho nessuno che mi porti nella piscina...”. Se era così gravemente infermo, chi lo aveva condotto alla piscina o come aveva fatto ad arrivarci? “Mentre io cerco di arrivarci, un altro vi scende prima di me”.

Questo sventurato sembra avere l’abitudine di scaricare su altri la responsabilità del proprio profondo disagio interiore, confermando la diagnosi di una malattia psichica. Impotente (“giaceva disteso”) e condannato all’isolamento, quest’uomo sembra essere una specie di escluso dalla vita, un emarginato rassegnato e disperato (“Io non ho nessuno…”), incapace anche di verificare l’esistenza, accanto a sé, di una presenza amica che gli sta offrendo un aiuto. Gesù gli è assai vicino, ma l’infermo sembra non accorgersene. In realtà, quest’uomo è morto “dentro” e Gesù gli ordina di tornare alla vita: “Alzati (égheire), prendi il tuo giaciglio e cammina”.

Più che la guarigione di un infermo sembra la risurrezione di un morto, anche se si tratta di una morte spirituale, dell’anima.

Alzati” e scrollati di dosso la paura di vivere e di assumerti le tue responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini; smettila di piangerti addosso e di aspettare che altri decidano per te cosa devi fare della tua vita e del tuo destino.

Prendi il tuo giaciglio” e non pensare di dover sempre dipendere dagli altri. Anzi, saranno gli altri a doversi aspettare qualcosa da te; aiutando gli altri, aiuti anche a trovare te stesso ed a comprendere cosa Dio vuole da te nella vita che ti ha donato.

Cammina”, perché d’ora in poi non avrai più scuse. La responsabilità di una conversione radicale è solo ed esclusivamente tua e non puoi più incolpare qualcun altro della tua incapacità di affrontare la vita con dignità, con senso di responsabilità e con coraggio.

E subito quell’uomo divenne sano. La guarigione fa immediatamente seguito alle parole di Gesù. La paura di vivere di quell’uomo si dissolve come nebbia al sole e l’impossibilità a muoversi ed a prendere decisioni autonome (paralisi del corpo e dello spirito) si risolve immediatamente: “prese il suo giaciglio e camminava”. Per poter camminare con le proprie gambe, il malato deve dimostrare di essere capace anche di portare su di sé il fardello delle proprie pene, delle angosce esistenziali, delle incertezze e delle scelte difficili (“prese il suo giaciglio”) che ogni essere umano deve saper affrontare nella vita di ogni giorno, diffidando di coloro che offrono una facile soluzione a tutti i problemi dell’esistenza.

Ma quel giorno era sabato. I giudei osservanti si rendono conto di due cose: 1) Gesù agisce in piena libertà di fronte alla Legge; 2) una guarigione miracolosa in giorno di sabato deve necessariamente far pensare alle parole dei profeti (Is 29,18; 35,4-6; 42,16; Sof 3,19), che hanno identificato nella guarigione degli infermi il contrassegno del tempo della salvezza definitiva. Se Gesù ha ordinato al miracolato di trasportare la propria barella, nonostante l’esplicito divieto legale di portare pesi e di compiere qualsiasi tipo di lavoro manuale in giorno di sabato, lo ha fatto perché fosse evidente a tutti la presenza della salvezza escatologica, di cui la guarigione prodigiosa era il segno evidente e concreto.

Era sabato. L’istituzione del sabato caratterizzava la tradizione religiosa di Israele. Dando equilibrio al ritmo dell’esistenza, il sabato liberava l’uomo dal suo lavoro, affinché si rivolgesse esclusivamente verso Dio, suo Creatore e Salvatore ed affinché Israele, un tempo schiavo in Egitto, si ricordasse di Colui che lo aveva liberato dalla schiavitù (Dt 5,12-15). Nel corso dei secoli, però, la casuistica aveva moltiplicato le proibizioni, aumentando le penalità. Operando una guarigione miracolosa su di un uomo malato da ben trentotto anni (colpiti da questa cifra, alcuni commentatori hanno pensato a Dt 2,14 e cioè al tempo trascorso nel deserto da Israele, “generazione ribelle” ed errante, sorretto solo dalla speranza di arrivare alla terra che Dio gli aveva promesso), Gesù dimostra d’essere superiore all’istituzione del sabato e di collocarsi nel contesto dell’agire divino, che conduce la creazione verso il suo compimento definitivo. Il giorno, cui si riferisce indirettamente l’evangelista, è il vero sabato, quello in cui culmina l’opera di Dio mediante l’agire di suo Figlio.


10 Dicevano dunque i giudei a colui che era stato guarito: “E’ sabato! Non ti è lecito portare il tuo giaciglio”. 11 Ma egli rispose loro: “ Colui che mi ha reso sano, quello mi ha detto : «Prendi il tuo giaciglio e cammina»”. 12 Gli domandarono: “Chi è l’uomo che ti ha detto : «Prendi e cammina»?”. 13 Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù era scomparso perché quel luogo era affollato. 14 Poco dopo, Gesù lo trova nel Tempio e gli dice: “Ecco, sei divenuto sano! Non peccare più, affinché non ti succeda qualcosa di peggio!”. 15 L’uomo se ne andò e disse ai giudei che era Gesù colui che lo aveva reso sano.

Prigionieri del legalismo più rigoroso ed intransigente, i giudei mettono in secondo piano l’evento prodigioso della guarigione del paralitico e fanno risaltare solamente l’interdetto legale: non è lecito trasportare alcunché in giorno di sabato. La dignità umana viene subordinata alla Legge, resa dagli uomini motivo di morte invece che essere messa al servizio della vita (Rm 7,10). Le autorità religiose giudaiche non sanno comprendere che se Dio opera segni prodigiosi nel giorno a Lui consacrato da quella stessa Legge, che Egli aveva consegnato a Mosè, è perché si sono inaugurati i tempi nuovi, quelli della salvezza per Israele e per l’intero genere umano: “Ecco il vostro Dio, è colui che viene a salvarvi…Allora gli occhi dei ciechi si apriranno, le orecchie dei sordi si schiuderanno, allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto griderà di gioia” (Is 35,4-6). La guarigione di quell’uomo è il segno evidente che la salvezza escatologica si è resa presente storicamente in Gesù, ma i giudei sono accecati dalla loro supponenza ed arroganza, già denunciata e condannata dagli antichi profeti di Israele (cf. Is 6,9-10): essi ascoltano con le orecchie ma non sanno comprendere le parole che sentono, vedono con gli occhi ma non sanno interpretare gli eventi di cui sono spettatori, perché la loro intelligenza s’ è fatta ottusa ed il loro cuore si è appesantito nell’orgoglioso compiacimento di se stessi e della loro conoscenza della Legge, perciò si sentono legittimati a giudicare le azioni e le intenzioni dei loro simili.

Quando i custodi della legalità religiosa gli fanno notare la gravità della sua azione (“Non ti è lecito portare il tuo giaciglio”) per la flagrante violazione del sabato, il miracolato non sa trovare di meglio che addossare la responsabilità del suo agire a chi lo ha guarito: “Colui che mi ha reso sano mi ha detto…”. In fin dei conti, il pover’uomo è da capire; probabilmente non si è nemmeno reso conto di contravvenire alla Legge. Dopo anni di sofferenza fisica e morale, contrassegnati da disperazione, solitudine, risentimenti contro tutti (“Non ho nessuno…”) e, forse, anche contro Dio che gli ha tolto la salute, il paralitico si ritrova improvvisamente in piedi e pronto a ricominciare a “vivere” come un uomo normale. L’ultimo dei suoi pensieri è che quell’uomo, che lo ha miracolosamente guarito, gli stia facendo violare la Legge in modo grave; la risposta data ai giudei potrebbe sembrare, a prima vista, un’elusione di responsabilità ma, in realtà, si tratta di una attestazione dell’autorità del guaritore. “Colui che mi ha reso sano…” è una formula un po’ ridondante, quasi reverenziale, che rimanda al misterioso personaggio di cui non conosce il nome, ma di cui ha udito la parola (“..quello mi ha detto”) capace di dissolvere in un istante anni ed anni di sofferenze e di delusioni. Ma è proprio quella “parola” che scandalizza i benpensanti giudei, i quali non sanno capacitarsi del fatto che un uomo, in grado di operare prodigi, possa permettersi di impartire un ordine così palesemente trasgressivo ed offensivo della sacra Tôrah.

Chi è l’uomo che ti ha detto…? Coloro che si reputano come gli unici depositari della conoscenza ed i legittimi interpreti della Legge prendono le debite distanze da chi ha apertamente violato una delle norme più rigorose, meglio circostanziate e sanzionate dell’intera Tôrah. Anche se ha compiuto un prodigio, quest’uomo ha preteso di sostituirsi a Dio ed alla sua santa Legge e va, quindi, neutralizzato al più presto; dal momento che Gesù compie miracoli in giorno di sabato, è del tutto probabile che agisca per conto ed in nome di Beelzebul (Lc 11,14-20).

Il miracolato non “sa” chi sia il suo benefattore, che, nel frattempo, si è eclissato tra la folla e non ha nemmeno atteso di essere ringraziato. La sua “ignoranza”, però, dura poco, visto che l’incontro con Gesù si ripete a breve distanza dalla piscina. Il miracolato ha così l’opportunità di “fare conoscenza” di Colui che lo ha guarito in un luogo più adatto; la piscina, infatti, è uno spazio più o meno pagano perché vi si rifugiano coloro che sono esclusi dal Tempio a causa delle loro infermità, in ossequio alla legge della purità legale (Lv 11,1-16,34). Per iniziativa di Gesù, dunque, il secondo incontro con l’ormai ex paralitico, avviene nel Tempio, la casa del Padre, il luogo della Presenza dove, con tutta probabilità, il miracolato si è recato per far constatare l’avvenuta guarigione ai sacerdoti, deputati a riammetterlo al culto del Tempio come prescritto dalla Legge. Nel Tempio Gesù si fa “conoscere”, provocando nel suo interlocutore una decisione.

Ecco, sei divenuto sano! Non peccare più…”. L’avvenuta guarigione fisica viene confermata da Gesù insieme a quella dello spirito (“non peccare più”). A prima vista, sembra che Gesù colleghi la malattia del corpo con il peccato, di cui sarebbe l’ovvia conseguenza ma, in realtà, Egli mette sullo stesso piano la salute del corpo e quella dello spirito, la cui malattia più grave è il peccato. Spesso ci si preoccupa del benessere fisico, dimenticando che una situazione di peccato uccide la propria anima, destinandola alla morte eterna! Se si pone tanta cura ed attenzione per la salute fisica del proprio corpo, a maggior ragione ci si dovrebbe preoccupare della salute dello spirito e, quindi, di una condotta senza peccato. Il malato del racconto, prima di essere guarito da Gesù, non era solo fisicamente “paralizzato”, impossibilitato a muoversi, ad essere autonomo ed autosufficiente, ma era, molto probabilmente, incapace di slanci interiori e di rapporti personali con gli uomini e con Dio, prigioniero del proprio egoismo, di un’insanabile disperazione e del più cupo pessimismo. Guarendolo soprattutto da se stesso, Gesù gli ha offerto l’opportunità più unica che rara di elevare nuovamente il cuore e la mente verso la fonte stessa della vita, mediante il rinnovamento del rapporto personale con Dio e di ampliare l’orizzonte dei rapporti umani abbandonando ogni atteggiamento di meschino egoismo e di superba presunzione. La condizione essenziale per “mantenersi sano” è quella di evitare di ricadere in una situazione di peccato “affinché non ti succeda qualcosa di peggio”. Cosa c’è di peggio della malattia? Ovvio, la morte.

Il miracolato ha con tutta probabilità compreso la lezione e tace. Non c’è alcun bisogno di replicare all’ammonimento severo e minaccioso di Gesù, le cui parole sono penetrate in profondità in quel cuore ormai aperto all’ascolto e pronto alla testimonianza. Allontanatosi da Gesù e portando dentro di sé l’eco di quelle parole, che suonano più come un incoraggiamento alla conversione vera e radicale del cuore che come una semplice minaccia di punizioni future, quell’uomo si reca dalle autorità giudaiche e riferisce di essere stato guarito da Gesù.

Il racconto del miracolo di Bethesda suggerisce due considerazioni finali: 1) Gesù, attraverso la guarigione di una malattia sia fisica che psichica, dimostra di poter disporre della vita intesa nella sua totalità; 2) a Lui compete anche il giudizio finale sull’uomo.

Disteso sul suo giaciglio, tra una folla di altri esseri umani distesi a terra come lui, l’infermo del racconto è l’immagine simbolica dei “morti” che il Padre ed il Figlio vogliono “vivificare”. Il verbo usato da Gesù per guarire il malato (“Alzati! ”) è identico a quello da Lui utilizzato per indicare il potere del Padre di resuscitare i morti (cf. 5,21), potere condiviso anche dal Figlio e riguardante l’intera umanità. Ecco perché questo personaggio rimane senza nome (viene semplicemente indicato col sostantivo generico di uomo) ed il suo male, di così lunga durata, non viene specificato (la “paralisi”, come viene generalmente indicata la malattia di questo infermo, esemplifica solo la sua situazione di non autosufficienza psico-fisica), per indicare la condizione comune di coloro che sono incapaci di “camminare” in senso biblico, cioè sono incapaci di “camminare con Dio” e sono impotenti a rimettersi in piedi da se stessi. Ponendo il protagonista tra i ciechi e gli zoppi, l’evangelista lo inserisce nel novero di coloro che sono i beneficiari della Promessa, invitati dal padrone di casa al banchetto escatologico della fine dei tempi (cf. Lc 14,21). A Gesù che gli chiede: “Vuoi divenire sano?”, il malato risponde con un tono passivo e disilluso. La sua risposta potrebbe essere interpretata in questo senso: la guarigione è impossibile se un “uomo” non viene a lui e lo immerge nella piscina. Gesù restituisce la salute a questo morto-vivente, ma non con l’acqua agitata e curativa della piscina, bensì con la sola efficacia terapeutica della sua “parola”, mediante la quale il Figlio, l’Inviato del Padre, comunica la vita (cf. 5,24). L’enunciazione del comando (“Alzati… e cammina”) e la constatazione del risultato immediato (“E subito quell’uomo divenne sano”) è un procedimento che ricorda Gn1,3: “Dio disse:«Sia la luce»; e la luce fu”. Camminando liberamente, il protagonista è entrato in un nuovo ordine di esistenza pur portando come segno della propria “morte” il giaciglio, ormai reso inutile dalla Parola sanante di Gesù. Il giaciglio resta come testimonianza del gesto salvifico di Dio avvenuto “in quel giorno”. Secondo questa prospettiva, la “festa dei giudei” non meglio precisata potrebbe già orientare verso l’evento della salvezza, prima ancora che il racconto si concentri sul sabato escatologico.

Dal canto suo il giudizio esprime, in senso negativo, il carattere assoluto del dono di Dio. Più che il giudizio in sé e per sé, a Dio interessa la vita simboleggiata dalla salute recuperata, che caratterizza la prima parte del racconto. Il giudizio incombe pesantemente nella seconda parte della pericope, quando Gesù ritrova il malato, ormai guarito, nel Tempio. Presso la piscina, dopo averlo avvicinato con una domanda riguardante la sua stessa esistenza (“Vuoi diventare sano?”), Gesù aveva rimesso in piedi l’infermo di propria iniziativa e senza farsi prima riconoscere, ma nel Tempio, fattosi conoscere dal miracolato, Egli lo provoca ad un impegno personale senza soluzioni di continuità (“Non peccare più!), dal che si può dedurre che quell’uomo era in precedenza colpevole di una situazione di disperazione, che gli impediva di comprendere che Dio vuole solo la vita e non la morte dell’anima. Per Giovanni la vera essenza del peccato è l’incredulità, che aveva fatto dire al malato:”Non ho nessuno” (che mi salvi). All’invito di non peccare più, Gesù fa seguire una minaccia piuttosto pesante: ”…affinché non ti succeda qualcosa di peggio”. Questo “peggio” è il giudizio, la morte definitiva che avverrebbe qualora l’uomo non sapesse cogliere il senso della sua nuova situazione e non ne traesse le debite conclusioni. La risposta del miracolato è l’azione immediata, che contrasta con la precedente situazione di “paralisi”: egli si reca immediatamente dai giudei per annunciare che colui che lo ha guarito è Gesù, dimostrando, così, di essere divenuto “credente” e di aver accolto in sé la “vita”.


Gesù “pane di vita”

(Gv 6,1-71)


L’evangelista Giovanni, pur essendo stato testimone diretto dei fatti avvenuti durante l’Ultima Cena, non ha tramandato il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia come hanno fatto, invece, gli evangelisti sinottici (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) e s. Paolo (1Cor 11,23-25), ma ne ha fatto una chiara allusione (6,51-58) nel contesto di un grande discorso, avvenuto presso la sinagoga di Cafàrnao il giorno dopo aver compiuto il prodigioso “segno” della moltiplicazione dei pani, riportato con poche varianti anche dai Sinottici (Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10-17). Più che narrare i fatti come si sono realmente svolti, cioè l’istituzione dell’Eucaristia durante l’Ultima Cena, probabilmente Giovanni si è preoccupato di fornire l’interpretazione teologica del grande dono che il Figlio di Dio ha voluto fare all’umanità: il dono di Se stesso come “pane di vita”.

Il capitolo sesto del IV Vangelo si compone di tre quadri narrativi strettamente collegati tra loro ed il cui sviluppo temporale occupa lo spazio di due intense “giornate” di rivelazione: 1) nel primo di questi due giorni Gesù compie il “segno” della moltiplicazione dei pani su un monte, prospiciente il lago di Galilea (6,1-15);

2) nel corso della notte successiva Gesù compie un altro “segno”, camminando sulle acque del lago di Galilea (6,16-21);

3) il giorno dopo Gesù spiega il senso del miracolo della moltiplicazione dei pani alla folla riunita nella sinagoga di Cafàrnao (6,22-65).

La conseguenza del discorso di auto-rivelazione, in cui Gesù definisce Se stesso come “pane di vita” (6,48) “disceso dal cielo… per la vita del mondo” (6,51), è l’abbandono del Maestro da parte di molti dei suoi discepoli (6,66) e la dichiarazione di fede da parte dei Dodici per bocca di Pietro (6,67-69) con la predizione di Gesù del futuro tradimento da parte di Giuda Iscariota (6,70-71).

Nonostante l’enorme portata del prodigio della moltiplicazione dei pani, se non altro dal punto di vista quantitativo, la risposta di fede nei confronti di Colui che ha compiuto il miracolo è veramente deludente: pochi sono disposti a credere in Gesù e tra questi pochi c’è anche chi è pronto a tradirlo! Viene spontaneo collegare le reazioni così contrastanti dei testimoni del prodigio della moltiplicazione dei pani alle “due giornate” di rivelazione. Come può ben notare un attento lettore del IV Vangelo, Giovanni ama ricorrere alla simbologia del secondo giorno (cf., ad esempio, 1,35-2,1), che sta ad indicare l’incompletezza della rivelazione. Solo chi viene reso partecipe dell’evento del terzo giorno (cioè della Pasqua di Resurrezione) può, con giusta ragione, comprendere la portata del mistero racchiuso nella Persona di Gesù, il Signore Risorto e capirne i gesti e le parole. A ben vedere, non solo la folla non è stata testimone della Resurrezione di Cristo, ma neppure Giuda Iscariota, suicidatosi per disperazione prima di “vedere” il Risorto; se la folla può essere in qualche modo giustificata per l’incapacità di arrivare ad una fede piena, non essendo stata “scelta” in vista della testimonianza della Pasqua di Cristo, Giuda Iscariota, invece, non ha scusanti per la sua mancanza di fede sfociata nel tradimento perché, pur essendo uno dei “prescelti”, si è volontariamente autoescluso dalla “testimonianza” dell’esperienza pasquale. La sua scelta di non-fede è ancora più grave della mancanza di fede della folla e di quegli anonimi discepoli che hanno trovato troppo “dure” le parole del Maestro.

Il vino (donato in abbondanza alle nozze di Cana), l’acqua (tema centrale del dialogo tra Gesù e la samaritana) ed il pane (filo conduttore del sesto capitolo del IV Vangelo) sono i simboli giovannei per eccellenza, che tra loro si completano per significare la vita comunicata da Gesù a coloro che credono in Lui attraverso il dono dell’Eucaristia.

Il sesto capitolo di Giovanni può essere suddiviso in una parte cristologica (6,1-51), centrata su tema pane/parola ed una parte eucaristica (6,52-58), imperniata sul tema pane/cibo di vita. Giovanni si comporta da abile drammaturgo, capace di animare la scena con un continuo intreccio di azione e di movimento, i cui protagonisti sono Gesù, i discepoli e la folla. Dapprima i discepoli e la folla stanno con Gesù (6,1-14), avendo compreso la portata del miracolo da Lui compiuto e di cui tutti hanno beneficiato; quindi, per sottrarsi alla folla che intende farlo re, Gesù si ritira sul monte per pregare in solitudine, mentre i discepoli sono soli sulla barca e la folla è come abbandonata a se stessa (6,15-18); a questo punto Gesù si ricongiunge coi suoi discepoli apparendo come una visione, che assume il significato di una vera e propria teofania (6,19-21); la gente va nuovamente alla ricerca di Gesù (6,22-25) e, infine, Gesù, i discepoli e la folla sono di nuovo insieme (6,26-59).

Improvvisamente, durante il discorso nella sinagoga, la folla diventa ostile a Gesù e si fa minacciosa ed emerge acuto il conflitto tra Gesù stesso ed i giudei, i nemici dichiarati di Gesù. Il risultato concreto del discorso di auto-rivelazione di Gesù è la crisi galilaica: molti discepoli si allontanano ed abbandonano Gesù (6,60-66), che rimane solo con i Dodici (6,67-69), tra i quali c’è anche il “traditore” (6,70-71). La crisi è motivata dal fatto che il discorso di Gesù viene ritenuto “duro” dai più: non è possibile accettare un Dio troppo umano. Qui si intravedono le prime eresie circolanti già alla fine del I° secolo d.C. in ambiente giovanneo, come il docetismo (dal greco dokésis, apparenza), secondo cui sulla croce non era morto realmente Gesù Cristo, Figlio di Dio, bensì una sua controfigura. Alla base di questa eresia, molto pericolosa per la fede cristiana, stava la negazione della vera umanità di Cristo.

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04/06/2010 18:25
 
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Il Vangelo di Giovanni

La storia della Chiesa è ricca di questi reciproci scambi di testimonianza di fede. Popoli evangelizzati nei secoli scorsi da missionari provenienti da paesi cristiani, ora sono pronti ad evangelizzare questi stessi paesi, che hanno perso per strada la fede e si sono “scristianizzati” o “secolarizzati”.

Lo invitarono a rimanere”. Quest’invito sarà rivolto a Gesù risorto anche dai due discepoli di Emmaus, rapiti ed intimamente infiammati dalle parole del Maestro, che spiegava loro il senso delle Scritture (Lc 24,29). Chi “rimane” con Gesù o “dimora” presso di Lui (Gv 1,39), entra in comunione intima col Verbo eterno di Dio, ne “respira” l’eternità, ne “sperimenta” l’infinita bontà e misericordia e ne diventa “testimone” verace e credibile. Coloro che sanno “rimanere” con Gesù hanno le carte in regola per essere i “veri adoratori in spirito e verità”, che il Padre va continuamente cercando (4,23).

Vi rimase due giorni”. L’esperienza del Cristo fatta dai samaritani è chiaramente limitata, pre-pasquale, non ancora illuminata dal bagliore della risurrezione di Gesù, che avverrà il terzo giorno. I discepoli, che saranno di lì a poco i testimoni privilegiati della risurrezione di Gesù, “rimarranno” col Risorto per ben quaranta giorni (At 1,3), un tempo molto lungo per indicare ed esprimere la pienezza dell’esperienza che un uomo può fare di Dio.

Basti ricordare i 40 giorni del diluvio (Gen 7,17), i 40 anni trascorsi dagli ebrei nel deserto durante l’esodo dall’Egitto (Dt 1,3), i 40 giorni trascorsi da Mosè sul monte Sinai prima di ricevere il Decalogo (Es 24,18), i 40 giorni trascorsi nel deserto dal profeta Elia in fuga dal re Acab (1Re 19,8), i 40 giorni trascorsi da Gesù nel deserto prima dell’inizio della vita pubblica (Mt 4,2; Mc 1,12; Lc 4,2). Il continuo ricorrere nella Bibbia del numero quaranta (e di svariati altri numeri, come il 2, il 3, il 4, il 6, il 7, il 10, il 12, il 70, il 1000 e multipli vari) ne sottolinea il chiaro valore simbolico e sacro, tanto caro alla cultura semitica in genere ed ebraica in particolare. Attribuire ai numeri un valore assoluto può essere causa di confusione, di sconcerto se non di scetticismo per la nostra mentalità eccessivamente razionalistica (come i sette giorni della creazione di Gen 1,3-2,4a), ma può prestarsi anche a letture errate specie da parte di movimenti religiosi d’impronta apocalittica, che cercano nei numeri la “lettura” della fine del mondo e della salvezza di un’élite di pochi e scelti eletti (come i 144mila salvati di Ap 7,4).

Il Salvatore del mondo”. In un primo momento Gesù è stato riconosciuto come giudeo, poi è stato paragonato a Giacobbe, quindi ritenuto capace di dare un’acqua che disseta per sempre e, infine, considerato come profeta. Gesù conclude il suo dialogo con la samaritana autoproclamandosi messia. La donna riferisce questo annuncio di proclamazione (4,29) sotto forma di domanda (“Non sarà forse lui il Cristo?”), lasciando ai suoi concittadini il compito di impegnarsi, ognuno per conto proprio, nei confronti del probabile Unto del Signore. Ben difficilmente i samaritani si sarebbero spinti ad usare un termine estraneo alla loro cultura, presente invece nel contesto culturale ellenistico. Forse Giovanni ha inteso polemizzare, in questo passo del suo Vangelo, con l’usanza pagana di divinizzare i monarchi del tempo, ai quali veniva attribuito il titolo di “salvatore” (in greco sotèr) con evidente intento adulatorio o, forse, ha voluto ridicolizzare il culto di Asclepio (o Esculapio), medico divino, figlio di Apollo, di cui si celebravano le qualità taumaturgiche e filantropiche e che veniva venerato proprio in Epidauro.

Mondo. In questo caso il termine “mondo” è usato in senso positivo; non si tratta qui del mondo malvagio, che altrove l’evangelista stigmatizza e considera con disprezzo, ma del mondo amato da Dio e destinato alla salvezza per opera del Figlio (3,16-17), quello da cui sarà tolto il peccato (1,29). Il termine “mondo” consente di spaziare oltre gli angusti confini della nazione samaritana e di coinvolgere nel progetto della salvezza il mondo intero. Tutto il racconto è teso al superamento di ogni confine geopolitico, sociale, culturale e religioso.

La conversione della samaritana e di gran parte della popolazione di Sicàr ha consentito a Gesù di superare, anche agli occhi dei suoi discepoli, le barriere etniche (4,9) e le differenze cultuali vincolate a specifici luoghi di culto (4,21). Ora Gesù “dimora” a pieno titolo anche presso gli eretici samaritani. Il superamento d’ogni frontiera non elimina il legame della salvezza con Israele, poiché “la salvezza proviene dai giudei” (4,22). Il mondo, destinatario della salvezza, rimane incluso nella prospettiva di Israele, la cui vocazione di essere segno della volontà salvifica universale di Dio viene avvalorata dalla vicenda storica di Gesù di Nazareth (cf. Es 19,5-6).

Dal punto di vista teologico, il mondo esiste solo se messo in riferimento ad Israele e la riconciliazione, in Cristo, di Samaria con Giuda anticipa la riconciliazione universale di tutti i popoli tra loro e con Dio. Così, mediante la parola ed il comportamento di Gesù, il giudeo venuto tra loro, i samaritani si sono proiettati verso un futuro di pace e di fratellanza con gli altri popoli ed hanno compreso che quest’uomo non è solo un Messia nazionale, ma “veramente il Salvatore del mondo”.


La guarigione del paralitico

(Gv 5,1-15)


Il racconto della guarigione di un uomo, paralitico da ben 38 anni, presenta alcune anomalie rispetto agli altri racconti di prodigi compiuti da Gesù. Il miracolo viene operato per libera iniziativa di Gesù, senza che il malato ne faccia specifica richiesta; il miracolato rimane, almeno in apparenza e ad una lettura superficiale del testo, una figura alquanto scialba, incapace di un gesto di vera riconoscenza nei confronti del suo benefattore e di una testimonianza sia pur minimamente coraggiosa; per la prima ed unica volta nel IV Vangelo Gesù associa la malattia fisica ad un disordine morale del malato. Alcuni elementi narrativi lasciano sconcertato il lettore, come la scelta casuale di quel particolare malato, che giaceva a terra in mezzo ad una moltitudine d’altri malati conciati come lui o peggio di lui; l’atteggiamento sconfortato di quest’infermo di fronte a Gesù, che gli chiede se vuole essere guarito; la sua ignoranza di colui che lo ha guarito ed il suo silenzio allorquando Gesù lo ritrova nel tempio. Per contro, l’evangelista sviluppa un tema teologico interessante su una gestualità tipica dell’essere umano, l’unico essere del creato abilitato dalla natura a “camminare”.

Nel contesto letterario e teologico dell’Antico Testamento, il verbo “camminare” ha frequentemente un valore metaforico ed indica il modo con cui un credente sa condurre la propria esistenza e sa compiere delle scelte morali in relazione alle opzioni di fede (“con Dio” o “dinnanzi a Dio”). Rimanendo nell’ambito del racconto in esame, il “camminare” si contrappone all’incapacità di muoversi, il che equivale ad una condizione di morte. Colui che giace malato ed impossibilitato a muoversi è come se fosse morto (condizione espressa dal verbo “giacere”). Per far camminare nuovamente il paralitico, Gesù usa il verbo “alzati! ”, che in greco viene espresso con un “égheire”, termine tradizionalmente usato per indicare la risurrezione.

Il miracolo viene ambientato nella piscina di Bethesda in occasione di una non meglio precisata “festa dei giudei”. Viene solo evidenziato il fatto che il prodigio è stato compiuto da Gesù in giorno di sabato.


5,1 Dopo queste cose, ci fu una festa dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2 Ora, a Gerusalemme presso la porta delle pecore vi è una piscina chiamata in ebraico Bethesda, che ha cinque portici. 3 Sotto di essi giaceva una moltitudine di infermi: ciechi, zoppi, invalidi che attendevano il movimento dell’acqua. 4 L’angelo del Signore infatti discendeva in determinati momenti nella piscina e agitava l’acqua; il primo che vi entrava dopo che l’acqua era stata agitata recuperava la salute, qualunque fosse la sua malattia.

L’evangelista non specifica volutamente di che festa si tratta, forse anche per non creare una sorta di dualismo o di concorrenza tra questa festa particolare ed il sabato, che sarà ricordato più avanti nel corso del racconto. Si tratterebbe, però, di una delle grandi feste ebraiche in occasione delle quali i pellegrini ebrei si recavano in gran numero a Gerusalemme per offrire i loro sacrifici presso il Tempio. La menzione di “una festa dei giudei” non avrebbe solo lo scopo di giustificare la presenza di Gesù a Gerusalemme, ma avrebbe piuttosto la finalità di collocare l’attività di Gesù, “in parole ed opere”, in quella prospettiva della salvezza che Israele celebrava quando commemorava la sua relazione con il Dio dell’Alleanza.

Gesù salì a Gerusalemme. Come ogni giudeo osservante, Gesù si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme, la città santa dove prenderà forma e si svilupperà il contrasto tra Lui e le autorità religiose giudaiche, fino alla tragica conclusione del Gòlgota. Da ogni regione della Palestina si può arrivare a Gerusalemme solo affrontando una salita, dal momento che la città santa si trova a circa 850 m di altitudine sul monte Sion (la cima di un monte veniva considerata il punto della terra più vicino a Dio e qui sorgevano abitualmente altari e luoghi di culto, oltre alle roccheforti) e, come ogni normale e pio pellegrino, anche Gesù canta i salmi graduali o delle ascensioni (Sal 120-134) man mano che si avvicina alla città di Davide. Il verbo “salire” assume anche un significato teologico, racchiuso nel movimento interiore suscitato dalla grazia e compiuto dall’uomo per avvicinarsi a Dio mediante uno sforzo della volontà, la quale scaturisce da una decisione consapevole della propria coscienza, è sorretta dalle facoltà intellettive e sfocia in una scelta di vita, spesso coraggiosa e controcorrente. Per camminare e salire verso Dio non è sufficiente, di solito, affidarsi al solo slancio emotivo che, il più delle volte, si esaurisce con il sorgere delle prime vere difficoltà della vita.

La piscina di Bethesda, dove Gesù si reca una volta giunto in città, viene descritta e localizzata dall’evangelista con dettagli che ne indicano una buona conoscenza personale. La piscina, come è stato confermato anche dagli scavi archeologici, si trovava vicino alla Porta Probatica (o delle pecore), cioè quella porta d’ingresso delle mura di cinta attraverso cui erano fatte passare le pecore, destinate ai sacrifici nel Tempio. Le proprietà taumaturgiche dell’acqua della piscina erano note fin dall’antichità semitica pre-giudaica e questo spiega la presenza di una numerosa folla di sventurati, pronti a gettarsi od a farsi gettare in acqua al primo accenno d’increspatura della sua superficie per opera “dell’angelo del Signore”. La tradizione popolare annetteva al “movimento dell’acqua” una grandissima importanza, nella convinzione che Dio stesso (“l’angelo del Signore”) volesse premiare con la pronta guarigione i malati più lesti o più furbi a cogliere al volo la buona occasione. L’evangelista potrebbe aver scelto questo scenario di carattere cultuale (pagano o giudaico) allo scopo di squalificarlo di fronte all’unico Salvatore, l’uomo Gesù, che può guarire senza il bisogno di ricorrere all’acqua della piscina “miracolosa”, sostituendosi all’angelo del Signore dal momento che Egli stesso è il Signore.


5 C’era là un uomo che viveva da trentotto anni nella sua infermità. 6 Gesù, vedendolo giacere disteso e sapendo che si trovava in questa condizione già da lungo tempo, gli dice: “Vuoi diventare sano?”. 7 L’infermo gli rispose: “Signore, non ho nessuno che mi porti nella piscina quando l’acqua si agita e, mentre io cerco di arrivarci, un altro vi scende prima di me”. 8 Gesù gli dice: “Alzati, prendi il tuo giaciglio e cammina!”. 9 E subito quell’uomo divenne sano e prese il suo giaciglio e camminava. Ma quel giorno era sabato.

Gesù “vede” un uomo tra tanti e, come al solito, “sa” che quell’uomo è malato “fuori e dentro” (più dentro che fuori…) da tanto, troppo tempo. Di che cosa soffre quest’uomo, di cui l’evangelista dice solo che è affetto da asthéneia (in italiano, astenia)?

Qualche autore ha contestato il presupposto tradizionale secondo il quale l’infermo del racconto fosse un paralitico, avanzando l’ipotesi che egli non fosse altro che un nevrastenico, il quale si compiaceva in un rifiuto di vivere (“viveva nella sua infermità”). Si spiegherebbe così la sua passività disarmante e sconcertante anche davanti alla prospettiva di una pronta guarigione, implicita nella domanda di Gesù, il quale non domanda “vuoi guarire?” ma, in modo assai curioso e strano, “Vuoi diventare sano?”.

Evidentemente quest’uomo ha bisogno di una scossa, in grado di riscuoterlo dall’apatia e dall’autocommiserazione, che lo divora dal di dentro come un cancro dello spirito da ben trentotto anni. Sollecitato da Gesù con una domanda che, di per sé, richiederebbe un “sì” od un “no”, l’infermo tergiversa e risponde con una constatazione di impotenza che suona quasi come una scusa: “Non ho nessuno che mi porti nella piscina...”. Se era così gravemente infermo, chi lo aveva condotto alla piscina o come aveva fatto ad arrivarci? “Mentre io cerco di arrivarci, un altro vi scende prima di me”.

Questo sventurato sembra avere l’abitudine di scaricare su altri la responsabilità del proprio profondo disagio interiore, confermando la diagnosi di una malattia psichica. Impotente (“giaceva disteso”) e condannato all’isolamento, quest’uomo sembra essere una specie di escluso dalla vita, un emarginato rassegnato e disperato (“Io non ho nessuno…”), incapace anche di verificare l’esistenza, accanto a sé, di una presenza amica che gli sta offrendo un aiuto. Gesù gli è assai vicino, ma l’infermo sembra non accorgersene. In realtà, quest’uomo è morto “dentro” e Gesù gli ordina di tornare alla vita: “Alzati (égheire), prendi il tuo giaciglio e cammina”.

Più che la guarigione di un infermo sembra la risurrezione di un morto, anche se si tratta di una morte spirituale, dell’anima.

Alzati” e scrollati di dosso la paura di vivere e di assumerti le tue responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini; smettila di piangerti addosso e di aspettare che altri decidano per te cosa devi fare della tua vita e del tuo destino.

Prendi il tuo giaciglio” e non pensare di dover sempre dipendere dagli altri. Anzi, saranno gli altri a doversi aspettare qualcosa da te; aiutando gli altri, aiuti anche a trovare te stesso ed a comprendere cosa Dio vuole da te nella vita che ti ha donato.

Cammina”, perché d’ora in poi non avrai più scuse. La responsabilità di una conversione radicale è solo ed esclusivamente tua e non puoi più incolpare qualcun altro della tua incapacità di affrontare la vita con dignità, con senso di responsabilità e con coraggio.

E subito quell’uomo divenne sano. La guarigione fa immediatamente seguito alle parole di Gesù. La paura di vivere di quell’uomo si dissolve come nebbia al sole e l’impossibilità a muoversi ed a prendere decisioni autonome (paralisi del corpo e dello spirito) si risolve immediatamente: “prese il suo giaciglio e camminava”. Per poter camminare con le proprie gambe, il malato deve dimostrare di essere capace anche di portare su di sé il fardello delle proprie pene, delle angosce esistenziali, delle incertezze e delle scelte difficili (“prese il suo giaciglio”) che ogni essere umano deve saper affrontare nella vita di ogni giorno, diffidando di coloro che offrono una facile soluzione a tutti i problemi dell’esistenza.

Ma quel giorno era sabato. I giudei osservanti si rendono conto di due cose: 1) Gesù agisce in piena libertà di fronte alla Legge; 2) una guarigione miracolosa in giorno di sabato deve necessariamente far pensare alle parole dei profeti (Is 29,18; 35,4-6; 42,16; Sof 3,19), che hanno identificato nella guarigione degli infermi il contrassegno del tempo della salvezza definitiva. Se Gesù ha ordinato al miracolato di trasportare la propria barella, nonostante l’esplicito divieto legale di portare pesi e di compiere qualsiasi tipo di lavoro manuale in giorno di sabato, lo ha fatto perché fosse evidente a tutti la presenza della salvezza escatologica, di cui la guarigione prodigiosa era il segno evidente e concreto.

Era sabato. L’istituzione del sabato caratterizzava la tradizione religiosa di Israele. Dando equilibrio al ritmo dell’esistenza, il sabato liberava l’uomo dal suo lavoro, affinché si rivolgesse esclusivamente verso Dio, suo Creatore e Salvatore ed affinché Israele, un tempo schiavo in Egitto, si ricordasse di Colui che lo aveva liberato dalla schiavitù (Dt 5,12-15). Nel corso dei secoli, però, la casuistica aveva moltiplicato le proibizioni, aumentando le penalità. Operando una guarigione miracolosa su di un uomo malato da ben trentotto anni (colpiti da questa cifra, alcuni commentatori hanno pensato a Dt 2,14 e cioè al tempo trascorso nel deserto da Israele, “generazione ribelle” ed errante, sorretto solo dalla speranza di arrivare alla terra che Dio gli aveva promesso), Gesù dimostra d’essere superiore all’istituzione del sabato e di collocarsi nel contesto dell’agire divino, che conduce la creazione verso il suo compimento definitivo. Il giorno, cui si riferisce indirettamente l’evangelista, è il vero sabato, quello in cui culmina l’opera di Dio mediante l’agire di suo Figlio.


10 Dicevano dunque i giudei a colui che era stato guarito: “E’ sabato! Non ti è lecito portare il tuo giaciglio”. 11 Ma egli rispose loro: “ Colui che mi ha reso sano, quello mi ha detto : «Prendi il tuo giaciglio e cammina»”. 12 Gli domandarono: “Chi è l’uomo che ti ha detto : «Prendi e cammina»?”. 13 Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù era scomparso perché quel luogo era affollato. 14 Poco dopo, Gesù lo trova nel Tempio e gli dice: “Ecco, sei divenuto sano! Non peccare più, affinché non ti succeda qualcosa di peggio!”. 15 L’uomo se ne andò e disse ai giudei che era Gesù colui che lo aveva reso sano.

Prigionieri del legalismo più rigoroso ed intransigente, i giudei mettono in secondo piano l’evento prodigioso della guarigione del paralitico e fanno risaltare solamente l’interdetto legale: non è lecito trasportare alcunché in giorno di sabato. La dignità umana viene subordinata alla Legge, resa dagli uomini motivo di morte invece che essere messa al servizio della vita (Rm 7,10). Le autorità religiose giudaiche non sanno comprendere che se Dio opera segni prodigiosi nel giorno a Lui consacrato da quella stessa Legge, che Egli aveva consegnato a Mosè, è perché si sono inaugurati i tempi nuovi, quelli della salvezza per Israele e per l’intero genere umano: “Ecco il vostro Dio, è colui che viene a salvarvi…Allora gli occhi dei ciechi si apriranno, le orecchie dei sordi si schiuderanno, allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto griderà di gioia” (Is 35,4-6). La guarigione di quell’uomo è il segno evidente che la salvezza escatologica si è resa presente storicamente in Gesù, ma i giudei sono accecati dalla loro supponenza ed arroganza, già denunciata e condannata dagli antichi profeti di Israele (cf. Is 6,9-10): essi ascoltano con le orecchie ma non sanno comprendere le parole che sentono, vedono con gli occhi ma non sanno interpretare gli eventi di cui sono spettatori, perché la loro intelligenza s’ è fatta ottusa ed il loro cuore si è appesantito nell’orgoglioso compiacimento di se stessi e della loro conoscenza della Legge, perciò si sentono legittimati a giudicare le azioni e le intenzioni dei loro simili.

Quando i custodi della legalità religiosa gli fanno notare la gravità della sua azione (“Non ti è lecito portare il tuo giaciglio”) per la flagrante violazione del sabato, il miracolato non sa trovare di meglio che addossare la responsabilità del suo agire a chi lo ha guarito: “Colui che mi ha reso sano mi ha detto…”. In fin dei conti, il pover’uomo è da capire; probabilmente non si è nemmeno reso conto di contravvenire alla Legge. Dopo anni di sofferenza fisica e morale, contrassegnati da disperazione, solitudine, risentimenti contro tutti (“Non ho nessuno…”) e, forse, anche contro Dio che gli ha tolto la salute, il paralitico si ritrova improvvisamente in piedi e pronto a ricominciare a “vivere” come un uomo normale. L’ultimo dei suoi pensieri è che quell’uomo, che lo ha miracolosamente guarito, gli stia facendo violare la Legge in modo grave; la risposta data ai giudei potrebbe sembrare, a prima vista, un’elusione di responsabilità ma, in realtà, si tratta di una attestazione dell’autorità del guaritore. “Colui che mi ha reso sano…” è una formula un po’ ridondante, quasi reverenziale, che rimanda al misterioso personaggio di cui non conosce il nome, ma di cui ha udito la parola (“..quello mi ha detto”) capace di dissolvere in un istante anni ed anni di sofferenze e di delusioni. Ma è proprio quella “parola” che scandalizza i benpensanti giudei, i quali non sanno capacitarsi del fatto che un uomo, in grado di operare prodigi, possa permettersi di impartire un ordine così palesemente trasgressivo ed offensivo della sacra Tôrah.

Chi è l’uomo che ti ha detto…? Coloro che si reputano come gli unici depositari della conoscenza ed i legittimi interpreti della Legge prendono le debite distanze da chi ha apertamente violato una delle norme più rigorose, meglio circostanziate e sanzionate dell’intera Tôrah. Anche se ha compiuto un prodigio, quest’uomo ha preteso di sostituirsi a Dio ed alla sua santa Legge e va, quindi, neutralizzato al più presto; dal momento che Gesù compie miracoli in giorno di sabato, è del tutto probabile che agisca per conto ed in nome di Beelzebul (Lc 11,14-20).

Il miracolato non “sa” chi sia il suo benefattore, che, nel frattempo, si è eclissato tra la folla e non ha nemmeno atteso di essere ringraziato. La sua “ignoranza”, però, dura poco, visto che l’incontro con Gesù si ripete a breve distanza dalla piscina. Il miracolato ha così l’opportunità di “fare conoscenza” di Colui che lo ha guarito in un luogo più adatto; la piscina, infatti, è uno spazio più o meno pagano perché vi si rifugiano coloro che sono esclusi dal Tempio a causa delle loro infermità, in ossequio alla legge della purità legale (Lv 11,1-16,34). Per iniziativa di Gesù, dunque, il secondo incontro con l’ormai ex paralitico, avviene nel Tempio, la casa del Padre, il luogo della Presenza dove, con tutta probabilità, il miracolato si è recato per far constatare l’avvenuta guarigione ai sacerdoti, deputati a riammetterlo al culto del Tempio come prescritto dalla Legge. Nel Tempio Gesù si fa “conoscere”, provocando nel suo interlocutore una decisione.

Ecco, sei divenuto sano! Non peccare più…”. L’avvenuta guarigione fisica viene confermata da Gesù insieme a quella dello spirito (“non peccare più”). A prima vista, sembra che Gesù colleghi la malattia del corpo con il peccato, di cui sarebbe l’ovvia conseguenza ma, in realtà, Egli mette sullo stesso piano la salute del corpo e quella dello spirito, la cui malattia più grave è il peccato. Spesso ci si preoccupa del benessere fisico, dimenticando che una situazione di peccato uccide la propria anima, destinandola alla morte eterna! Se si pone tanta cura ed attenzione per la salute fisica del proprio corpo, a maggior ragione ci si dovrebbe preoccupare della salute dello spirito e, quindi, di una condotta senza peccato. Il malato del racconto, prima di essere guarito da Gesù, non era solo fisicamente “paralizzato”, impossibilitato a muoversi, ad essere autonomo ed autosufficiente, ma era, molto probabilmente, incapace di slanci interiori e di rapporti personali con gli uomini e con Dio, prigioniero del proprio egoismo, di un’insanabile disperazione e del più cupo pessimismo. Guarendolo soprattutto da se stesso, Gesù gli ha offerto l’opportunità più unica che rara di elevare nuovamente il cuore e la mente verso la fonte stessa della vita, mediante il rinnovamento del rapporto personale con Dio e di ampliare l’orizzonte dei rapporti umani abbandonando ogni atteggiamento di meschino egoismo e di superba presunzione. La condizione essenziale per “mantenersi sano” è quella di evitare di ricadere in una situazione di peccato “affinché non ti succeda qualcosa di peggio”. Cosa c’è di peggio della malattia? Ovvio, la morte.

Il miracolato ha con tutta probabilità compreso la lezione e tace. Non c’è alcun bisogno di replicare all’ammonimento severo e minaccioso di Gesù, le cui parole sono penetrate in profondità in quel cuore ormai aperto all’ascolto e pronto alla testimonianza. Allontanatosi da Gesù e portando dentro di sé l’eco di quelle parole, che suonano più come un incoraggiamento alla conversione vera e radicale del cuore che come una semplice minaccia di punizioni future, quell’uomo si reca dalle autorità giudaiche e riferisce di essere stato guarito da Gesù.

Il racconto del miracolo di Bethesda suggerisce due considerazioni finali: 1) Gesù, attraverso la guarigione di una malattia sia fisica che psichica, dimostra di poter disporre della vita intesa nella sua totalità; 2) a Lui compete anche il giudizio finale sull’uomo.

Disteso sul suo giaciglio, tra una folla di altri esseri umani distesi a terra come lui, l’infermo del racconto è l’immagine simbolica dei “morti” che il Padre ed il Figlio vogliono “vivificare”. Il verbo usato da Gesù per guarire il malato (“Alzati! ”) è identico a quello da Lui utilizzato per indicare il potere del Padre di resuscitare i morti (cf. 5,21), potere condiviso anche dal Figlio e riguardante l’intera umanità. Ecco perché questo personaggio rimane senza nome (viene semplicemente indicato col sostantivo generico di uomo) ed il suo male, di così lunga durata, non viene specificato (la “paralisi”, come viene generalmente indicata la malattia di questo infermo, esemplifica solo la sua situazione di non autosufficienza psico-fisica), per indicare la condizione comune di coloro che sono incapaci di “camminare” in senso biblico, cioè sono incapaci di “camminare con Dio” e sono impotenti a rimettersi in piedi da se stessi. Ponendo il protagonista tra i ciechi e gli zoppi, l’evangelista lo inserisce nel novero di coloro che sono i beneficiari della Promessa, invitati dal padrone di casa al banchetto escatologico della fine dei tempi (cf. Lc 14,21). A Gesù che gli chiede: “Vuoi divenire sano?”, il malato risponde con un tono passivo e disilluso. La sua risposta potrebbe essere interpretata in questo senso: la guarigione è impossibile se un “uomo” non viene a lui e lo immerge nella piscina. Gesù restituisce la salute a questo morto-vivente, ma non con l’acqua agitata e curativa della piscina, bensì con la sola efficacia terapeutica della sua “parola”, mediante la quale il Figlio, l’Inviato del Padre, comunica la vita (cf. 5,24). L’enunciazione del comando (“Alzati… e cammina”) e la constatazione del risultato immediato (“E subito quell’uomo divenne sano”) è un procedimento che ricorda Gn1,3: “Dio disse:«Sia la luce»; e la luce fu”. Camminando liberamente, il protagonista è entrato in un nuovo ordine di esistenza pur portando come segno della propria “morte” il giaciglio, ormai reso inutile dalla Parola sanante di Gesù. Il giaciglio resta come testimonianza del gesto salvifico di Dio avvenuto “in quel giorno”. Secondo questa prospettiva, la “festa dei giudei” non meglio precisata potrebbe già orientare verso l’evento della salvezza, prima ancora che il racconto si concentri sul sabato escatologico.

Dal canto suo il giudizio esprime, in senso negativo, il carattere assoluto del dono di Dio. Più che il giudizio in sé e per sé, a Dio interessa la vita simboleggiata dalla salute recuperata, che caratterizza la prima parte del racconto. Il giudizio incombe pesantemente nella seconda parte della pericope, quando Gesù ritrova il malato, ormai guarito, nel Tempio. Presso la piscina, dopo averlo avvicinato con una domanda riguardante la sua stessa esistenza (“Vuoi diventare sano?”), Gesù aveva rimesso in piedi l’infermo di propria iniziativa e senza farsi prima riconoscere, ma nel Tempio, fattosi conoscere dal miracolato, Egli lo provoca ad un impegno personale senza soluzioni di continuità (“Non peccare più!), dal che si può dedurre che quell’uomo era in precedenza colpevole di una situazione di disperazione, che gli impediva di comprendere che Dio vuole solo la vita e non la morte dell’anima. Per Giovanni la vera essenza del peccato è l’incredulità, che aveva fatto dire al malato:”Non ho nessuno” (che mi salvi). All’invito di non peccare più, Gesù fa seguire una minaccia piuttosto pesante: ”…affinché non ti succeda qualcosa di peggio”. Questo “peggio” è il giudizio, la morte definitiva che avverrebbe qualora l’uomo non sapesse cogliere il senso della sua nuova situazione e non ne traesse le debite conclusioni. La risposta del miracolato è l’azione immediata, che contrasta con la precedente situazione di “paralisi”: egli si reca immediatamente dai giudei per annunciare che colui che lo ha guarito è Gesù, dimostrando, così, di essere divenuto “credente” e di aver accolto in sé la “vita”.


Gesù “pane di vita”

(Gv 6,1-71)


L’evangelista Giovanni, pur essendo stato testimone diretto dei fatti avvenuti durante l’Ultima Cena, non ha tramandato il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia come hanno fatto, invece, gli evangelisti sinottici (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) e s. Paolo (1Cor 11,23-25), ma ne ha fatto una chiara allusione (6,51-58) nel contesto di un grande discorso, avvenuto presso la sinagoga di Cafàrnao il giorno dopo aver compiuto il prodigioso “segno” della moltiplicazione dei pani, riportato con poche varianti anche dai Sinottici (Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10-17). Più che narrare i fatti come si sono realmente svolti, cioè l’istituzione dell’Eucaristia durante l’Ultima Cena, probabilmente Giovanni si è preoccupato di fornire l’interpretazione teologica del grande dono che il Figlio di Dio ha voluto fare all’umanità: il dono di Se stesso come “pane di vita”.

Il capitolo sesto del IV Vangelo si compone di tre quadri narrativi strettamente collegati tra loro ed il cui sviluppo temporale occupa lo spazio di due intense “giornate” di rivelazione: 1) nel primo di questi due giorni Gesù compie il “segno” della moltiplicazione dei pani su un monte, prospiciente il lago di Galilea (6,1-15);

2) nel corso della notte successiva Gesù compie un altro “segno”, camminando sulle acque del lago di Galilea (6,16-21);

3) il giorno dopo Gesù spiega il senso del miracolo della moltiplicazione dei pani alla folla riunita nella sinagoga di Cafàrnao (6,22-65).

La conseguenza del discorso di auto-rivelazione, in cui Gesù definisce Se stesso come “pane di vita” (6,48) “disceso dal cielo… per la vita del mondo” (6,51), è l’abbandono del Maestro da parte di molti dei suoi discepoli (6,66) e la dichiarazione di fede da parte dei Dodici per bocca di Pietro (6,67-69) con la predizione di Gesù del futuro tradimento da parte di Giuda Iscariota (6,70-71).

Nonostante l’enorme portata del prodigio della moltiplicazione dei pani, se non altro dal punto di vista quantitativo, la risposta di fede nei confronti di Colui che ha compiuto il miracolo è veramente deludente: pochi sono disposti a credere in Gesù e tra questi pochi c’è anche chi è pronto a tradirlo! Viene spontaneo collegare le reazioni così contrastanti dei testimoni del prodigio della moltiplicazione dei pani alle “due giornate” di rivelazione. Come può ben notare un attento lettore del IV Vangelo, Giovanni ama ricorrere alla simbologia del secondo giorno (cf., ad esempio, 1,35-2,1), che sta ad indicare l’incompletezza della rivelazione. Solo chi viene reso partecipe dell’evento del terzo giorno (cioè della Pasqua di Resurrezione) può, con giusta ragione, comprendere la portata del mistero racchiuso nella Persona di Gesù, il Signore Risorto e capirne i gesti e le parole. A ben vedere, non solo la folla non è stata testimone della Resurrezione di Cristo, ma neppure Giuda Iscariota, suicidatosi per disperazione prima di “vedere” il Risorto; se la folla può essere in qualche modo giustificata per l’incapacità di arrivare ad una fede piena, non essendo stata “scelta” in vista della testimonianza della Pasqua di Cristo, Giuda Iscariota, invece, non ha scusanti per la sua mancanza di fede sfociata nel tradimento perché, pur essendo uno dei “prescelti”, si è volontariamente autoescluso dalla “testimonianza” dell’esperienza pasquale. La sua scelta di non-fede è ancora più grave della mancanza di fede della folla e di quegli anonimi discepoli che hanno trovato troppo “dure” le parole del Maestro.

Il vino (donato in abbondanza alle nozze di Cana), l’acqua (tema centrale del dialogo tra Gesù e la samaritana) ed il pane (filo conduttore del sesto capitolo del IV Vangelo) sono i simboli giovannei per eccellenza, che tra loro si completano per significare la vita comunicata da Gesù a coloro che credono in Lui attraverso il dono dell’Eucaristia.

Il sesto capitolo di Giovanni può essere suddiviso in una parte cristologica (6,1-51), centrata su tema pane/parola ed una parte eucaristica (6,52-58), imperniata sul tema pane/cibo di vita. Giovanni si comporta da abile drammaturgo, capace di animare la scena con un continuo intreccio di azione e di movimento, i cui protagonisti sono Gesù, i discepoli e la folla. Dapprima i discepoli e la folla stanno con Gesù (6,1-14), avendo compreso la portata del miracolo da Lui compiuto e di cui tutti hanno beneficiato; quindi, per sottrarsi alla folla che intende farlo re, Gesù si ritira sul monte per pregare in solitudine, mentre i discepoli sono soli sulla barca e la folla è come abbandonata a se stessa (6,15-18); a questo punto Gesù si ricongiunge coi suoi discepoli apparendo come una visione, che assume il significato di una vera e propria teofania (6,19-21); la gente va nuovamente alla ricerca di Gesù (6,22-25) e, infine, Gesù, i discepoli e la folla sono di nuovo insieme (6,26-59).

Improvvisamente, durante il discorso nella sinagoga, la folla diventa ostile a Gesù e si fa minacciosa ed emerge acuto il conflitto tra Gesù stesso ed i giudei, i nemici dichiarati di Gesù. Il risultato concreto del discorso di auto-rivelazione di Gesù è la crisi galilaica: molti discepoli si allontanano ed abbandonano Gesù (6,60-66), che rimane solo con i Dodici (6,67-69), tra i quali c’è anche il “traditore” (6,70-71). La crisi è motivata dal fatto che il discorso di Gesù viene ritenuto “duro” dai più: non è possibile accettare un Dio troppo umano. Qui si intravedono le prime eresie circolanti già alla fine del I° secolo d.C. in ambiente giovanneo, come il docetismo (dal greco dokésis, apparenza), secondo cui sulla croce non era morto realmente Gesù Cristo, Figlio di Dio, bensì una sua controfigura. Alla base di questa eresia, molto pericolosa per la fede cristiana, stava la negazione della vera umanità di Cristo.

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04/06/2010 18:34
 
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Il Vangelo di Giovanni

Analisi del testo

6,1-15. Il luogo in cui si svolge l’azione del dramma giovanneo è Tabsga, una località montagnosa situata tra la cittadina di Cafàrnao e quella di Tiberiade, sul lago di Galilea. È prossima la festività di Pasqua, la grande festa dei giudei, l’ultima vissuta da Gesù. Il monte, che fa da cornice all’azione, ha un valore più teologico che geografico (6,3; cf. Mt 15,29). Qui si svolge il miracolo della moltiplicazione dei pani. Rispetto ai Sinottici, secondo i quali è un discepolo a distribuire i pani (ed i pesci), in Giovanni il protagonista assoluto dell’azione è Gesù, che prende i pani, rende grazie, li benedice e li distribuisce (gesto eucaristico), ordinando, poi, ai discepoli di raccogliere gli avanzi. I canestri usati per la raccolta del pane avanzato sono dodici, numero perfetto, che esprime l’abbondanza di cui gode il Popolo di Dio. Come risultato del miracolo, la folla tenta di rapire Gesù per farlo re. Tale particolare è presente solo in Giovanni, ma è certamente storico e trova riscontro in Marco, che riferisce in altro modo il rifiuto da parte di Gesù di qualunque ipotesi di messianismo regale e politico.


6,16-21. Siamo sulle rive del lago di Galilea (detto anche lago di Tiberiade, dal nome della cittadina romano - ellenistica che si affacciava sulle sue sponde, ma noto anche col nome di lago di Genesareth per la sua forma “a cetra”, in ebraico kinnéret). Sul lago soffia un forte vento (i Sinottici parlano di tempesta) ed è notte, simbolo del tempo del male e dell’opposizione, cioè della lotta fra luce e tenebre (cf. il commento al Prologo). In tale contesto avviene la rivelazione di Gesù: “Sono io” (6,20), formula corrispondente a quella usata da YHWH (= Io Sono) sul monte Sinai (cf, Es 3,14) per rivelare la propria identità a Mosè.


6,22-25. Si tratta di un sommario dei due temi, quello eucaristico (6,23) e quello cristologico (6,24). La folla va alla ricerca di Gesù, che l’ha sfamata col pane del miracolo. Gesù è un personaggio che va cercato, perché ogni tanto viene perso di vista. Di Gesù la folla non ha capito nulla, visto che vuole farlo re, ma ha almeno compreso che Egli ha fatto qualcosa che altri non sanno fare.


6,26-71. Il lungo discorso – dibattito, che si svolge nella sinagoga di Cafàrnao fra Gesù ed i giudei, ha i connotati di un processo, interpretato da alcuni come un’omelia pasquale. Gesù si presenta come Figlio dell’Uomo (noto titolo messianico) e “pane di vita”. Egli dona la propria persona (carne, sàrx) come cibo per la vita del mondo e per la vita eterna. Emergono due temi fondamentali per la comprensione della pericope: il tema delle opere (érga), che occorre compiere per avere la vita eterna (ossia la fede o pìstis) ed il tema del segno del cielo, richiesto dalla folla per credere in Gesù (vale a dire la manna). Agli attenti uditori, poco disposti però a dare credito alle sue parole, Gesù fornisce la spiegazione o esegési dell’Esodo: non è Mosè ad aver dato il pane (la manna) agli esuli ebrei nel deserto del Sinai, ma il Padre, il quale ha dato allora, come “segno” di oggi, il “pane di vita”. Il progetto di salvezza del Padre si è manifestato col dono della manna durante l’Esodo e si è compiuto col dono del pane vero che dà la vita, cioè Gesù stesso. La folla, come la samaritana al pozzo di Sicàr, non comprende e chiede di poter avere sempre di questo pane, denotando una visione terrena della salvezza.

In 6,35-48 Gesù definisce i termini della libertà dell’uomo di credere o di non credere in Lui, usando il verbo “vedere”. La fede è un dono di Dio, il quale attira a Sé ed ammaestra gli uomini disposti ad avere fiducia in Lui (6,45; cf. Is 54,13): teodidattica. Il “pane vivo” è Gesù stesso, che dà da mangiare la sua stessa carne (sàrx), cioè la sua Persona umana e divina (6,48-58).

La manna data ai padri nel deserto non era vero cibo, non avendoli preservati dalla morte (6,49.58); la vera manna, in grado di dare la vita per l’eternità (6,55-58) è Cristo. Da qui la necessità assoluta dell’Eucaristia sacramentale (6,51-58). Gesù ed il Padre sono in intima comunione tra loro e si trovano insieme (immanenza) in ogni credente (6,56-57).

Il discorso di Gesù causa scandalo, inciampo e molti si allontanano da Lui, a cominciare da tanti suoi discepoli, condizionati dalla sola “conoscenza carnale” di Gesù (crisi galilaica descritta in 6,60-71), perché non sanno compiere il passo decisivo della fede: senza lo Spirito, la carne da sola non può arrivare a credere in Gesù. Solo Dio può concedere il dono di una conoscenza superiore a coloro che sentono il bisogno di Lui, quelli che i Sinottici chiamano “i piccoli”, i “poveri in spirito” (in ebraico anawîm). Solo i Dodici credono in Gesù, ma anche tra costoro s’insinua il diavolo, poiché uno di loro tradirà il Maestro per un pugno di denari. Abbandonato da tutti e tradito da uno dei Dodici, Gesù è pronto per essere consegnato ai nemici ed essere messo a morte. Il capitolo 6 del IV Vangelo sostituisce, in ultima analisi, il racconto dell’Ultima Cena narrata dai Sinottici.


Considerazioni finali

Dal capitolo 6 di Giovanni si possono enucleare tre immagini: 1) il banchetto messianico; 2) la manna del cielo; 3) il banchetto sapienziale.

Il banchetto messianico (Is 25,6-8; 26,19) implica un discorso d’escatologia futura, ma Giovanni (6,39) sottolinea che il giudizio di Dio, la salvezza, è presente già ora, cioè adesso (in greco, nùn).

Per quanto riguarda la manna, si possono distinguere quattro tradizioni bibliche:

  1. la tradizione J (jahvista), secondo la quale la manna è una prova (Es 16,4) per vedere se il popolo cammina secondo la Legge di Dio;

  2. la tradizione D (deuteronomista), secondo cui la manna è immagine della Parola di Dio (Dt 8,3);

  3. nel periodo post-esilico (cf. Sal 78) la manna viene intesa come un dono fatto da Dio all’uomo con lo scopo di “sfamarlo”;

  4. la letteratura inter - testamentaria, di genere prevalentemente apocalittico (I° secolo a.C./ I° secolo d.C.), considera la manna come il segno dei tempi finali od escatologici, l’inizio dei tempi messianici.

Va precisato che Gesù utilizza soprattutto i primi due significati (manna come prova, manna come Parola di Dio).

Il banchetto sapienziale (cf. Sir 24) è l’elemento che permette di comprendere come Gesù, Sapienza personificata, si sia fatto Egli stesso ”pane di vita”.

Dio convoca tutta l’umanità al banchetto celeste per nutrirsi del pane, che dà la vita per l’eternità: Cristo eucaristico è, al contempo, pane, banchetto e vita eterna. Egli è il “dono” ed il generoso datore del “dono”, che è destinato a tutti gli uomini disposti ad accettarlo.

Problematiche storiche

Nel capitolo 6 del IV Vangelo emergono le difficoltà incontrate dalla comunità giovannea con le autorità della sinagoga ed identificate col termine “i giudei” (sono tali coloro che negano la divinità di Gesù, tormentano e perseguitano la Chiesa e, in modo particolare, la comunità di Giovanni). Nei primi tempi della Chiesa, i cristiani provenienti dal giudaismo (detti anche giudeo cristiani) erano assidui frequentatori delle sinagoghe locali. Una prima crisi col mondo giudaico si ebbe dopo il concilio di Gerusalemme, tenutosi nel 49 d.C., allorché si decise che i pagani convertiti al cristianesimo (o etnico cristiani) non dovessero sottostare all’usanza ebraica della circoncisione. Tale decisione determinò una contrapposizione non sempre pacifica tra i giudeo cristiani e gli etnico cristiani. Successivamente, i giudeo cristiani che frequentavano abitualmente la sinagoga furono espulsi come “eretici” dalle autorità giudaiche, cui fa riferimento Giovanni col termine, appunto, di “giudei”.

Come riferisce s. Ireneo, vescovo di Lione, nella sua lettera ai cristiani di Smirne (7,7), anche tra i cristiani c’erano difficoltà nel comprendere il mistero dell’Incarnazione di Gesù e dell’Eucaristia, problemi questi adombrati dal capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. Probabilmente il v. 51 allude anche alle polemiche sui falsi profeti (cf. anche 1Gv 4,5). Come si può notare dall’analisi del testo di Gv 6, si individuano tre passaggi fondamentali:

  1. l’esposizione del “segno”, ovvero la moltiplicazione dei pani (6,1-15);

  2. la spiegazione del “segno”, cioè le parole con le quali Gesù spiega il significato del pane (6,26-58);

  3. la crisi causata dalle parole di Gesù, ritenute troppo “dure” ed incomprensibili da molti discepoli, che decidono di abbandonare il Maestro (6,60-71). Solo pochi discepoli, i Dodici, decidono di scommettere la propria fiducia su Gesù e continuano a seguirlo (6,68).


Chiavi di lettura del capitolo 6 del IV Vangelo

I commentatori del Vangelo di Giovanni hanno fornito un notevole contributo alla comprensione teologica della lunga pericope, che stiamo per esaminare. Si possono individuare, schematicamente, almeno sei chiavi di lettura di Gv 6, da non confrontare tra di loro ma, semmai, da integrare per una lettura più approfondita e meditata del testo. Nel corso dei secoli, a partire dai Padri della Chiesa, molti si sono cimentati col linguaggio giovanneo, ricco di simbolismo e di profonde implicazioni teologiche. Non per nulla è stata assegnata al IV Vangelo la simbolica figura dell’aquila, per le vertiginose altezze di pensiero e di implicazioni teologiche contenute nel testo di Giovanni.

Prima lettura

Confrontando Gv 6 coi Sinottici si possono notare alcune differenze sostanziali. Prendiamo, come esempio, Mc 6,33-44 che riferisce lo stesso episodio della miracolosa moltiplicazione dei pani.

Secondo l’interpretazione dei fatti fornita da Gv 6 è Gesù che prende l’iniziativa di sfamare la folla, distribuendo personalmente il pane, perché solo Gesù può dare la salvezza simboleggiata dal pane.

Secondo Mc 6, invece, sono i discepoli che si preoccupano di sfamare la folla e, vedendo il problema con occhi puramente umani, non credono che Gesù possa trovare una soluzione soddisfacente.

In entrambi i casi, però, emerge l’abissale distanza fra Gesù ed i suoi discepoli, i quali sono condizionati da una valutazione umana dei fatti: ci vogliono tanti, troppi soldi per sfamare una folla simile! Se ne può trarre un insegnamento piuttosto ovvio: nessun uomo è in grado di dare la salvezza, cioè il pane, ma ciò è possibile a Gesù.

In Gv 6 la folla, dopo il miracolo, vuole prendere Gesù per farlo re, ma Gesù si ritira perché la folla ha male interpretato il “segno” ed ha frainteso il significato del pane. Se Gesù fosse un re terreno, non sarebbe in grado di donare la salvezza, per cui rifiuta tale attributo terreno.

In Mc 6 non c’è traccia di questo tentativo di fare re Gesù, ma tutto il Vangelo marciano sembra voler confermare l’episodio riferito da Giovanni sviluppando il tema del cosiddetto “segreto messianico”: il vero trionfo di Gesù non è quello che viene decretato dagli uomini dopo aver assistito ad un miracolo, ma è quello stabilito dal Padre con la resurrezione del Figlio, ucciso su una croce.

Sia il Vangelo giovanneo sia i Vangeli sinottici hanno in comune diversi elementi tematici, seppure sviluppati in modo differente: pane, vino, cena, alleanza, servo di YHWH, croce. A questo proposito, tutti gli evangelisti danno grande rilievo al significato teologico della “notte”, simbolo del rifiuto e del tradimento ed è interessante notare come l’Eucaristia sia strettamente collegata al tradimento ed al peccato, che si oppongono a ciò che concentra in sé tutta la vita di Cristo, di cui costituisce il culmine. Chi osteggia Gesù Cristo non può fare a meno di osteggiare l’Eucaristia, presenza sacramentale di Cristo.

C’è un diverso modo di tradurre in greco il termine ebraico basâr, corpo. Giovanni preferisce il termine sàrx (carne), mentre i Sinottici ricorrono al termine sôma (corpo). Nell’ambiente culturale, cui era rivolto il Vangelo giovanneo, il termine sôma era l’equivalente di “cadavere” ed era, pertanto, un termine ripugnante, che evocava la pratica dell’antropofagia. Il termine sàrx, invece, faceva riferimento alla persona umana intesa nella sua fragilità e debolezza.

In Giovanni il vocabolo sàrx, carne, riecheggia le polemiche con coloro che rifiutavano l’incarnazione di Dio, come i docetisti, vedendo in Gesù un essere puramente spirituale. Tra Dio e l’uomo, invece, esiste una “comunicazione incarnata”, senza la quale è impossibile incontrare Dio, Essere trascendente. L’abissale distanza tra Dio e l’uomo è stata colmata da Dio, che si è fatto uomo incarnandosi in Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e l’uomo.


Seconda lettura

Alcuni studiosi hanno interpretato l’intera pericope di Gv 6 come un’omelia sinagogale, di cui si può individuare lo schema in tre punti:

- partenza, costituita da una citazione della Tôrah

  • discorso, che spiega la frase citata dalla Tôrah

  • testo profetico sapienziale, che spiega quando e per chi si realizza la Tôrah.

Secondo tali studiosi, la citazione che darebbe avvio a Gv 6 sarebbe Es 16, di cui il Sal 78, 24-25 offre un’efficace sintesi: “Fece piovere su di essi la manna per cibo / e diede loro pane del cielo: / l’uomo mangiò il pane degli angeli, / diede loro cibo in abbondanza”. Sarebbe questo il contenuto del discorso esegetico tenuto da Gesù nella sinagoga, dopo il “segno” dei pani, mentre Is 54,13 (“E tutti saranno ammaestrati da Dio”, citato da Gv 6,45) spiegherebbe chi sono i destinatari del pane dato “per la vita” eterna: l’intera umanità.

In questa omelia si può riconoscere un filo conduttore: Gesù è il pane disceso dal cielo e chi lo mangia ha la vita se è attirato dal Padre (6,27.32.35.48.51.53.58). Gesù afferma di essere Pane, non ancora in senso eucaristico, bensì nel senso di Parola, di Lògos (di ragione che dà senso al mondo, di progetto di salvezza attorno al quale tutto è “ricapitolato”). L’auto-definizione di Gesù: “Io sono il pane disceso dal cielo” (6,41) riecheggia il nome sacro di Dio, YHWH (=IO SONO). Gesù solo, non altri, è il vero pane; nemmeno la manna, anche se donata da Dio al popolo eletto, era vero pane.

In Gv 6 è sottesa una vera e propria cristologia, condensata in un movimento di discesa e di ascesa (cf. anche Fil 2,6-11): il Verbo si è fatto carne (=è disceso), ritorna al Padre (=è asceso) e porta l’uomo al Padre. Gesù è il Cristo e porta l’uomo a Dio Padre: sono questi i termini di un’antropologia teologica, secondo la quale l’uomo trova il senso del suo esistere e del suo essere uomo solo in Cristo. L’uomo è libero in quanto è l’unico essere non determinato, perché quando nasce può diventare, dal punto di vista etico morale, ciò che vuole essere ed il prototipo da imitare è Gesù Cristo.


Terza lettura

Il capitolo 6 del IV Vangelo viene letto da alcuni autori in chiave eucaristica. Secondo tale prospettiva, la parola di Cristo è pane ed Eucaristia (o sacramento eucaristico). I due temi, in verità, s’incrociano dal momento che si intende per sacramento una realtà concreta che ne rivela e sottende un’altra più profonda. In Gv 6 c’è la Parola di Gesù e c’è l’Eucaristia, tra loro intimamente legate: senza la prima si può cadere nel ritualismo, senza la seconda nello spiritualismo. S’ipotizza che la comunità di Giovanni fosse turbata da fazioni in lotta tra loro: cristiani ritualisti troppo attaccati al gesto in sé e per sé e cristiani troppo inclini allo spiritualismo di matrice giudaica od ellenistica.

Allora come oggi si ripropone ogni volta il conflitto culturale ed ideologico circa il rapporto tra fede e religione. Va subito precisato che la fede vissuta storicamente, o fede incarnata, è religione e che non ha senso una separazione tra fede e religione come proposto dal teologo tedesco K. Barth, secondo il quale la fede è tale solamente se è assolutamente pura, mentre la religione è un semplice artificio umano da scartare in blocco perché nulla ha a che fare con la fede. Non può, però, esistere una fede che non sia incarnata e che non soffra i limiti della vita concreta; per rivelare il Padre e mettere l’uomo in relazione con Lui, Gesù, Parola eterna del Dio vivente, ha scelto di farsi uomo ed ebreo e quando la fede ha per oggetto il divino, che è entrato concretamente nella storia dell’uomo, diventa religione pur con tutti i limiti del vivere umano. Chi afferma di aver fede (in Dio) ma rifiuta la religione (e la Chiesa, perché fatta di pochi santi e di tanti peccatori) nega, di fatto, la Rivelazione avvenuta storicamente in Gesù di Nazareth e non accetta la redenzione dell’uomo, sancita dalla Nuova Alleanza nel segno concreto della morte in croce di Cristo e resa quotidianamente attuale da un atto liturgico (il rito). Infatti, il nostro rapporto con Dio non è diretto, perché noi non possiamo vederLo, ma è necessariamente mediato da Gesù Cristo, Dio incarnato ed entrato nella storia umana; grazie a Cristo l’uomo ha potuto incontrarsi con Dio mediante la religione ed il rito, cioè mediante fatti storici. Per far capire Dio all’uomo, Gesù si è espresso con parole umane e con gesti concreti, affidandosi al rito ed alle preghiere del suo popolo ed illuminando il senso delle Scritture con la sua personale vicenda storica. In ultima analisi, il rito religioso diventa necessario ed essenziale per stabilire il rapporto tra gli eventi salvifici avvenuti nel passato (memoriale) ed il futuro storico della salvezza (“…fate questo in memoria di me”).

Quarta lettura

Gv 6 potrebbe essere letto come un dibattito centrato sull’incredulità. Durante tutto il periodo antico testamentario la manna era stata il simbolo del sogno messianico ed in quest’ottica si colloca il dibattito, dinamico e ricco di colpi di scena, che vede da una parte Gesù, il quale si autodefinisce la “nuova manna” discesa dal cielo (6,32-35.48-51) e, dall’altra, i giudei, i nemici, gli avversari di Gesù. Dalla parte dei “nemici” di Cristo vengono annoverati i discepoli che abbandonano il Maestro e la folla, il cui comportamento è ambiguo e che viene coinvolta direttamente nel dibattito serrato. Sono pochi coloro che si schierano con Gesù, i Dodici (e nemmeno tutti!).

Sono almeno tre le ragioni del rifiuto di Gesù e delle sue parole da parte dei suoi “nemici”:

  1. la folla, dopo aver mangiato il pane del miracolo, vuole fare re Gesù, il quale rifugge dal bisogno di un facile miracolismo espresso dalla folla. Per Gesù la salvezza non risiede nella capacità di compiere prodigi, ma nel dono di sé fino al sacrificio della croce. La folla resta delusa da Gesù e tale delusione si sfogherà nell’invocazione e nella brutale richiesta a Pilato, il dominatore straniero, di crocifiggere Gesù. Dopo aver trovato Dio nel prodigio della moltiplicazione dei pani (il dono della manna), la folla va in crisi perché respinge l’incontro antropologico con Dio, divenuto uomo come uno di loro;

  2. la folla non accetta l’idea di un Messia noto a tutti come figlio di Giuseppe, il falegname di Nazareth (6,42) e di Maria, donna di umili condizioni. Un falegname ed una popolana non sono il massimo come genitori per chi deve essere il condottiero di Israele! Per gli ebrei è inconcepibile che Dio si renda visibile come uomo, proprio Lui che è l’Altissimo, l’Onnipotente, l’Invisibile, il totalmente Altro, il Signore dei Signori il cui santo Nome è impronunciabile. Il rifiuto dell’Incarnazione di Dio non era poi così facile da digerire per chi era abituato da secoli a farsi un simile concetto di Dio (e tale rifiuto radicale riguarda ancora oggi ebrei ed islamici, che pure adorano l’unico e vero Dio adorato dai cristiani!);

  3. mangiare il corpo e bere il sangue di Gesù (6,53-54), che si offre come cibo e bevanda per donare la vita e la risurrezione, è uno scandalo inaudito per gli ebrei non solo e non tanto per il rifiuto ancestrale dell’antropofagia, ma piuttosto perché essi comprendono che Gesù vuole la piena condivisione del suo destino umano da parte di chi vuole essere suo discepolo. È la paura delle conseguenze di una simile sequela a spaventare la gente: la croce si sta profilando all’orizzonte prossimo del Maestro galileo e se questo è il destino riservato a Lui, figuriamoci cosa devono aspettarsi i suoi discepoli! Se Cristo ha scelto la croce per salvare l’uomo, senza Cristo la croce diventa veramente una tortura insopportabile, una morte orrenda. Incredulo ed ottuso, l’uomo fa fatica ad accettare l’umiltà dell’Incarnazione di Dio e lo scandalo della croce, simbolo forte del dono totale di sé.

Dopo la colpa originale, radice di ogni male (Gen 3), l’uomo è deluso della vita perché le promesse, insite nella sua libertà, non vengono soddisfatte all’interno di un progetto umano e la fede in Dio non gli dà la certezza che le sue aspettative non andranno deluse. È troppo forte nell’uomo la volontà di autodeterminazione del proprio destino, troppo tenace il desiderio di decidere da solo ciò che è bene e ciò che male, troppo radicata la convinzione di poter fare a meno di Dio. La fede è una sorta di scommessa che, spesso, l’uomo non vuole e no si sente di fare.


Quinta lettura

Un’altra chiave di interpretazione di Gv 6 è la ricerca di Dio (6,24-29). Vi sono diversi modi, veri e falsi, di cercare Dio, il quale si sottrae ad una ricerca superficiale, interessata, egoistica, non ispirata dall’amore. La folla non capisce che dietro il segno della manna (Dt 8,2-4; Es 16) e del pane c’è il grande Amore di Dio, che si dona all’uomo.

Il tema della ricerca è anticipato dal Prologo (1,35-39) con la vocazione dei primi discepoli; spinti dalle parole del Battista (“Ecco l’Agnello di Dio…”) ad andare oltre le apparenze, essi vanno alla ricerca del mistero presente in quell’uomo (“Maestro, dove abiti?”) e su di lui scommettono tutta la propria esistenza (“Videro dove abitava”).

Nicodemo, la folla, i giudei ed i discepoli che abbandonano al proprio destino Gesù sono i prototipi “sbagliati” della ricerca di Dio.

Nicodemo è condizionato dai suoi angusti schemi mentali e dai suoi pregiudizi ed impiega molto tempo prima di scoprire che Gesù è Dio (deve “rinascere” dall’alto); la folla sbaglia l’obiettivo della ricerca, perché si accontenta del miracolo; i giudei guardano al passato, alla manna, e non sanno vedere ed interpretare il presente ed il futuro, che si realizzano in Gesù, vera manna discesa dal cielo.

Solo Giovanni il Battista comprende che Gesù offre qualcosa di nuovo e rappresenta, per così dire, l’anello di congiunzione tra l’Antico ed il Nuovo Testamento. Pur essendo ancora legato a Mosè ed all’antica manna data ai padri, esuli dall’Egitto, il Battista sa cogliere subito il significato della novità presente in Gesù, la manna vera.

Insieme al Battista, solo i Dodici riconoscono in Gesù la nuova manna: pochi!

Mentre i giudei sono alla ricerca di Dio sempre e solo mediante le pratiche religiose (6,28-29), Gesù propone come metodo di ricerca esclusivamente la fede. Chi legge il Vangelo soltanto in chiave moralistica e legalistica, lo rende insopportabile, lo banalizza. Gesù fa rilevare che la fede è fondamentale per compiere le opere di Dio e salvarsi: da sole, le opere (cioè, l’osservanza della Legge) non ottengono la salvezza, perchè Dio soltanto può salvare l’uomo. Le virtù umane, che s. Agostino definiva “splendidi vizi”, non hanno consistenza senza la fede: possono diventare semplice autocompiacimento.


Sesta lettura

Gv 6 è un racconto eucaristico e, insieme a Gv 17, sostituisce il racconto sinottico dell’istituzione dell’Eucaristia durante l’Ultima Cena del Signore. Possiamo rilevare i seguenti passaggi interpretativi:

  1. nutrimento escatologico: il racconto di Gv 6 inizia con la moltiplicazione dei pani, che suscita entusiasmo nella folla, la quale interpreta il miracolo in chiave messianica, ma con una prospettiva terrena, umana. La folla vede in Gesù il profeta che deve venire (attesa escatologica), ma riduce tale attesa a puro fatto politico (vuole farlo re). Gesù si ritira e la folla rimane delusa perché non ha capito nulla. Nella notte Gesù si rivela ai suoi sul lago: “­Io sono” (εγώ ειμι = egò eimi = YHWH). Gesù è Dio;

  2. cecità: la folla è cieca, non riconosce il segno (6,26) ma ne coglie solo i risvolti materiali. Gesù annuncia una nuova esistenza, che viene da Dio (incarnazione) e finirà in Dio (glorificazione). Salvando l’uomo, Gesù lo porta con sé al Padre. Per far comprendere il significato del cibo, Gesù si serve dei testi antico-testamentari (Pr 9,5; Sir 24,19-21; Is 55,1-3), i quali suggeriscono che gli insegnamenti di Dio diventano vera vita (= pane). Il simbolo non precede la realtà perché la realtà è già simbolo: il pane dato da Gesù è già la nuova vita, ne è il simbolo;

  3. colui che accoglie la Sapienza, il Lògos (= Dio stesso) diventa figlio di Dio, anticipando in questa vita la vita eterna. Il cibo mangiato dai padri è un cibo che perisce, ma Gesù è la nuova manna, il pane disceso dal cielo, il cibo che non perisce e che dura per la vita eterna. Egli è il pane escatologico mangiando il quale si è già inseriti nella vita eterna (cf. Es 16,7; Sal 78). Il discorso di Gv 6, considerato nel suo proprio contesto sapienziale, è un midrash: da un racconto se ne trae un’applicazione. Gesù parte dalla manna per parlare del suo pane, infinitamente superiore all’antica manna perché dona la vita eterna. Il pane di Gesù ci inserisce già ora in Dio (6,27.33.51), perché Egli è il pane di vita, il Regno, la vita eterna (6,35.42.48.51), il Figlio che viene dal cielo (= incarnazione). Attraverso il segno di Gesù il credente si dispone ad avere fede e ad unirsi a Cristo. Senza il segno non si può giungere agevolmente alla fede, ma attraverso il segno si può accogliere Gesù nella fede con maggior consapevolezza ed il segno può essere accolto solo se si viene istruiti da Dio (teodidattica, Is 54,13). Probabilmente in questi passaggi Giovanni ha presente le eresie, che negavano la vera umanità di Cristo (docetismo). Il pane dato da Gesù è per la vita del mondo; la morte di Cristo è vita se viene considerata nella sua dimensione redentrice. È donando la propria vita sulla croce che Gesù ha dato la vita agli uomini;

  4. discorso eucaristico: col sacramento si mangia il “corpo” e si beve il “sangue” di Cristo (6,53-58), entrando nella sua vita. Il discorso fatto da Gesù nella sinagoga è estremamente realistico, non metaforico come alcuni hanno voluto intendere riducendo la comunione con Cristo eucaristico a pura e semplice con Lui comunione spirituale. Il Lògos si è fatto “carne” e questa diventa nutrimento che dà la vita (sacramento). Masticando (l’evangelista usa proprio questo verbo piuttosto crudo, per indicare l’azione del mangiare il corpo di Cristo: trògō) il pane eucaristico, cioè il corpo (sàrx) di Gesù, si giunge al compimento della vera libertà entrando in comunione col Padre. L’Eucaristia ci conduce al Padre celeste, poiché Gesù ci ha rivelato il Padre attraverso di essa;

  5. crisi: Gesù è un Essere divino, che da sempre partecipa della gloria del Padre e che si è fatto uomo per condurre la sua e la nostra “carne” alla comunione col Padre attraverso la croce (dalla croce alla gloria mediante l’Eucaristia), con l’intervento vivificante dello Spirito. Donato da Cristo risorto e trasfigurato nella gloria, lo Spirito Santo trasfigura la nostra “carne” e ci consente di incontrarci col Risorto, che “siede alla destra della potenza di Dio” (Sal 110,1; Dn 7,13; Mt,26,64; Mc 14,62; Lc 23,69; At 2,33ss). Mediante la comunione con Gesù eucaristico, il credente ha già entrambi i piedi nella vita eterna!


La moltiplicazione dei pani

(Gv 6,1-15)


6,1 Dopo questi fatti, Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, 2 e una grande folla lo seguiva vedendo i segni che faceva sugli infermi. 3 Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. 4 Era vicina la Pasqua, la festa dei giudei.

L’episodio della moltiplicazione dei pani viene riportato da tutti e quattro gli evangelisti e l’interpretazione eucaristica del prodigio traspare in tutte le recensioni. In ogni caso si suppone un fondamento storico dell’accaduto, che, pur nella sua straordinarietà, non ha giovato gran che a Gesù ed alla sua causa. A motivo del fraintendimento del significato del miracolo da parte della folla ed anche a causa dell’ostilità dei farisei e di Erode (Mc 8,15; Lc 13,31) Gesù si vede costretto ad abbandonare la Galilea, costringendo i discepoli, disorientati dalla piega presa dagli avvenimenti, ad allontanarsi in barca dal luogo in cui si sta profilando la tentazione di un messianismo temporale. Lo storico può concludere che fra queste due evidenze, cioè il ritiro di Gesù e la partenza forzata dei suoi discepoli, è accaduto un evento che ha suscitato meraviglia e scalpore.

Gesù compie il ”segno” dei pani in Galilea, la sua “patria” tanto amata ed altrettanto ingrata, nonostante che qui Egli abbia compiuto numerosi prodigi (Mt 13,57; Gv 4,44). L’autore del IV Vangelo mette in scena gli attori dell’episodio: Gesù, i discepoli, la grande folla. Nessuno degli evangelisti specifica la località nella quale è avvenuto il miracolo; solo Matteo (15,29) e Giovanni (6,3) situano l’evento su un monte con evidente intenzione di stampo teologico. Si suppone, però, che l’episodio della moltiplicazione dei pani sia avvenuto nella regione montuosa di Tabsga, prospiciente il lago di Galilea, tra le località di Tiberiade e di Cafàrnao, sulla riva occidentale del lago.

Gesù andò all’altra riva… Perché Gesù si sposta? Secondo Mt 14,13 Gesù aveva intenzione di sottrarsi al clima minaccioso ed a Lui ostile fomentato dai giudei, mentre secondo Mc 6,31 il Maestro voleva prendersi un momento di pausa e di riposo insieme ai suoi discepoli. Giovanni, invece, non specifica il motivo dello spostamento di Gesù, ma lascia intendere che Egli volesse prendere le distanze dai luoghi a Lui familiari ed ormai ostili. Nel destino umano di Gesù è chiaramente previsto il rifiuto della sua Parola, della sua opera e della sua stessa Persona!

Una grande folla lo seguiva. Attratta dai miracoli compiuti da Gesù, la folla segue con entusiasmo il taumaturgo, ma si tratta di un entusiasmo superficiale alimentato da un interesse egoistico e dalle vedute assai strette. Il grande entusiasmo d’oggi prepara l’accoglienza trionfale del “Profeta” quando entrerà in Gerusalemme, poco prima della passione, ma contrasta in modo stridente con le urla scomposte che chiederanno a Pilato di mandare in croce quest’Uomo che ha deluso le loro attese. L’esperienza della storia insegna che le adunate oceaniche non consentono quasi mai alla “folla anonima” di poter esprimere sentimenti genuini e sinceri nei confronti di coloro che sanno coagulare attorno a se l’interesse di tante persone, specie quando sono in gioco interessi politici od ideologici; spesso la volontà decisa di poche persone sa orientare ed influenzare il comportamento di molti. Oggi sugli altari e domani nella polvere…, anzi, su una croce! Dall’osanna al crucifige il passo è, spesso, assai breve.

Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Il riferimento alla montagna dà un tocco di solennità all’episodio; Gesù ripete il gesto di Mosè, salito sul monte Sinai per ricevere da Dio la Legge (Es 9,20; 24,1ss;34,2-4) ed il fatto che si metta seduto attorniato dai suoi discepoli sembrerebbe avvalorare tale accostamento tra Gesù e Mosè. Quando un maestro (o rabbì) si metteva seduto, circondato dai suoi allievi, significava che stava per impartire il suo insegnamento sulla Legge e Gesù, che è la Nuova Legge di Dio, sta accingendosi ad istruire i suoi discepoli sul contenuto e sul significato di questa Legge, fondata sull’amore e sul dono di sé fino al sacrificio supremo della propria vita. La scelta del monte non è casuale, considerato il significato simbolico che esso riveste nel linguaggio biblico, sia in rapporto al dono delle Dieci Parole avvenuto sul Sinai che in rapporto alle esigenze cultuali, visto che proprio sulle cime dei monti sorgevano i più importanti luoghi di culto perché si riteneva che fossero i luoghi più vicini alla divinità, che aveva la sua residenza “in alto”, nel cielo. La scelta del monte potrebbe collegarsi anche all’immagine del monte di Dio (Is 2,2ss) su cui viene preparato il grande banchetto messianico (Is 25,6-10) per tutti i popoli (Is 56,7; 66,20). Nel suo commento al Vangelo di Giovanni, s. Agostino ritiene che “il Signore sulla montagna è il Verbo nelle altezze dei cieli” (In Joannem 24,3).

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04/06/2010 18:35
 
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Il Vangelo di Giovanni


Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. La messinscena si conclude con una annotazione temporale propria di Giovanni e sconosciuta ai Sinottici. C’è un’evidente incongruenza temporale fra la festività di Pasqua citata nel capitolo 6 e la festa delle Tende menzionata all’inizio del capitolo successivo (7,1), visto che la prima è una festa primaverile e la seconda una festa autunnale, a meno che la Pasqua citata nella pericope e definita “vicina” (o “prossima”), quindi non ancora presente, abbia solo un significato simbolico. Questa “pasqua” ha il significato di una forte allusione all’imminente morte e sepoltura di Cristo, la cui risurrezione dai morti inaugura una nuova “Pasqua”, diversa dalla “festa dei giudei”. La Pasqua di Cristo è, infatti, l’inizio della Vita che ha sconfitto definitivamente il tragico destino dell’uomo, segnato dal male e dalla morte; la dimensione della Pasqua cristiana è universale, avendo superato gli angusti confini dell’attesa messianica di un singolo popolo, seppur glorioso e scelto da Dio in maniera singolare, profetica. Questa specifica festività pasquale non va, quindi, intesa come l’ultima trascorsa da Cristo prima della sua passione e morte.


5 Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. 6 Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. 7 Gli rispose Filippo: “ Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”. 8 Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9 “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?”. 10 Rispose Gesù: “Fateli sedere”. C’era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini.

Gesù alza gli occhi e vede: Egli sta accingendosi a prendere l’iniziativa per compiere il “segno” coinvolgendo nell’azione, attraverso un dialogo serrato, alcuni dei suoi discepoli. “Alzati quindi gli occhi”. Alzare gli occhi è un’espressione ricorrente nella Bibbia (Gen 13,14; 1Cr 21,16; Is 60,4; Zac 2,1; Mt 17,8; Lc 6,20; 16,23) e quando non è seguita dalla direzione dello sguardo, es. “verso il cielo”, nel qual caso avrebbe il significato di introdurre ad una preghiera, vuole sottolineare un certo modo di “vedere”. Gesù siede sul monte e fissa lo sguardo sulla folla che sta venendo verso di Lui. Dopo l’incontro con la samaritana al pozzo di Sicàr, Gesù aveva invitato i suoi discepoli ad “alzare lo sguardo” per vedere i samaritani che venivano verso di Lui con la buona e retta intenzione di credere alla sua Parola (4,35); qui è Gesù stesso che contempla la folla che avanza e “legge” in ciascuno di quei cuori l’atteggiamento di fede di alcuni, oppure il dubbio o la semplice curiosità, se non l’ostilità di altri. Per tutti però, increduli o credenti, Gesù dimostra la sua sollecitudine: tutti hanno bisogno di “mangiare” e “sfamarsi”. A tutti Egli vuole donare la propria Persona. La volontà di sfamare tutta quella folla non scaturisce da una necessità contingente; è giorno e la gente non è ancora affaticata da una giornata trascorsa ad ascoltare il Maestro di Galilea od a portargli gli ammalati, nella speranza di vederlo compiere qualche miracolo. Se la folla è convenuta in quel luogo è perché è stata attratta dalla fama di taumaturgo di Gesù (“…una grande folla lo seguiva vedendo i segni che faceva sugli infermi”), ma Gesù sa “vedere”in profondità nell’animo dell’uomo, di cui conosce le esigenze interiori e le angosce esistenziali. Il dono gratuito di Gesù scaturisce da quello sguardo posato sulla folla che si sta avvicinando a Lui, portando ognuno il fardello della propria fatica di vivere. A questo punto l’evangelista introduce un momento di tensione, una pausa ad effetto ed è Gesù stesso a creare la suspense.

Dove possiamo comprare il pane…?”. Gesù sembra fare il verso a Mosè, che si lamentava con YHWH (Nm 11,13) non sapendo come accontentare il suo popolo, eternamente insoddisfatto ed incontentabile, che in pieno deserto pretendeva di mangiare carne a sazietà, rimpiangendo il periodo in cui, pur ridotto a dura schiavitù, poteva ogni tanto cibarsi di carne. La domanda retorica rivolta da Gesù a Filippo vuole sottolineare l’incapacità, da parte dell’uomo, di procurarsi il “pane vero”, che solo Dio può dare; in realtà Egli si rifà alla Scrittura (Is 55,1), in cui si legge: “Anche se non avete denaro, venite (a me)! Comprate il grano e mangiate, gratuitamente”. Filippo, che pure dovrebbe conoscere la Scrittura, viene tratto in inganno dal modo di parlare di Gesù, dal quale viene messo alla prova. Gesù sa bene cosa sta per fare, ma Filippo casca nel tranello tesogli da Gesù e si limita ad una lettura superficiale e molto terrena della situazione. Non bastano duecento denari per dare a ciascun uomo un piccolo pezzo di pane, come se il dono della vita possa essere quantizzabile (un piccolo pezzo) e commerciabile. Fa capolino l’ironia di Giovanni: nemmeno una cifra spropositata di denaro può “comprare” un piccolo frammento di vita eterna, simboleggiata dal pane dato da Gesù. Il nutrimento che YHWH offre gratuitamente al suo popolo, come sottinteso dal passo di Isaia succitato (55,1-3), è la sua Parola il cui ascolto fa vivere e la cui accoglienza inserisce l’uomo nell’Alleanza eterna con Dio. Ciò che è sfuggito a Filippo non sfuggirà a Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna! ” (6,68). L’evangelista colloca Gesù su un piano molto diverso da quello occupato da Mosè: mentre questi era inquieto e quasi angosciato di fronte alla difficoltà di accontentare una folla sempre in rivolta (Nm 11ss), Gesù era tranquillo e sereno perché “sapeva bene quello che stava per fare”; Gesù aveva la piena consapevolezza che non sarebbe bastata la prodigiosa moltiplicazione dei pani per donare la vita a quella folla, ma che ci sarebbe voluto molto, molto di più: il dono libero e totalmente gratuito della propria vita sulla croce!

Prima Filippo e poi Andrea fanno risaltare, con le loro osservazioni cariche di buon senso e di sano realismo, la grandezza del miracolo; il primo fa notare che nemmeno duecento denari (cifra consistente e corrispondente al valore di sei mesi di lavoro di un bracciante agricolo, il cui salario giornaliero era di circa un denaro), sarebbero sufficienti a dare un piccolo pezzo di pane per ciascun uomo accorso da Gesù, mentre il secondo è in imbarazzo di fronte a soli cinque pani d’orzo e a due pesci (pescati probabilmente nel lago lì vicino) che un ragazzo ha con sé in una sporta e che si trova forse lì per caso. Giovanni è l’unico degli evangelisti a riferire i particolari relativi ai pani di “orzo” ed al “ragazzo”; qualche commentatore ritiene che vi sia un riferimento biblico in questi due dettagli narrativi e pensano a 2Re 4,38-42: il profeta Eliseo aveva compiuto un prodigio analogo moltiplicando venti pani d’orzo portati dal suo servo, un “ragazzo” (in greco, paidàrion), a favore degli abitanti di Galgala in difficoltà a causa della carestia.

Il pane d’orzo era il cibo dei poveri perché meno caro del pane di frumento (cf. 2Re 7,1.16; Ap 6,16); l’orzo, che era più precoce e maturava prima del frumento, cioè verso aprile, costituiva la prima messe offerta come primizia (Lv 23,9-14). Nel racconto di Eliseo, infatti, i pani d’orzo appaiono come “pani di primizia”, vale a dire preparati con il nuovo raccolto d’orzo per servire da offerta liturgica, come gesto di riconoscenza per la liberalità divina (Lv 23,17; cf. Es 23,19). Gesù, quindi, avrebbe operato un prodigio sul pane prodotto dalla terra (Gb 28,5), che è anche un pane rituale. Alle nozze di Cana, l’acqua della fontana serviva alla purificazione dei giudei prima di diventare il vino dell’alleanza donato da Gesù; similmente, il pane con cui Gesù nutre la folla potrebbe essere messo in relazione con la creazione originaria e con la liturgia di Israele.

I piccoli pesci (in greco, opsària) suggeriscono che Gesù ha offerto ai cinquemila uomini un vero e proprio pasto, fatto di pane e companatico (cf. Tb 2,2; Gv 21; 21,9-13); i pesci non appartengono al sovrappiù fatto raccogliere da Gesù ai suoi discepoli e non vengono neppure menzionati quando il “segno” sarà identificato col pane su cui Gesù “aveva reso grazie” (6,23). Gli antichi commentatori della pericope avevano identificato nei cinque pani e nei due pesci i sette sacramenti, ma, con tutta probabilità, l’evangelista intendeva solo sottolineare la pochezza a partire dalla quale Gesù aveva sfamato una folla di cinquemila uomini (“senza contare donne e bambini”, precisa Mt 14,21).

Esaurito il dialogo coi discepoli, Gesù ordina loro di far “sedere” la folla, quasi un invito a farli mettere a tavola. Secondo l’usanza dei pasti in comune, gli uomini si distendono sull’erba, segno evidente che è primavera, ma l’accenno all’erba potrebbe avere anche un altro significato; l’evangelista potrebbe aver presente il riferimento biblico (Is 40,7) all’erba che inaridisce ed alla Parola che rimane in eterno. Gesù non si accontenta di distribuire del cibo ma presiede ad un pasto comunitario, che ha tutte le caratteristiche del banchetto escatologico al quale tutta l’umanità viene invitata (Mt,22,1-14; Lc14,16,24; Pr 9,1-6).


11 Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero.

Come alle nozze di Cana, il prodigio si compie senza che sia pronunciata alcuna parola di potenza e senza che sia descritto il processo di trasformazione; l’evangelista annota molto sobriamente il risultato del miracolo, rilevando che tutti mangiarono “finché ne vollero”, a sazietà. L’azione di Gesù non differisce dal gesto abituale con cui ogni padre di famiglia israelita soleva porre il cibo dei suoi all’interno del rapporto che unisce l’uomo a Dio: “dopo aver reso grazie”, Gesù provvede personalmente alla distribuzione dei pani e dei pesci. Il rito inaugurale del pasto, espresso dal verbo “rendere grazie” (in greco eukharistéō), evoca al lettore cristiano l’azione eucaristica della Cena. Il gesto dello spezzare il pane, ricordato dai Sinottici, viene qua solo sottinteso dall’azione compiuta da Gesù, che distribuisce personalmente il cibo ai presenti, i quali aderiscono al dono stando “seduti” a mensa. Giuda invece, che nella notte del tradimento respingerà questo dono, si alzerà da mensa ed uscirà nelle tenebre incontro al suo destino di morte (13,30; cf. Mt 22,13).

A differenza di quanto riferito dai Sinottici, nel testo giovanneo non viene precisato che Gesù alzò gli occhi al cielo al momento del rendimento di grazie, come per domandare al Padre il pane miracoloso. Il dono viene fatto da Gesù certamente in comunione col Padre, ma esso esprime e significa l’amore di Gesù stesso per i suoi (13,1) e nel discorso presso la sinagoga di Cafàrnao Egli dirà: “…il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (6,51). La dimensione ecclesiale del dono eucaristico non viene espressa, come nei Sinottici, dalla partecipazione dei discepoli alla distribuzione dei pani e dei pesci, ma viene resa da Giovanni con l’immagine di quella moltitudine di uomini che si radunano per diventare commensali attorno ad un banchetto, di cui Gesù è l’unico donatore (di Se stesso come “pane di vita”).


12 E quando furono saziati, disse ai discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. 13 Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

Il numero dei cesti, colmi d’avanzi, evidenzia la portata straordinaria del miracolo ed enfatizza la sazietà di coloro che hanno mangiato il pane, frutto della Parola di Gesù. Non è la folla, ormai sazia, a raccogliere gli avanzi, ma i discepoli su ordine di Gesù il quale, in modo sorprendente ed imprevisto, si preoccupa che nulla vada perduto del dono fatto alla folla. Non si tratta di rispettare una norma giudaica, la quale prescrive di non sprecare il cibo, ma di far comprendere ai discepoli ed alla gente il significato del dono dato in sovrappiù (cf. 2Re 4,43ss). Ad una realtà già completa di per sé, visto che la folla ha mangiato a sazietà, se ne aggiunge un’altra, il sovrappiù, pure essa pienamente completa come suggerisce il numero 12 dei canestri, pieni di avanzi. Grazie alla parola di Gesù, non si tratta solo di rimarcare l’abbondanza del dono, ma di suggerirne il senso.

Vi sono almeno due interpretazioni del segno dei pani:

  1. “…perché nulla vada perduto”: questa sottolineatura, fatta dall’evangelista, rimanda ad una frase del discorso in cui Gesù contrappone due tipi di nutrimento, quello che perisce e quello che dura per la vita eterna e che viene dato dal Figlio dell’Uomo (6,27). Attraverso il segno dei pani Gesù non mira alla sazietà fisica, ma alla vita divina, che Egli è venuto ad offrire. Il sovrappiù, simboleggiato dai 12 cesti contenenti gli avanzi del pane, rimanda all’aspetto incorruttibile del nutrimento donato generosamente ed in sovrabbondanza da Gesù. Egli fa spostare l’attenzione della folla e dei discepoli da ciò che è effimero e transitorio a ciò che è sorgente perenne di vita: l’uomo si preoccupa del benessere materiale ed è ovviamente giusto che si impegni a migliorare la qualità psico-fisica della propria esistenza, ma non basta. Infatti, “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4; Dt 8,3); l’uomo non può dimenticare il benessere della propria dimensione spirituale, grazie alla quale egli viene inserito nell’eternità al termine della sua esperienza terrena.

  2. La seconda interpretazione si fonda sul tema della manna, sviluppato nel discorso presso la sinagoga di Cafàrnao, ma già implicito nel racconto del miracolo. Il sovrappiù suggerisce e rimarca il contrasto fra il pane donato da Gesù e la manna ricevuta dai padri nel deserto del Sinai. Anche costoro avevano mangiato a sazietà (Es 16,3), ma la manna, raccolta in eccesso rispetto alle esigenze di ciascuno, si corrompeva e deperiva rapidamente; il pane di Gesù, invece, è destinato a durare, a non corrompersi in quanto simbolo dell’Eucaristia o della Parola di Dio, che è parola di rivelazione. Nello stesso capitolo 16 dell’Esodo vi sono due eccezioni al carattere deperibile della manna: il sovrappiù raccolto alla vigilia del sabato dura fino al mattino (16,23) affinché il popolo non violi il precetto del riposo sabbatico; la manna, raccolta in un vaso e conservata nell’arca, non deperisce in segno di testimonianza alle generazioni future che il Signore Dio ha nutrito gratuitamente il suo popolo nel deserto (16,32-34). In questa prospettiva cultuale, Gesù potrebbe aver ordinato di raccogliere gli avanzi quasi a voler sottolineare la dimensione cultuale del suo dono.

Nel dono sovrabbondante fatto da Gesù alla folla si potrebbe, in verità, cogliere anche una dimensione escatologica, desumibile da una tradizione rabbinica (Talmud di Babilonia, Shab. 113b) secondo la quale Rut, antenata di Gesù, dopo la mietitura dell’orzo aveva raccolto una parte della sua spigolatura “per il tempo a venire”: Rut ha mangiato (per questo mondo), si è saziata (per i giorni del Messia) e ne ha avuto in sovrappiù (per il tempo a venire).


14 Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: “Questi è davvero il Profeta che deve venire nel mondo!”. 15 Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.

La gente si rende conto di aver assistito ad un miracolo d’enorme portata e la sua reazione è del tutto comprensibile: un uomo capace di fare così grandi prodigi non può che essere un personaggio straordinario e d’eccezione, come dovrebbe essere il Profeta promesso dallo stesso Mosè (cf. Dt 18,15; At 3,22; 7,37) ed il cui carattere escatologico è messo in risalto dall’inciso “che deve venire nel mondo”. Secondo l’annuncio di Dt 18,15 questa figura di Profeta doveva riallacciarsi a Mosè, come legislatore ed interprete ultimo della Legge, ma al tempo di Gesù la Palestina era percorsa da fremiti d’attesa di un Messia forte ed autorevole, capace di scacciare dal sacro suolo della Terra promessa la blasfema presenza del dominatore romano. Vari personaggi pittoreschi si erano spacciati per messia ed avevano fatto tutti quanti una tragica fine; i romani non andavano tanto per il sottile coi rivoltosi che volevano sottrarsi al loro dominio, ma erano abbastanza tolleranti con coloro che accettavano le loro leggi. Persino un ebreo come Paolo poteva godere dell’ambita cittadinanza romana, purché sapesse stare alle regole del dominatore. L’attesa di un Messia politico era così forte che ogniqualvolta veniva alla ribalta qualche personaggio carismatico, come Giovanni Battista e, in questo caso, come Gesù, era del tutto normale che l’interrogativo serpeggiasse tra la gente: che sia lui il messia?

Il segno dei pani compiuto da Gesù, però, rievoca in qualche modo il miracolo della manna e per questo la folla coglie nel taumaturgo Gesù la missione “profetica”, ma Egli si sottrae all’entusiasmo della folla perché sa d’essere l’oggetto di un tragico equivoco; la gente cerca una guida politica, non un messia religioso. Mentre al momento del suo arresto Gesù si “lascerà condurre” davanti ai suoi giudici per essere condannato a morte (18,12), qui si sottrae all’entusiasmo delirante di una folla che, volendo farlo re, lo distoglierebbe dalla sua missione. Solo attraverso la propria morte in croce Gesù diverrà “pane” per quella moltitudine affamata, senza saperlo, di Verità e di Vita. Per ora, Gesù prende le distanze dalla folla e dal suo ambiguo entusiasmo e “si ritira”, tutto solo, sulla montagna. Davanti alla tentazione del potere (che, secondo i Sinottici, Gesù ha affrontato e superato all’inizio del suo ministero, nel deserto) Gesù compie la sua scelta di obbedienza totale e filiale al volere del Padre. Lassù sul monte Gesù non è realmente solo, perché il Padre è con Lui ed Egli è col Padre in un tutt’uno di amore e di volontà (17,21). Biblicamente la montagna è sempre associata alla presenza divina (Es 24,1.15) e, secondo la prospettiva giovannea, Gesù non è mai solo perché il Padre è sempre con Lui (8,16; 16,32). Stando almeno alla teologia di Giovanni, per Gesù essere “solo” o essere “presso il Padre” è la stessa cosa; sul monte Egli non riceve la gloria dagli uomini ma la riceve direttamente dal Padre, col quale la condivide da prima che il mondo “fosse” (1,1-3.18). Ben presto Gesù manifesterà questa “gloria” ai suoi discepoli, che lo vedranno camminare sulle acque minacciose ed infide (simbolo delle avverse potenze del male) del lago di Galilea.


Gesù cammina sulle acque

(Gv 6,16-21)


Il racconto del cammino di Gesù sulle acque del lago di Galilea sembra interrompere la sequenza narrativa costituita dal “segno” dei pani (6,1-15) e dal discorso sul Pane di vita (6,22-71). In realtà, la pericope 6,16-21 è un racconto di “epifania” di Dio (o teofania) che ben s’inserisce tra il racconto del prodigio della moltiplicazione dei pani e la successiva spiegazione del significato del prodigio stesso: in Gesù è Dio che agisce (miracolo dei pani) e che si rivela come pane che dà la vita eterna (discorso di auto-rivelazione nella sinagoga di Cafàrnao).

Gesù si è ritirato “sul monte, tutto solo”, mentre i discepoli si trovano in mezzo al lago, anch’essi in piena solitudine e privi di guida in un ambiente a loro ostile. La separazione tra il Maestro ed i suoi discepoli è temporanea ed apparente; a differenza della tradizione sinottica, che riferisce l’episodio in questione in un’ottica di salvataggio dei discepoli, in difficoltà in mezzo alle acque agitate del lago, Giovanni interpreta l’accaduto come una sottolineatura del mistero presente in Cristo e significato da un evento straordinario. Il racconto di Giovanni rifletterebbe, secondo alcuni studiosi, l’esperienza della sua comunità cristiana, che è in difficoltà a causa delle persecuzioni e delle prime eresie ma che riesce, tuttavia, ad affermare la propria fede nella presenza rassicurante e reale di Cristo all’interno della propria realtà sociale e religiosa.

Ciò non significa che questo racconto sia frutto di un’invenzione pura e semplice, anche se destinata ad una precisa finalità teologica e cristologica, ma solo che un fatto realmente accaduto e testimoniato in maniera assolutamente attendibile da uomini abituati alla concretezza della dura vita di pescatori, quali sono la maggior parte dei discepoli, è stato interpretato dall’evangelista in chiave catechetica a vantaggio della fede della propria comunità.

Va detto, per inciso, che alcuni critici hanno tentato di eliminare l’aspetto “miracoloso” di quanto accadde sul lago di Galilea basandosi sull’espressione greca “epì tēs thalàssēs” (6,19); secondo questi autori, Gesù non ha camminato “sul mare”, ma “sulla spiaggia del mare”, senso che il testo greco potrebbe assumere. In verità, costoro applicano al testo giovanneo una problematica che è estranea alla sua reale prospettiva: infatti, il racconto di Giovanni narra un evento che mostra il superamento del limite invalicabile della natura, non tanto per suscitare meraviglia nel lettore ma per orientarlo verso il “mistero” di Gesù, l’Uomo-Dio in grado di dominare le forze malvagie che minacciano continuamente la vita umana e che sono simboleggiate dai fenomeni naturali, sui quali l’uomo non è in grado di esercitare il proprio controllo.


16 Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare 17 e, saliti in una barca, si avviarono verso l’altra riva in direzione di Cafàrnao. Era buio e Gesù non era ancora venuto da loro. 18 Il mare era agitato perché soffiava un forte vento. 19 Dopo aver remato circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura. 20 Ma egli disse loro: “Sono io, non temete”. 21 Allora vollero prenderlo sulla barca e rapidamente la barca toccò la riva alla quale erano diretti.

Rispetto al racconto dei Sinottici, il testo di Giovanni presenta alcune differenze piuttosto evidenti. I discepoli non vengono obbligati da Gesù a precederlo sull’altra riva (cf. invece Mc 6, 45; Mt 14,22); il lago è spazzato da un forte vento contrario, ma non è in tempesta (cf. Mt 14,24); Giovanni non accenna al particolare dei discepoli che scambiano Gesù per un fantasma (cf. Mt 14,26; Mc 6,49) e non rileva l’improvvisa calma degli elementi della natura (vento forte, acque agitate) dopo che Gesù è salito sulla barca (cf. Mt 14,32; Mc 6,51); il prodigio del cammino di Gesù sulle acque del mare non conduce ad un’aperta professione di fede dei discepoli in Lui (cf. invece Mt 14,33) ed è propria di Giovanni l’annotazione che la barca tocca rapidamente la riva, senza specificare se Gesù vi sia salito sopra.

Venuta la sera” i discepoli sono soli, separati da Gesù che si trova in alto, “sulla montagna”, in compagnia del Padre. Loro invece sono in basso, “sull’acqua” e nella “oscurità” della notte. Già da questi particolari narrativi, carichi di simbolismo, si può percepire il senso di solitudine provato dai discepoli i quali, senza il loro Maestro, sono come spauriti e brancolanti nelle tenebre del dubbio e dell’incertezza. Lasciati a se stessi, i discepoli vivono in ansiosa attesa di Colui che li ha apparentemente abbandonati alle prese con le tenebre (skotìa) della notte. È forte il richiamo alle “tenebre” del Prologo (1,5) che sono incapaci di soffocare la Luce di Cristo, ma pur sempre in grado di soffocare quegli uomini (12,35) che non vogliono seguire Cristo e credere in Lui (8,12; 12,46). Prima di ritrovare la Luce e la sicurezza, i discepoli devono faticare, remando per almeno cinque o sei km su un lago sferzato da un forte vento contrario, fenomeno frequente sul lago di Galilea. Nel racconto di Giovanni la situazione notturna dei discepoli rievoca il senso di solitudine della comunità dopo la morte di Gesù e non tanto la situazione di pericolo vissuta dalla Chiesa nel corso dei secoli, come adombrato dai testi sinottici paralleli. La burrasca, non esplicitamente nominata da Giovanni ma sottintesa dal “forte vento”, sottolinea il carattere temibile che il “mare” ha sempre avuto nella cultura del popolo ebraico, poco incline alla navigazione in mare aperto. Anche se il Creatore ha fissato dei limiti invalicabili alle minacciose acque del mare (Gen 1,9-10), che è abitato da mostri terrificanti come il Leviatàn (Gb 3,8; 40,25), nel linguaggio biblico il mare rimane il dominio ed il simbolo delle potenze malvagie sulle quali solo Dio è in grado di trionfare. Sintesi di tutte le forze del male è la morte e l’Abisso, che raccoglie tutte le acque del mare, confina proprio con lo sheòl, il regno dei morti (Gn 2,6ss; Mc 5,13; Ap 20,13; 21,1). Per far riuscire il suo progetto di salvezza, Dio trionfa sul mare, sia al tempo della creazione (Is 51,9ss), sia nella liberazione del popolo eletto (Es 14,14-15) che nel combattimento escatologico (Dn 7,2-7); numerosi testi celebrano la potenza di YHWH che si rivela nel dominio delle grandi acque (Sal 29,3; 65,8; 89,10; 93,3ss).

L’Antico Testamento ignora analoghi episodi di uomini in grado di camminare sulle acque del mare, ma di YHWH si dice che “Lui solo ha calcato le profondità del mare” (Gb 9,8) e che nel mare “ha tracciato” le sue “orme” (Sal 77,20; Is 51,10). Come YHWH, così anche Gesù viene camminando sulle acque e non tanto perché ha visto i discepoli in affanno, dal momento che stanno remando contro vento con scarsi risultati, quanto piuttosto per manifestare la propria condizione sovrumana. Vedendolo avanzare sull’acqua, i discepoli “hanno paura” e non perché credono di vedere un fantasma (Mc 6,49; Mt 14,26), ma perché si rendono conto di trovarsi di fronte ad un’apparizione numinosa, come nelle teofanie bibliche.

Il timore dei discepoli viene subito fugato da Gesù con una dichiarazione tanto familiare quanto ricca di implicazioni teologiche: “SONO IO”. Fa seguito un invito perentorio e rassicurante a non aver paura.

Sono io”. Stando al contesto, quest’affermazione non sembra una proclamazione assoluta di divinità da parte di Gesù, anche se il testo greco, egò eimi, potrebbe far pensare il contrario, visto e considerato che la traduzione letterale dell’espressione greca suona come un solenne IO SONO, che inevitabilmente fa pensare alla rivelazione del nome divino di Es 3,14, ripresa integralmente da Gv 8,58. Certo è che la reazione dei discepoli ci autorizza a ritenere che Gesù abbia inteso farsi riconoscere semplicemente come il Maestro familiare e capace di rassicurare i fedeli amici con la sola sua presenza. Essi, infatti, dopo averlo riconosciuto, si dispongono ad accoglierlo “nella barca” senza manifestare alcuna professione di fede, come avviene invece in Mt 14,33. Fatta questa doverosa precisazione critico-esegetica, appare comunque alquanto evidente l’intenzione dell’evangelista di presentare la venuta di Gesù, che cammina sull’acqua, come una manifestazione o epifania della sua divinità e di assegnare all’espressione “sono io” un chiaro significato di auto-rivelazione della propria identità divina.

Vollero prenderlo sulla barca”. La decisione dei discepoli di accogliere Gesù “sulla barca” assume il significato di una vera e propria opzione di fede, espressa tacitamente, senza enfasi. L’evangelista non specifica nemmeno se Gesù sia effettivamente salito sulla barca o meno e si limita ad osservare che, quasi per effetto della “accoglienza” di Gesù da parte dei discepoli, la barca tocca la riva “rapidamente”. Il testo precisa che i discepoli si trovavano proprio nel bel mezzo del lago (avevano remato per circa 5 o 6 km ed in quel punto il lago è largo circa 12 km) allorquando si sono trovati in difficoltà ed hanno visto Gesù venire verso di loro camminando sull’acqua. Il fatto che la barca attracchi a riva in un baleno è da intendersi come “un prodigio nel prodigio” (che nei Sinottici corrisponde all’immediata cessazione del vento non appena Gesù mette piede sulla barca; cf. Mt 14,32; Mc 6,51), verificatosi in virtù della potenza divina di Gesù, senza che questi tocchi la barca. Nel suo commento esegetico a questa pericope, s. Giovanni Crisostomo mostrò particolare attenzione al particolare del rapido approdo della barca a riva, che a suo avviso “…ha reso il miracolo (del cammino sul mare) ancora più grande” (Homilia in Joannem, 43,1; cf. PG 59,246).

Si può trarre una conclusione dall’episodio narrato, seppure con sfumature diverse, da Giovanni e dai Sinottici: l’acqua del mare (così veniva chiamato il lago di Genesaret o di Tiberiade), sconvolto dal vento, simboleggia il male e le situazioni pericolose ed avverse della vita, specie quelle di natura spirituale, mentre la terraferma rappresenta la sicurezza. Nel momento in cui i discepoli manifestano la loro fede in Gesù (accogliendolo sulla loro barca), immediatamente passano dal dominio della morte al dominio della vita e vengono “guidati al porto sospirato” (Sal 107,30). Senza Gesù, l’uomo rimane in balia delle proprie passioni e delle tentazioni che gli vengono dal maligno; quando si lascia travolgere della malvagità, che si annida nel suo cuore come conseguenza della colpa originale, l’uomo rischia di affondare nell’abisso del proprio orgoglio e del proprio egoismo, distruggendo l’immagine di Dio che porta dentro di sé e, con essa, anche la propria identità e dignità umana. La salvezza proviene da Cristo, davanti al quale “ogni ginocchio si piega nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10) ed al quale sono sottomesse anche le forze del male, che non potranno mai prevalere sul progetto di vita voluto da Dio per l’intero genere umano. Spetta all’uomo la scelta libera e responsabile di “accogliere” nella propria vita l’amore salvifico e redentore di Cristo Signore.


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04/06/2010 18:37
 
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Il Vangelo di Giovanni

Il discorso nella sinagoga di Cafàrnao

(Gv 6,22-71)


Dopo il doppio prodigio verificatosi di notte sul mare di Galilea, un nuovo giorno (“il giorno dopo”) molto importante attende sia i discepoli sia la folla numerosa, che ha beneficiato del prodigio dei pani. Tutti sono chiamati a confrontarsi con le “dure” parole di Gesù ed a compiere una scelta di fede. Per ognuno dei presenti, questo è un giorno diverso dagli altri, un giorno speciale, nel quale devono decidere se “vivere” cibandosi del corpo di Gesù oppure scegliere di morire di “fame” perché rifiutano il cibo offerto loro da Cristo. Questa è una scelta che attraversa il tempo e che obbliga l’uomo d’oggi (d’ogni “oggi”) a prendere una posizione chiara: o si “accoglie” o si “rifiuta” Cristo come Pane di vita. Dalla scelta scaturisce il proprio destino di vita o di morte.


22 Il giorno dopo la folla, rimasta dall’altra parte del mare, notò che c’era una barca sola e che Gesù non era salito con i suoi discepoli sulla barca, ma soltanto i suoi discepoli erano partiti. 23 Altre barche erano giunte nel frattempo da Tiberiade, presso il luogo dove avevano mangiato il pane dopo che il Signore aveva reso grazie. 24 Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. 25 Trovatolo di là dal mare, gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”.

Entusiasmata dal miracolo, la folla va alla ricerca di un così grande taumaturgo, già identificato dai più come “il profeta che deve venire” (6,14), ma rimane con un palmo di naso. Tutti sono convinti che Gesù sia coi suoi discepoli, ma ben presto si rendono conto che “Lui” non c’è e che si è sottratto alle loro egoistiche attenzioni. La folla credeva di “avere in mano” il Profeta (volevano, infatti, “farlo re”), ma questi è sparito: nessuno può impossessarsi dell’Inviato di Dio per piegarlo alla propria meschina volontà ed ai propri interessi personali. La folla indaga, cerca di capire dove sia andato a cacciarsi l’oggetto dei suoi desideri e, infine, intuisce: il “rabbì” (in poco tempo il Profeta è scaduto al rango di un semplice rabbino o maestro!) deve trovarsi per forza dall’altra parte del lago. Ma come avrà fatto ad arrivarci senza una barca? Tutti hanno visto i discepoli allontanarsi su una barca sola, ma l’altra imbarcazione è ancora lì sulla riva, vuota! In qualche modo, la folla fa arrivare una flottiglia d’imbarcazioni e si sposta sull’altra riva del vasto e non sempre tranquillo lago di Galilea (22 km circa di lunghezza e 12 km circa di larghezza), con una traversata che riduce di parecchio il tempo di un trasferimento a piedi lungo le rive dello specchio d’acqua.

Il v.23 risente di un linguaggio tipicamente cristiano; il luogo presso il quale approdano le barche usate dalla folla è quello in cui “avevano mangiato il pane” (non i pani), dopo che “il Signore” (non Gesù) aveva “reso grazie” (in greco, eucharistésantos). Si tratta di una vera e propria formula liturgica eucaristica, che conferma la lettura sacramentale dell’episodio della moltiplicazione dei pani fatta dall’evangelista. I cinque pani offerti dal ragazzo a Gesù sono diventati il pane di vita, cioè la carne di Cristo, che ogni uomo è invitato a mangiare (letteralmente, a masticare) come cibo per la vita eterna.

Rabbì, quando sei venuto qua?”. La domanda rende bene la sorpresa della folla, sicura fino a poco tempo prima di conoscere la vera identità di Gesù, tanto da volerlo fare re (6,14) ed ora disorientata dalla personalità sfuggente e misteriosa di questo rabbì, capace di sottrarsi al controllo di tanta gente. Sollecitato dalla folla, Gesù risponde alla domanda in modo indiretto, cercando di orientare l’attenzione dei presenti sul motivo che li ha indotti ad andare alla sua ricerca.

Il discorso sul “pane di vita” (6,26-71) rivolto alla folla di Galilea ed ai discepoli dà al segno dei pani tutta la sua profondità di senso.


26 Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. 27 Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. 28 Gli dissero allora: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. 29 Gesù rispose: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”.

Il dialogo tra Gesù e la gente di Galilea ruota su due temi fondamentali: il nutrimento relativo alla vita eterna e la fede nell’Inviato di Dio come condizione di salvezza. Coloro che hanno ricevuto in abbondanza il pane che “perisce” sono invitati a desiderare un pane “che rimanga” e che viene donato dal Figlio dell’uomo. Per ricevere il pane che dura per sempre (“per la vita eterna”) è necessario attenersi ad una condizione inderogabile: accogliere Gesù come Inviato del Padre, il quale è il donatore del “pane vero” che dà la vita al mondo.

Appare subito evidente che il conduttore del dialogo è Gesù, forte dell’autorità che gli proviene da Dio Padre. Egli non si cura di spiegare quando e come sia giunto a Cafàrnao, ma eleva subito il livello del dialogo ed i suoi interlocutori fanno fatica a comprendere la portata delle parole di Gesù, che troveranno “troppo dure” per i loro orecchi. Gesù mette in guardia i presenti sulla deviazione del loro desiderio: essi si sono saziati mangiando un pane terreno, ma il pane di cui hanno veramente bisogno è di un altro genere perché il destino della loro vita è profondamente radicato nell’eternità. Gli interlocutori di Gesù già sanno dalla Sacra Scrittura (Sir 17,6-11; 45,5) che la manna, che i loro padri hanno mangiato nel deserto, è figura della Legge divina, donata da Dio in persona al patriarca e profeta Mosè e che essi non devono, pertanto, lavorare solo per acquisire il pane terreno. Essi comprendono bene che Gesù li sta conducendo su un terreno ben noto: compiere le “opere di Dio” significa entrare nell’orizzonte della perfetta osservanza della Legge; i galilei, però, volutamente ignorano il richiamo di Gesù a procurarsi il cibo vivificante donato dal Figlio dell’uomo, sul quale il Padre ha impresso il proprio sigillo di riconoscimento. Eppure, con un duplice “amen” (reso in italiano con un poco incisivo “in verità, in verità”) Gesù ha voluto sottolineare con particolare forza la portata della sua proclamazione. Per il momento, Gesù non designa se stesso come il donatore del “pane di vita”, ma attribuisce questa funzione ad una figura celeste nota all’apocalittica giudaica: il “Figlio dell’uomo”, nel quale Gesù s’identifica, evoca nel linguaggio teologico di Giovanni l’itinerario compiuto dal Lògos incarnato, che è disceso dal cielo (3,13) e che al cielo farà ritorno (6,62). I galilei, però, ancora non intuiscono il percorso di fede che Gesù vuol far compiere a loro, ma ben presto Egli li condurrà ad una drastica scelta di campo: o con Lui o contro di Lui.


30 Allora gli dissero: “Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? 31 I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo”.

Ai galilei non è bastato essere stati testimoni di un così grande “segno”, come la moltiplicazione di cinque pani, che hanno sfamato ben cinquemila uomini e si ostinano a chiedere a Gesù un “segno” che lo qualifichi come Inviato di Dio, avendo ben compreso il significato dell’appellativo “Figlio dell’uomo” usato da Gesù. Essi sembrano disposti a credere in Lui, ma in realtà non lo sono per niente; secondo la tradizione profetica, un segno per essere probante deve essere debitamente annunciato in precedenza dal suo autore. Orbene, i galilei chiedono a Gesù quale “segno” Egli intenda compiere per dimostrare di essere il Profeta, il Messia, l’Inviato investito da Dio del grave compito di liberare il suo popolo. Ecco riaffiorare la dimensione politica delle attese messianiche del popolo ebraico. Con il miracolo dei pani, Gesù aveva mostrato un potere che la folla aveva interpretato secondo le proprie attese, senza che Egli le avesse detto una sola parola chiarificatrice in tal senso; ora la folla lo sente dichiarare che credere nella sua persona significa compiere la Legge intera.

Gli interlocutori di Gesù mostrano tutta la loro perplessità di fronte ad un personaggio così enigmatico, capace di compiere prodigi straordinari ma assolutamente poco affidabile dal punto di vista dottrinale: chi pretende d’essere costui? Come può osare di fare concorrenza a Mosè, donatore della manna e mediatore legittimo della Parola di Dio? La citazione proposta dal testo (6,31) non trova riscontri nella Sacra Scrittura, almeno nella sua formulazione attuale, ma, dato il parallelismo fra Gv 6 ed Es 16, si potrebbe cogliere nella citazione la combinazione dei due testi seguenti: “E’ il pane che il Signore vi ha dato da mangiare” (Es 16,15); “Io farò piovere su di voi dei pani che vengono dal cielo” (Es 16,4). In ogni caso, il segno evocato nella citazione è il dono meraviglioso della manna, simbolo della Legge data a Mosè sul Sinai da YHWH in persona. Cosa può esservi di più grande della Legge, dalla quale Israele trae il quotidiano nutrimento per conservare la propria identità religiosa, culturale, politica ed etnica e per guadagnare la vita eterna mediante l’osservanza scrupolosa delle norme contenute in essa? Ogni ebreo osservante sa che, se vuole salvarsi, deve obbedire alla Legge e come può pretendere Gesù che si riponga in Lui, nella sua Parola e nelle sue “opere”, una qualsiasi attesa di salvezza che solo Dio può dare mediante la sua santissima Legge? Ciò che i padri hanno mangiato nel deserto era un pane che veniva “dal cielo” e, siccome la Scrittura è il codice di lettura sia del passato sia del presente, i galilei si sentono nel giusto se fondano la loro fede nel Dio che ha donato loro la manna (= Legge); così facendo, però, essi si bloccano davanti alla prospettiva di qualsiasi rivelazione futura.

Quale opera compi?”. La domanda offre a Gesù lo spunto per sottolineare la grande differenza che esiste tra la manna ed il “pane di vita”, che è Lui stesso, il Figlio mandato da Dio Padre per “nutrire” gli uomini e condurli alla salvezza. Nei vv.27-30 l’autore del IV Vangelo suggerisce, con la sua ormai nota ironia, diverse sfumature interpretative della generica azione del “compiere le opere”: essa può, infatti, essere intesa nel senso di “lavorare per mangiare” (v.27), ossia “osservare la Legge” (v.28) e “credere nel Figlio” (v.29), disponendosi, così, ad accettare “l’opera del Figlio” mandato da Dio Padre per “donare la propria vita a vantaggio altrui” (v.30). Sul diverso modo di intendere le parole di Gesù si consuma il dramma della folla, dapprima disposta a seguirlo al punto da volerlo incoronare come proprio re e poi pronta a voltargli le spalle, convinta di avere a che fare con un uomo esaltato e, forse, anche un po’ folle.

Il rifiuto del mistero presente nella Persona di Cristo da parte del popolo ebraico costituisce il leit-motiv del IV Vangelo. Nonostante i “segni” prodigiosi da Lui compiuti, pochi gli hanno creduto durante la sua vita terrena; l’evangelista invita i suoi lettori d’ogni tempo a farsi incontro a Cristo senza troppi pregiudizi, fidandosi della testimonianza di coloro che, pur deboli e pusillanimi, hanno saputo versare il loro sangue per rendere testimonianza alla Verità dopo aver visto il Risorto. Gesù definirà beati coloro che saranno disposti a credere in Lui anche senza averlo “visto” vittorioso sulla tragica realtà della morte (21,29).


32 Rispose loro Gesù: “In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; 33 il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. 34 Allora gli dissero: “Signore, dacci sempre questo pane”.

Con un duplice “amen” (tradotto in italiano con l’espressione “in verità”), Gesù sfugge alla richiesta di compiere un “segno” ad uso e consumo della curiosità della folla, che vuole essere certa di trovarsi proprio di fronte al Profeta di Dio, paragonabile in grandezza ed autorità a Mosè (Dt 18,15), ma sposta l’attenzione dei presenti su Dio, che in passato ha donato la manna e che ora dà il “pane che discende dal cielo e che dà la vita al mondo”. Gesù non mette in discussione la grandezza di Mosè, ma contesta che sia stato lui a donare la manna, come sostengono i suoi interlocutori. È il Padre che ha nutrito i padri nel deserto ed è ancora il Padre che ora dona il cibo della vita, destinato ad ogni uomo che lo voglia ricevere.

Nel v.27 Gesù ha fatto cenno al nutrimento futuro che il Figlio dell’uomo avrebbe donato (“…che il Figlio dell’uomo vi darà”) e, tra il cibo donato in passato da Dio (la manna) e quello che darà il Figlio dell’uomo, ecco il “presente” di Dio che dona oggiil pane dal cielo, quello vero”. Dal ricordo di un evento successo nel passato e dall’attesa di un dono futuro, Gesù sposta l’attenzione dei suoi interlocutori sulla realtà sostanziale del presente. Di questo pane di Dio, Gesù dà (v.33) una definizione pienamente accettabile da parte dei suoi interlocutori, poiché essa riprende i termini della citazione da loro proposta (v.31): come la manna-Legge, così il pane di Dio “discende dal cielo”, ma non per nutrire il solo popolo d’Israele, bensì per donare la vita a tutto il “mondo”. Quest’ampliamento dell’orizzonte della salvezza è in consonanza con la prospettiva del compimento escatologico: la Fine riguarda tutti i popoli della terra e la sua attesa orienta ormai da tempo gli animi verso l’intervento divino definitivo; poiché Gesù afferma che il donatore del “pane celeste” è Dio, i suoi interlocutori non possono che essere d’accordo e domandano, senza alcun indugio, questo pane che Gesù ha loro annunciato. Improvvisamente ed in modo sorprendente, Gesù, di cui poco prima era contestata la mediazione, viene chiamato “Signore” (vocativo greco, kýrie). Quale tipo di pane è chiesto a Gesù dai presenti? Non certo il pane materiale, ma la “vera Legge di cui essi vogliono vivere “sempre” (v.34) e di cui Gesù sembra essere, ai loro occhi, il garante più qualificato poiché è stato capace di compiere un miracolo così straordinario come la moltiplicazione dei pani.

Prima di addentrarci nella lettura e nel commento del discorso-dibattito di Gesù presso la sinagoga di Cafàrnao, è necessario riflettere su alcune considerazioni preliminari.

Va anzitutto precisato, specie leggendo i vv.53-58, che Gesù non ha annunciato l’istituzione dell’Eucaristia agli astanti increduli pronunciando esattamente tali parole alla lettera. Non è questo il modo di procedere proprio di Giovanni, che ama presentare simultaneamente il passato storico di Gesù e la sua comprensione post-pasquale. L’esperto d’esegesi riconosce un duplice fattore all’origine di questo discorso: la cura di narrare un fatto del passato, storicamente avvenuto, tenendo però presente l’influsso dell’ambiente vitale (Sitz im Leben) dell’autore sul modo di narrare i fatti. Attenendoci al testo, ci accorgiamo che i galilei, posti di fronte alla rivelazione di Gesù, sono sollecitati a compiere una scelta di fede nei confronti di Colui che è il “pane di vita”; al contempo, il testo riflette la pratica sacramentale della comunità giovannea. La lettura del discorso-dibattito si presta a diverse opzioni esegetiche.

  1. La prima riguarda l’estensione del testo. Se si tiene conto del quadro narrativo e della ripresa nel v.65 del pensiero espresso al v.45 sull’origine della fede, allora i vv.59-66 costituiscono l’ultima parte del discorso; in essa, Gesù prolunga non soltanto la sua rivelazione e risponde all’obiezione sollevata al v.60, ma ciò che dice si dimostra indispensabile per la comprensione dell’intero discorso: senza questi versetti s’ignorerebbe la risalita del Figlio dell’uomo al cielo e si perderebbe la chiave di interpretazione, che è lo Spirito Santo.

  2. La seconda opzione letteraria riguarda i vv.53-58. Se si ritiene che essi parlino esclusivamente dell’Eucaristia, diventa impossibile attribuirli all’evangelista. Se egli ha inteso presentare un episodio del passato, certamente Gesù non si sarebbe espresso in questi termini per annunciare ad un uditorio piuttosto incredulo l’istituzione dell’Eucaristia, chiaramente inintelligibile ai suoi stessi discepoli. Questi versetti, allora, proverrebbero da un’omelia cristiana sul sacramento eucaristico e qui aggiunti al testo evangelico in epoca posteriore. Gli autori, che ritengono tardivo questo passo, lo mettono tra parentesi e ricompongono il testo (originario) facendo seguire ai vv.26-51a i vv.59-66. Se appare evidente che i vv.53-58 hanno un vocabolario eucaristico, ciò non toglie che essi possano essere letti anche nella prospettiva della fede in Gesù, che muore per la salvezza del mondo e che invita il credente a partecipare della sua vita di comunione col Padre. La difficoltà di operare una scelta a favore dell’una o dell’altra lettura dei vv.53-58, vale a dire realista (il sacramento) o spiritualista (la fede nel sacrificio pasquale di Gesù e nei suoi effetti), aveva interessato anche gli antichi Padri della Chiesa, divisi nella loro interpretazione del testo ed il dilemma si era posto anche al Concilio di Trento, dove non si riuscì a raggiungere un’unanimità di giudizio. Forse colse nel segno il solito s. Agostino, il quale argutamente osservò che né l’uno né l’altro senso avrebbero potuto esaurire la ricchezza del passo ispirato. Il medesimo testo non può offrire due distinti sensi letterali; non può esservi, quindi, che un solo senso letterale, cioè l’unione del credente con Gesù che, attraverso la sua morte, è vivente in Dio. Quest’unico senso letterale può essere compreso, però, sia nella prospettiva sacramentale sia in quella spirituale; sta pertanto al lettore cogliere l’uno o l’altro insegnamento sull’unione a Cristo mediante la fede nel suo sacrificio redentore e sull’unione a Cristo mediante l’atto sacramentale. Tale successione non avviene nel testo in sé, ma nel suo spirito.

Occorre fare appello al principio della lettura del testo in due tempi. È pretenzioso cercare di individuare le ipsissima verba Christi, cioè le precise parole pronunciate da Gesù davanti ai suoi uditori nella sinagoga di Cafàrnao, ma è lecito cercare di capire ciò che era loro comprensibile del messaggio di rivelazione di Gesù, partendo da un comune linguaggio di comunicazione: la Sacra Scrittura. Appellandosi all’Antico Testamento, Gesù invita i suoi interlocutori a vedere in Lui l’Inviato, grazie al quale Israele può assistere al compimento delle sue attese messianiche e ricevere, così, la vita eterna. L’annuncio che la salvezza di Dio sta per compiersi grazie a Gesù è compreso molto bene dalla folla, che ne rifiuta la verosimiglianza. Il primo tempo di lettura del testo, quindi, è imperniato sull’invito di Gesù a credere in Lui poiché è Figlio di Dio. Egli non rivela soltanto di essere l’Inviato di Dio, il Messia atteso ed in grado di realizzare le promesse d’alleanza formulate dal Padre, né si limita ad affermare che è Egli stesso il Pane-Parola disceso dal cielo, svelando in tal modo la sua origine divina: Gesù va oltre e precisa in che modo darà la vita al mondo, donando cioè la propria Persona attraverso una morte liberamente acconsentita. La fede in Gesù garantisce al credente l’unione con Lui mediante il Padre. Dopo aver rivelato la sua discesa dal cielo, quindi la sua condizione divina, e dopo aver precisato il significato salvifico della sua morte, Gesù promette d’inabitare nel credente attraverso il linguaggio “mangiare/bere”: in Lui il credente avrà parte alla sua vita di comunione con Dio. Questa è la lettura simbolica del testo nel primo tempo: il simbolizzante è il pane, il simbolizzato è la comunicazione al credente della vita propria di Gesù

Nel secondo tempo di lettura, l’unione col Figlio diventa, a sua volta, il simbolizzante in cui il cristiano può riconoscere l’annuncio dell’Eucaristia; ad un livello successivo, l’invito di Gesù evoca il sacramento. Giovanni stabilisce un legame molto forte tra sacramento e fede: al momento della pratica sacramentale viene reso attuale il mistero di Gesù

La nostra lettura si concentrerà sull’appello di Gesù a credere in Lui in quanto realizzatore dell’alleanza; all’occasione, indicheremo la risonanza eucaristica che un credente vi può cogliere.

Il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafàrnao può essere suddiviso in tre parti; il simbolo “pane” (oltre al segno compiuto sulla montagna) domina le prime due parti del discorso e scompare nella terza parte, dove la menzione dello Spirito offre la chiave di lettura dei vv. 48-58, nei quali il “pane” è citato più volte sotto l’aspetto della manducazione. L’IO di Gesù domina le tre parti, seppure in modo diverso. Nella prima è subordinato all’attività del Padre, donatore del pane vero che viene dal cielo; in questo quadro Gesù rivela d’essere Egli stesso il pane disceso dal cielo, lasciando intendere che la sua origine è da Dio, così come la Parola di Dio discende dal cielo. Viene qui affermato il mistero dell’Incarnazione del Lògos in vista di una missione (di salvezza), come pure i suoi effetti di vita per il credente. Nella seconda parte del discorso, Gesù diventa il donatore in nome del Padre; Egli annuncia la sua morte come “dono” e sorgente di vita, perciò chi crede in Lui può unirsi ad un Vivente per esistere anch’egli in Dio ed entrare nell’Alleanza definitiva. La terza parte del discorso illumina questa doppia rivelazione (discesa dal cielo e morte sorgente di vita) evocando la risalita del Figlio dell’uomo là dove Egli era già prima ed il ruolo dello Spirito per la comprensione delle parole di Gesù.

Il tema della fede funge da filo conduttore del discorso d’auto-rivelazione. Nella prima parte Gesù sollecita i suoi uditori a riconoscere in Lui colui che è disceso dal cielo, colui che ha visto il Padre e di cui porta il progetto salvifico. Nella seconda parte, la fede rende coloro che credono in Gesù ed accolgono il mistero del suo sacrificio partecipi della vita del Figlio di Dio (mediante l’immagine della manducazione). Nella terza parte spicca l’affermazione che le parole di Gesù, rivolte agli uomini, sono Spirito grazie al quale esse possono essere comprese e trasformarsi in sorgente di vita.

Il risultato finale del lungo discorso, allora come oggi, è contrastante e produce una scelta radicale: o la fede in Cristo od il rifiuto della sua Persona.

Chiedendo a Gesù di dare loro il “pane di Dio”, i galilei erano consapevoli di chiedere un viatico per la vita eterna, ma erano ben lontani dall’immaginare che il “pane” desiderato era Cristo in persona.


35 Gesù rispose: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.

La richiesta dei galilei (v.34) può essere soddisfatta ad una condizione, cioè che accettino Gesù come “il pane della vita” annunciato dalla Scrittura, mangiando il quale non avranno più fame (né sete). Il modo di esprimersi di Gesù non lascia adito ad alcun equivoco: prendere o lasciare. L’auto-rivelazione di Gesù (“Io sono il pane…”) procede alla maniera midrashica; all’affermazione iniziale segue una proposizione participiale (in greco, “il veniente a me…il credente in me), come nella tradizione sapienziale. Alle presentazioni che la Sapienza fa di se stessa, segue normalmente un invito a seguirla, ad amarla, a mangiarla ed una promessa escatologica. Aggiungendo la sete alla fame, il linguaggio simbolico supera l’immagine del pane. Anche la Sapienza invita coloro che l’ascoltano a condividere il suo pane ed a bere il suo vino squisito (cf. Sir 24,19.21; Pr 9,5). L’appello è analogo, ma il risultato è ben differente: i discepoli della Sapienza avranno ancora fame e sete di un nutrimento assai saporito, mentre i discepoli di Gesù saranno pienamente soddisfatti (cf. Is 48,21; 49,10). Con Gesù i tempi dell’attesa sono giunti ormai al loro pieno compimento ed il desiderio è stato definitivamente appagato, com’è avvenuto per i convitati, saziati di pane al punto da lasciarne gli avanzi. La dimensione escatologica dell’auto-rivelazione si manifesta anche nel modo impersonale con cui Gesù formula il suo appello a credere in Lui (“chi viene a me…chi crede in me”); Egli, infatti, si rivolge non solo ai galilei presenti, ma a chiunque voglia essere uditore della sua Parola.


36 Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. 37 Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me non lo respingerò, 38 perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39 E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo resusciti nell’ultimo giorno. 40 Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.

Dal punto di vista strettamente letterario, la sequenza dei vv.36-40 sorprende per la successione dei pensieri, che appare alquanto slegata, almeno secondo i parametri della logica occidentale. A ben vedere, i cinque versetti formano un chiasmo, al cui centro sta la frase “Io sono disceso…dal cielo” contenuta nel v.38 e ripetuta due volte nei versetti immediatamente successivi (vv.41-42):


36 Avete visto e non credete 40 Chiunque vede il Figlio e crede in Lui

37 Tutto ciò che il Padre mi dà… 39 Che io non perda nulla di quanto mi

non lo respingerò ha dato

38 Per fare…la volontà di colui 39 Questa è la volontà di Colui che mi

che mi ha mandato………………….[io] sono disceso dal cielo ha mandato

38. 41 - 42


Questa rivelazione ha un rapporto evidente con l’annuncio contenuto nel v.35: “Io sono il pane della vita”, che (6,33) discende dal cielo. Dopo essersi, quindi, identificato col pane della vita (6,35), Gesù conferma questa designazione (6,36-40) affermando in prima persona di essere disceso dal cielo per compiere la missione conferitagli da Dio Padre.

Nei racconti della manna, contenuti nella Sacra Scrittura, non è detto (salvo che in Nm 11,9) che essa “discende”, ma che viene “data” dal cielo. Nei libri sapienziali non viene mai usato il verbo “discendere” per parlare della manna, pane del cielo; solo Is 55,10-11 offre un preciso aggancio al testo giovanneo, tanto suggestivo in quanto vi si fa riferimento ad un invio in missione della Parola di Dio: “Come infatti la pioggia e la neve / scendono dal cielo e non vi ritornano / senza avere irrigato la terra, / senza averla fecondata e fatta germogliare, / perché dia il seme al seminatore / e pane da mangiare, / così sarà della parola / uscita dalla mia bocca: / non ritornerà a me senza effetto, / senza aver operato ciò che desidero / e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata.

Probabilmente l’immagine della discesa, applicata in questa pericope isaiana alla Parola di Dio, proviene dall’Esodo che parla della discesa di Dio sul monte Sinai (Es 19,11.20). Come la Parola, uscita dalla bocca di Dio, discende dal cielo come la pioggia, così avviene per Cristo, che è il pane mandato da Dio per sfamare gli uomini. Affermando di “discendere dal cielo” (6,38), Gesù proclama la propria natura divina ed il suo intimo e costante rapporto col Padre, che lo ha “mandato” per compiere il proprio volere di salvezza a favore di tutta l’umanità. La rivelazione di 6,38, centrale in questo brano, traspone in prima persona la forte ed assai concreta affermazione del Prologo: “…ed il Verbo si fece carne” (1,14).

A questo punto, Gesù promette la salvezza, cioè la vita eterna, a chi crede in Lui usando diverse formule: “…non lo respingerò” (6,37); “…che io non perda…ma lo resusciti” (6,39); “…abbia la vita eterna” (6,40). La prospettiva di possedere la vita eterna viene affermata da Gesù come un dono presente (cf. 5,24), che attualizza la promessa della resurrezione nell’ultimo giorno.

Gli annunci di Gesù sono conformi alla sua condizione d’Inviato del Padre (6,28ss), del quale Egli compie la volontà; il vincolo indissolubile, che lega tra loro il Padre ed il Figlio, traspare anche dall’unica volontà che spinge entrambi a “farsi dono” per gli uomini. Alle promesse di Gesù è posta un’unica ma indispensabile condizione: credere in Lui (“chi viene a me”, v.37). La folla di Galilea ha “visto” in Gesù un grande taumaturgo, ma non ha saputo “vedere” in Lui il Figlio che viene dal cielo per compiere il volere salvifico del Padre. Si va preparando, così, l’obiezione e l’opposizione radicale dei galilei sul “figlio di Giuseppe”.


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07/07/2010 09:47
 
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41 Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. 42 E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può costui dire: Sono disceso dal cielo?”.
I “giudei”, qui intesi non come gruppo etnico visto che ci troviamo in Galilea, ma nel senso di “avversari” di Gesù, mormorano come già avevano fatto tante volte i loro padri nel deserto del Sinai, durante l’esodo dall’Egitto. Nel contesto della storia della salvezza, ogni volta si ripropone il tema del rifiuto da parte degli uomini, reso da quel continuo mormorio della folla incredula e ribelle, così fastidioso e petulante da far perdere la pazienza anche a chi, come Dio, ha tanta pazienza da vendere in quantità cosmica. Lo scandalo scaturisce dall’evidente disparità tra la condizione umana di Gesù e la sua pretesa di essere d’origine celeste. I giudei parlottano tra loro, sussurrano e si danno di gomito: ma come, ma costui non è uno di noi? Non è forse lui il figlio di Giuseppe, il falegname? Ma certo che è lui, anch’io mi sono servito della sua bottega. Ah, gran brav’uomo quel Giuseppe, sapeva stare al proprio posto: gran lavoratore, sempre cordiale con tutti e pronto a dare buoni consigli. Ma che gli ha preso a suo figlio? Eppure, anche lui non era male come artigiano; forse era un po’ taciturno, sembrava perso nei suoi pensieri ma quello sguardo… eh sì, quando ti fissava negli occhi ti metteva un po’ a disagio, ti sentivi rimescolare tutto…a me non ha mai fatto mancare una parola, un sorriso, una gentilezza ed in questo era tutto sua madre…certo che a sentirlo parlare c’è da chiedersi come ha fatto ad imparare queste cose… e poi, vuoi mettere, compie prodigi come se ne leggono solo nel santo Libro…vero, ma Gesù sta esagerando davvero, ancora un po’ e si mette alla pari dell’Onnipotente (sia benedetto il suo santissimo Nome)…
Queste ed altre consimili considerazioni, tipiche di una folla numerosa che commenta a modo suo fatti ed opinioni tra i più disparati, possiedono un unico denominatore comune: l’incredulità. Tutti sanno, o presumono di sapere, da dove viene Gesù, ovvero le sue umili origini; tutti conoscono bene i suoi genitori, i nonni ed i vari membri del suo clan familiare (quelli che, nel modo tipico di esprimersi dei semiti, sono chiamati “fratelli”). Eppure Gesù, anche senza mettere in discussione la propria natura e condizione umana, lascia chiaramente capire di provenire dalla sfera divina (“disceso dal cielo”), ma per tutti Egli è soltanto un uomo come un altro. Come gli ebrei nel deserto hanno mormorato contro Mosè, quindi contro Dio (Es 16,7-8), così ora i giudei mormorano contro Gesù perché non accettano di vedere in Lui il progetto salvifico di Dio, che va realizzandosi.

43 Gesù rispose: “Non mormorate tra voi. 44 Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 45 Sta scritto nei profeti: e tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46 Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47 In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Eccoli sistemati, sia i giudei sia la loro incredulità. Non vogliono lasciarsi “attirare dal Padre”? Ebbene, non riusciranno ad entrare nella vita eterna nonostante che conoscano a menadito ogni parola della Scrittura! Posto di fronte all’obiezione sulla sua nascita, Gesù non si scompone per nulla e riafferma la sua origine divina, rendendo ancora più esplicito ciò che era già implicito nel movimento di “discesa dal cielo”. Gesù è l’unico che “era presso Dio” (1,1) dall’eternità e che “ha visto il Padre” (6,46) a differenza di tutti gli altri uomini. Appare evidente il richiamo all’ultimo versetto del Prologo (1,18): “Dio, nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. Secondo questo passo del Prologo è il Figlio ad essere disceso dal cielo per rivelare il Padre agli uomini, facendone l’esegesi, dandone cioè la spiegazione. In direzione contraria vanno i versetti 44-45 di questo sesto capitolo del Vangelo di Giovanni, secondo i quali non è il Figlio che fa conoscere il Padre, ma è il Padre che, attirando gli uomini, li orienta verso il Figlio. Affermando di non poter essere conosciuto senza il diretto intervento di Dio, Gesù suggerisce implicitamente la sua condizione divina. Posto all’origine ed al termine della missione di Gesù, Dio è situato anche all’origine dell’accoglienza riservata dagli uomini a suo Figlio. La conseguenza è che colui che è stato inviato dal Padre ed è disceso dal cielo non dona la propria vita se non compiendo e facendo propria la volontà del Padre medesimo (vv.38-40). Coloro ai quali Gesù è stato inviato non possono, così, ricevere la vita senza dimostrare una docilità interiore nei confronti del Padre. Il sottofondo teologico della pericope 6,35-47 è l’iniziativa salvifica del Padre.
In conclusione, è il Padre che “attira” gli uomini alla fede nel Figlio suo. Qualcuno potrebbe scorgere in quest’espressione una sorta di predestinazione alla salvezza di pochi e scelti individui od un presunto determinismo che nega, di fatto, la libertà umana. Gesù non prevede assolutamente la predestinazione, giacché ritocca la citazione del profeta Isaia (54,13) affermando che “tutti saranno ammaestrati da Dio”, non solo i membri del popolo eletto. La prospettiva della salvezza diventa, nel linguaggio chiaro e schietto di Gesù, assolutamente universale: tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, sono invitati alla fede ed alla salvezza. Acquista, così, un diverso significato anche il tema dell’attrazione esercitata da Dio sugli uomini: essa, infatti, è strettamente correlata all’amore, di cui è un’espressione suggestiva e fortemente caratterizzante. La forza d’attrazione dell’amore di Dio è tale da vincere anche la resistenza più ostinata dell’uomo (cf. Os 11,4) che sia, anche minimamente, disposto a cedere. È per questo che Gesù conclude con un appello a credere in Lui (v.47).
Il v.44 sottolinea la necessità dell’intervento del Padre affinché abbia inizio il processo di fede. Per l’evangelista Giovanni, la fede in Gesù implica l’ingresso nel mistero di Dio e ciò non può avvenire se Dio stesso non ne apre l’accesso mediante la chiave della Sacra Scrittura, la quale trasmette la Parola di Dio ed invita ad ascoltarla senza sosta, vivendo di essa. Citando Is 54,13 (collegato a Ger 31,3), Gesù ha inteso suggerire che il tempo del compimento della nuova ed eterna Alleanza va realizzandosi nel momento in cui la Legge non viene più semplicemente proposta dall’alto, ma è iscritta nel cuore d’ogni uomo (cf. anche Ger 31,33-34). La Legge, infatti, diventa oggetto di una conoscenza immediata, dovuta allo Spirito (cf. Ez 36,27), la cui azione è strettamente collegata alla presenza in questo mondo di Gesù, il “mediatore” che unisce nella sua Persona l’umanità e la divinità. L’insegnamento immediato e pieno del Padre trova la sua realizzazione concreta nella missione di Gesù, nel quale si avvera la parola del profeta Isaia: “…la saggezza del Signore riempirà il paese, come le acque ricoprono il mare (Is 11,9).
L’azione di Gesù e quella del Padre hanno un andamento circolare; tutto passa da Gesù e, tuttavia, tutto procede dal Padre e tutto troverà compimento presso il Padre, grazie alla resurrezione garantita da Gesù a coloro che crederanno in Lui.
In questa prima parte del discorso domina la necessità di credere che Gesù è disceso dal cielo e che Egli è l’Inviato escatologico di Dio. Il pane, che prima aveva designato la Legge e poi il dono di Dio, vita per il mondo (6,31.33), ora esprime la Persona stessa di Gesù, il Lògos divenuto uomo. La fede nel Verbo incarnato è interamente opera di Dio e chi si nutre del “pane vivo” disceso dal cielo, ossia di Cristo stesso, si proietta, come credente, nella comunione intima e vivificante con Dio.
Nella pericope seguente (6,48-58), Giovanni riprende e sviluppa il tema del “pane di vita”: Gesù è il pane vivente e dona Se stesso come cibo da mangiare. Il linguaggio usato da Gesù è molto realistico ed affatto metaforico. La discussione tra Gesù stesso ed i suoi ascoltatori, discepoli compresi, si surriscalda ed i toni si fanno vieppiù accesi ed accalorati da una parte e dall’altra; Gesù non ha paura di scandalizzare i presenti e questi vengono messi con le spalle al muro. Il tempo della scelta si è ormai consumato e l’opzione della fede o del rifiuto non può essere ulteriormente procrastinato. Anche il soggetto del dono celeste, cioè del pane di vita, cambia: se prima Gesù aveva individuato nel Padre il donatore della manna, della Legge e del proprio Figlio, ora Egli si pone al centro dell’azione. È Gesù, infatti, che dona Se stesso e l’opera da Lui compiuta è tesa alla realizzazione della salvezza per il mondo intero. A prima vista sembrerebbe che Gesù voglia sostituirsi all’azione del Padre, ma non è così, perché il Padre ed il Figlio suo Unigenito agiscono all’unisono ed entrambi manifestano un’unica volontà di salvezza. Pur distinti come Persone, il Padre ed il Figlio sono UNO. La conseguenza prospettata da Gesù a coloro che lo “mangeranno” è la vita eterna, che già ora si realizza mediante la reciproca inabitazione del Figlio nei credenti e di costoro nel Figlio, l’unico “mediatore” tra Dio e gli uomini. In questa seconda parte del suo discorso, Gesù rivela che morirà a breve per la vita del mondo e che la sua morte è condizione indispensabile affinché si realizzi l’intima unione (inabitazione) salvifica tra Lui ed i credenti.

48 Io sono il pane della vita. 49 I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50 questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51 Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno ed il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Ancora una volta Gesù sottolinea l’abissale distanza esistente tra la manna, cioè la Legge ricevuta dai padri sul monte Sinai e Lui stesso, “pane vivente” venuto dal cielo. Per i padri la Legge mosaica (ovvero la manna) si è rivelata un nutrimento insufficiente per comunicare la vita, giacché “sono morti”. Solo Gesù, “pane celeste”, abolisce per sempre la morte per colui che ne mangia (cf. 5,24: “chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”). Non solo Gesù definisce Se stesso come “pane della vita”, ma addirittura come “pane vivo” (o vivente). Quest’affermazione, unita all’invito di mangiare questo pane vivo, avvia uno sviluppo di pensiero esteso fino al v.58.
“Il pane che io darò è la mia CARNE “. In Gv 6,33.35.48.51a il donatore del pane celeste era Dio Padre; ora (6, 51c) è Gesù stesso che si presenta, in prima persona, come donatore del pane che dà la vita al mondo. La metafora del pane viene decodificata ed interpretata chiaramente da Gesù.
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07/07/2010 09:48
 
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Col termine “carne” (in greco sàrx) Gesù non intende la sostanza corporea dell’organismo umano, ma Se stesso nella sua condizione mortale, debole e fragile, soggetta alla sofferenza ed alla morte. Giovanni evita il termine sôma (corpo), che nel contesto culturale della sua comunità aveva il significato di cadavere. Ma perché usare il vocabolo “carne” invece di quello, forse più elegante, di “anima” o “vita” (in greco psykhé)? Forse perché è ovvia la correlazione tra la “carne” ed un elemento materiale come il “pane”, o forse e più probabilmente perché la parola “carne” specifica nel Prologo (1,14) il modo in cui il Lògos di Dio si è reso presente tra gli uomini. La “carne”, quindi, rimanda al mistero dell’Incarnazione, messo in evidenza nel corso del dialogo tra Gesù ed i galilei grazie al tema della “discesa dal cielo”.
La vita e la morte di Gesù hanno uno scopo ben preciso: donare la vita (eterna) agli uomini, collettivamente abbracciati nel vocabolo “mondo”, al quale Giovanni annette di volta in volta un significato diverso, secondo il contesto in cui si svolge il racconto evangelico. In questo caso la parola “mondo” ha un significato assolutamente positivo; Gesù sacrifica la propria vita a vantaggio di tutti coloro che scelgono di credere in Lui ed alla sua Parola di vita e di verità. La morte di Gesù diventa per i credenti una sorgente di vita, che trascende il tempo materiale e storico per assumere il valore di una condivisione dell’eternità di Dio medesimo. A molti commentatori appare evidente il significato sacramentale, eucaristico, dei termini “carne”, “pane”, “mangiare”, “vivere in eterno” e “dare” contenuti in questa breve pericope così ricca di significato teologico. Di certo, questi elementi tradizionalmente associati al sacramento eucaristico possono evocare l’intimo rapporto tra il tempo passato di Gesù, che va incontro all sua morte volontaria e redentrice ed il tempo presente della comunità cristiana di Giovanni, che vive il sacrificio eucaristico secondo lo spirito e la sensibilità trasmessale dall’apostolo evangelista.

52 Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.
Come appare del tutto ovvio, gli interlocutori di Gesù prendono alla lettera le sue parole e, forse, non può essere altrimenti, visto che non riescono a cogliere la dimensione mistica, seppure reale, del suo pensiero. Secondo il loro modo di procedere nel dibattito, i giudei si limitano allo stretto senso letterale delle parole di Gesù, ritenute assurde e prive di senso logico. Viene da pensare allo stesso Nicodemo, incapace di comprendere il significato di rinascita propostogli da Cristo ma sufficientemente intelligente da fare dell’umorismo sulla prospettiva di rientrare nel seno materno, lui, ormai vecchio, per nascere ancora e diventare un “uomo nuovo”. Qui, invece, non c’è alcuna traccia d’umorismo nella riflessione della folla sconcertata. I galilei sono indignati ed assai poco propensi a fare uno sforzo di fantasia per cercare di elevare il proprio pensiero appena un poco al di sopra della pura materialità delle parole ascoltate e di coglierne, quindi, un qualche significato simbolico. A ben vedere, tutto il contesto del dialogo si oppone ad una comprensione materiale delle parole di Gesù, prese alla lettera in modo pedante e poco intelligente dalla folla. Era già evidente dalle prime battute del discorso di Gesù (v.31) che il pane (o manna) mangiato dai padri all’epoca dell’esodo si riferiva alla Legge mosaica e che mangiando di questo “pane” gli ebrei si erano ben disposti ad accettare il dono della Legge e di vivere di essa. Questa simbolica del pane-manna-Legge era stata mantenuta nel corso dell’intero dibattito; come mai ora si crea un’improvvisa e radicale frattura tra Gesù e la sua amata gente di Galilea? Sembrerebbe ovvio ritenere che la folla, presente nella sinagoga, abbia capito assai bene che Gesù si sta attribuendo un’origine divina, che suona come una bestemmia ai loro orecchi. È quindi evidente che la parola di Gesù è stata rifiutata in modo assai deciso perché n’è stata compresa pienamente la portata. I giudei, come li chiama Giovanni, non sono solo i diretti ascoltatori di Gesù (in questo caso i galilei), ma tutti coloro che a vario titolo e per diversi motivi si rifiutano di accettare che Gesù possa offrire in pasto la propria Persona e che da Lui possa derivare la salvezza universale. I contemporanei e conterranei di Gesù non vogliono far dipendere il proprio destino futuro da un uomo uguale a loro e che si arroga il potere di salvare l’uomo prendendo niente meno che il posto di Dio, l’unico da cui può provenire la salvezza. Con molta probabilità, il sospetto che Gesù abbia formulato una proposta d’antropofagia non ha nemmeno sfiorato la gente presente nella sinagoga, che ha invece ben compreso la sua pretesa origine divina, assolutamente incompatibile con il rigido monoteismo della fede ebraica. Sottolineando l’umile origine di Gesù, figlio di un falegname e di una popolana di Nazareth (6,42), i giudei si erano già espressi in modo negativo sulla possibilità che Gesù potesse avere un’origine diversa da quella meramente umana (rifiuto dell’Incarnazione del Lògos), ma ora, chiedendosi come possa “costui dare la sua carne da mangiare”, si dispongono a rifiutare che la morte di Gesù possa avere un valore salvifico e redentore a vantaggio di tutti gli uomini. Affiora lo scandalo ed il rifiuto radicale della Croce.
Se in un primo tempo (6,44-47) i giudei erano invitati ad ascoltare il Padre per poter “venire” a Gesù (ovvero, credere in Lui), ora sono sollecitati a “mangiare e bere”, cioè ad accogliere la rivelazione del sacrificio redentore del Figlio dell’uomo (6,53-58). Solo chi accetterà questa prospettiva di redenzione personale ed universale vivrà della stessa vita eterna del Figlio di Dio. Per la prima volta affiora nel IV Vangelo il tema dell’immanenza mutua di Gesù e del credente.

53 Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo resusciterò nell’ultimo giorno.
Il solenne, duplice “amen” di apertura enfatizza e mette in grande risalto l’espressione “mangiare la carne”, che ha tanto scandalizzato la folla e che Gesù, invece, ribadisce a più riprese riponendo ogni speranza di salvezza per l’uomo nell’integrale assimilazione (“mangiare - bere”) della Persona (“corpo – sangue”) del Figlio di Dio. Dal momento che i giudei vedono in Gesù un uomo comune e normale come loro (“costui”), ragione per cui ne rifiutano il messaggio, Gesù con molto tatto evita di dire: “Se non mangiate la mia carne”, bensì: ”Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo”, facendo capire ai suoi interlocutori che Egli non appartiene a questo mondo né a questa creazione, ma al mondo dall’alto. Gesù sollecita i giudei a non fissare il loro sguardo sull’essere umano che sta loro di fronte, ma di sollevarlo su Colui che, secondo la tradizione apocalittica, domina i secoli. Il Figlio dell’uomo è in permanente comunicazione col cielo (1,51), da cui è disceso per “essere innalzato” (3,14ss) e verso il quale risalirà (6,62) al momento opportuno, dopo aver “attirato” verso di sé ogni creatura (12,32). Dopo aver nominato il Figlio dell’uomo all’inizio del suo dialogo coi giudei (6,27), attribuendo a questa figura celeste il ruolo di datore del cibo che dura per la vita eterna, Gesù lo ripropone ora per specificare la natura del “cibo” che occorre “mangiare” per essere salvi ed “avere la vita”: il cibo s’identifica con il donatore, cioè con lo stesso Figlio dell’uomo il quale, disceso dal cielo, si è donato senza riserve affinché la sua vita sia trasfusa nel discepolo. L’atto di fede si rivolge al Vivente, che ha attraversato la morte al fine di vincerla in coloro che, senza di Lui, perirebbero come sono morti i padri. I verbi “mangiare” e “bere” esprimono un unico concetto di base: la fede nel Figlio dell’uomo, condizione indispensabile per avere la “vita eterna”. Il binomio “carne e sangue” ha un fondamento biblico, poiché indica tutto l’uomo sotto l’aspetto della sua condizione nativa, che è terrestre (cf. Mt 16,17; Eb2,14; 1Cor 15,50; Gal 1,16; Ef 6,12; Gv 1,13). Per l’evangelista, la condizione mortale del Figlio dell’uomo era fondamentale affinché l’Inviato potesse assolvere la sua missione di redenzione mediante la morte di croce. Tuttavia, nei vv.53.54.56 il tradizionale binomio “carne e sangue”, pur designando un unico essere, viene separato a motivo dei verbi differenti cui ciascun termine si accompagna; anche nel v.55 “carne” e “sangue” restano distinti, quasi prefigurando la diversa destinazione di questi elementi nei sacrifici giudaici. Infatti, il sangue della vittima sacrificata a Dio sull’altare dei sacrifici era versato sull’altare medesimo, mentre la carne era mangiata (cf. Lv 7,14ss; Dt 12,27). Secondo il testo or ora commentato, la carne è mangiata ed il sangue è bevuto per far meglio comprendere il valore reale della morte di Gesù, che sulla croce ha veramente versato il suo sangue. Per un giudeo, poi, il sangue simboleggia la vita stessa, di cui solo Dio può disporre, motivo per cui il sangue degli animali sacrificati viene versato sull’altare del sacrificio, al quale è interamente riservato, acquistando in tal modo un esclusivo valore espiatorio. Credere al sacrificio del Figlio dell’uomo, vittorioso sulla morte, significa avere la vita eterna, essere inseriti nella vita stessa di Dio (“..avrete in voi la vita”).

55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. 57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 58 Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Il v.55 contiene parole di un realismo crudo ed efficace, tale da non dare adito ad alcun equivoco interpretativo. Gesù si qualifica come vero cibo e vera bevanda in senso reale e sacramentale, non certo in senso puramente metaforico e chi sa intendere queste parole nella loro giusta prospettiva si trova immerso in una nuova dimensione di vita e di relazione con Gesù (v.56). La reciproca inabitazione del credente nel Figlio di Dio e viceversa stabilisce il presupposto per una nuova relazione col Padre, capace di annullare l’abissale distacco esistente tra la divinità creatrice e l’umanità creata. Limitandoci alla pura materialità della manducazione, si potrebbe pensare ad un’assimilazione del nutrimento da parte di chi mangia, come avviene in natura, ma Gesù afferma il contrario. Infatti, è colui che mangia/beve a dover “inabitare” in Cristo come immediata conseguenza della manducazione del suo Corpo e dell’assunzione del suo Sangue come bevanda (“dimora in me…”). Un simile effetto viene riferito nel linguaggio sapienziale (Pr 9,5ss) a proposito di coloro che si appropriano di quel nutrimento che è l’insegnamento celeste, consumando il quale entrano nell’amicizia divina: la Parola che li nutre rimane al di sopra degli uomini e li introduce nell’orizzonte del rapporto privilegiato con Dio, che essa sola è in grado di aprire e di donare loro. La stessa cosa avviene quando l’uomo accoglie e riceve come cibo la sostanza trascendente del Figlio di Dio, la cui inabitazione nella creatura umana chiude mirabilmente il cerchio di una stupenda relazione interpersonale, misteriosa e reciprocamente impegnativa tra Dio e l’uomo. Questa formula d’inabitazione (”…dimora in me e io in lui) è uno dei messaggi più profondi che ci siano stati trasmessi dal IV Vangelo. Essa ci viene proposta dall’evangelista su un duplice registro, quello della relazione Padre/Figlio, quindi della relazione propria a Dio stesso (“Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre”) e quello della relazione Figlio/discepolo. La tipica formula dell’immanenza è espressa dal verbo “rimanere / dimorare”, che ha come fondamento culturale e religioso le formule di reciprocità caratteristiche della Prima Alleanza, rivisitata dall’esperienza dei profeti d’Israele (cf. Ger 31,31-35). Per Giovanni, la reciproca relazione che viene a stabilirsi tra il Figlio ed il credente non è assolutamente dissociabile dall’intima relazione che unisce il Padre ed il Figlio; se nel Prologo osa affermare che il Lògos è “Dio”, lo fa dopo aver mostrato che il Lògos è “presso Dio”, cioè “rivolto verso Dio”. Indubbiamente il Padre e Gesù sono DUE, ma al tempo stesso essi sono UNO.
Nel corso del IV Vangelo si trovano diverse formulazioni di questo dato dell’unità di due Persone; parlando di Sé e di Dio, Gesù usa il NOI (17,11.22) oppure l’UNO (6,56; 10,38; 14,10s.20; 15,4.5.7.9.10; 17,21.23.26). Altrove Gesù lascia intendere l’unità di due Persone (10,30; 17,11.22), ma la formula più caratteristica di quest’unità è: “Il Padre è in me ed io nel Padre” (10,38). Enumerando due Persone, questa formula d’immanenza ha il vantaggio di prevenire il rischio di una loro totale identificazione, quasi una fusione, pur esprimendo la loro perfetta comunione. La relazione Padre/Figlio genera la relazione Figlio/credente, così schematizzabile:

il Padre fa vivere il Figlio (che vive mediante il Padre) fa vivere
__________________ = _____________________________________
il Figlio (che ha inviato) il credente (che lo mangia)
La rassomiglianza tra queste due relazioni viene espressa con la proposizione greca dià, tradotta in italiano con la corrispondente proposizione “per” o “mediante”: “Io vivo per (mediante) il Padre”; allo stesso modo il credente “vivrà per (mediante) me”. Ciò significa che ogni vita, la quale trae la propria origine dal Padre, il Vivente (“…che ha la vita”), può esistere solo ed esclusivamente nella comunione con Lui, sia nel Figlio sia nel credente. Tale “dimora” esprimerà, d’ora in poi, la duplice relazione Padre/Figlio e Figlio/credente. Il Figlio si trova al centro, come mediatore, della relazione Padre/credente (14,6), o meglio, Egli rappresenta il luogo privilegiato e permanente in cui tale relazione si realizza e si consolida.
Mentre Gesù è il Figlio, il discepolo diventa figlio di Dio mediante la sua unione con Gesù; grazie alla sua inabitazione nel Figlio unigenito di Dio, anche l’uomo è ormai “presso Dio” e “rivolto verso Dio”. Ad imitazione del Figlio, che è, per definizione, l’Inviato del Padre e da Lui perfettamente dipendente, il credente è, per definizione, colui che “mangia il Pane” e che vive mediante la sua fede. Il discorso sul “pane di vita” può essere così sintetizzato: l’Alleanza, che Dio ha promesso, è realizzata da Gesù Cristo.
Il v.58 raccoglie tutti i dati precedentemente acquisiti nel corso del dialogo fra Gesù ed i giudei. La manna/Legge, di cui si sono abbondantemente nutriti i padri del popolo eletto, è stata indispensabile per la vita spirituale d’Israele, ma non ha un valore definitivo; se la sua importanza è stata innegabile per il passato, ora la Legge non può più essere considerata come riferimento normativo del presente e del futuro dell’uomo. La nuova “norma”, che deve ispirare l’etica e la vita spirituale dell’uomo, si fonda sull’intima relazione d’amore tra il Padre ed il Figlio e tra Gesù ed il discepolo.
Il popolo della Prima Alleanza aveva ricevuto da Dio la manna e la Legge, prefigurazione del vero pane, che è Gesù, dato da Dio e fattosi Egli stesso dono fino alla morte di croce per compiere il nostro passaggio dalla morte alla vita. La pericope 6,53-58 può essere letta in prospettiva sacramentale, soprattutto a causa del linguaggio usato da Gesù.
Ad una lettura di tipo letterario del testo evangelico, si nota subito che Gesù insiste con i suoi uditori affinché credano nel Figlio dell’uomo, che ha dato se stesso attraverso la morte, allo scopo di ottenere anch’essi la vita. Il testo culmina nell’affermazione che il frutto della fede nel Figlio dell’uomo è la vita eterna e la mutua inabitazione del Figlio e del credente.
Applicando al testo una lettura sacramentale, ci si accorge che Gesù sollecita i credenti, già entrati in comunione con Lui, a rinnovare la loro fede ed a significare tale comunione con la pratica del sacramento: questo dà corpo al mistero di cui Gesù ha parlato e di cui s. Paolo ha dato una mirabile interpretazione nella prima lettera ai cristiani di Corinto; “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché Egli venga” (1Cor 11,26). Ogni comunità cristiana, che celebra nella liturgia eucaristica la presenza di Cristo risorto, non può esimersi dal ricordare e ripresentare la morte di croce, mediante la quale Gesù ha amato i suoi fino alle estreme conseguenze. Allora si può affermare che l’Eucaristia (o azione di grazie) attualizza ogni volta il dono che il Figlio dell’uomo ha fatto di Se stesso per noi. Allo stesso tempo, attraverso l’azione simbolica della condivisione del pane e del calice del Signore, l’Eucaristia esprime e rende concreta la realtà invisibile espressa da Giovanni mediante il concetto della mutua inabitazione di Cristo e del credente, attualizzando, sempre di nuovo, la comunione del credente con Colui che vive mediante il Padre.
A sua volta, la simbolica sapienziale del discorso ben si adatta all’evocazione del sacramento, non soltanto perché il suo elemento significante è il “pane” ma, anche e soprattutto, perché essa consente di evitare qualsiasi esagerazione di tipo magico. La duplice azione del “mangiare la carne” e del “bere il sangue” va riferita non propriamente a Gesù di Nazareth ma al Figlio dell’uomo, che ha attraversato e vinto la morte per la vita del mondo; anche a livello eucaristico, allora, queste espressioni così crude e realistiche diventano meglio comprensibili. Il Figlio dell’uomo ha assunto la nostra condizione terrena e si è consegnato veramente e volontariamente alla morte, mostrando il carattere “personale”, non meramente materiale, della manducazione eucaristica. Mediante il sacramento eucaristico, il credente si “ciba” dell’intera Persona umana e divina di Cristo, senza scadere nella dimensione di un banale ritualismo magico primitivo, legato alla pratica dell’antropofagia. L’evangelista Giovanni non ha riportato il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia ed il suo racconto dell’Ultima Cena è centrato sull’azione simbolica della lavanda dei piedi, che significa la consegna della carità fraterna fatta da Gesù. La pericope giovannea, testé commentata (6,53-58), c’indica il senso del sacramento praticato dalla comunità e ne mostra il frutto, vale a dire la vita nuova del discepolo nel Figlio. Tale frutto è identico a quello prodotto dalla fede stessa, ma nella celebrazione liturgica esso trova la sua espressione privilegiata.
Nutrirsi sacramentalmente del Pane di vita significa aderire alla Persona di Gesù, Figlio di Dio disceso dal cielo per salvare il mondo dal disastro della sua lontananza da Dio; di più, significa raggiungere in cielo il Figlio dell’uomo. È questo il mistero dell’Esaltazione rivelato nella parte conclusiva del discorso presso la sinagoga di Cafàrnao.

59 Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga di Cafàrnao.
Questo versetto funge da chiusura delle due precedenti parti del discorso e da cerniera con la terza ed ultima parte dello stesso. Si tratta di una breve pausa di riflessione prima di affrontare la prova decisiva, quella del rifiuto quasi totale del dono di Gesù da parte degli uomini di Galilea e di gran parte dei suoi stessi discepoli. Le parole di Gesù hanno colpito duro e la folla rimane per un momento senza fiato, muta e sorpresa da tanto ardimento. I primi ad esprimere il loro sgomento sono proprio i discepoli di Gesù.

60 Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?”. 61 Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: “Questo vi scandalizza?”.
Gli oppositori di Gesù non sono più solamente i “giudei” (6,41.52), bensì “molti dei suoi discepoli”, un gruppo ben distinto dai Dodici, di cui si parla, invece, più avanti (6,67). I discepoli “scandalizzati” rappresentano tutti quei cristiani che hanno una fede vacillante e che vanno facilmente in crisi di fronte ad una decisa opzione di fede. La rivelazione di Gesù è stata respinta non solo da una folla incostante e facilmente suggestionabile, né solamente da avversari agguerriti e pronti a ribattere a suon di citazioni bibliche come i “giudei”, ma anche da chi era stato attratto inizialmente dalle molte “opere” prodigiose compiute dal Maestro e dalle sue “parole” ricche di fascino e di novità. La resistenza alla fede è un dato di fatto in ogni epoca storica e sarà superata quando il percorso del Figlio dell’uomo sarà compiuto alla fine dei tempi. Rimasti fino allora silenziosi, animati dalla speranza che Gesù sia davvero l’Inviato escatologico di Dio, specie dopo aver visto il “segno dei pani”, questi “discepoli” inciampano (skàndalon, inciampo) contro la pretesa di Gesù di essere il Salvatore del mondo e di instaurare, con la sua morte, la comunione degli uomini con Dio. Si profila all’orizzonte lo scandalo della croce, cioè il rifiuto di una salvezza procurata attraverso una morte ingloriosa ed infamante. Essi trovano “duro” (skleròs) il discorso di Gesù, anche se lo hanno inteso molto bene; non possono “ascoltarlo”, non possono aderire ad una simile rivelazione, anzi, la rifiutano integralmente e “mormorano” come avevano già fatto i loro padri nel deserto, durante l’esodo. La “mormorazione” dei discepoli, delusi e scandalizzati, esprime la profonda insoddisfazione degli uomini, che vedono frustrati i loro tentativi di condurre la storia secondo i propri progetti e che non sanno accettare la sapiente provvidenza con cui Dio li guida alle soglie dell’eternità, usando talvolta dei mezzi misteriosi ed imponendo spesso dei tempi molto lunghi, che non sempre l’impaziente razionalità umana sa comprendere.
62 E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?
Concentriamo la nostra attenzione sui due verbi della frase: salire e vedere. Gesù è il Lògos, il Verbo, la Parola che dall’eternità è “presso Dio” e da questa sfera divina, simbolicamente situata “in alto”, Egli “è disceso” in basso, sulla terra, assumendo la natura fragile, debole e mortale propria d’ogni essere umano. Il Lògos eterno di Dio “si è fatto carne” (1,14) per rivelare la volontà amante del Padre, che ha voluto donare agli uomini il vero Pane (6,32); una volta conclusa la sua missione, il Figlio deve “salire là dov’era prima”, fuori del tempo e dello spazio, accanto all’infinita eternità di Dio, suo Padre (1,1), riappropriandosi del “posto” che solo per poco aveva lasciato per portare a compimento la volontà salvifica del Padre e sua. Questo movimento di “discesa” e di “risalita” del Verbo di Dio era già stata annunciata dal profeta Isaia (Is 55,11): “La mia parola non ritorna a me senza avere eseguito ciò che desidero e fatto riuscire ciò per cui l’ho mandata”. Il ritorno di Gesù al Padre non avviene senza aver prima lasciato un “segno” evidente della buona riuscita della sua missione tra gli uomini: la morte in croce e la gloriosa resurrezione. Dopo la sua morte salvifica, Gesù risale verso il Padre suo, divenuto ormai il Padre di tutti gli uomini (20,17) in virtù della nuova ed eterna Alleanza con Dio sancita dal sangue del Figlio suo unigenito. Ma i giudei e, con loro, i discepoli ormai decisi all’abbandono del progetto salvifico di Dio, saranno in grado di “vedere” (= credere) il ritorno di Gesù al Padre? Testimoni della resurrezione di Gesù saranno i pochi che avranno avuto fede in Lui; per gli altri, per gli increduli, rimarrà l’ombra del dubbio circa la sua “scomparsa”, che non sarà seguita dal fallimento dell’opera di Gesù ma che, al contrario, segnerà l’inizio di una nuova era. Più gli increduli cercheranno di soffocare la novità del Vangelo e più questo irromperà con tutta la sua forza nella storia dell’uomo.
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07/07/2010 09:50
 
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63 E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita. 64 Ma vi sono alcuni tra voi che non credono”. Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65 E continuò: “ Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”. 66 Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
Tra Gesù e lo Spirito c’è un vincolo assai stretto; il Figlio in cui dimora lo Spirito (1,33), fonte della nuova nascita (3,3-8), ha ricevuto da lui il potere di dare la vita (5,21). Adesso, colui che “dà lo Spirito senza misura” identifica le sue parole con il dono dello Spirito (6,63; cf. anche 3,34). C’è identità tra lo Spirito e la vita, così come risulta evidente l’affinità tra la “carne” e la morte.
Secondo la tradizione biblica, la “carne” designa la condizione terrestre dell’uomo nella sua tragica precarietà: solo il soffio di Dio può dare consistenza e significato al suo essere (Gen 2,7; 6,3.17; Nm 16,22; 27,16; Sal 104,29s; 146,4, Rm 8,11; 1Cor 15,45; 2Cor 3,17; Gv 4,24). Messa in relazione con lo Spirito, la “carne” esprime l’incapacità dell’uomo di comprendere la Parola di Dio nonché la sua presuntuosa inclinazione a giudicare secondo le apparenze e non secondo la sostanza vera delle cose (7,24; 8,15). Ora, gli interlocutori di Gesù si limitano all’evidenza della realtà e non sono disposti a lasciarsi guidare dallo Spirito, che li condurrebbe alla comprensione del messaggio di vita racchiuso nelle parole di Gesù, il quale offre la sua “carne per la vita del mondo”. Per i giudei vale solo il senso letterale e non quello spirituale dell’intero discorso di Gesù e rimangono bloccati nella loro incredulità, come quei cristiani che non riescono ad attualizzare l’incontro con il Signore risorto e vivente mediante un’assidua vita sacramentale perché indifferenti all’azione dello Spirito (cf, 1Cor 11,17-34).
Le parole di Gesù “sono Spirito e vita”: l’evangelista sembra voler sottolineare come l’uno e l’altra abbiano un valore proprio, ma tale formulazione andrebbe intesa più propriamente come un’endiadi. Le parole di Gesù sono, allora, da collocare nel raggio d’azione dello Spirito, che dà la vita e che fa risaltare la natura spirituale delle parole provenienti dalla Parola stessa di Dio fattasi “carne”. La chiave d’interpretazione del discorso (lògos) sul Pane di vita è l’ascolto delle parole dette da Gesù accogliendo dentro di noi la potenza dello Spirito, da cui dipende la nuova nascita (3,5-8) e la comprensione del messaggio di salvezza, che proviene da Dio mediante il Figlio. C’è un’interazione dinamica tra le parole pronunciate da Gesù e l’azione vivificante dello Spirito: le parole di Gesù vengono “dall’alto” e producono la vita nel senso più vero e pieno, come tra poco saprà comprendere molto bene Pietro, dalla cui bocca usciranno parole di fede e di piena adesione al mistero racchiuso nella Persona di Gesù: “Signore, tu ha parole di vita eterna”.
Non appena Gesù ha elevato il tono del discorso, concentrando l’attenzione dei presenti sulla figura e sull’azione dello Spirito, ecco allungarsi sul dibattito l’ombra inquietante del rifiuto e del tradimento. Colui che si presenta come il Rivelatore del Padre deve fare i conti con la libertà dell’uomo, che può respingere in blocco il contenuto della Rivelazione di Dio e chi la incarna. Tra coloro che assumono un atteggiamento di radicale incredulità c’è anche un “traditore”, che Gesù conosce molto bene “fin da principio” e che funge da catalizzatore d’ogni atteggiamento d’opposizione umana al progetto di Dio. Il traditore simboleggia non solo coloro che rifiutano la fede, ma anche coloro che la combattono per estirparla dalla coscienza degli uomini. Gesù non esprime parole di condanna nei confronti degli increduli e neppure nei confronti del traditore; consapevole del proprio destino, Egli lo padroneggia e lo accetta, consapevolmente e volontariamente, in forza della sua prescienza, collocando in Dio Padre il mistero della libertà umana, capace di esprimere in piena autonomia l’accettazione od il rifiuto della Persona del Figlio di Dio: “Nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”. Viene così sottolineata con forza l’azione della grazia divina nel suscitare la fede nell’uomo (azione storicamente rifiutata dai pelagiani e dai semipelagiani). Attraverso queste parole l’evangelista propone ai cristiani della sua comunità di non giudicare il rifiuto di Gesù da parte dei fratelli ebrei e di rimettersi, come Gesù, al segreto del Padre, che tutto sa ed al quale solo compete il giudizio.
A questo punto, molti discepoli se ne vanno ed abbandonano il Maestro al suo destino. Allontanandosi, i discepoli danno sostanza al loro distacco interiore ed alla responsabilità degli uomini nella condanna a morte di Gesù.

67 Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?”. 68 Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; 69 noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. 70 Rispose Gesù: “Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!”. 71 Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici.
Attorno a Gesù si è creato un vuoto pauroso; i “giudei” e molti discepoli si ritirano e Gesù rimane solo coi Dodici (undici, visto che uno sta già progettando il tradimento in cambio di denaro, che per questo viene anche definito “il fieno del diavolo”), così come si era trovato prima che la folla lo raggiungesse sulla cima della montagna. Da un punto di vista umano, la vicenda storica di Gesù ha tutte le caratteristiche di un clamoroso e doloroso fallimento. Solo Pietro prende la parola, quasi a volerci lasciare intendere che egli sia considerato, a tutti gli effetti, il responsabile del gruppo ristretto dei Dodici. La professione di fede pronunciata, con candore e semplicità, dal capo degli apostoli è la risposta che Gesù si attendeva all’inizio del suo discorso a Cafàrnao. I “giudei” ed i “discepoli” che si erano allontanati dal gruppo dei suoi seguaci, non avevano manifestato a Gesù le loro perplessità od obiezioni, ma si erano limitati a “mormorare” tra loro. Ora, invece, Pietro si rivolge direttamente al Maestro con un vigoroso e convinto “TU”, che esprime il rapporto sincero del vero interlocutore di Cristo, cioè del credente. Di fronte alla domanda se intendono tornarsene a casa ed alle loro precedenti occupazioni e preoccupazioni quotidiane, i Dodici esprimono, per bocca di Pietro, la loro scelta di campo. Seppure scombussolati dalle parole pronunciate da Maestro, i Dodici impegnano la loro fiducia in Lui, non senza aver superato qualche impaccio interiore: “ da chi andremo?”. Questa domanda fa eco ad una constatazione che la gente ha fatto più e più volte durante la vita pubblica del Signore: “ nessuno ha mai parlato come parla costui”, poteva essere il commento della gente dopo aver ascoltato Gesù nelle piazze, nel Tempio, nelle sinagoghe e negli spazi aperti della Palestina (cf. Mt 8,29; Mc 1,22; Lc 4,32; Gv 7,12.15). Implicitamente Pietro ed i suoi compagni di ventura accettano, senza riserve, ciò che gli altri, i discepoli “disertori”, hanno respinto come “parole dure” da comprendere e da accettare. Forse a Pietro ed agli altri apostoli sfugge il profondo significato delle parole di Gesù, ma la loro fiducia punta all’essenziale: il messaggio di Gesù è portatore di vita eterna. In nome e per conto dei Dodici, Pietro conferma la sua e loro posizione: “ Noi abbiamo creduto e conosciuto…”. La connessione dei verbi “credere” e “conoscere” chiarisce il contenuto della vera fede: essa non è una conoscenza astratta, ma una relazione esistenziale, come quella che unisce il buon pastore alle sue pecore (10,14ss; cf. 17,3).
Come intendere, poi, il titolo assegnato da Pietro a Cristo? “Santo di Dio” è un appellativo raro e di difficile interpretazione. Pietro non usa nessuno dei titoli con cui Gesù ha qualificato Se stesso durante il discorso alla sinagoga di Cafàrnao (Figlio, Pane della vita, Inviato di Dio, Figlio dell’uomo) e neppure alcuno dei titoli messianici più noti all’attesa giudaica (Messia, Figlio di Dio, re di Israele), ma a modo suo dichiara chi è Gesù per lui: il Santo di Dio (cf. Sal16; At 2,27). Il salmo canta la profonda intimità tra Dio e l’orante e, forse, Pietro pensa alla profondità della preghiera del suo Maestro quando passa le notti in intimo colloquio col Padre, lontano da tutto e da tutti. Certamente gli apostoli sono rimasti edificati nel vedere Gesù in atteggiamento orante ed adorante e, incuriositi dal suo modo di pregare, gli hanno chiesto di insegnare loro a fare altrettanto. D’altra parte, Gesù ha proclamato più volte la sua intima unione col Padre (5,19-30) e più tardi dichiarerà di essere stato santificato dal Padre (10,36; 17,19). L’appellativo “Santo di Dio” supera ampiamente quello di “Messia” e si avvicina assai al titolo di “Figlio di Dio” confessato da Pietro in Mt 16,16. Diversamente da quanto avviene in Mt 16,17 Gesù non si congratula con Pietro per essere giunto alla verità circa la sua Persona, guidato in ciò dalla luce che proviene dal Padre, ma, per contrasto, si rattrista profondamente all’idea che proprio uno dei Dodici, uno dei prediletti, sta per tradirlo. Eppure, anche il traditore è stato scelto da Gesù per essere uno dei privilegiati testimoni della sua resurrezione. Evidentemente, questa scelta “sbagliata” di Gesù, almeno secondo il modo di pensare degli uomini, turbava le primitive comunità cristiane; l’evangelista, allora, risponde che Gesù sapeva “fin dal principio” che sarebbe stato tradito da Giuda, figlio di Simone Iscariota e sembra quasi voler proiettare questa conoscenza di Gesù ben di là del tempo, nell’eternità di Dio da cui il Figlio-Verbo proviene. Gesù non ne pronuncia il nome, ma ne svela la provenienza e la vera identità, qualificando Giuda come un “diavolo”, un appartenente alla categoria dei nemici più accaniti, subdoli, traditori, menzogneri della Verità e dell’Amore infinito di Dio. È il diavolo mentitore ed assassino (8,44) che suggerisce a Giuda di tradire il Signore (13,2), conquistando alla sua causa uno dei prescelti e trasformandolo in un “avversario” del Regno di Dio. Con la citazione del tradimento di Giuda, l’evangelista riconduce chiaramente il discorso sul “Pane di vita” al suo significato eucaristico, pur senza riportare nel racconto dell’Ultima Cena il particolare importante dell’istituzione dell’Eucaristia. L’evangelista, concludendo il lungo discorso di Gesù sul dono del pane disceso dal cielo con la menzione dell’abbandono di gran parte dei discepoli e del tradimento di Giuda, sembra voler rimarcare la difficoltà per l’uomo di rimanere aperto e disponibile alla novità di Dio. Volendo scegliere autonomamente il proprio destino, l’uomo si consegna alle forze del male e va incontro alla morte eterna, dalla quale potrebbe essere salvato solo se accettasse il mistero di un Dio che si fa uomo e dono per portare tutti gli uomini alla salvezza ed alla condivisione della sua vita senza fine.

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07/07/2010 09:51
 
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Chi è Gesù di Nazareth?
(Gv 7,1-53)

La domanda rivolta a Gesù dai giudei: “Chi sei tu?” (Gv 8,25), costituisce il filo conduttore dei capitoli 7 e 8 del IV Vangelo, durante i quali si sviluppa l’insegnamento di Gesù nella regione della Giudea ed il cui culmine è l’auto-rivelazione della sua origine divina: “IO SONO” (8,58). Questa proclamazione finale risponde, peraltro, alla richiesta dei suoi stessi fratelli, cioè dei cugini e dei parenti del suo clan familiare, presenti a Gerusalemme in occasione della festa delle Capanne: ”Se fai tali cose, manifèstati al mondo” (7,4). Anche i suoi parenti più stretti vogliono sapere “chi è” Gesù, perché non lo hanno capito nemmeno loro. Prima di procedere all’analisi del testo, è opportuno premettere alcune considerazioni preliminari di carattere generale.

Situazione nella chiesa di Giovanni
Nei capitoli 7 e 8 del IV Vangelo si rinvengono alcuni elementi comuni alla tradizione evangelica su Gesù di Nazareth, come il conflitto con la famiglia, l’insegnamento nel Tempio e la diffidenza dei notabili giudei. È propria di Giovanni la conoscenza spirituale di cui l’evangelista è compenetrato. Le parole pronunciate da Gesù sono sublimi e l’auto-proclamazione della sua divinità, racchiusa nella formula “IO SONO”, esprime con forza la coscienza divina di Colui al quale il Prologo inneggia e rende testimonianza.
Il quadro narrativo del testo evangelico ci riporta al conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche durante il suo ministero nella città santa di Gerusalemme, ma ci prospetta anche il clima di tensione esistente tra gli ambienti ufficiali del giudaismo ed i discepoli di Gesù alla fine del primo secolo dell’era cristiana. Dopo la tragica fine di Gerusalemme e del suo Tempio per mano delle milizie romane, nel 70 d.C., l’identità giudaica e la coesione del popolo ebraico erano garantite solamente dall’ortodossia farisaica, che si opponeva tenacemente a qualsiasi deviazione dalla retta dottrina e che aveva individuato nei cristiani il bersaglio principale dei loro anatemi. Se le parole rivolte ai giudei da Gesù suonano dure alla nostra sensibilità di lettori moderni, bisogna ricordare che l’evangelista era influenzato dal clima d’ostilità e d’odio religioso che faceva soffrire i membri di provenienza giudaica della sua comunità cristiana. L’espulsione dalla sinagoga non era stata presa molto bene dai giudeo cristiani, ancora profondamente legati alle tradizioni della fede e della cultura religiosa ebraica, nonostante la loro professione di fede in Cristo Signore; per molti di loro, il clima di persecuzione venutosi a creare sia per mano delle autorità politiche di Roma che per opera delle autorità religiose giudaiche era insostenibile.
Un atro elemento di sofferenza era il rifiuto opposto dai giudei al messianismo salvifico di Gesù Cristo. Com’era possibile non riconoscere in Gesù la piena realizzazione delle promesse messianiche contenute nel Primo Testamento? Di fronte al rifiuto opposto dalla Sinagoga, cioè da parte della suprema autorità religiosa ebraica, Giovanni compone il suo Vangelo concentrandosi sulla persona dell’Inviato e sul suo mistero. Egli mostra in Gesù non solo il Messia di Israele, bensì il Lògos eterno di Dio, mediante il quale il Padre esprime Se stesso e nel quale i credenti sono resi partecipi della filiazione divina. Al di là della situazione storica contingente, cui abbiamo accennato, il testo evangelico sollecita il lettore d’oggi a trovare una risposta convincente di fronte al mistero di Gesù di Nazareth ed al proprio mistero. S. Agostino suggeriva di porsi in ascolto del Vangelo come se il Signore fosse presente in carne ed ossa (cf. il commento di s. Agostino al IV Vangelo, In Joannem 30,1).
Situazione nel racconto evangelico
Già due volte Gesù è salito a Gerusalemme (2,13; 5,1), ma in questi brevi soggiorni nella Città Santa Egli ha subito solo delle minacce da parte dei giudei (4,13; 5,16-18), motivo per cui ha trascorso in Galilea buona parte del suo ministero. Il definitivo ritorno di Gesù a Gerusalemme è motivato solo dal fatto che è giunto il momento di compiere il volere del Padre. La morte attende Gesù nella città che “uccide i suoi profeti” (Mt 23,37; Lc 13,34), ma Egli non può e non vuole sottrarsi a quel destino per il quale è venuto appositamente al mondo. La minaccia di morte pesa lungo l’intero sviluppo dei capitoli 7 e 8 del IV Vangelo e Gesù ne parla persino alla folla dei giudei, i quali prima negano spudoratamente di volerlo eliminare e poi ammettono le loro intenzioni omicide (cf. 7,19.20.25; 8,37.40). Tuttavia, Gesù si consegnerà volontariamente nelle mani dei suoi carnefici solo quando sarà giunta l'ora fissata dal Padre, non prima (7,30.32.44; 8,20.59). Pur dovendo morire su una croce, Gesù sa che la meta verso cui è condotto dal Padre suo è la glorificazione e che i suoi avversari non potranno raggiungerlo là dove Egli sta per tornare (7,32ss; 8,21). Nell’attesa che giunga l’ora del compimento della sua missione tra gli uomini, Gesù subisce un vero e proprio processo da parte dei giudei molto prima del suo effettivo arresto. I capitoli 7-8 del Vangelo giovanneo ci descrivono il primo atto di tale processo, che durerà fino al capitolo 10 in cui, ai vv.24-33, troveremo le formulazioni dell’interrogatorio sinottico di fronte al sinedrio (10,24.25.36; cf. anche Lc 22,67.69.70). Qui il dibattito si concentra sull’affermazione che Gesù fa della sua relazione unica con Dio, suo Padre.
Il dibattito all’interno del Tempio
Lo scontro tra Gesù ed il suo popolo si consuma all’interno del luogo più sacro di Israele, cioè nel Tempio di Gerusalemme, dal quale Gesù aveva cacciato senza tanti complimenti i mercanti (2,14-16) e nel quale Egli aveva incontrato l’infermo risanato (5,14). Ora Gesù si accinge ad insegnare proprio nel luogo che Egli considera la “casa del Padre (suo)” e non un luogo di mercato o, peggio, di ladrocinio (cf. 7,14.28.37; 8, 12.20), ma dopo un tentativo di lapidazione andato a vuoto, Gesù “esce” dal Tempio (8,59), abbandonando la città e la Giudea e ritirandosi “al di là del Giordano”. L’abbandono dei luoghi santi da parte di Gesù può far pensare all’abbandono del santuario (Ez 10,18) e di Gerusalemme (Ez 11,23) da parte di YHWH, avvenuto alcuni secoli prima.
La circostanza della festa delle Capanne
Gli avvenimenti descritti nel capitolo 7 e, con tutta probabilità, nel capitolo 8 del IV Vangelo avvengono durante la festa delle Capanne, più volte citata dall’evangelista nel corso del racconto (7,2.10.14.37; 8,12). Si tratta di una delle più importanti fra le quattro principali feste del ciclo annuale, vale a dire la Pasqua, la Pentecoste, il giorno delle Espiazioni e, appunto, la festa delle Capanne; quest’ultima corrisponde alla festa agricola della vendemmia, o raccolta autunnale (Es 23,16) ed evoca il periodo trascorso nel deserto dal popolo eletto dopo l’uscita dall’Egitto (Lv 23,42ss). Per ricordare gli avvenimenti dell’esodo, durante il periodo del raccolto tutta la popolazione costruisce nei campi delle capanne con rami e frasche e qui vi abita per tutto il periodo della festa, che dura una settimana fra canti e balli, nella gioia più totale, mentre è condotto a termine il lavoro della vendemmia e della pigiatura dell’uva. Il vino novello, bevuto generosamente, non di rado provoca qualche ubriacatura di troppo. All’epoca del Nuovo Testamento, la festa delle Capanne corona quella del nuovo anno e si celebra dal 15 al 21 del mese di Tishri, tra la fine di settembre ed i primi d’ottobre (la data varia secondo il ciclo lunare su cui si basa, ancora oggi, il calendario ebraico).
Secondo la descrizione fattane dal Levitico (Lv 23,34-43), questa festa è un ringraziamento per la raccolta dei frutti appena compiuta, ma la sua liturgia, secondo alcune fonti, è orientata verso la domanda della pioggia per l’anno nuovo che sta per iniziare. Nell’ultimo giorno di festa, tutta la popolazione si reca in processione alla piscina di Sìloe ad attingere dell’acqua, versata poi da un sacerdote come libazione sull’altare dei sacrifici, nel Tempio. Segue la preghiera comunitaria che ricorda a Dio il suo impegno verso Israele ed evoca la fine dei tempi, quando si realizzerà il rinnovamento spirituale di Sion simboleggiato dalla sorgente d’acqua (Ez 47,1-12; Is 12,3). Al tempo di Gesù, durante la festa si celebra anche il rito della luce e ciò permette di comprendere meglio l’invito di Gesù a bere della sua acqua e la proclamazione mediante la quale Egli si definisce luce del mondo.
I personaggi del 7° e 8° capitolo del IV Vangelo
La figura di Gesù si staglia in tutta la sua grandezza e solitudine di fronte ad una folla di giudei ostili e senza il conforto della presenza simpatizzante dei suoi discepoli, proprio come avverrà di lì a poco durante l’interrogatorio di fronte al sinedrio. Gesù appare libero e sicuro di sé, forte della consapevolezza di essere “uno col Padre” e di essere stato da Lui mandato in missione tra gli uomini con uno scopo ben preciso: portare a tutti la salvezza mediante il sacrificio volontario della propria vita. La piena coscienza del proprio ruolo di mediatore e di redentore colloca Gesù su un piano d’assoluta vicinanza con Dio Padre e da tale posizione Egli domina una scena affollata da tanti personaggi di scarso rilievo morale: i fratelli di Gesù scompaiono presto dal contesto narrativo e di loro non rimane traccia nel proseguimento del racconto evangelico, a dimostrazione del fatto che non basta essere “parenti di sangue” di Gesù per avere la salvezza garantita senza un impegno personale alla conversione; la folla rimane un’entità anonima, incapace di esprimere un giudizio autonomo ed è facilmente soggetta alle manipolazioni da parte dei “capi”; le autorità politiche e religiose di Gerusalemme, i farisei, i sommi sacerdoti e le guardie del Tempio sono troppo compresi nel loro ruolo istituzionale per concedere una minima apertura intellettuale e spirituale a chi insegna “come uno che ha autorità” e che alle parole fa seguire dei fatti definiti da tutti come prodigiosi. A tutti costoro manca un barlume d’intuito nel cogliere, nelle parole e nei gesti di Gesù, un sia pur debole indizio della Presenza (di Dio). Fa eccezione Nicodemo, che tenta di prendere le difese di Gesù, invitando gli amici farisei a pesare bene il contenuto del messaggio del rabbì di Galilea prima di tranciare giudizi, ma la sua voce rimane isolata e quasi una nota stonata nel coro scandalizzato e fortemente ostile dei nemici di Gesù (7,50). La folla è divisa nel giudizio su Gesù, considerato da alcuni come il Profeta, da altri come il Messia e, da altri ancora, come un mistificatore; le guardie del Tempio, inviate dai loro capi per arrestare Gesù, non eseguono l’ordine perché impressionate dal suo insegnamento; i giudei sono irritati perché Gesù osa insegnare nel Tempio e, poi, s’inquietano quando lo sentono annunciare la sua prossima partenza verso un luogo in cui non potranno più trovarlo; dal canto loro, farisei e sommi sacerdoti sono indispettiti perché Gesù riscuote un gran successo presso gli ignoranti, cioè presso coloro che non conoscono tutte le sfumature e le implicazioni legali della sacra Legge mosaica, ma sono pure inviperiti nei confronti di Nicodemo, reo di invocare l’applicazione della Legge a tutela dell’incolumità di quel galileo, eretico dal punto di vista dottrinale e socialmente pericoloso. Nonostante alcuni pallidi tentativi di dialogo con Gesù, i giudei sono sostanzialmente chiusi ad ogni tipo d’annuncio che non rientri nel ristretto ambito del loro schema mentale (cf. 8,43), anche se le argomentazioni esibite da questo galileo scomodo affondano le loro radici nella tradizione giudaica più rigorosa ed ortodossa.
Su tutti e su tutto spicca il personaggio principale dello scontro dialettico e teologico fra Gesù ed i giudei, quel Dio-YHWH che Gesù designa dapprima come Colui dal quale Egli stesso è stato inviato (c.7) e che, poi, dichiara essere nientemeno che suo Padre (c.8).

7,1 Dopo questi fatti Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più andare per la Giudea, perché i giudei cercavano di ucciderlo.
I giudei avevano più di un conto in sospeso con Gesù, visto il loro proposito, manifestato in più occasioni, di eliminarlo fisicamente. Un personaggio scomodo come Lui, che violava apertamente la sacralità del sabato giudaico, fuorviava il popolo col suo insegnamento centrato sull’amore reciproco e sul perdono anche dei nemici e che, per giunta, si faceva uguale a Dio, non poteva farla franca per molto tempo in un ambiente sociale e religioso molto chiuso e teologicamente bloccato su un rigido monoteismo e sull’osservanza maniacale di un gran numero di norme e precetti assai minuziosi, contenuti in un corpus giuridico e legislativo attribuito a Dio stesso e da Lui consegnato al popolo eletto tramite Mosè.
Consapevole delle intenzioni omicide delle autorità religiose giudaiche, Gesù se ne sta alla larga dal centro politico e religioso del mondo ebraico, dove si prendono decisioni inappellabili nell’ambito della religione e del culto e dove si comminano pene anche gravi nei confronti degli ebrei inadempienti o dottrinalmente deviati, spesso con la complicità delle autorità politiche romane, disposte a chiudere uno o tutti e due gli occhi di fronte ad alcune evidenti violazioni del diritto pur di non avere troppe grane con i suscettibili capi religiosi della nazione ebraica. Il caso giudiziario di Gesù è un esempio piuttosto eloquente di questo stato di cose: la condanna a morte di Gesù è, infatti, il frutto evidente della perfetta convergenza degli interessi sia dell’establishment religioso, politico e giuridico ebraico che dell’avida, impudente ed arrogante dirigenza politica di Roma. Quando verranno meno i presupposti di questa strana “alleanza” tra la dirigenza politico-militare di Roma e la dirigenza politica e religiosa d’Israele, quando in altre parole entrerà in crisi il fragile legame basato sul comune interesse economico, per lo più inquinato dalla corruzione e dalla prepotenza soprattutto da parte dei procuratori romani, questi due mondi così diversi e contrastanti tra loro entreranno in tragica rotta di collisione e sarà il mondo ebraico a rimetterci quel poco di libertà e d’autonomia politica e religiosa, che il pragmatico potere centrale di Roma gli aveva concesso.
L’evangelista interpreta la decisione di Gesù di non irritare ulteriormente i giudei con la sua presenza a Gerusalemme e di non incappare in una precoce cattura e condanna a morte con una motivazione di carattere teologico. Il tema dell’ora, intimamente connesso al compimento volontario e libero della volontà del Padre, costituisce il filo conduttore del racconto evangelico, anche quando non è esplicitamente affermato.

2 Si avvicinava intanto la festa dei giudei, detta delle Capanne; 3 i suoi fratelli gli dissero: “Parti di qui e va’ nella Giudea perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu fai. 4 Nessuno infatti agisce di nascosto, se vuole venire riconosciuto pubblicamente. Se fai tali cose, manifestati al mondo!”. 5 Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui.
Giovanni condivide le notizie fornite dai Sinottici sui familiari di Gesù e ne sottolinea la sostanziale incredulità di fronte al mistero racchiuso nel loro illustre parente, che ai loro occhi non è altro che il figlio di Giuseppe e di Maria (cf. Mc 3,21; 6,4ss). Chi sono questi fratelli di Gesù, che diventeranno credenti solo dopo la sua resurrezione (At 1,14)? Al termine greco adelphòs, fratello, soggiace il vocabolo ebraico àch, che può indicare sia il fratello di sangue sia i membri della stessa parentela; questi “fratelli” hanno seguito Gesù da Cana di Galilea, dove è avvenuto il miracolo dell’acqua mutata in vino durante le nozze di uno dei parenti (di Maria?), fino a Cafàrnao, dove si è svolto il dibattito di Gesù sul “pane di vita”, dopo il prodigio della moltiplicazione dei pani. Di Gesù e della sua missione i parenti non hanno compreso nulla: per loro Egli è un uomo qualsiasi, dotato però di straordinari poteri taumaturgici, che sarebbe conveniente sfruttare e non tenere nascosti. Il comportamento di Gesù li disorienta: com’è possibile che Egli sappia compiere prodigi così straordinari davanti agli occhi di migliaia di testimoni e cerchi, poi, di mantenere l’anonimato? Da qui l’invito rivolto a Gesù (7,4) di lasciare l’oscura ed insignificante Galilea e di stabilirsi in Giudea, dove si trova il centro del potere della nazione ebraica e dove i miracoli da Lui compiuti troverebbero una più vasta risonanza, conferendo al loro autore una grande notorietà. L’occasione più favorevole per recarsi a Gerusalemme è il pellegrinaggio abitualmente organizzato in occasione della festa delle Capanne, una festività molto sentita da tutti gli ebrei. “Manifestati al mondo!”, un modo di esprimersi che tradisce l’incredulità. Se i parenti sospettassero la vera natura della missione del loro “fratello” Gesù, gli consiglierebbero di rivolgersi alle autorità religiose, le uniche abilitate a riconoscere l’Inviato di Dio (cf.7,26), ma non di certo “al mondo”, un termine qui usato da Giovanni in senso negativo, ben evidente poco più avanti (7,7) quando Gesù definirà il “mondo” come una realtà ostile alla sua rivelazione. Solo il discepolo che ha saputo ascoltare la Parola è in grado di penetrare e comprendere il mistero d’unità, che unisce Gesù al Padre, ma il “mondo” mai e poi mai saprà cogliere questo mistero. La proposta fatta dai parenti appare, forse, a Gesù come una tentazione, simile a quella della regalità terrena cui ha pensato la folla, saziata dal pane del miracolo (6,14ss). Con una constatazione velata di tristezza (“neppure i suoi fratelli credevano in lui”), l’evangelista fa calare il sipario sui parenti di Gesù, incapaci di “vedere” il loro “fratello” con gli occhi del cuore.

6 Gesù allora disse loro: “Il mio tempo non è ancora venuto, il vostro invece è sempre pronto. 7 Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive. 8 Andate voi a questa festa; io non ci vado, perché il mio tempo non è ancora compiuto”. 9 Dette loro queste cose, restò nella Galilea.
Nella lingua greca vi sono due termini differenti per indicare il “tempo”: il vocabolo krònos indica il senso materiale del tempo, misurabile con strumenti adatti (nell’antichità si misurava il tempo con la meridiana o con la clessidra ad acqua od a sabbia), mentre il vocabolo kairòs, usato dall’evangelista, esprime il significato metafisico del tempo. In Giovanni il tempo, o kairòs, coincide col “tempo della salvezza” stabilito da Dio, secondo un piano provvidenziale fissato fin dall’eternità; il tempo di Gesù, però, non coincide per nulla col tempo pensato e preteso dai suoi parenti. Costoro ritengono che sia giunto il momento per Gesù di ottenere consensi e raccogliere a piene mani il successo umano, mentre Gesù ha ben presente lo scopo della sua missione, centrata sul tempo della passione, morte e resurrezione e finalizzata al riscatto (in ebraico ga’al) dell’intera umanità. L’uomo che non si cura di Dio e della sua presenza nel tempo, riconoscibile attraverso i suoi interventi provvidenziali, non necessariamente sempre e comunque prodigiosi, prende le proprie decisioni senza altri riferimenti che le circostanze e le opportunità offerte da questo mondo. Il tempo dell’uomo scorre come un susseguirsi di attimi e di occasioni fine a se stessi e non può incidere sul tempo ad ampio respiro che è proprio di Dio. Parlare di un tempo umano “sempre pronto”, cioè sempre favorevole, è un non-senso perché privo di una progettualità a lungo termine. In altre parole, l’uomo non è in grado di dominare il tempo e gli eventi, piccoli e grandi, della storia.
Al contrario, Gesù sa che il suo tempo deve ancora compiersi e che la sua salita verso Gerusalemme rappresenta il necessario preludio al “passaggio pasquale” sul Gòlgota. Del tutto dipendente dal Padre suo, Gesù sa che il suo ritorno verso il Padre non avverrà in occasione della festa in corso, quella delle Capanne, ma in quella successiva, cioè durante le festività pasquali.
Il diverso modo di vivere e di interpretare il tempo come “luogo” della presenza e della manifestazione salvifica di Dio, si rende concreto nel conflitto e nell’opposizione tra Gesù ed il “mondo”, qui inteso come sinonimo d’umanità che rifiuta la rivelazione divina. Proprio per questo Gesù fa il contrario di quanto richiestogli dai suoi parenti: invece di “manifestarsi al mondo” e di sedurlo a suon di miracoli, Egli rende testimonianza all’iniquità degli uomini, che fanno di Gesù il bersaglio del loro odio perché non vogliono che si faccia luce sulle loro opere malvagie e sulla loro istintiva incredulità. Gesù ha già rimproverato i giudei d’essere refrattari alla Parola di Dio (5,37-47) e d’essere assai lontani da Colui che pure adorano come l’unico e vero Dio e, di fatto, Egli rimprovera i suoi “fratelli” di comportarsi come i giudei e di far parte di quello stesso “mondo” che lo odia in modo così viscerale ed accanito. A questo punto, Gesù prende tempo e non segue il suo parentado a Gerusalemme ma presto cambierà idea.

10 Ma andati i suoi fratelli alla festa, allora vi andò anche lui; non apertamente però: di nascosto.
Ecco spiegata la decisione di Gesù di restarsene in Galilea: Egli non intende sottostare ai desideri chiaramente “mondani” dei suoi parenti, ben disposti a sfruttare a proprio vantaggio qualche miracolo che Gesù avrebbe certamente compiuto, una volta giunto a Gerusalemme. Gesù si reca a Gerusalemme, contrariamente ai suoi propositi iniziali, ma in incognito e senza compiervi alcun prodigio e, per di più, a festa ormai inoltrata (7,14). Da quando i suoi parenti sono partiti per Gerusalemme, Gesù è rimasto solo col Padre suo, di cui ha percepito la volontà di portare la rivelazione al cuore stesso della Città Santa, nel Tempio, perché solo così il suo destino può compiersi. L’iniziale assenza di Gesù alla festa dà modo all’evangelista di descrivere le attese e le speranze di una folla curiosa e sostanzialmente delusa: ma lui, dov’è?

11 I giudei intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: “Dov’è quel tale?”. 12 E si faceva sommessamente un gran parlare di lui tra la folla; gli uni infatti dicevano: “E’ buono!”. Altri invece: “No, inganna la gente!”. 13 Nessuno però ne parlava in pubblico, per paura dei giudei.
Gesù è assente ma non si parla che di Lui a Gerusalemme. I notabili giudei ne parlano in modo aperto e spavaldo, poiché la loro ovvia intenzione è quella di cercare Gesù allo scopo di arrestarlo e di farla finita una volta per tutte con quel galileo scomodo e niente affatto controllabile; la folla ne parla sommessamente, ma il suo mormorio (in greco gongusmòs) ha una risonanza maggiore dell’ostentata sicumera dei suoi capi, dei quali la folla teme con buona ragione l’ira e le ritorsioni. Per gli uni, Gesù è una persona che fa del bene alla gente: anzi, forse potrebbe essere anche il Messia (7,26.41) o il Profeta (7,40). Per altri, Gesù è un mistificatore, un agitatore, uno di quei falsi profeti che la santa Torâh condanna esplicitamente alla lapidazione (7,47). Le discussioni, seppure fatte a bassa voce, dividono la folla e, come sempre avviene, si forma il partito dei favorevoli e quello dei contrari. Oggi come allora, la persona di Gesù è messa sempre in discussione: c’è chi crede in Lui, chi Lo rifiuta e chi rimane perplesso. Chi è veramente Gesù: il Messia o un impostore?
Salito, dunque, a Gerusalemme in piena festa, Gesù si mette ad insegnare nel Tempio quasi volendo provocare la reazione dei giudei. La reazione ci sarà e sarà violenta; persino il mite e ragionevole fariseo Nicodemo ne farà le spese, tanto che i suoi stessi compagni di partito, i farisei, lo definiranno un ignorante che non conosce nemmeno il contenuto della Sacra Scrittura. Per un fariseo osservante come Nicodemo, questa sarà un’accusa infamante quasi com’essere considerato un “impuro”.

14 Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e vi insegnava. 15 I giudei ne erano stupiti e dicevano: “Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?”. 16 Gesù rispose: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. 17 Chi vuol fare la sua volontà, conoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso. 18 Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l’ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia.
È la prima volta che Gesù insegna ai giudei, radunati nel Tempio per la festa. Per i giudei, l’insegnamento che veniva impartito all’interno del Tempio doveva necessariamente riguardare la Torâh ed aveva lo scopo sia di istruire il popolo sulla Legge che di esortarlo alla sua osservanza pratica. Tale insegnamento era riservato agli scribi ed ai dottori della Legge, poiché a nessuno era concesso di svolgere quest’incarico senza essere stato prima discepolo di una delle scuole rabbiniche, presso cui si perfezionava la conoscenza della Scrittura e si apprendeva la tradizione autentica dei padri. La meraviglia scandalizzata dei giudei è, dunque, più che giustificata, almeno secondo il loro punto di vista. Ciò che colpisce i giudei è la padronanza della Legge dimostrata da Gesù, ma anche la sua pretesa di impartire insegnamenti su di essa senza essere stato discepolo di una delle tante scuole rabbiniche del tempo. In altre parole, Gesù non ha i requisiti per insegnare nel Tempio! (Oggi, Gesù incorrerebbe in una denuncia per millantato credito ed esercizio abusivo di professione, perché privo di laurea e di diploma d’abilitazione all’insegnamento!). Da dove gli deriva, dunque, una tale facoltà dal momento che Gesù “parla come uno che ha autorità”? I giudei sono perplessi, scandalizzati ed indignati. Gesù non elude il loro interrogativo e chiarisce che la sua “dottrina” e l’abilitazione all’insegnamento della Legge gli provengono da Colui che lo ha mandato, cioè dal Padre. Gesù sa di lettere, perché sa leggere e spiegare la Scrittura, ma conosce assai bene pure la tradizione, la cui fonte è lo stesso YHWH dal quale Israele ha ricevuto i testi sacri e la chiave di lettura per la loro corretta interpretazione. Ora, chi sa compiere la volontà di Dio, non limitandosi ad osservare i suoi precetti ma lasciandosi attirare da Lui ed aprendo il cuore e la mente ai suoi progetti di salvezza, sa comprendere anche che Gesù parla in nome del Padre e che ha l’autorità per spiegare il senso profondo della Legge, che Dio ha donato agli uomini. Questo ragionamento vale soprattutto per il credente, ma per chi non crede o fa fatica a credere Gesù ricorre ad un criterio di giudizio più tradizionale nel riconoscere un Inviato di Dio: il suo disinteresse. Gesù non parla perché mira al proprio interesse personale, alla propria “gloria”, ma sempre Egli cerca e vuole affermare la “gloria del Padre”: per questo in Gesù è possibile riconoscere la verità e la giustizia, che sono il contrario della menzogna e dell’iniquità. Parlando così di Se stesso, Gesù evoca la figura del Servo di YHWH, il quale “non commise ingiustizia né vi era inganno in lui” (Is 53,9). In Gesù c’è la Verità e l’assenza d’ogni male (8,46). Dopo aver affermato che il suo insegnamento viene dall’alto, e che gli è perfettamente fedele, Gesù contesta il giudizio espresso dai giudei contro di lui per aver guarito un infermo in giorno di sabato alla piscina di Bethesda e denuncia le intenzioni omicide dei notabili del popolo ebraico.

19 Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?”. 20 Rispose la folla: “Tu hai un demonio! Chi cerca di ucciderti?”. 21 Rispose Gesù: “Un’opera sola ho compiuto e tutti ne siete stupiti. 22 Mosè vi ha dato la circoncisione -­non che essa venga da Mosè, ma dai patriarchi- e voi circoncidete un uomo anche di sabato. 23 Ora, se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la Legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché ho guarito interamente un uomo di sabato? 24 Non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio.
Per la prima volta Gesù nomina la Legge, la quale, secondo l’evangelista Giovanni, non è mai riconducibile al solo corpus legislativo, ma fa riferimento o al Pentateuco (la Torâh, come in 1,45), o ad un principio legale (cf. 7,51; 8,17; 19,7) anche imprecisato (18,31), oppure alla dottrina di Mosè (cf. 1,17; 7,19.23.49), ma sempre con riferimento all’insieme delle Scritture (cf. 10,34; 12,34; 15,25). Il legame con la pericope precedente (7,14-18) è il vocabolo adikìa (ingiustizia) del v. 18, che orientava il pensiero verso la Legge, condizione d’ogni giustizia, e verso l’infedeltà alla Legge. Dapprima, Gesù ha giustificato il suo dire ed ora giustifica il suo fare. Affermando che i suoi interlocutori non osservano la Legge (v. 19), Gesù intende sostenere che essi si attengono scrupolosamente ai precetti contenuti nella Legge, ma che non hanno un rapporto vitale con la Legge stessa e non ne comprendono lo spirito. Citando il caso della circoncisione, effettuata di sabato, Gesù ricorda che talvolta è consentito trasgredire il precetto sabbatico, come nel caso della guarigione di un infermo, ma Egli non si limita ad una semplice casistica delle eccezioni ad un’osservanza pedante della Legge, bensì vuole introdurre un diverso approccio alla comprensione della stessa. In altre parole, vi sono due modi assai differenti per rapportarsi con la Legge: quello dei giudei, che in essa non vedono altro che una serie di precetti e si limitano ad una sua interpretazione rigorosamente letterale, e quello di Gesù, secondo il quale è necessario porsi in ascolto della Parola di Dio, donatrice di vita, che è contenuta nella Legge ed ascoltando la quale si compie la volontà di Dio (7,17). Volendo uccidere Gesù, attraverso le cui opere viene manifestato il senso della Legge, che è la vita per l’uomo, i giudei rifiutano, di fatto, di porsi in ascolto della Parola di Dio e ne tradiscono, pertanto, lo spirito deformandone la corretta comprensione. Quanto abissale è la distanza tra la misericordia e l’amore di Dio per l’uomo da una parte ed il rigido legalismo, arido ed impietoso, dei giudei dall’altra! Nella Legge sono contenuti sostanzialmente due precetti, l’amore per Dio e l’amore per il prossimo (Mt 22,38-40), ma i giudei ne hanno colto solo una serie infinita di obblighi, di divieti e di norme esteriori incapaci di incidere nel profondo del cuore.
I giudei non s’irritano per l’accusa, rivolta loro da Gesù, d’essere infedeli nell’osservanza della Legge ma si preoccupano di dissimulare le loro reali intenzioni omicide, apertamente denunciate da quel “demonio” di galileo. Insinuando che Gesù è posseduto dal diavolo, i giudei cercano di ridicolizzarlo ma Gesù li mette con le spalle al muro, inchiodandoli alla loro responsabilità: come possono accettare che Mosè abbia subordinato la sacralità del sabato alla pratica della circoncisione, cui è attribuita la guarigione di un singolo membro e, al tempo stesso, condannare Gesù che in giorno di sabato si permette di guarire un uomo tutto intero? Se Mosè ha dato la precedenza della circoncisione sul sabato, lo ha fatto per spiegare che la Legge divina ha come scopo la salute integrale dell’uomo; ora, se circoncidere un membro virile in giorno di sabato non è un puro e semplice strappo alla Legge, seppur legittimo, ma implica il raggiungimento della reale intenzione della Legge (cioè la salute integrale dell’uomo), a maggior ragione la guarigione di un uomo “tutto intero” in giorno di sabato significa portare a compimento la Legge. Il ragionamento fatto da Gesù secondo un procedimento rigorosamente rabbinico, non fa una grinza.
La circoncisione era una pratica diffusa in alcune aree del Medio Oriente ed aveva una finalità pratica di tipo igienico, essendo utile per prevenire le infezioni balanopostitiche che si complicavano facilmente con una retrazione infiammatoria del prepuzio, detta fimosi, la quale impediva il normale rapporto coniugale; oltre a ciò, la circoncisione era un vero e proprio rito d’iniziazione al matrimonio ed alla vita di gruppo familiare (Gen 34,14ss; Es 4,24-26; Lv 19,23). La pratica della circoncisione differiva da popolo a popolo: gli egiziani la effettuavano il giorno dopo la nascita del figlio maschio, gli ebrei otto giorni dopo. Oltre a quella igienica ed iniziatica, il popolo ebraico attribuiva alla circoncisione altre due finalità, ritenute più importanti: l’appartenenza al gruppo etnico e l’appartenenza a YHWH. Tale pratica assunse tutta la sua importanza solo dal periodo dell’esilio ed invano cercarono di sradicarla dalla consuetudine del popolo ebraico gli invasori ellenisti (cf.1Mac 1,60ss; 2Mac 6,10) guidati da Antioco IV Epifane.
Gesù tiene a precisare che non Mosè, bensì i patriarchi a lui anteriori (Gen 17,10) avevano introdotto, per ordine divino, la circoncisione tra gli ebrei come “segno” dell’alleanza tra Dio ed i discendenti di Abramo e come figura di una vita nuova. L’esortazione conclusiva (“non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio”) fa riferimento a ciò che, per gli ascoltatori, era parsa una clamorosa violazione del sabato da parte di Gesù. Guarendo l’infermo alla piscina di Bethesda, Gesù non ha violato alcun principio della Legge divina, perché attraverso questa guarigione miracolosa Egli ha inteso simboleggiare il dono totale della salvezza.

25 Intanto alcuni di Gerusalemme dicevano: “Non è costui quello che cercano di uccidere? 26 Ecco, egli parla liberamente, e non gli dicono niente; che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che egli è il Cristo? 27 Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo, invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia”. 28 Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure io non sono venuto da me e chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. 29 Io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato”. 30 Allora cercarono di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora.
In questa scena le autorità (farisei e sommi sacerdoti) ed il popolo appaiono ancora una volta ben distinti nei loro sentimenti e nelle loro reazioni di fronte al galileo Gesù. Viene qua ripreso il tema fondamentale anticipato al v.12: chi è Gesù per il popolo ebraico?
La conferma che Gesù è in pericolo e che le autorità riconosciute hanno intenzioni omicide nei suoi confronti viene dalla gente comune, che parla a ruota libera, anche se sottovoce, dell’argomento più scottante del momento. Tutti hanno paura di incorrere nelle ire dei capi, ma tutti dicono la loro. Costatando che Gesù, il ricercato numero uno, sta liberamente insegnando pubblicamente nel Tempio, autorizza le ipotesi più ottimistiche di coloro che, evidentemente lo considerano un uomo per bene, uno dei pochi, se non l’unico, ad occuparsi veramente della gente più sfortunata ed emarginata della società. Sta a vedere che i capi si sono convinti che Gesù è davvero il Messia tanto atteso…
Questa suggestiva ipotesi, però, contrasta in modo stridente con ciò che, da molto tempo ormai, si va dicendo della misteriosa figura del Messia. Secondo la teoria giudaica più accreditata, il Messia deve essere un personaggio di cui nessuno può conoscere l’origine, la provenienza; per essere autentico, il Messia non deve avere origini chiaramente umane ma celesti e scendere in questo mondo in modo clamoroso, discendendo chiaramente dall’alto. Ovviamente Gesù non può essere un Messia credibile perché tutti sanno da dove viene: nientemeno che dalla Galilea, una regione resa impura dalla vicinanza con le popolazioni pagane e, per giunta, tutti sanno chi sono suo padre e sua madre, due popolani di poco conto.
Nel corso del primo secolo dell’era cristiana, l’attesa del Messia era molto diversificata, in funzione dell’immagine che ci si faceva del personaggio: re, sacerdote, Figlio di Davide, liberatore e condottiero invincibile. Sollecitato in tal senso a chiarire chi egli sia, Gesù non dà mai una risposta scontata e, nel definire se stesso, Egli usa espressioni alquanto sibilline ma mai così oscure da non far capire ai suoi interlocutori la sua presunta provenienza da Dio stesso. In effetti, i meglio informati e buoni intenditori della Scrittura sanno che il Messia deve provenire dalla stirpe regale di Davide e che deve essere originario di Betlemme (7,42), ma ritengono anche che egli deve rimanere nascosto in qualche luogo sconosciuto (Mt 24,26), forse il cielo stesso, fino al giorno della sua clamorosa manifestazione. Nessuno evidentemente sa che Gesù è nato davvero a Betlemme e nessuno gli dà retta quando Egli afferma a gran voce (in greco ékraksen, gridò), seppure in modo un po’ oscuro, di venire proprio dal cielo! Alcuni si rendono conto, in verità, che Gesù si arroga tale origine divina, ma ovviamente lo ritengono un pazzo pericoloso da eliminare fisicamente, e piuttosto in fretta anche, prima che qualcuno gli dia retta per davvero; tant’è che cercano subito di mettergli le mani addosso per catturarlo, ma senza riuscirvi perché “non era ancora giunta la sua ora”.
Gesù riprende in modo ironico ciò che la gente dice di Lui: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono”. Gesù viene dalla Galilea, “eppure” viene da altrove: Egli viene da Colui che è veritiero, è l’Inviato di Dio. Se il popolo di Gerusalemme ha trovato inciampo (in greco, skàndalon) nell’origine galilaica di Gesù, ha però parlato bene affermando che s’ignora da dove viene il Messia; Gesù ancora non si presenta come l’Inviato che “era presso Dio” (1,1), ma lo lascia intuire a chi è disposto ad accogliere tale verità ed a credere in Lui. Il v.28 contiene un messaggio di rivelazione: “io non sono venuto da me”, ma “mi ha mandato” Colui che “è veritiero” (Dio), che “voi non…conoscete” perché non lo avete mai visto, ma che “io…conosco” perché “vengo da lui” per salvare tutti voi. In questo versetto è contenuto il mistero della rivelazione che Gesù è venuto a fare del Padre (cf. 1,18). Per coloro che sono capaci di intendere, anche parzialmente, le parole di Gesù è giunto il momento di muoversi, ma Gesù sfugge misteriosamente all’arresto e l’evangelista non perde occasione per sottolineare ancora una volta il tema teologico dell’ora.

31 Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: “Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”. 32 I farisei intanto udirono che la gente sussurrava queste cose di lui e perciò i sommi sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo.
Di nuovo, la folla è una “miscela” d’opinioni e di sentimenti contrastanti. Un gran numero di persone (non più solo “alcuni”, v.25) è disposto a credere a Gesù ed in Gesù, capace di compiere prodigi tali che non possono lasciare indifferenti anche i più scettici dei presenti. L’evidenza dei miracoli non è ancora motivo sufficiente per indurre “molti della folla” ad avere una fede vera, ma rappresenta un inizio d’apertura alla fede, ancorché fragile. Al tempo stesso, l’attestazione di gran parte della folla delle qualità taumaturgiche di Gesù suona come un rimprovero per gli increduli: Gesù non ha solo parlato, ma ha anche compiuto opere che confermavano il suo invio dall’alto (3,2). Secondo la tradizione legata al profeta Isaia, il Messia davidico avrebbe compiuto miracoli con cui avrebbe manifestato la sua bontà (cf. Is 11) e, di fatto, i segni riferiti nel IV Vangelo vanno proprio in questa direzione, salvo il prodigio della moltiplicazione dei pani.
Alla fede incipiente nella missione e nella figura del Messia-Gesù fa da stridente contrasto l’ostilità irriducibile delle autorità religiose ebraiche, le quali, non essendo riuscite a catturare Gesù con le proprie mani, inviano un manipolo di guardie del Tempio per portare a compimento l’opera nella quale hanno fallito miseramente. L’arresto di Gesù è una priorità assoluta e va compiuta ad ogni costo.
Un’annotazione di carattere storico s’impone prima di procedere nell’analisi del teso evangelico. All’epoca di Gesù i responsabili dell’ordine pubblico all’interno del Tempio erano i sommi sacerdoti, tradizionalmente ostili ai farisei. Appare ovvio che questi ultimi dovevano chiedere l’aiuto dei sommi sacerdoti per mettere in azione la polizia del Tempio, ma è altrettanto vero che il buon accordo tra farisei e sommi sacerdoti, anche se per una causa comune come l’arresto di Gesù, suona un po’ anacronistico.

33 Gesù disse: “Per poco tempo ancora rimango con voi, poi vado da colui che mi ha mandato. 34 Voi mi cercherete, e non mi troverete; e dove sono io, voi non potrete venire”. 35 Dissero dunque tra loro i giudei: “Dove mai sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e ammaestrerà i Greci? 36 Che discorso è questo che ha fatto: Mi cercherete e non mi troverete e dove sono io voi non potrete venire?”.
Consapevole della prossima fine, Gesù si attarda nel Tempio ad insegnare nonostante che il suo arresto sia sfumato all’ultimo momento ed annuncia la sua dipartita da questo mondo ed il suo ritorno al Padre, dal quale è stato inviato tra gli uomini per una missione di redenzione. Egli parla di una sua scomparsa che mette in allarme i suoi avversari, i quali temono di vederselo sfuggire definitivamente dalle mani prima di regolare i conti con Lui. In realtà, Gesù parla dell’urgenza della conversione personale dei suoi ascoltatori, poiché il tempo della sua presenza fisica sulla terra si sta esaurendo e la minaccia dell’eterna perdizione incombe sul loro capo (cf. Lc 13,3.5). La minaccia è palese: quando Gesù avrà fatto ritorno al Padre, essi non potranno più trovarlo: la rivelazione termina con la scomparsa del Rivelatore e non sarà tanto facile trovare Dio una volta che si è rifiutato, tradito ed ucciso il suo Messia (cf. anche Os 5,6; Pr 1,28). L’esortazione di Gesù (7,33) diventerà minaccia (8,21) esplicita contro i farisei, che rischiano di morire nel loro peccato d’incredulità ed avrà un diverso tenore quando sarà rivolta ai suoi discepoli nella notte dell’Ultima Cena e del tradimento di Giuda (13,33).
“Dove io sono, voi non potrete venire”. Con queste parole Gesù lascia intravedere, come in un abisso insuperabile, il mistero della propria Persona. Gesù ritorna al Padre, ma in realtà Egli è da sempre e per sempre con Lui fin dall’eternità.
Secondo la fede dell’evangelista, Gesù ha lasciato fisicamente il mondo ma, nella sua realtà di Risorto, Egli rimane sempre presente tra i suoi. Pur tuttavia, per ogni essere umano urge la scelta decisiva nel breve corso della propria esistenza personale: la decisione di credere o di non credere nel Figlio di Dio e nel suo progetto di salvezza coincide con la capacità di saper riconoscere il tempo (kairòs) della grazia e della visita di Dio e non è detto che il “treno” di Dio passi una seconda volta. Sospettando che Gesù voglia andarsene tra gli ebrei della diaspora e che voglia convertire i Greci, cioè i popoli pagani, i giudei fanno una profezia involontaria, simile a quella di Caifa (11,51ss): la morte dell’Inviato sarà mezzo di salvezza per tutti i popoli della terra, secondo l’annuncio profetico del Servo di YHWH (Is 42,6; 15,10; cf. Lc 2,32).

37 Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva 38 chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua sgorgheranno dal suo seno”. 39 Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato.
Dopo aver evocato la sua origine (7,25-29) e la sua dipartita (7,33-36), Gesù annuncia il dono dello Spirito Santo. In tal modo l’evangelista completa la rivelazione del disegno di Dio a favore dell’uomo. Ambientando il grido di Gesù nell’ultimo giorno, quello più importante, della festa delle Capanne, Giovanni focalizza l’attenzione del lettore sul rito celebrato proprio in questo giorno: la solenne libagione fatta con l’acqua attinta dalla piscina di Sìloe aveva un duplice scopo, quello di implorare la pioggia per il nuovo anno che stava per iniziare e l’auspicio del rinnovamento spirituale di Sion, come annunciato dal profeta Ezechiele mediante il simbolo dell’acqua scaturita dal Tempio per fecondare tutta la terra al suo passaggio (Ez 47,1-12). Gesù non se ne sta seduto come un qualsiasi rabbì che insegna (Mt 32,2; 26,55; Mc 12,41), ma sta in piedi, ritto (At 13,16) in atteggiamento profetico ed a gran voce proclama la “sua” verità, valida allora come oggi: Lui solo può placare la sete di amore, di pace, di infinito e di verità dell’uomo. La sete evoca, nella memoria del popolo ebraico, quella sofferta dai padri nel deserto durante i 40 anni trascorsi nelle lande desolate ed assolate della penisola del Sinai dopo la fuga precipitosa dall’Egitto e viene associata all’aridità spirituale dell’uomo che pretende di fare a meno di Dio, senza riuscirci. Come il Signore ha fatto “scaturire l’acqua dalla roccia di granito” (Dt 8,15) per dissetare, in pieno deserto, il suo popolo assetato e perennemente insoddisfatto, così ora Cristo è pronto a donare Se stesso per placare la sete esistenziale di ogni uomo, che è sempre teso al pieno compimento del proprio essere profondamente radicato nella segreta somiglianza col totalmente Altro. Quando è accolta, la Parola di Dio colma questo desiderio dell’uomo di sentirsi pienamente realizzato perché lo apre alla relazione con l’eterno Vivente. La sete di Dio è un leit motiv dei salmi, specie con riferimento alla liturgia del Tempio, in cui l’orante incontra la Presenza (cf. Sal 42,2-3; 63,2; 143,6). È assai probabile che Gesù, impiegando il termine “sete”, faccia proprio riferimento a questi testi sacri, tanto più che lo usa all’interno del Tempio, dimora per eccellenza del Dio vivente ed eterno: attraverso Gesù i suoi discepoli incontreranno veramente il Padre. Gesù non chiarisce ciò di cui l’uomo ha sete, ma è ovvio che Dio esprima quell’infinita eternità verso cui ogni essere umano è naturalmente proteso e da cui si sente irresistibilmente attratto.
Il grido di Gesù (“Chi ha sete venga a me”) è collocabile in un contesto sapienziale (cf. a questo proposito Is 55,1), secondo il quale l’acqua, che placa ogni sete, è un simbolo della Parola di Dio (Am 8,11; cf. 6,35 in cui si legge che Gesù garantisce di saper soddisfare sia la fame sia la sete dell’uomo durante il discorso sul pane di vita e cf. anche il dialogo di Gesù con la samaritana al pozzo di Giacobbe, specialmente 4,13-14). Gesù invita i suoi ascoltatori a ricorrere a Lui per soddisfare le proprie necessità spirituali e per trovare risposte esaurienti alle personali istanze interiori, proponendo Se stesso come la sorgente scaturita dalla roccia nel deserto (Es 17,6; Nm 20,8.11; Sal 78, 16.20; Is 48,21) o dal Tempio futuro, contemplato in visione dal profeta Ezechiele (Ez 47). Ciò che la festa celebrava nella speranza, trova ora compimento nella persona del Rivelatore, che è sorgente di vita perché fa conoscere agli uomini la verità del Padre: tutti gli uomini sono figli di Dio e, inseriti in Cristo, sono fratelli tra loro e destinati a ritrovarsi tutti insieme nella casa del Padre.
Il credente, che attinge da Gesù l’acqua vivificante e sanante della Parola di Dio, diventa a sua volta fonte di salvezza a motivo del suo intimo legame con Cristo Redentore (“fiumi di acqua sgorgheranno dal suo seno”), cui è intimamente legato come il tralcio alla vite (15,1-6). L’acqua, che scorre copiosa dal cuore (“seno”) di Cristo e di coloro che credono in Lui, è lo Spirito Santo, colui che consola e che difende (Paràclito) gli uomini dalle insidie dell’Accusatore (Satana) nel gran giorno del giudizio finale (Ap 12,10).
Fino a quando non sarà squarciato dalla lancia il cuore di Gesù, ormai morto sulla croce, lo Spirito (“l’acqua”) è una presenza nascosta, che gli uomini non sono in grado né di percepire né di comprendere, ma la cui forza dirompente è pronta ad esplodere nel mondo non appena sarà sprigionato dal costato trafitto di Cristo, obbligando tutti gli uomini a “volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10; Gv 19,37) ed a prendere una decisione personale e moralmente impegnativa nei confronti del Crocifisso. Donato da Cristo a piene mani, senza misura, lo Spirito Santo trasforma gli uomini nel loro intimo più profondo, guidandoli nella comprensione della verità “tutta intera” (16,13) ed arrestandosi solo di fronte all’estremo rifiuto di chi, come i “giudei”, spera di salvarsi confidando nelle proprie forze o che dispera di salvarsi perché “non si fida” (= non crede) del tutto dell’amore misericordioso e perdonante di Dio. A colui che è disposto ad ascoltarlo e ad accoglierlo come Parola incarnata del Dio vivente, Gesù fa il dono di vivere una relazione analoga a quella che unisce Lui stesso al Padre (10,15); ricevendo lo Spirito del Figlio, anche i credenti possono diventare figli “rivolti verso” il Padre ed essere partecipi dell’intima comunione d’amore che unisce le tre Persone divine.
L’evangelista ci ha appena svelato non solo l’origine e l’identità di Gesù, ma anche lo scopo e l’efficacia del suo messaggio e della sua missione: “a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (1,12). Per ottenere dal Padre tale privilegio, dal quale nessun essere umano deve sentirsi escluso a priori, Gesù si è prima sottoposto alla “glorificazione” della morte di croce, la via scelta da Dio per realizzare l’intima comunione con gli uomini, redenti dal sangue del Figlio suo. Ponendosi già di là della sua Pasqua, Gesù dirà ai discepoli nel discorso d’addio: “Io sono nel Padre e voi in me ed io in voi” (14,20).
Le parole di Gesù scatenano nuove polemiche tra la gente, rinnovando la divisione tra chi è disposto a credere in Lui e chi invece lo vorrebbe morto perché ne rifiuta il messaggio.

40 All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: “Questi è davvero il profeta!”. 41 Altri dicevano: “Questi è il Cristo!”. Altri invece dicevano: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? 42 Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?”. 43 E nacque dissenso tra la gente riguardo a lui. 44 Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso.
Come già i Galilei dopo il miracolo del pane dato in abbondanza, alcuni dei presenti nel Tempio di Gerusalemme vedono in Gesù il Profeta simile a Mosè (6,14), mentre altri esprimono la convinzione (non la semplice ipotesi come in 7,26.31) che Egli sia il Messia. Appare evidente che la questione della messianicità, dopo aver preoccupato i contemporanei di Gesù, rimaneva un argomento discusso e causa di accesi dibattiti anche all’epoca in cui l’evangelista aveva composto il IV Vangelo. L’origine galilaica di Gesù creava imbarazzo ai benpensanti giudei, i quali, Scrittura alla mano, sostenevano con assoluta convinzione e come un punto fermo la discendenza davidica e giudaica del Messia (2Sam 7; Mi 5,1; Is 7,13ss; 9,6; 11,1; Sal 18,51). Evidentemente, la nascita di Gesù proprio nella borgata di Betlemme, situata quasi alle porte della Città Santa di Gerusalemme, non era nota al di fuori della stretta cerchia degli intimi di Gesù. I Sinottici, in verità, sostengono l’origine davidica e giudaica del Messia Gesù (Mt 1,1-17; Lc 1,32; 2,4) e richiamano l’attenzione dei lettori proprio al testo di Mi 5,1 citato dalla folla (Mt 2,1; Lc 4,2), ma Giovanni, che pure era a conoscenza della tradizione secondo la quale Gesù era originario di Betlemme, non sembra darvi molto peso, quasi a voler fare intendere che queste argomentazioni della gente circa l’origine del Messia non meritano risposta, dando ragione a Gesù il quale aveva già dichiarato che non si può e non si deve giudicare alcuno secondo le apparenze. A Giovanni non interessa l’origine “umana” del Messia, ma la sua origine “divina” e ciò che lo colpisce e turba è la “divisione” (skìsma) che la Rivelazione provoca tra gli uomini.
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07/07/2010 09:52
 
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45 Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: “Perché non lo avete condotto?”. 46 Risposero le guardie: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo! ”. 47 Ma i farisei replicarono loro: “Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? 48 Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi o fra i farisei? 49 Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”. 50 Disse allora Nicodemo, uno di loro, che era venuto precedentemente da Gesù: 51 “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa? ”. 52 Gli risposero: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea ”.
I farisei reagiscono inviperiti al mancato arresto di Gesù, maledicendo le guardie perché si dichiarano ammirate dal modo di parlare di Gesù ed ingiuriando Nicodemo, un loro pari, che pone la questione relativa alla predicazione di Gesù su un piano giuridico e religioso assolutamente legale e di chiaro buon senso: la Legge di Mosè, tanto citata dai farisei, vieta di condannare un uomo senza giusto processo ed equo giudizio. Ma tant’è, i farisei hanno già da qualche tempo preso la decisione di eliminare quel “galileo” scomodo, forse indotti dal timore di perdere il loro potere religioso ed intellettuale: chi non appartiene alla loro scelta schiera di “intenditori” della Legge è un “maledetto”. L’episodio squalifica, de facto, i giudici di Gesù, accusati dall’evangelista di essere dei faziosi e dei prevenuti in malafede. Per bocca delle guardie, persone generalmente rozze e poco istruite ma abili nel maneggiare le armi e pronte ad obbedire agli ordini ricevuti senza farsi tanti scrupoli morali, emerge con grande rilievo psicologico il contrasto tra la Parola di Dio, “fattasi carne” (1,14) per essere meglio compresa dagli uomini (“mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo! ”) e le “parole” degli uomini (i farisei), che esprimono arroganza e presunzione. Un uomo come Gesù viene squalificato dai farisei come “profeta” non perché non sappia parlare a nome di Dio, ma perché è di origine galilaica! Il pregiudizio etnico, religioso e culturale acceca l’intelligenza dell’uomo, che non sa più distinguere tra ciò che “è” e ciò che “appare”. Dalle parole, pronunciate con tanta ammirazione dalle guardie, emerge anche un’altra sottolineatura evidente: la forza bruta (le guardie) è più debole della forza della Parola (Gesù). Come afferma s. Paolo, (2Tm 2,9): “la Parola di Dio non è incatenata” ed è impossibile arrestarla (“alcuni volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise la mani addosso”) o piegarla alle egoistiche esigenze umane, anche se Dio sa quanti uomini più o meno famosi hanno tentato, nel corso della storia, di appropriarsi della Parola di Dio per dare una patente di autorevolezza e di dignità alle loro azioni malvagie. Il grido “Dio è con noi” è risuonato sulla bocca di molti assassini, che hanno voluto o preteso di giustificare come giusti dei massacri iniqui ed esecrabili, in netto contrasto con la Parola mite, misericordiosa, pacificatrice e perdonante di Dio.
I farisei usano la forza e ricorrono astutamente all’argomento più ovvio per esercitare la loro pressione sulla coscienza del popolo “ignorante”: la conoscenza minuziosa e pedante di tutta la Legge conferisce loro una riconosciuta autorità in campo intellettuale, religioso e morale e li autorizza a “maledire” chi non è in grado di osservare, come loro, le minuzie legali. I farisei sono l’esemplificazione di chi è pronto a tradire lo spirito della Legge divina per cullarsi nelle certezze rassicuranti della legalità, basata sulle eccezioni alle eccezioni della Legge (legalismo). Ai farisei “ipocriti”, preoccupati più di apparire che di essere, Gesù non ha mai risparmiato i suoi aspri rimproveri, essendo in grado di “leggere” nel profondo del loro cuore le vere intenzioni sottese alle loro azioni, spacciate per virtuose e smascherate da Gesù come inique e malvagie. Per i farisei è giunto il momento di presentare a Gesù il conto della loro vendetta.
L’anatema sul popolino, troppo sprovveduto per osservare integralmente la Legge, non è una trovata dell’evangelista per giustificare l’indignazione dei farisei, ma un comportamento assai ben attestato dalla letteratura rabbinica, secondo la quale la conoscenza della Legge è assai superiore alla pratica di quanto è in essa contenuto. Riconoscendo a Gesù un modo di parlare che non ha eguali, le guardie si collocano tra coloro che hanno a cuore la volontà di Dio (7,17), ma per i notabili ebrei la conoscenza della Legge è oggetto di una scienza riservata alla loro casta, mentre, al contrario, essa dovrebbe essere la Legge che esige da loro di agire con giustizia e di discernere le vie di Dio. È quanto rimprovera loro con molto garbo e tatto Nicodemo, secondo cui la Legge sta al di sopra d’ogni pregiudizio umano. In questo senso, Nicodemo dimostra di essere un miglior conoscitore dello spirito della Legge rispetto ai suoi compari farisei. Il senso del suo intervento è ovvio: prima di giudicare occorre ascoltare l’accusato e conoscere i fatti. I verbi messi in bocca a Nicodemo dall’evangelista Giovanni, però, andrebbero valutati secondo una prospettiva teologica che risulta un po’ differente rispetto a quella giuridica, come sarebbe ovvio attendersi ad una lettura superficiale del testo. Infatti, secondo gli esperti nella Torâh non si fa cenno ad un’audizione dell’imputato durante una procedura processuale, bensì all’audizione dei testimoni a carico. Ascoltare, sapere (conoscere) e fare sono verbi usati dall’evangelista con significati teologicamente assai pregnanti.
Ascoltare (in greco, akùein) è spesso usato da Giovanni col significato di un ascolto spirituale, che conduce ad un’accoglienza di fede ed ha, pertanto, un significato simile a quello di credere. L’implicita accusa, fatta da Nicodemo ai farisei, è di una preclusione intellettuale e spirituale ad avere fede in Gesù a causa della loro arroganza. I farisei non solo non ascoltano, non hanno fede, ma neppure sono disposti ad ascoltare ed a credere.
Sapere, o l’equivalente conoscere, significa saper cogliere la rivelazione che promana dall’agire di Gesù, il cui valore specifico consiste nel fare o compiere l’opera del Padre (i “segni”).
Solo chi sa ascoltare, cioè accogliere la Parola di Dio (Gesù Cristo), è in grado di conoscere la relazione intima tra Dio e Gesù e può, con buon diritto, pronunciarsi su Gesù giudicandolo dalle opere che Egli compie. Sembra di poter leggere, nelle parole di Nicodemo, il cammino di fede compiuto da quest’uomo onesto dalla notte dell’incontro col Maestro (3,1-21) venuto dalla lontana e mal tollerata terra di Galilea, una regione che i presuntuosi giudei giudicavano “impura” per la sua vicinanza con le popolazioni pagane. Dopo l’incontro notturno con Gesù, Nicodemo si è aperto alla lettura della Legge da interpretare come un cammino interiore, che conduce al mistero di Cristo (5,46ss). Se la questione sollevata da Nicodemo può essere letta in senso apparente o reale, certamente l’evangelista mira al solo senso reale: i farisei trasgrediscono la Legge, in nome della quale condannano Gesù, non tanto perché violano la procedura giuridica quivi contenuta, ma perché sono sordi al messaggio che essa contiene: essere propedeutica all’incontro di fede con Cristo Gesù.
La replica dei farisei a Nicodemo è astiosa ed insieme pretestuosa; ad un loro pari, essi ordinano di “studiare” la Scrittura e di mettersi il cuore in pace, perché dalla Galilea non può venire profeta alcuno (anche se ciò non è vero, visto che il profeta Giona ben Amittai era originario di una località a 5 km da Nazareth, come riferito in 2Re 14,25). Forse i farisei non fanno riferimento ad un profeta generico, ma al Profeta preannunciato da Mosè (Dt 18,15) come suo degno successore e pari a lui in autorità e carisma profetico.
Invitando Nicodemo a studiare bene le Sacre Scritture, i farisei condannano se stessi e la loro presuntuosa conoscenza della Legge. Nonostante il loro “scrutare” la Parola di Dio, non hanno capito nulla di ciò che essa ha “detto” agli uomini e sono rimasti prigionieri della loro “maledetta ignoranza” di Dio.

Io sono
(Gv 8,12-59)

Il capitolo 8 è tra i più discussi dell’intero testo evangelico di Giovanni. Esso presenta il seguito dell’insegnamento iniziato da Gesù durante la feste delle Capanne ed interrotto, dal punto di vista narrativo, dall’episodio assai controverso dell’adultera salvata da Gesù da un sicuro linciaggio mediante lapidazione (7,53-8,11).
Gesù sta insegnando all’interno dell’area sacra del Tempio, presso la camera del tesoro, adiacente alla spianata riservata alle donne. La sala del tesoro del Tempio era un luogo chiuso ed inaccessibile al pubblico (Ne 10,39; Mt 27,6) ma tutti i giudei, donne comprese, avevano accesso ai tredici recipienti a forma di tromba, in cui venivano raccolti i doni e le offerte da destinare al culto ed ai sacrifici. In occasione della festa delle Capanne venivano eretti, nell’atrio delle donne quattro enormi lampadari d’oro e nelle loro grandi coppe d’oro veniva versata una grande quantità di olio (circa 65 litri per ogni lampadario). I lampadari sopravanzavano le mura di cinta del tempio e, durante la notte, essi diffondevano la loro luce su tutta Gerusalemme, illuminandola quasi a giorno. Oltre che dalla luce, la Città Santa era rallegrata dai canti e dal suono dei cembali, delle arpe e delle cetre che ritmavano le danze degli uomini, nelle cui mani brillavano le torce accese e le cui movenze contribuivano a creare un clima di festa e di giubilo collettivo e, nello stesso tempo, a fornire uno spettacolare gioco di luci.
Il clima gioioso della festa viene in qualche modo guastato da una disputa drammatica tra Gesù ed i farisei, all’improvviso rimpiazzati dai “giudei” ostili al rabbì venuto dalla Galilea.
Gv 8,12-59 si presenta come una grande inclusione racchiusa dalla solenne auto-rivelazione di Gesù, che afferma di essere “IO SONO”, ovvero la rivelazione umana di YHWH, il Dio di Israele, il cui sacro Nome è impronunciabile e generalmente sostituito da appellativi alternativi (come Adonàj, Signore, oppure El Shaddàj, l’Onnipotente, oppure ancora come il Santo di Israele o l’Altissimo).
Il capitolo 8 racchiude, secondo gli esperti, diverse tradizioni, confluite in unità letterarie che il redattore finale ha cercato di armonizzare, creando un dibattito dalle forti tinte espressive ed assimilabile ad un processo consumato ai danni di Gesù, che per un soffio si sottrae ad un linciaggio per lapidazione, tipo di esecuzione capitale prevista per i bestemmiatori.
L’intero capitolo, pertanto, potrebbe essere intitolato “IO SONO” (in greco Egò eimi, 8,12.58), ma tale espressione va intesa correttamente. Gesù dichiara di non “essere” se non mediante Dio, con il quale è in relazione costitutiva. In tal modo, l’Io di Gesù diventa esemplare per ogni uomo: se la fede richiesta ha per oggetto non solo la parola che Gesù pronuncia da parte di Dio ma la sua stessa persona, è perché il discepolo deve riconoscere in Lui il Figlio e quello che egli stesso è chiamato a diventare. Il lettore si trova alla presenza del Lògos di Dio, che si esprime in Gesù di Nazareth. A ben vedere, il capitolo 8 del IV Vangelo fa da contraltare al Prologo.
Dal punto di vista della forma, questo capitolo non è un vero e proprio dialogo, se per dialogo s’intende una ricerca serena della verità sia pure sotto la guida di un saggio che “sa”, ma il testo si presenta come un susseguirsi di confronti serrati, che mettono Gesù non solo di fronte a dei malintesi, ma ad un’opposizione sistematica e ad un’incomprensione sostanziale tra Lui ed i suoi interlocutori, quantunque da una parte e dall’altra si faccia uso di un linguaggio che appartiene ad una medesima tradizione culturale e religiosa, quella d’Israele. Ad un certo punto del confronto serrato, Gesù è costretto a prendere atto dell’incomunicabilità esistente tra Lui ed i suoi avversari giudei: “Perché non comprendete il mio linguaggio?” (8,43), chiede sconsolato ai suoi uditori rigidamente fermi sulle loro posizioni ed incapaci di afferrare il senso delle sue parole. Al culmine del rifiuto del mistero racchiuso in Gesù, si verifica il tentativo del linciaggio, che obbliga Gesù a “ritirarsi” e ad “abbandonare” il Tempio, fatto di una valenza simbolica inquietante (cf. Ez 10,18-22).
Occorre precisare che il testo evangelico riflette la situazione storica e l’ambiente vitale (Sitz im Leben) della comunità cristiana guidata dall’apostolo Giovanni, alcuni membri della quale, specie quelli di provenienza giudaica (i cosiddetti giudeo-cristiani), avvertivano acuto il disagio per essere stati estromessi dalla sinagoga e “maledetti” come eretici dal loro popolo di appartenenza, per aver voltato le spalle alla Legge mosaica ed aver scommesso il proprio futuro seguendo le orme dell’Uomo-Dio. Molti di questi cristiani tentennanti e nostalgici del giudaismo erano seriamente tentati di abiurare la nuova fede e rientrare nell’alveo rassicurante della fede dei padri. Le dure parole pronunciate da Gesù contro i farisei ed i giudei nel Tempio di Gerusalemme sembrano suonare come un monito severo di condanna nei confronti di coloro che sono pronti a tradirlo ed a respingere il dono della salvezza, cadendo nelle mani di Satana e diventandone “figli e schiavi”.

8,12 Di nuovo Gesù parlò loro: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”.
Nel Nuovo Testamento, il tema della luce si sviluppa secondo tre linee principali:
1-come il sole illumina una strada, così è “luce” tutto quello che rischiara la strada che conduce verso Dio; un tempo erano la Legge, la sapienza e la Parola di Dio (Qo 2,13; Pr 4,18-19; 6,23; Sal 119,105), ora è il Cristo (Gv 1,9; 9,1-39; 12,35; 1Gv 2,8-11; Mt 17,2; 2Cor 4,6), paragonabile alla nube luminosa dell’esodo (Gv 18,12; Es 13,21ss; Sap 18,3ss), ma anche ogni cristiano che manifesta Dio agli occhi del mondo (Mt 5,14-16; Lc 8,16; Rm 2,19; Fil 2,15; Ap 21,24);
2-la luce è simbolo di vita, di felicità e di gioia, mentre le tenebre sono simbolo di morte, di sventura e di lacrime (Gb30,26; Is 45,7; Sal 17,15+). Alle tenebre della prigionia si oppone la luce della liberazione e della salvezza messianica (Is 8,22-9,1; Mt 4,16; Lc 1,79; Rm 13,11-12), che raggiunge anche le nazioni pagane (Lc 2,32; At 13,47) mediante il Cristo-luce (cf. i testi di Gv citati sopra; cf. anche Ef 5,14), per consumarsi nel regno dei cieli (Mt 8,12; 22,13; 25,30; Ap 22,5);
3-il dualismo luce-tenebre caratterizza i due mondi opposti del bene e del male. Nel Nuovo Testamento affiorano i due “imperi”, sottomessi l’uno al dominio di Cristo e l’altro a quello di Satana (2Cor 6,14-15; Col 1,12-13; At 26,18; 1Pt 2,9). L’uno cerca di sconfiggere l’altro (Lc 22,53; Gv 13,27-30), mentre gli uomini si dividono in “figli della luce” e “figli delle tenebre” (Lc 16,8; 1Ts 5,4-5; Ef 5,7-8; Gv 12,36) secondo che vivano sotto l’influenza della luce (Cristo) o delle tenebre (Satana) facendosi riconoscere tramite le opere che compiono (Mt 6,23; 1Ts 5,4s; 1Gv 1,6-7; 2,9-10; Rm 13,12-14; Ef 5,8-11). Tale separazione o “giudizio” (in greco, krìsis) tra gli uomini si è resa manifesta con la venuta della luce, che obbliga ciascuno a pronunciarsi per o contro di essa (Gv 3,19-21; 7,7; 9,39; 12,46; Ef 5,12-13). La prospettiva resta ottimistica: le tenebre dovranno un giorno sparire davanti alla potenza invincibile della luce (Gv 1,5; 1Gv 2,8; Rm 13,12).
Di nuovo. Con quest’avverbio di tempo, l’evangelista si ricollega al dibattito contenuto nella pericope 7,14-52 di cui l’inserimento dell’episodio dell’adultera, molto probabilmente appartenente alla tradizione sinottica e non del tutto coerente con il linguaggio teologico proprio di Giovanni, ha interrotto in qualche modo il filo logico. Come tutti gli ebrei che affollavano Gerusalemme in occasione della festività delle Capanne, anche Gesù osservava ammirato la spettacolare illuminazione della città per opera dei grandi bracieri che erano stati eretti nell’atrio del Tempio riservato alle donne. Gesù, però, ha la consapevolezza d’essere assai superiore alla luce della festa notturna, che illumina e rallegra tutta Gerusalemme; Egli è la “luce” che illumina il mondo intero. Nella sua coscienza è maturato il superamento dei confini del mondo giudaico (11,52) e si è sviluppata la convinzione di essere venuto al mondo come luce escatologica (3,19; 12,46) per donare a tutti gli uomini la luce e la vita. Fin dal “principio”, cioè dall’eternità, il Lògos era la luce degli uomini (1,4) ma, con la sua venuta storica, diventa tale in modo unico e speciale (1,9).
Io sono la luce del mondo. Il ruolo rivelatore e salvifico di Gesù è definito dalla formula d’auto-presentazione tipica del Dio d’Israele, YHWH (“Io sono”) e dal simbolo evocatore della luce, senza la quale il mondo sarebbe perennemente immerso nelle “tenebre” del nulla esistenziale, della malvagità, dell’ignoranza, della totale assenza di qualsiasi progetto di vita. C’è una stretta correlazione tra la “luce” e la “vita” (1,4.9-10), intesa non tanto in senso biologico (bìos) quanto piuttosto in senso ontologico, esistenziale (zoè) ed attributo costitutivo dell’eterno Vivente (Dio), origine e fine d’ogni esistenza. Coloro che ascoltano la rivelazione di Cristo, Parola eterna del Dio vivente “diventata carne” nell’Uomo-Gesù e credono in Lui, diventano “figli della luce” (12,36). L’attività storica del rivelatore si è assoggettata al dominio del tempo materiale, di cui il sole, luce di questo mondo, scandisce il fluire delle ore, dei giorni e delle stagioni (9,4ss; 11,9ss), ma il tempo riservato alla dimensione umana della Parola di Dio sta per scadere, perciò Gesù sollecita i suoi interlocutori ad affrettarsi a prendere una decisione di fronte alla rivelazione.
Chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita. La seconda parte della frase d’auto-rivelazione annuncia una promessa, formulata dapprima in forma negativa (“non camminerà nelle tenebre”) e poi in forma positiva (“ma avrà la luce della vita”), sottolineando il forte contrasto esistente tra la luce, che proviene dall’alto, cioè da Dio e le tenebre, che soffocano ed uccidono nella loro incredulità coloro che abitano in basso, nel regno di satana (1,5; 8,23). Per gli gnostici esisteva una duplice realtà metafisica, l’una soggetta al Dio del bene e destinata alla salvezza, in virtù della conoscenza della propria appartenenza al regno della luce e l’altra, invece, soggiogata al Dio del male e destinata alla distruzione totale. Per Giovanni il dualismo luce-tenebre non si consuma sul piano metafisico, bensì su quello storico ed umano della decisione a favore o contro la parola del Redentore. La fede in Gesù Cristo viene espressa dal verbo “seguire” (“chi segue me”), assai usato dalla tradizione sinottica per indicare dapprima la vocazione dei discepoli e poi quella degli ascoltatori di ogni tempo a diventare dei credenti in Cristo e suoi imitatori. La sequenza dinamica della fede si basa su queste tappe fondamentali: chiamata (o vocazione) da parte di Dio, sequela messa in atto liberamente e consapevolmente da parte dei chiamati, imitazione del Maestro divino da parte dei discepoli, ingresso nel regno della luce da parte di coloro che sono rimasti fedeli alla vocazione ed hanno creduto nonostante le avversità della vita e gli attacchi provenienti dal regno del male (“non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”). Rispetto ai Sinottici, secondo i quali la sequela era originariamente da intendersi come una chiamata di singoli uomini ad unirsi a Gesù in una comunione più stretta e, successivamente, fu estesa dagli stessi evangelisti alla situazione degli ascoltatori dei tempi futuri, Giovanni ha compiuto un passo ulteriore ed ha equiparato la sequela di Gesù all’unione di fede con Lui, possibile in ogni tempo e richiesta a ciascun uomo per la sua salvezza. Seguire Cristo compiendo un cammino di fede implica la volontà di non retrocedere di fronte alle difficoltà, neppure di fronte al martirio di sangue (13,36ss; 21,19.22); la morte, intesa non solo in senso fisico, bensì anche in senso metafisico (cioè come morte a se stessi, ai propri istinti primordiali) diventa quasi un passaggio obbligato per raggiungere Cristo nella gloria (12,26). Per seguire Cristo ed avere fede in Lui occorre saper ascoltare, nella più totale obbedienza, la voce del Rivelatore, dimostrando nei fatti di appartenere a Lui solo (10,4.5.27). Giovanni ha elaborato questo pensiero ponendo l’accento sul contrasto stridente tra luce (phòs) e tenebra (skotìa), vocabolo tipico dell’autore del IV Vangelo.
Camminare nelle tenebre non è espressione da intendersi esclusivamente in senso etico (come in 1Gv 2,11), ma anche in senso esistenziale; senza la luce della vita divina e della rivelazione salvifica, l’uomo non ha né meta né direzione e non sa dove va (12,35). Lontano da Dio, l’uomo non ha più speranza ed è abbandonato al suo destino mortale, cadendo nella sfera della morte eterna. In questo senso, il verbo “camminare” (cf. anche 11,9ss; 12,35; 1Gv 1,6ss; 2,11) è rigorosamente mutuato dal pensiero giudaico, che considera la vita dell’uomo un camminare sotto la guida e la disposizione di Dio, sotto il suo appello od il suo comandamento.
A chi si unisce a Lui nella fede, Gesù promette la luce della vita (zoè) eterna nella sfera divina della luce (cf. 1Gv 1,7) mediante la partecipazione all’eterna vita di Dio. Il verbo avere espresso al futuro (“avrà”) appartiene al linguaggio tipico della promessa, che è garantita da Dio in persona: ciò che Dio promette è già di per sé una certezza perché il contenuto delle sue promesse non si realizzerà in un futuro lontano ed incerto, ma piuttosto in un futuro immediato e non avrà mai fine. Chi crede ha già “ora” in pegno la vita eterna (3,16) ed ha la garanzia che vivrà in eterno (6,51.58; 8,15ss; 10,28; 11,26). La parola di Gesù suona come un invito, rivolto a ciascun uomo, a trovare una via d’uscita dalla propria esistenza misera e miserabile seguendolo e confidando in Lui che, grazie alla propria esaltazione sulla croce, ha ricevuto dal Padre il potere di condurre i suoi là dove Egli stesso è per l’eternità (cioè presso il Padre; cf. 12,26; 14,3; 17,24).

13 Gli dissero allora i farisei: “Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera”. 14 Gesù rispose: “Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado. 15 Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. 16 E anche se giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. 17 Nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera: 18 orbene, sono io che do testimonianza di me stesso, ma anche il Padre che mi ha mandato mi dà testimonianza”. 19 Gli dissero allora: “Dov’è tuo Padre?”. Rispose Gesù: “Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”. 20 Queste parole Gesù le pronunziò nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora giunta la sua ora.
Il dibattito vero e proprio inizia con l’intervento dei farisei, che sollevano un’obiezione di carattere giuridico. Essi si soffermano sulla pretesa di Gesù d’essere portatore di luce e donatore di vita e s’inquietano soprattutto di fronte alla formula teofanica da Lui usata (“Io sono”; cf. anche i vv.24.28.58). Sulla base di un principio che affonda le proprie radici nella legislazione biblica e che si prolunga nella giurisdizione ebraica, i farisei rinfacciano a Gesù l’uso improprio di una testimonianza condotta a proprio favore. Gesù respinge l’obiezione dei farisei con una duplice argomentazione, tesa a confermare la validità e legittimità della sua testimonianza riguardo alla sua missione: in primo luogo, Egli è l’unico autorizzato a rendere testimonianza su se stesso perché sa da dove viene e dove va, quindi le credenziali per la sua autotestimonianza coincidono con quelle della sua missione e questa, a sua volta, definisce la sua identità; in secondo luogo, la presenza di una seconda Persona, quella del Padre, rende assolutamente legale il valore della testimonianza che Gesù rende di se stesso. Strettamente connesso al tema della testimonianza, emerge anche la tematica del giudizio (divino sugli uomini).
I farisei, come tutti quelli che si trovano fuori della prospettiva della fede in Cristo, giudicano Gesù secondo criteri storici umani (“voi giudicate secondo la carne”), sia pure ispirati ai modelli religiosi del proprio ambiente culturale e religioso. I suoi contraddittori si arrogano il diritto di giudicarlo da uomini, quali sono, senza essere minimamente legittimati a farlo, perché l’origine divina di Gesù lo sottrae al giudizio improprio ed illegittimo degli esseri umani. Gesù trae da Dio il suo diritto ed il giudizio umano non lo tocca affatto, anche se, sul piano storico, il giudizio degli uomini coincide con una condanna di Gesù alla morte di croce. Mentre gli uomini s’ingegnano in tutti i modi di giudicarlo e condannarlo a morte, Gesù dichiara che esulano dalla sua missione il giudizio e la condanna degli uomini (“io non giudico nessuno”; cf. anche 3,17), anche se la sua parola provoca nei suoi ascoltatori una decisione (krìsis), che rende palese il giudizio di Dio (3,18; 9,39; 12,47-48). Il giudizio di Gesù, pertanto, è autentico ed efficace perché Egli partecipa, per propria natura, al giudizio di Dio Padre, dal quale è stato inviato in missione tra gli uomini (5,22.27). Con questo rimando al Padre, autentico garante dell’attività giudiziale di Gesù, viene preparato il terreno per la ripresa e la conclusione del dibattito circa la legittimità della testimonianza. Anche a rigor di legge, la testimonianza di Gesù è valida ed autentica perché fondata sulla deposizione concorde di due testimoni: la sua e quella del Padre che lo ha inviato.
Anche se Egli rende testimonianza a se stesso, la sua testimonianza è vera e valida perché dotato di una conoscenza chiara, la qualità più importante di un testimone. Gesù, infatti, sa qual è la sua origine e quale la sua meta, per questo conosce veramente e pienamente se stesso e può, quindi, parlare di sé con pieno diritto anche sul piano strettamente giuridico. Egli è il solo che “viene dall’alto”, dal regno celeste di Dio, quindi può “attestare” ciò che ha veduto ed udito (3,31ss), mentre nessun altro può fare altrettanto. Per questo la rivelazione di Gesù deve essere necessariamente un’autotestimonianza. In Dio Padre risiedono la sua origine e la sua meta finale, ma, quale suo Inviato, Gesù deve “parlare al mondo” di ciò che “ha udito da Lui” (8,26). Se le sue parole fossero dette da un semplice uomo, sarebbero segno di grandissima e sfacciata presunzione, ma dette da Lui, che è il Rivelatore escatologico e l’unico deputato a riportare le notizie su Dio, tali parole non possono essere diverse, comprese quelle riguardanti la testimonianza resa a se stesso. Gesù non può che riferire le “parole” di Dio suo Padre, anche se gli increduli non possono o non vogliono comprenderle (8, 25.43.46ss).
Chi cerca nel IV Vangelo l’immagine di un Gesù terreno edulcorato o “addomesticato” a proprio uso e consumo, rimane deluso ed urtato dall’intransigente linguaggio del Cristo giovanneo.
I farisei, però, non demordono e, da buoni conoscitori della Legge e di tutte le sfumature giuridiche in essa contenute, considerano pretestuose le argomentazioni prodotte da Gesù per giustificare la validità della sua autotestimonianza. Secondo la Legge, infatti, l’imputato non può testimoniare su se stesso né tanto meno suo padre, sicché si comprende la domanda successiva: “Dov’è tuo Padre?”. A prima vista, potrebbe sembrare una richiesta piuttosto logica e legittima: ai farisei non dispiacerebbe per nulla mettere a confronto le affermazioni del padre e del figlio e smascherare le menzogne di quest’ultimo, ma Gesù sposta la loro attenzione sul legame strettissimo che lo lega al Padre, tanto che la conoscenza del Figlio comporta necessariamente anche quella del Padre. I farisei sono perplessi, perché sfugge loro la reale consistenza del Padre, invisibile ai loro occhi ma reale, incontestabile e ben visibile per Gesù (cf. 7,28). L’accusa che Gesù rivolge ai farisei in questo caso specifico ed ai giudei in senso più generale (7,28; 8,55) è piuttosto evidente: essi non “conoscono” Dio, pur essendo convinti del contrario, perché non hanno riconosciuto il suo Inviato e lo hanno, anzi, respinto. Ogni presunta conoscenza di Dio e della salvezza diventa impressionante e colpevole ignoranza se non si crede in colui che ha la vera conoscenza di Dio e che può rivelare la via della salvezza, cioè suo Figlio. Questa “ignoranza” di Dio da parte degli uomini in senso generale e da parte delle autorità religiose del mondo giudaico, in particolare, è indicata dall’evangelista come la causa principale delle persecuzioni subite dai discepoli di Gesù (15,21).
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07/07/2010 09:53
 
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Quelle di Gesù non sono semplici parole umane, ma sono parole divine di rivelazione (3,34; 8,47; 12,47ss), piene di Spirito e di vita (6,63.68) e sono pronunciate all’interno di un luogo sacro, in un posto accessibile a tutto il popolo come la “camera del tesoro” (gazofulakèion), citata anche da Mc 12,41.43 e da Lc 12,1 a proposito dell’obolo offerto dalla vedova. Quantunque i farisei siano decisissimi a toglierlo di mezzo, a Gesù non succede nulla di male perché l’ora della sua passione e morte non è ancora giunta, anche se si sta avvicinando a grandi passi.
Gesù continua la rivelazione ponendo l’accento sul distacco esistenziale ed ontologico esistente tra lui, il Rivelatore che viene da Dio (“dall’alto”) ed i suoi interlocutori umani, che appartengono a questo mondo materiale (“di quaggiù”), corrotto dal male.

21 Di nuovo Gesù disse loro: “Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire”. 22 Dicevano allora i giudei: “Forse si ucciderà, dal momento che dice: Dove vado io, voi non potete venire?”. 23 E diceva loro: “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. 24 Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”. 25 Gli dissero allora: “Tu chi sei?”. Gesù disse loro: “Proprio ciò che vi dico. 26 Avrei molte cose da dire e da giudicare sul vostro conto; ma colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui”. 27 Non capirono che egli parlava loro del Padre. 28 Disse allora Gesù: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. 29 Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite”. 30 A queste sue parole, molti credettero in lui.
La nuova fase del dibattito si apre con una dichiarazione di Gesù, che parla ancora della sua “partenza” e della vana ricerca dei giudei (cf. 7,33-34.36), ma con una nota minacciosa nel suo modo di parlare per enigmi: coloro che lo cercheranno inutilmente, perché non potranno raggiungerlo, moriranno “nel loro peccato”. Tale espressione è tipicamente biblica e significa che ciascun uomo è responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte di vita, per cui chi compie azioni inique va incontro inevitabilmente ad un destino di morte (cf. Dt 24,16; Ez 3,18-19; 18,24-26). Nel linguaggio teologico di Giovanni, il peccato coincide con il rifiuto radicale della rivelazione di Dio resasi manifesta in Gesù di Nazareth (9,41; 15,22.24; 16,9). Di questo peccato non si sono macchiati soltanto i giudei increduli, bensì tutti coloro che, complessivamente, costituiscono il “mondo” nella sua realtà negativa opposta al progetto salvifico di Dio Padre. Il culmine di questo rifiuto da parte del “mondo” è raggiunto con la condanna a morte di Gesù, la “luce” mandata da Dio per illuminare gli uomini. Nel loro infame tentativo di eliminare la “luce della vita”, gli oppositori di Gesù restano per sempre prigionieri delle tenebre della morte eterna. L’evangelista sottolinea il nesso tra il peccato di incredulità e la morte nel suo duplice aspetto: la morte di Gesù, il quale è respinto e rifiutato dagli uomini e la morte del peccatore, che si ostina a non credere in Lui.
I giudei fraintendono le parole di Gesù ed ironizzano in modo maligno sulla sua annunciata “partenza”. Con la sua ostinata opposizione alle autorità giudaiche, Gesù si è già condannato da solo alla morte di croce e si è, per così dire, suicidato; di certo, i giudei non vogliono fare la stessa fine di Gesù e se ne guardano bene dal seguirlo fino a quelle estreme conseguenze. Se Gesù ambisce di morire sulla croce infame, faccia pure: loro, i farisei e le autorità giudaiche, non sanno che farsene di un messia squilibrato che aspira al suicidio, considerato in seno al giudaismo come un peccato assai grave, tale da escludere il suicida dall’éone futuro.
Anche se Gesù va volontariamente incontro alla morte, per una scelta libera e personale di assoluta fedeltà a Dio Padre ed agli amici (10,17-18; 15,3), ciò non toglie che la sua condanna a morte sia il frutto di un conflitto e di un’ostilità religiosa nella quale si consuma il “peccato” dei giudei (e delle autorità di Roma). Gesù cerca di chiarire il significato vero del proprio sacrificio volontario facendo leva sulla propria origine, che non è “di questo mondo”: poiché Egli “viene” da Dio, la sua morte coincide col suo “ritorno” a Dio (16,28). Gesù non appartiene a questo mondo, come vi appartengono i suoi oppositori; Egli è “dall’alto” mentre essi sono “dal basso” (8,23) e tale contrapposizione spaziale esprime l’abissale distanza ontologica e spirituale che esiste tra Dio e l’uomo, espressa dalla realtà “carnale”, debole, fragile e peccatrice che caratterizza l’essere umano. Non solo l’uomo è carne e sangue (sàrx), ma è anche ostinatamente chiuso in se stesso ed ostile al dono gratuitamente ricevuto da Dio (1,13; 3,3.6.31.32). La radicalità del rifiuto della salvezza da parte degli uomini increduli viene resa dall’evangelista con l’espressione “questo mondo”, in evidente contrasto conflittuale con “l’altro” mondo, quello di lassù, dove tutto trova pienezza di vita e di senso perché tutto è illuminato dalla luce eterna di Dio (cf. 12,31; 16,11;17,14.16; 15,19).
Morirete nei vostri peccati. Il peccato radicale d’incredulità non rimane un’entità astratta, ma si concreta storicamente nella sconcertante molteplicità permanente dei peccati, commessi dall’uomo come conseguenza di un rifiuto esistenziale ad accogliere Gesù come “luce” del mondo e fonte di “vita” (8,24). Per liberarsi dalla stretta della morte dello spirito, di cui il peccato è la volontaria e consapevole premessa, l’uomo deve credere che Gesù è “Colui che era, che è e che sarà” (è questo il significato di YHWH, usualmente tradotto con “Io Sono colui che Sono”) in rapporto all’uomo ed all’intero universo creato. Per salvarsi, l’uomo deve accettare che Gesù Cristo è il “volto umano di Dio Salvatore e Redentore”. Sullo sfondo dell’auto-designazione di Gesù come “Io Sono”, stanno le formule dei testi biblici della rivelazione di Dio, il più noto dei quali è quello di Es 3, 14-15, dove la formula “Io Sono” è presentata come il nome del Dio dei padri, il Signore fedele che si fa presente e s’impegna a salvare il suo popolo (cf. anche Dt 32,39; Is 43,10ss). Solo così si spiega l’accanimento mostrato dalle autorità giudaiche di eliminare Gesù come bestemmiatore (cf. 18,28.31-32.35; 19,11.16).
Chi sei tu? I giudei hanno compreso benissimo che Gesù avanza una pretesa particolare, ma, poiché non credono, Egli rimane loro estraneo. Si potrebbe rendere la loro domanda come una provocazione: chi pretendi di essere? Gesù non risponde direttamente né vorrebbe dire altro di Sé a quegli ostinati avversari, ma fa un’affermazione che suona come una minaccia di giudizio e di condanna della loro ostinata incredulità. N’avrebbe di cose da dire sul loro conto, ma non è questo il motivo per cui Egli è venuto al mondo. Il suo compito è solo quello di annunciare la salvezza, non quello di pronunciare sentenze di condanna: per assumere questo suo legittimo ruolo di giudice escatologico c’è ancora tempo. Ora è il tempo dell’annuncio della salvezza, ma il tempo del giudizio è solo rimandato.
Anche a coloro che, di lì a poco, lo condanneranno a morte, Gesù offre la possibilità di salvarsi se nel crocifisso sapranno scorgere e riconoscere l’Inviato di Dio. L’evangelista invita i cristiani della sua comunità a non essere tentati di scorgere nella vicenda storica di Gesù Cristo il segno di un fallimento totale, frutto di un abbandono da parte di Dio, bensì la prova suprema del suo amore e della sua fedeltà a Dio Padre ed agli uomini, ossia il compimento pienamente riuscito della sua missione d’Inviato ultimo e definitivo di Dio (8,28-29). Non a caso l’evangelista conclude questa seconda sequenza del confronto fra Gesù ed i giudei con un’annotazione ottimistica: “molti credettero in lui”. Sembra quasi che l’evangelista voglia porre l’accento sul valore intrinseco della testimonianza che Gesù rende a se stesso ed anche al Padre, forte della relazione indistruttibile che Egli ha con YHWH, il Dio d’Israele. In questo caso, la reazione dei presenti sarebbe analoga a quella offerta dalle guardie, mandate ad arrestare Gesù, che ritornano dai loro capi e mandanti affermando che “nessun uomo ha mai parlato come parla costui” (7,46).
A questo punto inizia la terza ed ultima fase dello scontro verbale tra Gesù ed i giudei, la cui conclusione scontata è un nuovo tentativo di linciaggio ai danni di Gesù.

31 Gesù allora disse a quei giudei che avevano creduto in lui: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; 32 conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. 33 Gli risposero: “Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?”. 34 Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35 Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; 36 se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37 So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. 38 Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro”.
La nota redazionale, che introduce la terza fase del dibattito, sembra a prima vista fuori luogo. Com’è possibile che Gesù si rivolga a coloro che hanno creduto in Lui e che da loro riceva dapprima delle minacce e, poi, subisca dagli stessi “credenti” un tentativo di lapidazione? Evidentemente l’evangelista introduce nel dibattito una caratterizzazione della comunità giudeo-cristiana, a capo della quale si trova al momento della composizione del IV Vangelo e che sarebbe formata da “credenti” dalla fede alquanto instabile e tentennante. Questi individui sarebbero o dei giudeo-cristiani di tendenza giudaizzante, più portati a dare importanza alla Legge mosaica ed alle tradizioni religiose del passato, oppure di neoconvertiti inclini all’apostasia o di cristiani dissidenti (ce ne sono molti ancora oggi, convinti di possedere la verità nelle loro tasche!) o, ancora, di ex cristiani che hanno già di fatto abbandonato la fede in modo più o meno traumatico o polemico. Anche per tutti costoro l’evangelista ha composto il suo Vangelo, con lo scopo di sostenere la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, in forma perseverante ed ottenere la vita piena nel suo Nome (20,31). Questa pericope è pervasa da una tensione drammatica che è palpabile in tutto il Vangelo di Giovanni: Gesù non si fida dei credenti di Gerusalemme, ma diffida anche dei credenti della Galilea, affascinati in modo superficiale dai suoi miracoli, come pure di quei discepoli che entrano in crisi dopo il discorso sul pane di vita o di Giuda, uno dei prescelti, che lo tradirà di lì a breve per pochi denari e che Gesù designerà come un “diavolo” allo stesso modo degli pseudo “credenti” lì presenti (8,44), pronti a voltargli le spalle ed a tentare di ucciderlo alla prima occasione favorevole (8,59). Gli interlocutori contemporanei di Gesù hanno avuto una fede effimera ed ora sono pronti a schierarsi con coloro che rifiutano Gesù e lo fanno condannare; simili a costoro sono i cristiani della comunità di Giovanni, che corrono il rischio di abbandonare la fede in Gesù e che sono equiparati ai suoi assassini. A coloro che ascoltano ed accolgono la sua parola, Gesù rivolge un invito ed una promessa: l’invito alla perseveranza e la promessa della libertà nella verità (8,32). Chi crede in Gesù già possiede la luce della vita (8,12), di cui la verità è la premessa necessaria e la libertà il frutto inevitabile. Non basta avere fede per conseguire la vita attraverso la luce della verità e della libertà, ma occorre la perseveranza, senza la quale non si può essere veri discepoli di Gesù (cf. 15,4-16). La reciproca immanenza di Gesù nel Padre e nei credenti è la condizione necessaria per produrre frutti di vita e di verità (cf. 8,51.55) e superare il pericolo della schiavitù dal male, adombrato dall’incombente minaccia della morte eterna. Ai veri discepoli, Gesù promette il dono della piena rivelazione dell'amore salvifico del Padre, diventato realtà storica ed esistenziale nella propria Persona e, attraverso tale rivelazione, garantisce la libertà propria dei figli di Dio (“conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”). Nel linguaggio di Giovanni, la verità coincide con la Parola di Dio, rivelata ed attuata in Gesù di Nazareth al punto che Egli può presentarsi a pieno titolo come la Verità assoluta e vincolante, senza la quale è impossibile partecipare alla vita di Dio (14,6; 17,17). Per giungere alla verità “tutta intera” (16,13) occorre seguire un percorso obbligato, che prevede l’ascolto, l’accoglienza, l’assimilazione interiore e l’attuazione (3,21) della parola di Gesù, Parola eterna, viva e vivificante di Dio Padre.
In questo senso, Gesù è davvero la Verità, perché in Lui si realizzano il dono del Padre ed il suo disegno di salvezza (cf. Ap 3,7; 19,11) e si avverano le realtà annunciate dalla Legge (1,17). Gesù proclama le parole ascoltate dal Padre, che l’ha inviato (3,11; 8,26.40), ci fa conoscere quello che Egli conosce (1,18) e c’invita a credere con fede (3,12; 8,45-47) a Lui, che è la vera luce (1,9), il vero pane (6,48-51), la vera vita (11,24s). Innestato in Cristo (15,1-7), il credente, che “è dalla verità” (18,37; 1Gv 3,19; 2Ts 2,10-12), viene santificato da essa (17,17-19), vi dimora (8,31), vi cammina (2Gv 4; 3Gv 4), la fa (3,21), vi coopera (3Gv 8), adora il Padre in spirito e verità (4,23-24) ed è liberato dalla menzogna (8,44).
I giudei, come il solito, fraintendono il concetto di libertà e di liberazione ed a Gesù, che promette la libertà, essi obiettano di non essere mai stati schiavi di nessuno in virtù della loro appartenenza alla stirpe d’Abramo, grazie alla quale godono, per diritto di nascita, della libertà. L’ombra d’Abramo si allunga, in modo inquietante, sugli stessi giudei che lo invocano come origine della loro appartenenza “genetica” al Dio unico dell’universo; essere discendenti d’Abramo costituisce un privilegio, sbandierato quasi fosse un talismano che protegge il popolo eletto da ogni sciagura. Gesù intende dimostrare ai suoi interlocutori che la loro appartenenza alla stirpe d’Abramo non li preserva da un destino di morte e distruzione, se rifiutano di riconoscere in Lui l’Inviato di Dio, al quale persino Abramo ha reso testimonianza con la propria fede. Essere figli del patriarca Abramo significa vivere come lui, rivolti verso l’Unico da cui Israele riceve e riceverà la vita, ma i giudei hanno stravolto il significato della loro discendenza “etnica”, attribuendole un valore puramente storico-politico e dimenticando la dimensione spirituale della loro appartenenza al popolo che Dio si è scelto, attraverso la fede d’Abramo, per farsi conoscere a tutti i popoli come il Dio unico e vero, che tutti gli uomini devono amare ed adorare. Si può essere “geneticamente “ appartenenti alla grande famiglia d’Abramo, ma al tempo stesso, essere spiritualmente degli estranei al popolo eletto; una simile inquietante osservazione può essere fatta anche per tanti cristiani, che sono tali in virtù del battesimo ricevuto ma sono avversari e nemici di Cristo in forza di scelte di vita contrarie al Vangelo. Alla risentita replica dei giudei (“siamo discendenza di Abramo”), Gesù risponde con una breve sentenza, introdotta dal solenne duplice amen.
“In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”. La colpa di cui si macchiano i giudei, compromettendo la propria salvezza ed alla quale si riferisce Gesù, è la loro incapacità di riconoscere la presenza di Io Sono nel Maestro venuto dalla Galilea e presentatosi come colui che gode di una relazione unica con Dio, che Egli chiama Padre definendo se stesso come il Figlio. Poiché è Figlio di Dio, Gesù ha la vera e piena libertà di stare a proprio piacimento ed in modo stabile nella casa del Padre, mentre i suoi interlocutori, che sono schiavi del peccato, non possono vantare questo privilegio né possono accampare alcun diritto nei confronti di Dio. Gesù allude al diverso destino che segnò la vita di Isacco e di Ismaele; il primo era il figlio che Abramo aveva avuto da Sara, la donna libera e sposa legittima del patriarca, per cui aveva goduto tutti i privilegi propri dell’erede legittimo, mentre il secondo, frutto della relazione di Abramo con la schiava Agar, aveva dovuto lasciare la casa paterna, perdendo così ogni diritto di successione ereditaria (Gen 1,1-16; 21,10-21). Il testo greco rileva la dimensione eterna della residenza del Figlio nella casa del Padre (èis tòn aiòna, per sempre, per l’eternità) alludendo allo statuto nativo di colui che è il Figlio legittimo ed unico di Dio, nel quale si realizzano, in modo eminente, le promesse fatte alla discendenza d’Abramo. Gesù conclude la sua osservazione circa la propria libertà, in evidente contrasto con la schiavitù dei giudei, sentenziando che solo Lui è in grado di donare la libertà ai suoi discepoli, non solo facendo loro superare la minaccia di morte connessa col peccato d’incredulità, ma rendendoli partecipi del suo statuto filiale, assolutamente unico, con Dio.

39 Gli risposero: “Il nostro padre è Abramo”. Rispose Gesù: “Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! 40 Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l’ha fatto. 41 Voi fate le opere del padre vostro”. Gli risposero: “Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!”. 42 Disse loro Gesù: “Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. 43 Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, 44 voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. 45 A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. 46 Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? 47 Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio”.
Se i giudei fossero davvero figli di Abramo, come dicono di essere, non cercherebbero di uccidere Gesù ma, anzi, ne accoglierebbero la parola; la realtà dei fatti, invece, dimostra proprio il contrario. Le intenzioni omicide espresse dai giudei ai danni di Gesù confermerebbero un dato inequivocabile: essi sono figli del diavolo, non d’Abramo.
Ad una simile accusa, i giudei rispondono piccati a Gesù e dichiarano la loro fede in Dio, negando di essere “nati da prostituzione”. Nel linguaggio profetico, la prostituzione esprime l’infedeltà religiosa e l’idolatria (cf. Os 1,2 ss) ed i giudei sono profondamente offesi dalle parole di Gesù, che insinua una loro infedeltà esistenziale al Dio dell’Alleanza. Essi, al contrario, si considerano partecipi, a pieno titolo, dello statuto del popolo di Dio che è stato liberato dalla schiavitù dell’esilio, è divenuto partner dell’Alleanza ed è stato designato destinatario delle benedizioni divine. Alla presa di posizione dei giudei, che rivendicano per sé lo statuto di figli legittimi e membri fedeli dell’Alleanza, Gesù replica con una dura requisitoria per dimostrare che essi non sono figli di Dio, ma, al contrario, figli del diavolo, menzognero, padre della menzogna, omicida e nemico di Dio. Sono le “opere” compiute dai giudei a denunciare la loro vera natura ed origine. Il punto sul quale fa leva Gesù per sostenere la sua tesi è il rifiuto ottuso ed ostinato dei giudei a considerarlo come l’Inviato di Dio e suo portavoce autorevole, veritiero e definitivo. L’incredulità radicale dei giudei è definita con vari vocaboli, cari al linguaggio teologico di Giovanni: essi “non amano” Gesù (8,42), “non comprendono il suo linguaggio” (8,43), “non ascoltano la sua parola” (8,43.47) e “non gli credono” (8,45.46). Questa è la prova irrefutabile che essi “non sono da Dio” (8,47), perché chi è da Dio ascolta le parole di Dio (8,47). Uscito da Dio, Gesù si presenta nel suo nome e, nella sua qualità d’Inviato da Dio, dice in modo inconfondibile la verità di Dio, al punto che nessuno può confutarlo. Se i giudei lo contestano e non gli credono, allora vuol dire che essi sono estranei alla sfera d’influenza divina ed appartengono al nemico giurato di Dio: satana (o diavolo).
Per l’evangelista, il rifiuto radicale di Gesù e del suo Vangelo equivale alla suprema “menzogna” di colui che è maestro nel negare la verità ed è “padre” del male e del peccato. Il conflitto tra Dio ed il principe delle tenebre, satana, assume dimensioni di carattere universale ed è profondamente radicato nella storia dell’uomo (12,31; 13,2.27; 14,30; 16,11), che è sempre in bilico fra la luce e le tenebre; attratto dalla luce abbagliante della verità (Dio), spesso l’uomo si lascia ingannare dall’ingannevole illusione della tenebra (satana), all’ombra della quale cerca di nascondere i propri misfatti agli occhi di Dio. Ispiratore dell’omicida Caino, il diavolo è “padre della menzogna” perché è radicalmente estraneo al mondo di Dio ed al suo progetto di salvezza culminante in Gesù Cristo, che è la verità suprema dell’amore di Dio per gli uomini. Per ostacolare la Verità di Dio, satana non esita a ricorrere alla violenza omicida e cerca di estirpare dal cuore dell’uomo ogni anelito alla verità ed alla salvezza, ricorrendo alle armi più subdole a sua disposizione: la menzogna, l’inganno, l’alterazione sfacciata della realtà. Cercando di uccidere Gesù, i giudei rivelano la loro vera identità “diabolica”.
La reazione rabbiosa dei giudei non si fa attendere e la loro replica è astiosa ed offensiva. Essi ripagano Gesù con la stessa moneta e lo accusano, a loro volta, di essere posseduto da un demonio nel tentativo maldestro di delegittimare la sua missione e sminuire la sua autorevolezza di fronte al popolo d’Israele.
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07/07/2010 09:54
 
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48 Gli risposero i giudei: “Non diciamo con ragione noi che sei un samaritano e hai un demonio?”. 49 Rispose Gesù: “Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate. 50 Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e giudica. 51 In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”.
I giudei scelgono un doppio insulto per cercare di far tacere Gesù, definendolo “samaritano” e “posseduto dal demonio”, cioè eretico, deviante dalla retta dottrina, profeta falso ed illegittimo. Nella sua risposta, Gesù contesta solo la seconda parte dell’accusa (“hai un demonio”) e sorvola sul titolo di “samaritano”, che nelle intenzioni dei giudei dovrebbe essere il massimo dell’offesa ingiuriosa. L’autodifesa di Gesù consiste nel riaffermare il proprio rapporto intimo e privilegiato col Padre, espresso nei termini di una totale e disinteressata dedizione religiosa. Chi si rifiuta di riconoscere a Gesù il suo pieno diritto di proclamarsi vero Figlio di Dio, disprezza ed offende Dio stesso (cf. 5,23). A Gesù non sta a cuore la propria “gloria” personale, come succede ai falsi profeti ed ai falsi messia (cf. 5,41; 7,18), ma la gloria del Padre, per cui rimette la propria causa nelle mani di Dio, che gli renderà giustizia (cf. 12,31; 16,10-11). Nell’autodifesa di Gesù si può riconoscere l’atteggiamento del giusto perseguitato, esempio e modello d’ogni vero credente (cf. Sal 7,9; Sap 3,1-9) che, come Gesù, deve perseguire sempre e in ogni caso la verità nella carità. Il frutto più gustoso della verità annunciata da Gesù è la salvezza eterna, da Lui promessa a chi ascolta la sua Parola e la concreta nella personale realtà esistenziale, facendola diventare luce e guida della propria vita (cf. 8,12.31-32). Come Gesù è intimamente unito al Padre mediante il vincolo dell’amore obbediente e del reciproco ascolto, così il credente può essere reso partecipe di tale comunione vitale ed essere inserito nel dinamismo della vita di Dio se aderisce pienamente al progetto di salvezza, che Dio ha voluto realizzare mediante suo Figlio. Ascoltare la parola del Figlio significa accettare di essere salvati da Dio Padre dalla morte eterna.

52 Gli dissero i giudei: “Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: “Chi osserva la mia parola non conoscerà mai la morte”. 53 Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?”.
I giudei non possono accettare che un uomo qualunque possa pretendere di essere alla pari del capostipite del popolo eletto o di uno qualunque dei profeti dell’antico Israele. Che i giudei rifiutino di mettere sullo stesso piano Gesù ed Abramo, il grande patriarca del quale si sentono tutti legittimi discendenti, può essere anche comprensibile, almeno secondo il loro punto di vista, ma che vogliano contrapporre Gesù ai profeti suona quanto meno strano, se non grottesco. Tutti i profeti d’Israele hanno fatto una brutta fine: c’è chi è stato ucciso, come Isaia o Zaccaria, chi è stato considerato pazzo, come Ezechiele, chi è stato fatto sparire nel nulla, come Geremia, chi è stato considerato uomo da nulla, come Amos (un “pecoraio”, un uomo immondo) od un inetto, incapace di domare la moglie, come Osea. In un modo o nell’altro, tutti i profeti sono stati neutralizzati perché ritenuti scomodi e controcorrente, non allineati con il potere politico e religioso di turno. Giovanni sembra voler sottolineare ironicamente il perfetto accostamento fatto involontariamente dai giudei tra Gesù, il Profeta per antonomasia, ed i profeti di Israele: Gesù è davvero un Profeta, visto che vogliono eliminarlo alla stessa stregua degli antichi e tanto decantati e rimpianti profeti di Israele!
Chi pretendi di essere? È una domanda che ricorre ripetutamente nel corso del racconto evangelico, anche nella versione sinottica: chi è costui? Che dici di te stesso? Non è forse costui il figlio di Giuseppe, il falegname? Da dove gli viene tanta sapienza?
Di fronte a Gesù l’uomo d’ogni tempo s’interroga e cerca risposte convincenti, salvo poi non accettare quella più ovvia e vera perché dà fastidio ed è scomoda. Se Gesù fosse riconosciuto per quello che è, l’uomo non potrebbe accampare scuse alle proprie discutibili scelte in campo religioso ed etico-morale, né potrebbe sottrarsi alle proprie responsabilità di fronte ad un rifiuto palese della Verità; è molto meglio negare la natura divina di Cristo, dandogli tutt’al più il premio Nobel per la bontà e la pace, piuttosto che riconoscere di essere in tutto e per tutto dipendenti da Lui. Accettare il fatto che Gesù è Dio e che parla a nome e per conto del Padre, significa accettare come vere e vincolanti le sue parole ed agire, quindi, di conseguenza. Ma chi è veramente disposto ad amare sempre e comunque? Chi accetta di perdonare le offese ricevute da coloro che sono considerati “nemici” del proprio egoistico “Io”? Chi è pronto a dare gratuitamente ed a non pretendere nulla in cambio? Chi è disposto a sacrificare la propria vita per il bene altrui? Chi si sente pronto ad offrire l’altra guancia alla prepotenza del prossimo ed a reagire al male ricevuto con gesti di bontà e di pace? Coloro che considerano il cristianesimo una religione adatta per gente smidollata, facciano un tentativo di vita cristiana coerente e si accorgeranno che per avere fede in Cristo occorre essere attrezzati di forza e di coraggio sovrumani.

54 Rispose Gesù: “Se io glorificassi me stesso, la mia gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “E’ nostro Dio!”, 55 e non lo conoscete. Io invece lo conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola. 56 Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò”. 57 Gli dissero allora i giudei: “Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?”. 58 Rispose loro Gesù: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, IO SONO”. 59 Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
Piano piano, lo scontro dialettico tra i giudei e Gesù ha raggiunto il culmine dell’incomprensione e del rifiuto, già intuito nel corso del lungo dibattito iniziato presso la sinagoga di Cafàrnao (c. 6) e proseguito nel Tempio di Gerusalemme durante la festa delle Capanne (cc.7-8). La proclamazione della propria origine divina, racchiusa nell’espressione solenne “IO SONO” (8,58), mette in bocca a Gesù il vero motivo della propria condanna a morte: la bestemmia (19,7). Come può Gesù farsi uguale a Dio, l’unico Vivente che può dare la vita a tutti i viventi? A questa domanda, Gesù risponde riaffermando la sua assoluta fedeltà e dedizione al Padre ed esprime questo rapporto unico con il Dio d’Israele in termini di “gloria” e di “glorificazione”. Se Gesù celebrasse se stesso, autoglorificandosi, si porrebbe sullo stesso piano dei falsi profeti (cf. 5,41; 7,18), ma è lo stesso Padre YHWH che glorifica ora il Figlio attraverso i miracoli da Lui compiuti ed attraverso le parole da Lui pronunciate. Il momento culminante della “glorificazione”, ricevuta dal Padre, coinciderà con la morte e la resurrezione del Figlio (12,28; 13,31-32) e sarà un evento al quale pochi saranno chiamati a rendere testimonianza (martyrìa) in prima persona. Molti di più saranno coloro che, fidandosi della testimonianza dei primi testimoni oculari, renderanno a loro volta testimonianza con la propria vita all’Evento della salvezza: la Resurrezione di Cristo Signore, vincitore del peccato e della morte, Re glorioso del tempo e della storia, il Vivente che siede accanto alla Fonte della Vita, Giudice supremo di tutti i viventi, Principio e Fine di tutta la creazione. Attraverso la sua passione, morte e resurrezione, Gesù riceve il certificato di autenticità del suo rapporto unico con Colui che i giudei chiamano e proclamano “nostro Dio! ”. Di per sé, le formule di fede non bastano a mettere in comunione la creatura col suo Creatore perché possono essere false, specie se sono contraddette dai fatti; Gesù, al contrario, può contare su un rapporto di comunione vitale col Padre, basato sull’amore, sulla conoscenza e sulla fedeltà assoluta, che nessun altro essere umano può rivendicare (8,55). La pretesa di Gesù d’essere tutt’uno col Dio d’Israele, non intacca minimamente il fondamento del monoteismo ebraico, semmai ne rivela la profondità del mistero di comunione interpersonale, che si realizza nel puro Amore assoluto e che solo Dio può esprimere.
Superato il nodo centrale della compatibilità tra la fede cristologica ed il monoteismo ebraico, l’evangelista riporta la risposta di Gesù circa il suo rapporto con il patriarca Abramo, il capostipite dal quale discendono gli ebrei. Gesù prende le distanze dai giudei, che ritengono di avere per padre Abramo e, per questo, si sentono dei privilegiati, autorizzati a guardare gli altri esseri umani dall’alto in basso con aria di sprezzante superiorità. Gesù afferma di avere per Padre nientemeno che Dio, l’Onnipotente, l’Altissimo, il cui santo Nome non può essere pronunciato da bocca umana; quale ovvia conseguenza di tale affermazione, Abramo non ha alcun diritto di paternità nei confronti di Gesù, di cui però è stato un lontano testimone e profeta, avendo ricevuto in visione da Dio la lieta novella della salvezza, che avrebbe raggiunto tutti gli uomini grazie ad un membro della sua stirpe umana (cf. Gen 12,3; 22,18). Abramo non è un concorrente di Gesù, bensì un suo assai autorevole testimone, che ha gioito ed esultato nel “vedere” con gli occhi della fede il “giorno” di Gesù, avendo cioè contemplato l’Evento storico della salvezza diventare realtà con la passione, morte e resurrezione di Cristo.
Non è chiaro a quale circostanza o citazione biblica faccia riferimento il testo evangelico nel sottolineare la gioia d’Abramo nel “vedere” il giorno di Gesù. C’è chi pensa alla gioia provata da Abramo nell’apprendere la futura nascita del primogenito Isacco, quando il patriarca e sua moglie Sara erano ormai avanti con gli anni (Gen17,17), mentre altri vedono un’allusione al momento della rivelazione della storia d’Israele concessa da Dio ad Abramo (cf. Gen 15,13ss). Qualche autore pensa alla gioia attuale d’Abramo che, nella sua condizione celeste, s’interessa e partecipa alle vicende d’Israele (cf. Mc 12,26-27). Anche riguardo il “giorno” di Gesù i pareri degli esegeti sono discordi: alcuni lo individuano nell’evento dell’incarnazione (s. Cirillo d’Alessandria, s. Agostino), per altri esso coincide con la morte di Gesù, messa in relazione con il sacrificio di Isacco (s. Giovanni Crisostomo) oppure con la sua resurrezione (Apollinare di Eraclea). Una cosa è certa: per il testo evangelico, anche Abramo gravita nell’orbita messianica di Gesù, che rappresenta il centro ed il culmine di tutta la storia della salvezza, dalla quale nessun essere umano viene escluso a priori. Assumendo il patriarca Abramo come testimone a proprio carico, Gesù invita i giudei ad imitare la fede di questo grande patriarca loro antenato e ad accogliere Lui, il rabbì venuto dalla Galilea, come l’Inviato di Dio nel quale si sono realizzate le promesse messianiche. Il tentativo di dialogo tra Gesù ed i giudei si blocca di fronte all’ennesimo fraintendimento di questi ultimi.
Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo? Fermi nella prospettiva storica e cronologica, i giudei non riescono a cogliere la dimensione profetica e messianica fatta balenare da Gesù alla loro intelligenza e conoscenza della Scrittura. La banale osservazione sull’età di Gesù maschera la rigidità intellettuale e spirituale dei giudei, per i quali Abramo viene “prima” di Gesù non solo in ordine di tempo, ma anche di dignità. La domanda dei giudei è del tutto retorica e suona come ironica, ma Gesù li inchioda alla responsabilità di una scelta radicale di campo: o con Lui, in vista del quale il padre Abramo “ha gioito ed esultato”, o contro di Lui, che è il sogno di Abramo divenuto realtà.
Prima che Abramo fosse, IO SONO. Il confronto tra il grande patriarca, portatore delle promesse di Dio e Gesù, che fa parte della discendenza umana di Abramo, ha un esito scontato. Mentre Abramo è entrato nell’esistenza ed è divenuto parte del processo storico di salvezza ideato da Dio, Gesù è presente già molto prima dell’inizio del tempo e del suo fluire nelle varie epoche storiche. Anzi, Gesù è il progetto di salvezza di Dio; meglio ancora, Gesù è IO SONO, il Dio personale d’Israele (YHWH) diventato UOMO.
Davanti ad un’affermazione così clamorosa ed esplicita fatta da Gesù, i giudei compiono la loro scelta definitiva: raccolgono delle pietre e tentano di lapidare Gesù, il quale “si nascose ed uscì dal Tempio”. I giudei interpretano la proclamazione di Gesù come un’aperta profanazione del Nome di Dio ed intendono punire, seduta stante, la bestemmia con la pena prevista per tale reato: la lapidazione (cf. Lv 24,16). Nell’abbandono del Tempio da parte di Gesù, il narratore evangelista intravede l’abbandono definitivo dell’istituzione templare, che doveva custodire la presenza di Dio in mezzo al suo popolo (cf. anche Ez 10,18-22).
Oggi come allora lo scandalo dell’Incarnazione di Dio tiene molti uomini lontano dalla Verità e soggetti alla potenza del Male, oggettivato dall’evangelista con i termini storici di “mondo” e di “demonio” o “satana”. La lotta combattuta da Gesù contro le potenze del male ha lo scopo di sottrarre l’umanità dall’influenza malefica del signore delle tenebre e portarla alla vita, grazie all’azione vivificante della luce che proviene da Dio stesso, il quale non ha esitato ad incarnarsi e ad assumere le debolezze della condizione umana per “divinizzare” l’uomo e condurlo per mano verso la pienezza di vita e l’eternità, che sono attributi propri di Dio.

Gesù e la donna adultera
(Gv 7,53-8,11)

Questo mirabile racconto non appartiene a Giovanni. Il genere letterario ed il vocabolario utilizzato dall’autore di questa pericope sono estranei allo stile proprio dell’evangelista Giovanni. L’episodio, poi, interrompe in modo maldestro la sequenza dei capitoli 7 e 8, centrati sul tema dell’autoproclamazione divina di Gesù e manca nei manoscritti più antichi. Il primo manoscritto greco che contiene la pericope 7,53-8,11 è il Codice di Beza del V secolo d.C. anche se s. Gerolamo (IV secolo) afferma di averlo trovato in alcuni manoscritti greci e latini a lui anteriori. Pure Didimo (IV secolo) lascia supporre l’esistenza della pericope in un manoscritto alessandrino. L’inserimento del racconto della donna adultera nel testo evangelico di Giovanni potrebbe risalire alla fine del III secolo ed in qualche manoscritto di epoca posteriore il brano viene collocato dopo Lc 21,37ss oppure in appendice al Vangelo di Giovanni. Nella versione latina, il racconto è presente nella Volgata (fine del IV secolo) ed in alcuni testimoni della Vetus Latina. L’episodio viene ignorato dai Padri della Chiesa almeno fino al IV secolo (s. Ireneo, Origene, s. Giovanni Crisostomo), epoca in cui la canonicità della pericope viene sostenuta da alcuni Padri latini (s. Agostino, s. Gerolamo, s. Ambrogio). La prima menzione dell’episodio si trova nella Didaskalìa, un documento ecclesiastico siriano del III secolo, che fa parte delle Constitutiones Apostolorum (II, 24) e che lo cita per esortare i vescovi alla clemenza verso i peccatori.
Per stile e contenuto, il testo si mostra affine ai racconti sinottici, specie a quelli di Luca. A parere di molti esegeti, l’episodio riferito dalla pericope è o potrebbe essere storico almeno nelle sue linee essenziali, dal momento che la pena da applicare in caso di flagrante adulterio era dibattuta e controversa in seno al giudaismo del I secolo. Altri autori, invece, sono del parere che il racconto in questione sia una leggenda sorta nella Chiesa del II secolo, avendovi scorto alcune inverosimiglianze di carattere giuridico, giustificate dai sostenitori della storicità del racconto come semplici lacune di informazione cui si è ovviato ricorrendo alle norme dell’antico diritto di Israele. In ogni caso, il testo non va esaminato come se fosse la cronaca di una controversia penale, bensì come un annuncio della misericordia di Dio, che perdona il peccatore pentito.
Il narratore, in altre parole, ha selezionato gli elementi utili per dimostrare che Gesù porta agli uomini peccatori il perdono gratuito ed escatologico, ultimo e definitivo, di Dio Padre. L’episodio della donna adultera, perdonata da Gesù, ha certamente creato nella Chiesa primitiva non pochi imbarazzi. L’adulterio era un grave peccato, punito presso l’antico Israele con la pena di morte e condannato dalla Chiesa mediante la scomunica, cioè con l’esclusione del cristiano colpevole di tale reato dalla comunione ecclesiale. Il cristiano, che si pentiva e si ravvedeva, doveva sottoporsi ad un lungo periodo di penitenza e non otteneva tanto facilmente il perdono di Dio attraverso l’assoluzione degli uomini. Basti rileggere 1Cor 5 per rendersi conto di quale fosse la posizione della Chiesa primitiva nei confronti degli adulteri, il cui comportamento impediva l’ingresso nel Regno di Dio (1Cor 5,9ss; cf. anche Eb 13,4; 2Pt 2,14). Gesù stesso ha avuto parole dure contro il ripudio della moglie da parte del marito (Mt 19,19). L’adulterio era ritenuto incompatibile con la condizione di battezzato e solo poco alla volta l’istituzione delle pratiche penitenziali permise di reintegrare il peccatore pubblico nella comunità ecclesiale.
Il fatto che la pericope sia stata accolta, seppur tardivamente, nel Canone essendone stata riconosciuta l’autenticità, confermerebbe la veridicità del racconto supportata da una solida tradizione orale (e scritta), nonostante l’iniziale opposizione della prassi pastorale. Non è chiaro il motivo per cui l’episodio dell’adultera perdonata da Cristo sia stato inserito proprio nel punto in cui ora si trova, creando una maldestra interruzione del filo narrativo del testo giovanneo, anche se si possono notare alcune affinità superficiali con le tematiche sviluppate nei capitoli 7 e 8 del IV Vangelo: Gesù sta insegnando nel Tempio, critica chi giudica in base alle sole apparenze o secondo “la carne” (7,24; 8,15), afferma che Egli non giudica nessuno (8,15) ed è minacciato di lapidazione (8,59). L’introduzione della pericope, però, dimostrerebbe che il racconto faceva parte di una narrazione continua ed appare assai evidente la rassomiglianza che conclude, nella versione di Luca, la vita pubblica di Gesù (Lc 11,37ss; cf. anche Mc 11,11; Mt 21,17). L’episodio viene, dunque, collocato alla fine del ministero di Gesù. Scribi e farisei (tipica associazione sinottica, non giovannea) si stanno accingendo a tendere un tranello a Gesù. Se il rabbì propone clemenza si pone contro la Legge di Mosè, se approva la lapidazione della donna adultera contraddice la propria predicazione e delegittima la propria autorità, rischiando per di più di entrare in rotta di collisione con le autorità romane, che solevano riservare a sé le sentenze capitali. I giudei erano profondi conoscitori delle norme legali ed abili dialettici, pazienti ed astuti nel tendere tranelli di questo genere. La questione sottoposta dai giudei a Gesù non era di poco conto in quel contesto storico: era considerata “adultera” la relazione sessuale tra un uomo, sposato o no, ed una donna sposata (o fidanzata) perché un tale rapporto offendeva il diritto di proprietà riconosciuto al marito sulla propria moglie. La Legge era in vigore come principio, ma la sanzione non era necessariamente applicata in ogni caso (Es 20,14; Lv 20,10; Dt 22,22). Sottoponendogli un delitto flagrante e conducendogli la stessa donna colpevole (ma non il correo), gli avversari vogliono mettere Gesù con le spalle al muro costringendolo a pronunciarsi in un modo o nell’altro. La prova del reato è inconfutabile e la questione va ben oltre i confini della pura accademia, essendo in gioco la vita o la morte di un essere umano. Il tranello teso dagli scribi e dai farisei a Gesù è “radicale”.

8,1 Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. 2 Ma all’alba si recò di nuovo al tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. 3 Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, 4 gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5 Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. 6 Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. 7 E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. 8 E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9 Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. 10 Alzatosi allora Gesù le disse: “ Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. 11 Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanche io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.
Le circostanze della cattura della donna, rea d’adulterio, non sono menzionate; resta il fatto che l’uomo, corresponsabile del reato sessuale, è il grande assente e su di lui si possono tentare mille supposizioni: o è sfuggito alla cattura rendendosi uccel di bosco, oppure è un personaggio troppo in vista e, quindi, uno dei tanti intoccabili di tutte le società d’ogni tempo, o fa parte del complotto ordito contro Gesù. O forse, più semplicemente, si tratta di un individuo ben noto al marito tradito, che ritiene di poter consumare la sua vendetta con tutta calma e che, per giunta, non compare nemmeno nel racconto. L’assenza del marito dal contesto narrativo è almeno curiosa, se non inquietante; se fa parte del gruppo di scalmanati che non vedono l’ora di lapidare l’adultera, c’è da chiedersi se anche lui non abbia da farsi perdonare qualcosa, visto che non ha il coraggio si scagliare “per primo” la pietra contro la moglie fedifraga. La donna resta sola a pagare per l’errore proprio ed altrui, istigatrice o vittima della passione dell’uomo che l’ha abbandonata al proprio destino: questi particolari del tradimento, consumato dai due amanti illegittimi, interessano ben poco ai tutori della Legge, preoccupati di mettere nel sacco il “maestro” (altro vocabolo tipicamente sinottico) venuto dalla Galilea anche a costo di sacrificare la vita di una donna, considerata poco più di un oggetto. Quella poco di buono, comunque vada la faccenda con Gesù, non merita altro che la morte, per cui non vale la pena farsi tanti scrupoli.
Con tutta probabilità la donna è spintonata, fatta cadere e rimessa in piedi senza troppi riguardi da quegli esagitati, che la circondano per non darle alcuna possibilità di fuga e la fanno stare dritta, in piedi, in mezzo a quel tribunale improvvisato. La procedura seguita dagli “scribi e farisei ” per accusare e giudicare la poveretta è propria del contesto storico e sociale di quel tempo (cf. anche At 4,7). L’imputata non può godere dell’aiuto di un avvocato difensore e non può nemmeno parlare a propria discolpa: per farla condannare basta la testimonianza a carico di due o tre testimoni (maschi), concordi nel riferire i fatti e le circostanze inerenti il delitto compiuto dalla donna (cf. Dt 17,2-7; 19,15). Di fronte a lei si trova Gesù, che se ne sta seduto per insegnare (altro elemento narrativo tipicamente sinottico) e che fa materialmente parte del cerchio degli accusatori, stretto minacciosamente attorno alla sventurata. Gli scribi ed i farisei non interrogano la donna, perché la sua trasgressione è manifesta ed essa non conta per loro più del denaro dovuto a Cesare (Mt 22,15-22; Mc 12,13-17; Lc 20,20-26), ma interrogano Gesù e spiano la sua reazione, pronti a coglierlo in fallo. Lo sguardo del lettore si sposta dalla donna, “posta nel mezzo”, a Gesù seduto per terra e pure lui assediato, quasi sovrastato da quei nemici irriducibili che vogliono togliere di mezzo entrambi, la peccatrice colpevole d’adulterio ed il bestemmiatore, reo di essersi dichiarato alla pari con Dio.
Gli scribi ed i farisei contrappongono l’autorità della Legge mosaica a quella di Gesù, che essi chiamano “maestro” e di cui sollecitano una presa di posizione. “Mosè ci ha comandato… Tu che ne dici?”. Sembra di poter scorgere in queste parole una sfumatura d’ironia; gli avversari di Gesù fanno il verso al modo di parlare del “maestro” venuto da Nazareth, che spesso ricorre a formule espressive originali per esporre il proprio insegnamento morale e religioso: “Avete inteso che fu detto… ma io vi dico…” (cf. Mt 5,43ss). Gesù non raccoglie la provocazione e, invece di rispondere, si china a scrivere per terra col dito. Del gesto di Gesù sono state fornite le più disparate ed ingegnose interpretazioni da parte degli esegeti d’ogni epoca. Secondo alcuni, Gesù avrebbe inteso differire la risposta prendendo tempo e dimostrando che la questione del giudizio non lo riguardava più di tanto: il recupero morale di un peccatore non si realizza attraverso una pura e semplice punizione del reo. Secondo altri commentatori, Gesù si accingerebbe a scrivere per terra la sentenza di condanna o d’assoluzione della donna prima di leggerla ad alta voce, secondo l’uso romano (parere assai opinabile e poco verosimile, visto che l’ambientazione del racconto è squisitamente giudaica, non romana!). Gli antichi Padri della Chiesa (s. Ambrogio, s. Agostino, s. Gerolamo) e, con loro, diversi autori moderni, ritengono invece che Gesù intenda compiere un gesto simbolico, simile a quelli compiuti dai profeti d’Israele in varie occasioni della storia ebraica. Il gesto di Gesù rimanderebbe a Ger 17,13: “quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua viva, il Signore” (cf. anche Gb 13,26). In tal caso, Gesù ricorderebbe ai suoi interlocutori il giudizio di Dio incombente su tutti i peccatori presenti in Israele. Altri esegeti interpretano il gesto di Gesù in senso giudiziale: Egli scriverebbe per terra i peccati degli accusatori di quella donna oppure lascerebbe intendere che la Legge di Mosè è una interpretazione umana della vera ed originale Legge divina, fondata sull’amore perdonante di Dio e sulla salvezza dell’uomo peccatore.
Incalzato dai suoi interlocutori, Gesù parla senza esprimere alcun giudizio di condanna nei confronti della donna e neppure nei confronti dei suoi accusatori. La parola di Gesù è un invito rivolto a quegli uomini a fare appello al giudizio della loro coscienza, il luogo più intimo e segreto in cui ogni essere umano può trovare intatto il tesoro della verità. Solo Dio, che è per noi “più intimo di noi stessi ” (s. Agostino), può avere libero accesso alla nostra coscienza, impedendo all’uomo di barare e di raccontare bugie sul proprio conto.
Chi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei. Ognuno di quegli uomini si sente messo alle strette ed incalzato dal severo giudizio della propria coscienza, perché nessun essere umano può dichiararsi “giusto” davanti a Dio (Sal 14,1-3; 53,2-4; Rm 3, 9-12.23) e puro da ogni peccato. Chi afferma il contrario è un ipocrita od un incosciente, incapace, cioè, di ascoltare la propria coscienza con piena verità e totale libertà. Gli accusatori di quella donna non devono sottoporsi al giudizio della propria coscienza solo ed esclusivamente in relazione a qualche colpa di natura sessuale, come il racconto potrebbe suggerire a prima vista, ma in relazione al loro modo di essere e di rapportarsi con Dio, col prossimo e con se stessi. Come minimo, essi sono colpevoli di aver elaborato un piano per eliminare Gesù tendendogli un tranello astuto e malizioso e, forse, hanno commesso qualche ingiustizia anche nei confronti di quella donna; fatto sta che tutti, dal più anziano al più giovane (gli anziani sono assai più carichi sia di anni che di colpe più o meno gravi rispetto a chi è ancora giovane, sembra annotare maliziosamente l’evangelista), lasciano cadere dalle mani le pietre pronte a colpire la donna e, forse, anche lo stesso Gesù qualora avesse espresso un giudizio di assoluzione e, in silenzio, si allontanano col cuore appesantito ancor di più dalla loro malizia, mentre Gesù ha ripreso a scrivere per terra. La parola di Gesù ha trattenuto quegli uomini dal compiere un atto di violenza camuffato da senso di giustizia; essi rinunciano al linciaggio ed implicitamente confessano la loro miseria morale e spirituale. L’evangelista lascia in sospeso le conseguenze di quella “fuga” silenziosa dal luogo del mancato delitto; possiamo supporre, con un po’ di ottimismo, che per qualcuno di quegli uomini si sia verificato un inizio di conversione e di ravvedimento, mentre in altri si sarà maturata la convinzione di aver perso una buona occasione di eliminare “quel maledetto galileo”, capace di metterli ancora una volta nel sacco.
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07/07/2010 10:03
 
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Con grande incisività, s. Agostino annota nel suo commento al IV Vangelo (In Joannem 33,5) che rimasero solo loro due, la miseria (l’adultera) e la misericordia (Gesù). Il tranello non ha funzionato e la controversia è svanita, così come si è spezzato il cerchio minaccioso degli accusatori attorno alla donna (ed a Gesù). La donna, però, benché il cerchio di morte si sia dissolto attorno a lei, è ancora là, “in mezzo”, tuttora non liberata dal proprio peccato, non meno minaccioso e mortale dell’accerchiamento formato dai suoi accusatori (ed assassini mancati di un soffio). Ella non è fuggita e sembra attendere il giudizio di Gesù, il quale bonariamente la invita a costatare che nessuno l’ha condannata: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. La donna non rivela le proprie disposizioni interiori, ma implicitamente si rimette a Colui che l’ha liberata dai suoi accusatori: “Nessuno, Signore”. I farisei non hanno condannato la donna perché anch’essi sono dei peccatori e tali sono stati giudicati dalla loro coscienza, mentre Gesù non la condanna perché Egli è l’unico che è “senza peccato”. Gesù non ha criticato la Legge, che condanna l’adulterio e, al tempo stesso, ha manifestato il senso profondo della sua missione, che mira al perdono ed alla salvezza dell’uomo, non alla sua condanna: “Neanche io ti condanno”. L’assoluzione si trasforma in un appello a cambiare radicalmente vita; anche la donna è rinviata al giudizio della propria coscienza e ad una responsabilità rigenerata. D’ora in poi ella dovrà vivere in conformità con la liberazione che ha ricevuto, cambiando in maniera sostanziale il proprio stile di vita ed il modo di rapportarsi con Dio e col suo prossimo.
La pericope dell’adultera si presta ad una rilettura simbolica. Due sono gli elementi di spicco del racconto: il tranello sventato e l’assoluzione della donna. In correlazione con questi due elementi narrativi, Gesù si trova di fronte a due situazioni problematiche di peccato, quella dei farisei e quella della donna; Egli smaschera il peccato dei primi e perdona quello della seconda, che ne viene liberata. La presenza del male, del peccato (in greco amartìa) è palpabile ed evidente nella violazione della Legge di cui la donna si è resa colpevole, ma anche nel comportamento dei farisei, che si servono della sventurata per tendere il loro tranello a Gesù. Nel v. 7 viene affermata da Gesù la dimensione universale del peccato (“Chi è senza peccato, scagli per primo la pietra”), che è più pesante e letale delle pietre che i farisei vogliono scagliare contro la donna per ucciderla.
Il testo presenta diverse difficoltà di carattere giuridico ed interpretativo. Per procedere ad una lapidazione, era necessario un processo in piena regola e non si capisce se esso si fosse già svolto né quale fosse la reale situazione dell’accusata. Se l’adultera fosse stata una donna sposata avrebbe dovuto subire l’esecuzione capitale mediante strangolamento, mentre la lapidazione era prevista nel caso in cui la donna, rea d’adulterio, fosse stata una fidanzata. Inoltre, desta perplessità l’assenza dal contesto narrativo sia dell’amante, che non è perseguito come la donna, sia del marito (connivente coi farisei?). Poteva essere verosimile che i farisei e gli scribi sottoponessero a Gesù un caso penale? La soluzione del caso è credibile nella circostanza storica, sociale e giuridica propria del tempo?
L’assenza dell’amante e del marito della donna adultera autorizza a scorgere nel racconto evangelico un significato puramente simbolico. Or dunque, tre dati orientano verso quest’interpretazione:
1)Sollecitato dai farisei a pronunciare una condanna conforme alle disposizioni della Legge, Gesù prende tempo, sta zitto e si concentra su un gesto all’apparenza banale come quello di scrivere per terra, quasi evocando il giudizio di Dio su ogni uomo peccatore o, più semplicemente, creando un tempo di silenzio. Il testo, però, si sofferma sulla descrizione dei gesti compiuti da Gesù, che per due volte “si china” e poi “si rialza” (vv. 6s.8.10). Il cenno al Monte degli Ulivi (8,1) e la collocazione dell’episodio nell’imminenza della Pasqua di Passione assegnano ai gesti di Gesù, assieme ai due verbi contrari (chinarsi, drizzarsi), un significato cristologico: l’autore della pericope evangelica intenderebbe riproporre in forma mimica la morte di Gesù sulla croce (espressa dal gesto proprio di chinarsi verso terra) e la sua resurrezione (resa esplicitamente con l’atto di alzarsi in piedi). L’abbassamento (morte in croce) e l’elevazione (resurrezione) danno senso compiuto all’opera di riconciliazione messa in atto da Gesù, che riconduce a Dio l’umanità prigioniera della sua condizione di peccato.
2)Secondo la Legge, la donna deve morire e la cerchia dei suoi accusatori visualizza l’impossibilità per la sventurata di sottrarsi al suo destino di morte; ma questo cerchio si dissolve per la parola del Cristo e rimane solamente un filo invisibile che unisce l’accusata a Gesù. Il silenzio del testo sui sentimenti della donna evidenzia la gratuità dell’assoluzione da parte del Signore e fa risaltare la funzione salvatrice di Gesù. La donna non è schiacciata sotto il peso delle pietre scagliate contro di lei, ma se ne va libera, verso un avvenire di riconciliazione che Gesù le ha dischiuso grazie ad una parola di perdono e d’invito alla conversione definitiva (“non peccare più”). Il passaggio dalla morte alla vita non vale solo per la donna, peccatrice riconosciuta, ma anche per gli scribi ed i farisei, che non sono condannati da Gesù per le loro intenzioni malvagie, ma sono da Lui aiutati a prendere coscienza del loro peccato ed orientati verso la speranza del perdono di Dio.
3)L’unità del testo è garantita dalla presenza, dall’inizio alla fine, di una donna adultera. A quale scopo è utilizzata, dall’autore del racconto, questa particolare tipologia di peccatrice? Nel linguaggio profetico, l’adulterio è l’immagine metaforica per eccellenza dell’infedeltà del popolo eletto al Dio unico, il Dio dell’Alleanza, raffigurato dallo Sposo. La donna del racconto diviene figura d’Israele, la sposa di YHWH alla quale Gesù rivela il perdono escatologico di Dio. Si giustifica così l’assenza dal racconto dell’amante e del marito della donna adultera: l’amante è figura dei Baal, gli dèi stranieri che non devono essere assolutamente menzionati, mentre il marito è lo Sposo unico, il Dio invisibile il cui santo Nome non può essere pronunciato perché a nessuna creatura umana è dato di “possedere” Dio e di piegarlo al proprio volere (secondo la mentalità semitica, conoscere il nome o imporre il nome ad una qualsiasi realtà naturale o soprannaturale implicava una sorta di potere che l’uomo era in grado di esercitare su di essa). Una conferma indiretta a questo tipo d’interpretazione viene dalla ripetizione dell’avverbio di luogo “nel mezzo” (vv. 3.9). Curiosamente, tale espressione ricorre due volte di seguito in Dt 22,21.24 nel contesto delle leggi riguardanti l’adulterio: “ tu eliminerai il male di mezzo a te”, cioè di mezzo al popolo.
Il testo non dice cosa è successo alla donna, quasi a voler raccomandare al lettore di non ripiegarsi su se stesso e sugli errori del passato, ma di guardare con fiducia ad un futuro di libertà, propria di chi è diventato figlio di Dio in virtù della grazia che ha ricevuto col battesimo.

La guarigione di un cieco nato
(Gv 9,1-41)

L’episodio del capitolo 9 del IV Vangelo richiama le guarigioni di ciechi trasmesse dalla tradizione sinottica (Mt 20,29-34 = Mc 10,46-52 = Lc 18,35-43; vedi anche le tradizioni singole di Mt 9,27-31; 12,22; Mc 8,22-26) ed il cui scopo è quello evidente di dimostrare che con la venuta di Gesù sono stati inaugurati i tempi messianici.
Ai discepoli di Giovanni Battista, venuti per accertarsi che Egli fosse veramente Colui che era atteso da Israele da secoli, Gesù ha risposto citando il profeta Isaia: “I ciechi vedono…” (Mt 11,5 pp; cf. Is 29,18; 35,5; 42,7). Oltre all’ovvio significato di evidenziare l’avvenuta realizzazione dell’era messianica, l’evento prodigioso narrato in questa pericope giovannea assume un grande valore simbolico: il miracolato è figura del credente illuminato dalla fede. Nella Chiesa primitiva i neofiti, cioè quelli che avevano abbandonato le credenze pagane o che avevano aderito alla fede nel Signore Gesù, provenendo anche dall’ebraismo, venivano chiamati “illuminati” (cf. At 26,16-18; 1Ts 5,5; Ef 5,8-14; Eb 6,4; 1Pt 2,9) perché avevano ricevuto la luce della fede nel Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza degli uomini.
L’episodio narrato da Giovanni presenta analogie, ma anche sostanziali differenze, con il racconto di Mc 8,22-26. Nella pericope marciana, la guarigione del cieco non è istantanea, ma si compie con un procedimento in cui Gesù interviene in due riprese; inoltre, la guarigione è preceduta da un rimprovero che Gesù rivolge ai suoi discepoli perché stentano a credere in Lui (8,17) e, dopo il miracolo, essa è seguita dalla loro confessione di fede nel Maestro, riconosciuto come Messia. Nel racconto giovanneo, la simbolica dell’illuminazione assume tutto il suo rilievo perché il miracolato è cieco dalla nascita, situazione senza paralleli nella tradizione sinottica. Più che un atto di potenza (dýnamis), teso a realizzare l’annuncio profetico, il dono della vista al cieco nato è presentato come un segno (seméion) della presenza nel mondo di Colui che afferma di essere la “luce del mondo” (9,5). La simbolica della luce, però, funziona anche in senso opposto giacché i farisei, noti per esseri dotti e saggi, capaci di “vederci chiaro” nelle Sacre Scritture, posti di fronte al miracolo negano il “segno” e diventano “ciechi”, vale a dire incapaci d’avere fede. Venendo nel mondo, la Luce illumina o abbaglia, secondo le disposizioni soggettive di ogni essere umano ed in tal modo l’evangelista spiega il mistero del rifiuto della Verità da parte di alcuni e la sua accettazione da parte di altri.
Il racconto è inquadrato da due parole di Gesù, riguardanti il significato della sua missione (9,3-5 e 9,39): la prima la definisce come opera di rivelazione, la seconda la collega al “giudizio”.
L’episodio della guarigione del cieco nato presenta diverse analogie con quello della guarigione del malato di Bethesda (Gv 5). La struttura del racconto è in entrambi i casi tripartita: l’episodio del miracolo è seguito da una controversia tra il protagonista ed i giudei e, poi, tra questi ultimi e Gesù prima che sia sviluppato il discorso di rivelazione. Entrambi i segni, il camminare ed il vedere, hanno il precipuo scopo di evidenziare la trasformazione della condizione umana operata da Gesù in modo del tutto gratuito e violando apertamente la sacralità dell’istituto del sabato (cf. 5,9 e 9,14), il che provoca l’aperta ostilità delle autorità giudaiche. A loro parere, chi agisce contrariamente alle norme stabilite dalla Legge che YHWH ha dato a Mosè, non può “venire” da Dio. Da un punto di vista squisitamente narrativo, è Gesù che prende l’iniziativa della guarigione miracolosa in entrambi i casi dopo aver “visto” e constatato la miseria dell’uomo e, dopo la stizzita reazione dei giudei di fronte all’evidenza del miracolo avvenuto, tanto da prendersela in modo piuttosto meschino e puerile con gli stessi miracolati, che nulla possono fare se non prendere atto della guarigione ricevuta in dono da quell’uomo misterioso e buono, Gesù incontra una seconda volta il miracolato per impegnarlo spiritualmente e psicologicamente, orientandolo verso una decisa scelta di fede. Se le somiglianze tra i due racconti sono evidenti, sono altrettanto notevoli le differenze. Nel capitolo 5 la simbolica della vita, suggerita dalla guarigione di un infermo, viene evidenziata solamente attraverso un discorso; nel capitolo 9 la simbolica della luce è già presente nel dialogo iniziale tra Gesù ed i suoi discepoli, per poi incarnarsi nel cieco nato che torna a vedere e ricomparendo nell’opposizione “vedere/non vedere” dei versetti finali (9,39-41). Il discorso successivo può incentrarsi su una nuova metafora, quella del pastore che raduna le pecore (c. 10).
La differenza più evidente tra i due racconti riguarda il comportamento dei due protagonisti. L’infermo di Bethesda conserva un basso profilo morale e, interpretando l’invito rivoltogli da Gesù a cambiare vita per evitare che gli capiti di peggio come una minaccia nemmeno tanto velata, si propone come un testimone piuttosto tiepido o titubante del gran dono ricevuto e del benefattore che lo ha guarito. Al contrario, l’ex-cieco diventa un vero testimone di Gesù di fronte agli sfrontati ed arroganti farisei, esibendo coraggio, senso dell’umorismo sorretto da una logica stringente e, dopo che Gesù gli si è rivelato come il Figlio dell’Uomo, proclama senza riserve la sua fede in Lui. Dal principio alla fine egli conserva un atteggiamento positivo e contribuisce attivamente alla propria guarigione obbedendo, prima di tutto, all’ordine di recarsi alla piscina di Sìloe con gli occhi coperti di fango, poi sostenendo senza tentennamenti la prova di un interrogatorio gravido di minacce e d’insulti da parte dei farisei e, quindi, accettando senza riserve il mistero che gli si è manifestato. L’impegno da parte dell’uomo si intreccia efficacemente con la sovrana efficacia della Luce, la quale dà senso e consistenza alla collaborazione della sua creatura.
La controversia sul sabato collega temporalmente l’episodio della guarigione del cieco nato all’epoca in cui Gesù svolse la sua missione, ma il racconto contiene un elemento narrativo anacronistico riconducibile all’epoca in cui l’evangelista compose o dettò il suo Vangelo, ossia verso la fine del primo secolo dell’era cristiana: si tratta della sentenza d’esclusione dalla sinagoga del miracolato (9,22) qualora si ostinasse a dichiarare che Gesù, Colui che lo ha guarito, è il Cristo (tipica formula del linguaggio ecclesiale riportata da Paolo in Rm 10,9). In realtà, la messa al bando dalla società giudaica fu decretata dai farisei verso l’anno 90 d.C. a Jamnia, in occasione di un raduno delle autorità religiose di ciò che rimaneva del popolo ebraico dopo il disastro della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio (70 d.C.) e fu decisa per dare un taglio netto con gli “eretici” cristiani, colpevoli di diffondere la fede nientemeno che nel Figlio dell’Altissimo (una bestemmia davanti alla quale era considerato un gesto pio turarsi le orecchie), miseramente finito su una croce (altro scandalo inaudito) e, con palesi bugie che erano reiterate ormai da più di mezzo secolo, dichiarato nientemeno che “risorto”. Se prima di allora tra giudei ortodossi e giudei cristiani non era corso buon sangue e si erano alternati periodi di tregua ad altri di aperta ostilità, dal concilio di Jamnia in poi le due realtà religiose, scaturite da un’unica esperienza di fede nel Dio unico, si separarono definitivamente non senza scagliarsi reciproci anatemi con relativi improperi ed insulti, che sono riecheggiati per secoli e secoli nel corso della storia. Oggi gli studiosi si mostrano più riservati sulla reale portata del “concilio di Jamnia” e su chi sia realmente preso di mira nella famosa XII Benedizione contro gli eretici (birkât-ha-minîm), termine che non necessariamente designerebbe solo i cristiani; sul versante cristiano, poi, è solo dall’epoca del Concilio Vaticano II che non si prega più per i “perfidi” giudei, accusati del delitto di “deicidio”, durante la preghiera universale del Venerdì Santo, ma s’implora il perdono e la benedizione divina sia sui cristiani sia sui “fratelli ebrei”.
Leggendo la pericope del cieco nato, il lettore è invitato a prendere posizione nei confronti di Cristo identificandosi con i personaggi del racconto: o esprime la propria fede nel “Figlio di Dio”, come ha fatto il cieco guarito ed aperto alla Parola, o rifiuta di credere come hanno deciso i farisei, bloccati nel loro sapere acquisito.

9,1 Passando vide un uomo cieco dalla nascita 2 e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. 3 Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. 4 Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può operare. 5 Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”.

L’episodio si colloca nel contesto della festa delle Tende e l’avvenimento accade in giorno di sabato (9,14). Uscendo dal Tempio, lo sguardo di Gesù si sofferma su un uomo la cui disgrazia totale è la cecità, che lo affligge dalla nascita. Tale sciagurata situazione, evidentemente già nota ai discepoli, non è un particolare casuale nella descrizione che ne fa l’evangelista: la radicalità della malattia ne sottolinea il valore simbolico e rende il miracolo ancor più eccezionale nella stima dei testimoni e dei lettori. La guarigione, operata da Gesù, è preparata da un dialogo tra i discepoli ed il loro Maestro, il cui scopo è quello di precisare il motivo del suo intervento.
Passando, vide un uomo cieco dalla nascita. Tra Dio e l’uomo esiste da sempre un rapporto interpersonale dinamico ed esistenziale; dalla nascita, cioè dal momento della sua primitiva esistenza sul pianeta Terra, l’essere umano è “cieco”, ossia limitato, provvisorio, fragile, soggetto al male fisico e spirituale e destinato alla dissoluzione fisica attraverso la morte. La consapevolezza di questa sua provvisorietà temporale e fragilità psico-fisica, rende l’uomo inquieto, insoddisfatto e sempre teso alla ricerca della piena realizzazione dei suoi sogni e dei suoi desideri, di cui la felicità perenne e senza incrinature e l’immortalità sono i confini estremi ed umanamente irrealizzabili, almeno nell’ambito dell’esistenza terrena fisicamente sperimentabile. Il potere, il successo, la salute, la notorietà e l’autostima sono le inevitabili proiezioni psicologiche del positivo bisogno interiore dell’uomo di sfuggire alla distruzione radicale del proprio essere. Dio non è indifferente alle aspirazioni più intime e profonde della sua creatura ed il suo interesse per l’uomo viene espresso da un verbo d’azione: Egli passa ed incontra gli esseri umani lungo i sentieri, spesso oscuri, tortuosi ed insidiosi della loro storia ma essi “non lo vedono” a causa della loro cecità, pur potendone avvertire la “Presenza” se solo riuscissero a “fare silenzio” dentro loro stessi (1Re 19,11-13), mettendosi in ascolto della sua Parola, che il più delle volte è solo sussurrata. È nei piani e nei desideri di Dio guarire l’uomo dalla sua cecità e salvarlo da una volontaria e sconsiderata auto-distruzione senza agire in modo arbitrario, bensì sollecitando la sua collaborazione (affermava s. Agostino che “Colui che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te”).
I discepoli sollevano il problema della presenza del male e della sofferenza nel mondo e sollecitano un chiarimento al loro rabbì. Secondo un’opinione ereditata dalla loro cultura, il benessere materiale, la salute e la lunga durata della vita, erano considerati la giusta retribuzione divina per coloro che si comportavano in modo onesto e pio; al contrario, Dio colpiva gli ingiusti e gli iniqui con la malattia e con ogni sorta di sciagura. Tale credenza era giustificata dalla convinzione che la vita nell’oltretomba fosse limitata ad un’esistenza indifferenziata, larvale, uguale per buoni e cattivi, vaganti come ombre nelle oscurità del “mondo sotterraneo” (detto sheòl). Per salvaguardare la giustizia divina, era quindi necessario che la retribuzione delle azioni umane, buone o cattive che fossero, avvenisse su questa terra e che si concretasse con la felicità per i giusti e con l’infelicità e la disgrazia per gli ingiusti. L’esperienza della vita d’ogni giorno, però, dimostrava che non sempre avveniva proprio così, sicché sembrava ovvio che una sventura individuale o collettiva dipendesse da qualche colpa o peccato anteriore, personale o familiare. Il male doveva scaturire necessariamente dal male, come il bene dal bene (cf. Es 20,5; Nm 14,18; Dt 5,9; Tb 3,3ss). L’esempio di Giobbe forniva una diversa chiave di lettura per spiegare l’esistenza del male chiaramente non collegabile ad una vita moralmente deviata, attribuendo ad un misterioso personaggio, il satàn (letteralmente, l’avversario o l’accusatore) l’iniziativa, permessa da Dio, di mettere alla prova la fedeltà dell’uomo alle leggi divine attraverso gli ostacoli della vita (cf Gb 1,11). Gli amici di Giobbe, al fine di giustificare le azioni di YHWH, avevano attribuito le sventure di questo giusto alla punizione di qualche colpa segreta, ma Giobbe continuava a respingere una simile concezione di Dio e, invece di cercare una spiegazione razionale alle sue sventure, aveva preferito immergersi silenziosamente nel mistero di Colui che è fedele e sa esserlo sino in fondo (Gb 42), tanto da premiare il suo servo fedele restituendogli, moltiplicato in modo spropositato, ogni bene di cui lo aveva privato. Anche se i profeti si erano opposti ad un mera interpretazione punitiva dell’esistenza della sofferenza (cf. Ger 31,29ss; Ez 18), evidentemente i discepoli si fanno interpreti dell’opinione corrente, secondo cui la responsabilità del peccato si trasmetteva dai padri ai figli. Secondo tale opinione, era inevitabile che non potesse esistere sofferenza senza colpevolezza (cf. Sal 89,33) ed anche i farisei sosterranno tra breve (9,34) tale punto di vista.
Gesù fornisce un diverso approccio interpretativo del male che affligge ed angustia gli esseri umani, rifiutandosi di giudicare colpevoli sia le vittime della crudeltà di Pilato o del crollo della torre di Sìloe (Lc 13,1-5) che il povero ed incolpevole sventurato che gli sta di fronte, il cui unico torto, socialmente rilevante, è quello di essere nato cieco.
Né lui ha peccato né i suoi genitori. Gesù sta preparando i suoi discepoli, dal punto di vista psicologico e spirituale, ad accogliere ed accettare la dimensione redentrice del dolore, in vista della quale opera un passaggio fondamentale: il cieco nato si trova in questa situazione di sofferenza affinché in lui si manifestino le opere di Dio. Gesù non spiega l’origine della sofferenza innocente né afferma che quest’uomo è cieco per permettere a Dio di manifestare la sua potenza, ma prende atto della sua situazione di dolore, cui sta per porre fine manifestando così al mondo il modo di agire generoso e gratuito di Dio.
Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato. I migliori manoscritti antichi (come la versione detta vulgata oppure la vetus latina, la versione siriaca ed altre) riferiscono al solo Gesù il compito di agire in nome e per conto del Padre, mentre il codice B, il codice S ed altre testimonianze scritte autorevoli associano a quella di Gesù anche l’azione dei suoi discepoli e, per riflesso, delle comunità cristiane da loro fondate durante la loro esperienza missionaria. In tal modo, pure la comunità guidata dall’evangelista ed apostolo Giovanni si sente coinvolta nella trasmissione, nella ripresentazione e riattualizzazione dell’agire salvifico di Cristo, storicamente compiutosi durante la sua vita terrena (“finché è giorno”) e conclusosi con la sua morte (“poi viene la notte”). La breve durata storica della missione pubblica di Gesù, paragonabile ad una giornata di lavoro (cf. 5,17), rende urgente la sua azione salvifica, al punto da rendere secondaria l’importanza del sabato e da giustificarne la trasgressione volontaria. Fintanto che Gesù è presente fisicamente tra gli uomini, la luce di Dio, irradiata dal Figlio, brilla nel mondo in tutto il suo splendore e mostra in pieno la sua efficacia salvifica. Dichiarando di essere la “luce del mondo”, Gesù anticipa il senso del miracolo ed orienta l’attenzione verso ciò che è tenebra.
In questo preciso contesto narrativo, la tenebra non va identificata con il peccato inteso come scelta di volontaria e radicale opposizione a Dio ed alle sue leggi; infatti, l’uomo del racconto è cieco dalla nascita, ma la sua cecità non scaturisce da una situazione di peccato, sia pure imputabile ai suoi genitori (“né lui ha peccato, né i suoi genitori”). La tenebra, che è qui sottintesa e simboleggiata dalla cecità congenita di un uomo sfortunato, cui il destino ha riservato giorni amari e bui nel senso più letterale del termine, richiama l’esistenza di una tenebra originaria nella quale ogni uomo si trova prima di essere illuminato dalla rivelazione del Figlio. Già nel Prologo l’evangelista aveva definito il Lògos (= verbo, parola, progetto, discorso) di Dio come la luce che brilla nella tenebra (1,5), per cui, presentando il cieco nato, sembra proprio fare riferimento a questo genere di oscurità esistenziale, che può essere dissipata solo quando la Luce di Dio si incontra con l’uomo nel corso della sua storia personale e collettiva. Forse è questo il motivo per cui il cieco nato del racconto, pur essendo un mendicante bisognoso di aiuto, non formula alcuna preghiera, non potendo domandare ciò che ignora. Acquistando miracolosamente la vista per intervento di Gesù, Luce che illumina ogni uomo (1,4), egli non recupera un bene già posseduto e poi perso per colpa propria, ma rinasce ad una nuova esistenza e ad una vita di relazione mai immaginata. Per lui esistevano, prima del miracolo, rapporti umani mediati dai suoni, dagli odori e dal contatto fisico, sicché la sua vita sociale si svolgeva entro ambiti piuttosto limitati; grazie alla vista, invece, il suo orizzonte esistenziale si amplia a dismisura e si arricchisce d’elementi dialogico-relazionali col mondo circostante straordinariamente ricchi e complessi. Col dono della vista, il miracolato diventa un uomo nuovo, pronto a collaborare attivamente e consapevolmente al progetto di salvezza di Colui che lo ha “illuminato” nel profondo del cuore e della mente. Si tratta, in altre parole, di una vera e propria “rinascita dall’alto” (cf. 3,3).
Poco dopo, durante il dibattito che avverrà tra Gesù ed i farisei, la cecità riacquisterà il significato metaforico tipico dell’Antico Testamento e sarà associata alla perdita volontaria della vista come conseguenza del peccato di rifiuto di Cristo e del suo Vangelo di salvezza (cf. Is 6,9ss; Ger 5,21; Ez 12,2; Gv 9,39; 12,40).
Il protagonista del racconto è un uomo religioso, la cui vita è illuminata dalla Legge giudaica e che mai e poi mai si sognerebbe di accusare Dio di averlo fatto nascere gravemente menomato. Grazie alla sua fiducia nella Legge, egli riconoscerà che Gesù viene da Dio (9,30ss), di cui realizza le promesse in modo inatteso e con sovrabbondanza di grazia e di bontà.

6 Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7 e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
La procedura seguita da Gesù per compiere il miracolo è alquanto sorprendente. La saliva era ritenuta un valido rimedio per le malattie degli occhi (Plinio, Nat 28,7; Tacito, Hist IV, 8l), ma nel racconto giovanneo non è la saliva che opera direttamente la guarigione, bensì è il mezzo utilizzato da Gesù per fare un po’ di fango, con cui spalmare gli occhi del cieco. Secondo il parere dei più, l’uso del fango da parte di Gesù aveva come obiettivo l’infrazione dell’istituto umano del sabato, come sarà denunciato dai farisei nel seguito del racconto, mentre, secondo altri, mettendo del fango sugli occhi di un cieco Gesù avrebbe simbolicamente aggravato la sua già grave infermità per rendere ancora più impegnativa la sua guarigione sul piano personale ed esistenziale.
S. Ireneo, vescovo di Lione verso la fine del II secolo d. C., riteneva invece che il gesto di Gesù fosse da accostare all’atto con cui, secondo il testo della Genesi (2,7), Dio ha formato l’uomo e nella guarigione del cieco nato aveva individuato il perfetto compimento della primitiva creazione, da cui, a suo modo di vedere, aveva avuto origine l’essere perfetto identificabile col credente in Cristo (Adversus Haereses V, 15,2-3). Il fango della nuova creazione si collegherebbe allora all’acqua del battesimo, di cui la saliva di Gesù o l’acqua della piscina di Sìloe sarebbero l’immagine.
Le due fasi del miracolo fanno pensare ad altri riferimenti biblici: alcuni salmi, ispirandosi evidentemente all’esperienza del profeta Geremia (cf. Ger 38,6), presentano la situazione dell’uomo che affonda nel fango (pelòs) e rilevano che da tale imbarazzante situazione l’uomo non può salvarsi con le sole proprie forze, nonostante tutti gli sforzi compiuti per liberarsi dagli impacci della miseria morale e spirituale, in cui si trova consapevolmente invischiato (Sal 69,3.15; 40,3). Con il suo gesto, Gesù intenderebbe ribadire che l’uomo è prigioniero delle tenebre del male; impartendo al cieco l’ordine di andare alla piscina di Sìloe, cioè l’Inviato che è Lui stesso, Gesù rende evidente la sua missione di liberazione dell’umanità da queste tenebre di carattere esistenziale. Solo a Sìloe il fango cade dagli occhi del cieco nato ed egli riceve in dono la vista; la cura dei malati con il fango, seguita da abluzioni, è testimoniata nel santuario pagano di Pergamo nella prima metà del II secolo d.C., quindi l’evangelista Giovanni avrebbe inteso, proponendo ai suoi lettori l’episodio della guarigione del cieco nato, contrapporre Gesù, il vero Salvatore, ad Asclepio, il dio medico. Quest’ipotesi avvalorerebbe la tesi di coloro che sostengono che il IV Vangelo sia stato scritto in Asia Minore, l’attuale Turchia (K. H. Rengstorf, Grande Lessico del Nuovo Testamento X, 177-178).
Sìloe è l’unico luogo menzionato nel racconto. L’ordine di Gesù richiama quello che il profeta Eliseo aveva impartito a Naaman il Siro, di andare ad immergersi sette volte nel fiume Giordano per guarire dalla lebbra (cf. 2Re 5); Naaman si era mostrato reticente, mentre il cieco nato obbedisce prontamente alla parola di Gesù, fidandosi “ciecamente” di Lui (è proprio il caso di dirlo!). La piscina di Sìloe si trovava a sud-ovest della città vecchia, proprio allo sbocco di un tunnel che re Ezechia aveva fatto costruire verso il 704 a.C. per portare le acque del torrente Gichon all’interno di Gerusalemme (cf. 1Re 1,33; 2Re 20,20; 2Cr 32,30; Sir 48,17; cf. anche Giuseppe Flavio, Guerra giudaica V, 4,1ss e Strack-Billerbeck, Commentario del Nuovo Testamento II, 531-533).
Secondo il rito della festa delle Tende o Capanne, che aveva un significato messianico, una processione solenne si recava ad attingere acqua alla piscina di Sìloe, che era l’unico serbatoio idrico della città; in tal modo si onorava la dinastia davidica, di cui tale piscina era divenuta un simbolo, allorquando il profeta Isaia aveva rimproverato al popolo di disprezzare queste “acque che scorrono placidamente” (Is 8,6). Questi dati biblici servono all’evangelista quale collegamento storico tra Sìloe e l’Inviato, giustificando il compimento della tradizione ebraica nella persona di Cristo: il termine ebraico infinitivo qal ha, in primo luogo, un senso attivo ed indica la conduttura, il canale (che invia acqua) ma può essere letto anche al passivo col significato di “essere inviato”.
Il narratore sintetizza l’evento prodigioso della guarigione del cieco nato con poche e sobrie parole: “quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. Persino la dinamica del miracolo passa quasi sotto silenzio pur essendo circoscritta da ben tre verbi d’azione, i quali ottemperano, da una parte, ad un ordine che non ammette né discussioni né tentennamenti e, dall’altra, ad un’esplicita volontà di obbedire: chi compie la volontà di Dio nell’ordinaria quotidianità della propria esistenza non deve necessariamente fare uso della grancassa ed attirare su di sé l’attenzione del prossimo ad ogni costo e, dal canto suo, Dio non interviene quasi mai nella storia dell’uomo con troppo clamore. L’agire di Dio è silenzioso, discreto e rispettoso della libera volontà dell’uomo.

8 Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: “Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?”. 9 Alcuni dicevano: “ E’ lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”. Ed egli diceva: “Sono io!”. 10 Allora gli chiesero: “Come dunque ti furono aperti gli occhi?”. 11 Egli rispose: “Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va’ a Sìloe e lavati!». Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista”. 12 Gli dissero: “Dov’è questo tale?”. Rispose: “Non lo so”.
La constatazione del miracolo avviene in un clima di evidente stupore, incredulità e costernazione da parte di persone estranee all’avvenimento e che, loro malgrado, sono costrette a prendere atto dell’avvenuto prodigio. Pare di sentire i commenti della gente, evidentemente abituata da qualche tempo a vedere quel cieco nato mentre chiedeva l’elemosina nelle piazze ed agli angoli delle strade della città, soprattutto durante i giorni di festa, quando c’erano tanti pellegrini che affluivano verso il Tempio di Salomone, molti dei quali ben disposti a fare l’elemosina ai tanti sventurati, veri o fasulli, situati nei punti strategici della città. È soprattutto la gente del posto che, incontrando il miracolato, non crede ai propri occhi e manifesta opinioni contrastanti. Il richiamo al passato (“era un mendicante… stava seduto a chiedere l’elemosina”) dà rilievo al cambiamento che è avvenuto in quell’uomo. “E’ lui… no, non è lui, però gli somiglia…”. Tocca al miracolato dare un taglio alle supposizioni con un deciso e perentorio “sono io”, grazie al quale egli conferma la propria identità quasi con soddisfatto orgoglio: sono proprio io il destinatario di una grazia così grande ed inaspettata, sono proprio io quello che avete compatito fino a pochi istanti fa, io che vi chiedevo qualche spicciolo d’elemosina e che stavo zitto quando sussurravate i vostri maliziosi commenti sulla mia disgrazia… ero cieco, mica sordo e nemmeno scemo! E adesso, eccomi qua! Ci vedo come voi, anzi, ci vedo meglio di tanti voi, grazie a Gesù. Già, ma Lui dov’è?
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07/07/2010 10:04
 
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Il cieco guarito comincia a subire i primi inconvenienti della sua vita di miracolato: “Come ti furono aperti gli occhi?”. Il pover’uomo capisce subito che non lo lasceranno stare in pace tanto facilmente, perché Gesù ha compiuto un’azione certamente giusta ma nel momento e nel modo sbagliati: ha guarito un uomo in giorno di sabato facendo del fango e mettendoglielo sugli occhi! Quella domanda gli è ripetuta fino alla nausea (9,10.15.16.19.21.26) quasi volessero farlo sentire in colpa per essere stato guarito da una grave menomazione, che si portava dietro dalla nascita! L’ex cieco si rende conto che le autorità religiose giudaiche gli imputano, quasi fosse un crimine, la responsabilità di essere un testimone diretto delle qualità taumaturgiche di un Uomo temuto ed odiato e comprende che chi sta dalla parte di Gesù rischia grosso. Ciononostante, egli non teme di schierarsi a favore di Gesù e di rendergli testimonianza, anche a costo di farsi emarginare dalla società ebraica (“lo cacciarono fuori”, 9,34) e di farsi insultare (9,28).
Per indicare il recupero della vista da parte del cieco nato, l’evangelista usa il verbo greco anablépo (9,11.15.18), che significa “alzare gli occhi verso qualcuno o qualcosa”, quasi a voler sottolineare una predisposizione del cieco ad avere fede in Gesù. Al termine del racconto, quando Gesù incontra nuovamente il cieco ormai guarito ma espulso dal consesso religioso ebraico e ricusato persino dai suoi genitori, l’evangelista esprime la fede piena e perfetta del miracolato nel Figlio dell’uomo, che lo ha guarito, usando il verbo orào (9,37), che significa “vedere con cognizione di causa, guardare in profondità andando oltre le apparenze, credere”. Per passare da una buona disponibilità a credere alla fede piena, l’ex cieco deve affrontare una dura prova: respinto dagli uomini, egli è pronto ad essere accolto dalle amorevoli braccia del Figlio di Dio.
Autocertificando la propria identità con l’espressione “sono io”, che l’evangelista mette sulla sola bocca di Gesù come formula di rivelazione della propria identità divina, il cieco guarito dalla sua infermità ed illuminato da Cristo confermerebbe ai presenti, che lo interrogano, di essere quasi un tutt’uno con colui che lo ha guarito e del quale, d’ora in poi, sarà il testimone più veritiero e credibile grazie alla vista recuperata in modo così prodigioso ed evidente a tutti.
Dov’è questo tale?, incalzano i presenti. Non lo so, risponde il miracolato, ancora disorientato dall’accaduto. Egli conosce Gesù solo di nome e certamente, come avviene per tutti i non vedenti di questo mondo, la sua voce gli è rimasta impressa nella mente e sicuramente saprebbe riconoscerla fra mille e mille altre voci. Ancora “non sa” chi è Gesù, anche se ha già intuito, dal nome che porta (YEÒSHUA, Dio salva), di essere stato beneficato dal “Salvatore” (v. 11): quell’uomo, che si chiama Gesù… ha fatto… mi ha spalmato… mi ha detto. Il brav’uomo ha indicato alla curiosità della gente il suo benefattore chiamandolo per nome e specificandone le azioni “salvifiche”, ma per la gente il taumaturgo rimane un perfetto sconosciuto: dov’è questo tale? In greco la domanda della gente, che brilla per ottusità e si distingue per l’anonimato, suona ancora più cruda e scostante: dov’è quello? La gente diffidente e senza volto di Gerusalemme (“i vicini e quelli che lo avevano visto prima…”) prende le distanze da un uomo che infrange la sacralità del sabato e nemmeno vuole conoscere il suo “nome”, la sua identità, ma vuole solo sapere dove si trova per denunciarlo alle autorità religiose. Chi viola il sabato merita di morire! L’ex cieco intuisce le intenzioni di coloro che lo interrogano e si esprime con un lapidario “non so”, che stride con la loquacità mostrata poco prima nel comunicare a tutti la gioia per una vista recuperata in modo così insperato. Il seguito del racconto dimostrerà che il miracolato non avrà alcun timore di “sapere” chi è e dove si trova Gesù, non avrà paura di manifestare la sua fede nel Figlio dell’uomo e saprà pagarne le conseguenze estreme: il dono della fede, cioè della “vista”, rende accettabile l’ostilità di chi rifiuta di credere e di “vedere” (9,40-41).

13 Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14 era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15 Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”. 16 Allora alcuni dei farisei dicevano: “Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato”. Altri dicevano: “Come può un peccatore compiere tali prodigi?”. E c’era dissenso tra loro. 17 Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “E’ un profeta!”.
La prodigiosa guarigione di un cieco nato, anche se avvenuta in giorno di sabato, non è un evento comune e una volta costatato che, in effetti, l’evento si è verificato, ai più pare opportuno accompagnare il miracolato dai responsabili della sinagoga, gli unici autorizzati a pronunciarsi sulle implicazioni teologiche e religiose del miracolo. In effetti, i farisei che compongono in maggioranza anche il Sinedrio, il tribunale amministrativo e religioso della nazione giudaica, procedono con cautela e con metodo nei confronti dell’ex cieco, interrogandolo ben due volte (9,13-17.24-34) e convocando persino i suoi genitori. Davanti alla testimonianza resa dal miracolato, i farisei vanno in crisi e manifestano opinioni contrastanti. La loro difficoltà nel comprendere il miracolo ed il modo in cui è avvenuto è reale e comprensibile. Secondo la Legge (Dt 13,1-6), chi compie prodigi incitando il popolo a disprezzare la legge divina deve essere condannato; nel caso in questione, l’infrazione del sabato può squalificare il taumaturgo ed esporlo ai rigori della legge, che è stata palesemente violata. Ma chi sono questi onnipresenti “farisei”, che l’evangelista ripetutamente presenta come i nemici più accaniti di Gesù, fatte le debite eccezioni come Nicodemo?
I farisei, il cui nome significa letteralmente “separati, divisi”, erano in realtà dei laici che, sin dall’epoca dei Maccabei (166/37 a.C.) si erano opposti con tutte le loro forze alla diffusione della cultura greca (ellenizzazione) in Giudea da parte delle forze di occupazione straniere in collaborazione con diversi elementi di spicco della popolazione ebraica, accusati di collaborazionismo. Il loro scopo era di realizzare l’ideale di santità, che Dio aveva richiesto ad Israele, attraverso la scrupolosa osservanza della Legge, della quale erano esperti e profondi conoscitori e di cui erano ascoltati ed apprezzati insegnanti presso il popolo. Dai sadducei, loro acerrimi avversari sul piano religioso e politico, essi erano considerati come coloro che vivevano “separati” da tutto ciò che era legalmente impuro.
A differenza dei sadducei, i quali costituivano il partito politico religioso dell’aristocrazia sacerdotale, erano amanti della cultura e simpatizzanti del progresso culturale delle altre nazioni, disdegnavano il contatto con il popolo ed erano politicamente compromessi coi dominatori di turno, i farisei amavano invece stare con la gente comune, alla quale insegnavano i precetti della Legge e, forti della loro conoscenza della tradizione orale, davano utili consigli per rendere praticabili nella vita quotidiana le esigenze della Legge stessa. Sul piano strettamente religioso, farisei e sadducei erano agli antipodi. Estremamente fatalisti e sostanzialmente materialisti, i sadducei accettavano solo le norme legali e cultuali presenti nella Torâh, cioè la Legge scritta, rifiutavano la tradizione orale e respingevano le innovazioni farisaiche, affermavano che nulla dipende da Dio, negavano la futura resurrezione dei morti e l’esistenza degli angeli, applicavano rigorosamente la legge del taglione.
Dal canto loro, i farisei erano assai rispettosi dell’essere umano tanto che lo scrittore Giuseppe Flavio lodava la loro austerità e cortesia, sottolineava la loro benevolenza nel giudicare il prossimo e li elogiava per il loro abbandono alla divina provvidenza, ma erano degli esagerati osservanti della Legge e della tradizione, specie per quanto concerneva il riposo del sabato, la purezza legale e le decime. Essi erano così scrupolosi nell’osservanza formale delle norme legali, da rasentare la paranoia.
Gesù non aveva alcun pregiudizio nei loro confronti e con molti di loro aveva intrattenuto anche delle relazioni positive. Spesso era stato invitato alla loro tavola, con Nicodemo aveva avuto un rispettoso colloquio nel cuore della notte, da alcuni di loro era stato avvisato che Erode lo stava cercando certamente non per un amabile scambio d’opinioni (Lc 13,31). D’altra parte, Gesù non si era mai espresso in modo sfavorevole nei confronti di un uomo solo per la sua appartenenza pura e semplice a questo od a quel gruppo sociale o politico o religioso: per Gesù veniva, prima di tutto, l’uomo con le sue virtù e le sue debolezze. Ciò che Gesù mal digeriva di molti farisei era la loro arroganza, la vanità e l’ipocrisia. A molti di loro rinfacciava la mancanza di senso della giustizia, di misericordia, di coerenza e d’umanità, nonché l’incapacità di accogliere la novità del suo Annuncio. Or dunque, le persone semplici del popolo sono incapaci di dare una spiegazione al miracolo e si affidano al giudizio di coloro che sono considerati i massimi esperti in materia religiosa.
Solo a questo punto (9,14) Giovanni informa il lettore che il miracolo è avvenuto in giorno di sabato, dando così una spiegazione dell’aspra discussione che divampa fra gli stessi farisei, alcuni dei quali squalificano ipso facto l’operato di Gesù come prodotto del maligno (“… quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato”) mentre altri, più cauti, lasciano spazio almeno a qualche ombra di dubbio e d’incertezza circa la reale provenienza di Gesù (“… come può un peccatore compiere tali prodigi?”). Ai fini di un giudizio finale, che sia coerente con i principi legali contenuti nella Legge, i farisei si fanno spiegare per filo e per segno dal miracolato come ha fatto Gesù a guarirlo dalla sua cecità. È evidente che a nessuno di loro venga in mente di contestare il prodigio in sé; troppi testimoni conoscono il cieco nato e sono in grado di attestare l’avvenuta guarigione. Ciò che conta è delegittimare l’operato di Gesù trovando il modo di affermare, senza alcun’ombra di dubbio, che Egli non “viene da Dio” perché non si comporta come un “uomo di Dio”. Il fatto che Gesù abbia impastato del fango e lo abbia messo sulle palpebre del cieco aggrava la sua posizione dal punto di vista strettamente giuridico, perché l’azione dell’impasto era una delle attività specificamente vietate durante la festività del sabato, il che rendeva illegittimo anche il risultato, seppure prodigioso, di tale azione.
Le domande dei farisei all’uomo risanato sono presentate come un vero interrogatorio. Pare logico aspettarsi che il racconto del miracolato, incalzato dalle domande dei farisei, sia stato ben più particolareggiato di quanto non lasci intendere la lapidaria dichiarazione riportata dall’evangelista: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”. Questa dichiarazione è, comunque, più che sufficiente per capire come si sono svolti i fatti nella realtà. Prigionieri del loro atteggiamento legalistico, i farisei non sanno spiegarsi, ad ogni buon conto, come possa un peccatore compiere tali prodigi; questo vocabolo viene riportato al plurale dal testo greco, semèia, quasi a sottolineare il fatto che ai farisei erano pervenute notizie di diversi altri miracoli operati da Gesù, alcuni dei quali ancora in giorno di sabato (cf. 5,9)! La discussione fra i farisei avviene con toni accesi davanti agli occhi increduli del cieco guarito, il quale, direttamente interpellato da quell’eminente assemblea di esperti in cose riguardanti la santa Legge ed invitato ad esprimere un giudizio sull’Uomo che lo ha guarito, non esita ad affermare che Gesù è un profeta, cioè un uomo particolarmente vicino a Dio e dotato del particolare carisma di essere il portavoce dell’Altissimo. Il giudizio dell’uomo risanato è, ovviamente, subito scartato dai farisei, che considerano costui un povero ignorante della Legge, un am-ha-haretz, perciò cercano di delegittimare la sua testimonianza mettendo in dubbio che non sia mai stato veramente cieco e che non sia, piuttosto, un impostore. Occorre cambiare tattica e convocare i genitori dell’uomo guarito per un confronto, che si rivelerà drammatico ma non privo d’amaro umorismo.

18 Ma i giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva recuperato la vista. 19 E li interrogarono: “È’ questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?” 20 I genitori risposero: “Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; 21 come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso”. 22 Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei giudei; infatti i giudei avevano già stabilito che se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23 Per questo i suoi genitori dissero: “Ha l’età, chiedetelo a lui!”.
Pur davanti all’evidenza dei fatti ed alla concordanza delle testimonianze pervenute dalla folla, i farisei non demordono e cercano una qualsiasi contraddizione od imprecisione nelle parole dei testimoni per smantellare ciò che considerano un castello di menzogne o, nella migliore delle ipotesi, il risultato di un’autosuggestione collettiva. Rompendo gli indugi, i farisei convocano i genitori del presunto cieco guarito per avere la certezza che il miracolato fosse proprio il loro figlio e, soprattutto, per avere la conferma che fosse un finto malato. Possiamo ben immaginarci le minacce, nemmeno tanto velate, ricevute dai due poveretti prima di essere messi a confronto con il cieco risanato: “Badate bene a quello che dite, altrimenti ne pagherete le conseguenze in un modo che neppure vi potete immaginare…”, oppure “se fate i furbi, lo scopriremo presto anche a costo di mettervi sotto tortura…” o amenità di questo genere. Chi non ama la verità, è disposto a tutto pur di non sentirsela dire o dimostrare.
In modo sorprendente, l’evangelista definisce “giudei” quelli che, fino a poco prima, ha qualificato come “farisei” (9,18). Molto probabilmente il narratore ha inteso sottolineare il carattere ufficiale della convocazione dei genitori del cieco nato e la loro successiva deposizione. Nel IV Vangelo, infatti, sono generalmente indicati come “giudei” i rappresentanti delle autorità religiose e politiche del mondo ebraico (cf. 1,19; 2,18.20; 5,10 ecc.), anche se molti di loro appartenevano al movimento farisaico. La decisione di espellere dalla sinagoga gli eventuali seguaci di Gesù partirà proprio dai “giudei” (9,22), le cui decisioni sono inappellabili in seno alla nazione ebraica.
È vostro questo figlio, che dite essere nato cieco? Il tono della domanda non deve essere stato molto amichevole né comprensivo, specie quando viene sottolineato ciò che finora i genitori “hanno detto” del figlio, cioè che è nato cieco. I giudei incalzano e non danno tregua: se è vero che è nato cieco, “come mai ora ci vede?”. Ai due poveretti non resta che rispondere alle prime due domande dicendo la verità e, alla terza domanda, mantenendosi sulla difensiva: “come poi ora ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi”. Dalla risposta si arguisce che i due sanno molto bene cosa è successo al loro disgraziato figliolo e sanno anche chi è il guaritore, che, se non altro, conoscono di fama, ma fanno finta di non saperlo per non avere guai. Ciò che fino a pochi istanti prima era loro parsa una grande grazia ricevuta dall’Altissimo, ora si sta trasformando in una pericolosa trappola ed essi si accorgono che, se non misurano le parole, rischiano di perdere tutto, forse anche la vita. I giudei si sono limitati a chiedere loro se sanno “come” sia guarito il figlio, ma essi tradiscono la loro ansia di mettersi al riparo da brutte sorprese ed anticipano la domanda successiva, nemmeno formulata dai giudei, affermando che non sanno “chi” ha aperto gli occhi a loro figlio. All’improvviso, essi intuiscono che c’è una via di fuga per mettersi in salvo e la imboccano senza pensarci due volte, anche a costo di consegnare nella mani di quei giudici severi ed intransigenti la sorte del figlio: “chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso”. Amareggiato, ma in tono comprensivo, l’evangelista spiega il motivo di un simile comportamento da vigliacchi dei due genitori: “avevano paura dei giudei”, che avevano minacciato di espellerli dalla sinagoga trasformandoli in poveracci senza patria e senza diritti, quasi degli “impuri” a vita! Ha l’età. Evidentemente il cieco guarito da Gesù aveva più di tredici anni e un giorno, età fissata dalla Legge come termine minimo per essere considerati maggiorenni (cf. Strack-Billerbeck, Commentario del Nuovo Testamento II, 534), dopo l’espletamento del rituale d’iniziazione detto bàr-mitzvàh.
A proposito dell’espulsione dalla sinagoga di un membro del popolo eletto, ai tempi di Gesù questa misura punitiva aveva un valore temporaneo (massimo 30 giorni) e vi si ricorreva per correggere coloro che si erano resi responsabili di violazioni della Legge; ciò che è ventilato dall’evangelista, invece, è una vera e propria esclusione definitiva dalla sinagoga di quanti riconoscevano che Gesù è il Cristo e tale misura fu adottata al concilio di Jamnia (intorno al 90 d.C.) presieduto dal rabbì Gamaliele II. Va precisato che l’espulsione di un ebreo dalla comunione religiosa giudaica aveva gravi conseguenze personali e sociali. L’annotazione dell’evangelista circa questa drastica decisione, presa dalle autorità giudaiche nei confronti dei seguaci di Gesù (9,22), risentirebbe pertanto del clima di persecuzione attuato dai giudei a danno dei cristiani alla fine del I secolo d.C. ma, inserita in questo contesto narrativo, avrebbe lo scopo di sottolineare l’accesa ostilità attiva esistente già all’epoca di Gesù tra i giudei ed il Maestro di Galilea, da cui non erano esclusi i discepoli di quest'ultimo. In altre parole, Giovanni avrebbe proiettato nel passato una disposizione di scomunica ufficiale e definitiva recente (cf. 12,42; 16,2) e di cui, molto probabilmente, avevano sofferto alcuni dei suoi lettori.
Non contenti delle risposte date dai genitori del cieco risanato, i giudei convocano una seconda volta quest’ultimo nella speranza di farlo cadere in contraddizione.

24 Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: “Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”. 25 Quegli rispose: “Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”: 26 Allora gli dissero di nuovo: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?”. 27 Rispose loro: “Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. 28 Allora lo insultarono e gli dissero: “Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! 29 Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia”.
L’interrogatorio dei testimoni da parte delle autorità giudiziarie d’Israele poteva sembrare pedante, noioso e ripetitivo ma aveva lo scopo di esaminare scrupolosamente tutte le circostanze dei fatti attribuiti all’imputato, per evitare un’ingiusta condanna dell’accusato stesso. Il miracolato aveva già risposto una prima volta alle domande rivoltegli dalla folla, poi una seconda volta ai giudei accorgendosi di aver sollevato dubbi e perplessità anche sulla sua situazione di cieco dalla nascita. La semplice evidenza di non essere stato creduto lo induce a non voler più rispondere una terza volta alle medesime domande rivoltegli da quegli stessi giudei, che hanno dimostrato di non credere alla sua sincerità. Il suo rifiuto a ripetere quanto già detto in occasione dei due interrogatori precedenti appare del tutto comprensibile: stanco di quella tiritera interminabile, il miracolato passa all’attacco ed accusa i giudei di non averlo ascoltato e creduto. Sordi alla testimonianza di Dio (cf. 8,43.47), i giudei non cambierebbero le loro opinioni neppure se ascoltassero per la terza o la quarta volta la deposizione dell’uomo guarito grazie alla potenza di Dio, che agisce e guarisce attraverso Gesù di Nazareth. A meno che, ironizza l’arguto uomo risanato, i suoi giudici vogliano ascoltare ancora una volta ciò che Gesù ha detto e fatto per diventare suoi convinti discepoli; non sarebbe una cosa scandalosa se pure loro dessero credito e testimonianza a quell’Uomo capace di compiere prodigi così grandi e, a loro volta, rendessero “gloria a Dio” (9,24) per essere stati beneficati dall’arrivo di un simile “profeta” (9,17), mandato da YHWH allo scopo di dimostrare che la sua benevolenza per Israele non era venuta a mancare!
Il poveretto non s’immagina neppur lontanamente di aver calpestato un nido di vipere. A ciò che considerano un vero e proprio insulto alla loro intelligenza ed integrità religiosa e morale, i giudei reagiscono con violenza insultando a loro volta il miracolato ed accusandolo di essere proprio lui “discepolo” di quel violatore del sabato, del quale non hanno affatto stima alcuna. Considerare i giudei come potenziali “discepoli di Gesù” equivale ad insultarli e coprirli di vergogna inaudita: solo di Mosè essi sono i discepoli e gli eredi spirituali legittimi e, all’infuori degli scribi farisei, nessuno può a buon diritto aspirare ad essere od a ritenersi vero discepolo di Mosè! Quando i farisei contrappongono a Gesù il profeta e legislatore Mosè, “al quale Dio ha parlato”, i lettori di buona memoria non possono fare a meno di ricordare che Gesù ha citato Mosè proprio come suo testimone (cf. 5,46). Per questi giudei, Gesù è solamente un uomo dalle oscure origini ed essi sospettano che egli provenga dal “regno di satana”. Per la maggioranza di loro Gesù non può in alcun modo “venire da Dio” (9,16), anche se gli si attribuiscono poteri taumaturgici. Affermando di non sapere “ di dove sia”, i giudei intendono disprezzare Gesù ma, senza rendersene conto, ammettono di non comprendere la rivelazione di Dio (cf. 7,28; 8,14), di cui non sanno riconoscere le opere. Proprio i presuntuosi “discepoli di Mosè”, che si considerano i veri custodi della Legge, restano ottusamente incapaci di riconoscere il Rivelatore di Dio, del quale Mosè ha scritto e reso testimonianza parecchi secoli prima della sua venuta tra gli uomini.

30 Rispose loro quell’uomo: “Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31 Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32 Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33 Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”. 34 Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. E lo cacciarono fuori.
Un uomo senza cultura tira le orecchie a quei sapientoni e trova stupefacente che essi non sappiano “di dove sia” Gesù e non siano in grado di giudicare l’operato di Dio. A lui, invece, che non sa né leggere né scrivere a causa della cecità congenita ma che, con tutta probabilità, ha frequentato la sinagoga ed ha saputo ascoltare la Parola di Dio proclamata e spiegata da quegli stessi “maestri” che gli stanno ora di fronte per interrogarlo, appare chiara ed evidente la spiegazione dei “segni” compiuti da Gesù. Chi opera prodigi così inauditi non può che “venire da Dio”, il quale ascolta ed esaudisce chi è timorato di Lui e compie la sua santissima volontà. In quel “noi sappiamo” (9,31), che contrappone la conoscenza e la sapienza di chi crede all’ignoranza di chi non crede, è racchiusa l’esperienza di fede dei cristiani della comunità dell’evangelista, i quali replicavano alle accuse dei giudei increduli del loro tempo con le medesime argomentazioni del cieco nato. Nel mondo giudaico circolavano voci insistenti circa le arti magiche praticate da Gesù e tali accuse erano riportate anche dai grandi Padri apologisti del II-III secolo d.C. come s. Giustino (Dialoghi, 69,7) ed Origene (Contro Celso 3,1). A tali calunnie si poteva controbattere con le motivazioni addotte dall’uomo risanato, poiché nel giudaismo i miracoli erano ritenuti esaudimenti di preghiere. Un detto rabbinico coincide quasi alla lettera con il concetto espresso dal miracolato: “Sono esaudite le parole di ogni uomo nel quale c’è timore di Dio”. Nel caso del cieco nato, poi, si tratta di una guarigione miracolosa mai udita prima d’ora, perciò Gesù non avrebbe mai potuto effettuarla se non fosse stato “da Dio”.
La risposta astiosa e velenosa dei giudei non si fa attendere: “Sei nato tutto nei peccati” (cf. Sal 51,7). I giudei non si riferiscono al generale irretimento nel peccato e nella colpa condiviso da tutto il genere umano (cf. Gen 8,21; Gb 14,4), bensì alla speciale costituzione peccatrice di quest’uomo, che è nato cieco. Essi intendono imputare la sua disgrazia ai peccati dei suoi genitori (9,2) e presentarlo all’attenzione del popolo come un uomo reietto da Dio. Come osa, poi, questo peccatore congenito insegnare a loro, che sono studiosi qualificati della Scrittura e scrupolosi osservanti della Legge? I giudei sono accusati dall’evangelista di una cecità e di un peccato più gravi di quelli attribuiti da loro al cieco nato: oltre a non aver compreso la Rivelazione di Dio e ad aver respinto il Rivelatore, essi sono colpevoli anche di presuntuosa arroganza e di vanità. La loro cecità è tipica degli uomini che si vantano della propria saggezza ed autorità, al punto di non temere di ricorrere alla forza ed alla violenza quando rimangono a corto di argomenti convincenti per opporsi a ciò che considerano errore.
E lo cacciarono fuori. Il poveretto non viene buttato fuori semplicemente dal luogo in cui si è svolto l’interrogatorio, ma viene, in senso più proprio, “scomunicato”, cioè espulso dalla comunione di fede giudaica e privato dei suoi diritti personali e sociali. Per mettere a tacere un testimone scomodo della verità non c’è niente di meglio che fare terra bruciata intorno a lui e definire falsa la sua testimonianza.

35 Gesù seppe che lo avevano cacciato fuori e, incontratolo, gli disse: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”. 36 Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. 37 Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. 38 Ed egli disse: “Io credo, Signore!” e gli si prostrò innanzi. 39 Gesù allora disse: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. 40 Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo forse ciechi anche noi?”. 41 Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane.
Gesù viene a sapere della violenza gratuita subita dal poveretto che ha risanato e, non volendo perdere nessuno di coloro che il Padre porta a Lui (cf. 6,38), lo va a cercare e lo interpella direttamente per condurlo alla fede piena. Incontrato il cieco risanato, non gli chiede direttamente: “ credi in me?”, ma in modo ancora velato gli domanda se crede nel Figlio dell’uomo, sollecitando da lui una risposta del tutto personale e priva di tentennamenti, che scaturisca dal profondo del cuore.
Tu credi nel Figlio dell’uomo? Gesù sa fin troppo bene che gli “altri” non credono, ma sa anche che quest’uomo non ha ceduto alle lusinghe ed alle minacce di coloro che non credono (9,22) e che, anzi, ha subito senza ripensamento alcuno una palese ingiustizia da parte delle autorità preposte a guidare, con cuore integro ed onesto, le sorti religiose ed i principi morali del popolo eletto. Il miracolato aveva già compiuto di suo un grande cammino di fede, sorretto dalla formazione religiosa giudaica e da una formidabile fiducia nella Provvidenza divina ed ora è pronto a compiere il passo definitivo incontro a Cristo.
Chi è, Signore, perché io creda in lui? L’ultimo diaframma, che separa l’uomo dalla fede in Gesù e che lo rende ancora per poco “non vedente”, viene rimosso da Gesù in persona con una formula di auto-rivelazione: “Colui che parla con te, è proprio lui” (formula equivalente a: Sono io). A questo punto, la vista del cieco è pienamente recuperata, sia in senso fisico che metafisico; la professione di fede dell’uomo risanato viene espressa con parole (“Io credo”) e con gesti (“gli si prostrò innanzi”) di grande rilevanza simbolica: i veri cristiani sono coloro che accettano con la mente, col cuore e con la condotta di vita la loro dipendenza assoluta da Cristo, Signore della storia e Dio dell’universo, che siede alla destra del Padre (cf. Sal 110,1; Mt 22,44p; At 2,33-35; Eb 1,13; 10,12-13; 1Pt 3,22) e davanti al quale "ogni ginocchio si piega in cielo, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10). Il Messia tanto atteso da secoli è presente in carne ed ossa davanti a quegli occhi umani, che ora “sanno vedere” ben di là delle apparenze e dei tanti pregiudizi che ancora affliggono i tanti farisei della storia (inclusi numerosi cristiani, che sono tali solo per aver ricevuto il battesimo, ma si sono rifiutati più o meno consapevolmente ed intenzionalmente di crescere quotidianamente nella fede e di accogliere nella loro vita la gran novità del Vangelo di salvezza, annunciato da Gesù e da coloro che sono i suoi “inviati”).
L’uomo risanato si prostra ai piedi di Gesù per adorarlo, forse consapevole di trovarsi di fronte il Rivelatore di Dio in persona, il Messia, il Profeta tanto atteso. La prosternazione (proskúnesis) come gesto di adorazione sarà pienamente consapevole dopo la resurrezione di Gesù (cf. 20,27-29), allorquando il diffidente e cauto Tommaso capirà che Colui che gli si è mostrato con le ferite dei chiodi e del colpo di lancia non è un fantasma né un’allucinazione, ma nientemeno che il Figlio di Dio entrato definitivamente, con la resurrezione dai morti, nella gloria del Padre, dal quale era stato inviato tra gli uomini per rendere accessibile a costoro l’infinito amore di Dio per le sue creature. Anche se, con tutta probabilità, l’uomo risanato non comprende appieno il significato del titolo che Gesù si attribuisce (Figlio dell’uomo), tuttavia egli non esita a professare la sua fede in Lui e diventa, a pieno titolo, un vero e proprio “veggente”, uno che vede Dio a faccia a faccia: tu lo hai visto. L’evangelista usa il verbo orào per significare che la vista di quell’uomo è ormai orientata verso la fede nell’Inviato di Dio.
Il verbo “prosternarsi” o “prostrarsi” (in greco, proskunèin) potrebbe esprimere un semplice omaggio reso ad un uomo, ma l’evangelista ha certamente inteso suggerire qualcosa di più con quel gesto compiuto dal cieco guarito. Nel IV Vangelo, infatti, questo verbo è usato solo per indicare l’adorazione di Dio (4,20-24; 12,20); Gesù è il vero tempio (2,21) ed il luogo della vera adorazione del Padre (4,23). In Gesù è Dio stesso che si accosta agli uomini nella pienezza della sua gloria, della maestà, della potenza soccorritrice e della bontà salvifica (cf. 6,20.69; 14,9s; 20,28). Perciò il gesto dell’uomo, anche se non deve esprimere una formale adorazione di Gesù in quanto Dio, vuole però indicare che al portatore della salvezza inviato da Dio viene resa ed è dovuta la venerazione con cui è onorato ed adorato Dio stesso. In tal modo si manifesta la progressione dell’uomo dalla sua fede giudaica (9,31-33) a quella cristiana.
A colui che prima era stato “cieco” e che ora è divenuto “veggente”, Gesù rivolge una parola profonda, fondata su questo simbolismo. La venuta di Gesù sulla terra, dopo essere “disceso” dal cielo che di diritto gli appartiene in virtù della sua natura divina, ha il significato di un giudizio od azione giudiziaria (krìsis) ed Egli riveste i panni del giudice (cf. 5,22.27.30), senza che ciò sia in contraddizione con la sua missione salvifica (cf. 3,17; 8,15; 12,47). Per chi rifiuta l’Inviato di Dio, infatti, la sua colpevole incredulità diventa per ciò stesso un giudizio (cf. 3,18; 12,48). Tale giudizio dà luogo ad una divisione tra gli uomini, dei quali gli uni scelgono di essere illuminati dalla luce e compiere le opere di Dio, mentre gli altri preferiscono vivere nelle tenebre dell’incredulità e dedicarsi ad opere malvagie.
L’incisiva durezza del giudizio appare nel fatto che i ciechi vedono e coloro che ritengono di vedere bene diventano ciechi. Tale situazione paradossale è esemplificata dal cieco nato e dai farisei che lo hanno interrogato, insultato, deriso e scomunicato dalla comunità religiosa giudaica. Il primo è diventato veggente non solo con gli occhi del corpo ma anche col cuore pieno di fede, mentre i secondi sono rimasti accecati dal loro orgoglio e sono diventati incapaci di recepire le realtà spirituali e divine. Il vedere è virtù propria di chi crede, per cui il credente è abilitato ad accedere alla sfera della luce di Dio, mentre la cecità è il vizio tipico dell’incredulo, che si abbandona al potere malefico delle tenebre.
Io sono venuto in questo mondo per giudicare. Il giudizio non è solo frutto della scelta libera e volontaria degli uomini (cf. 3,19), che decidono se credere o no all’Inviato di Dio, ma è anche conseguenza della volontà e della determinazione divina, in forza della quale l’uomo è sollecitato a prendere una posizione favorevole o contraria al progetto salvifico di Dio. Non sono ammesse le posizioni neutrali di fronte alla mano che Dio ha teso agli uomini per strapparli dalla loro “cecità”. L’indifferenza è già, di per sé, un rifiuto e come tale essa viene giudicata da Dio.
Alcuni farisei, che si trovano nei pressi di Gesù e dell’uomo guarito dalla cecità, sentono le dure parole di condanna pronunciate dal Maestro e si sentono presi di mira. Poiché l’uso traslato dell’espressione “essere cieco” era già noto dall’antico Testamento (cf. Is 42,16.18 ss; 43,8) ed in seno al giudaismo (Sap 2,21; Filone d’Alessandria) col significato di cecità spirituale, essi hanno buoni motivi per ritenersi offesi, ma la risposta di Gesù alla loro domanda (“siamo forse ciechi anche noi?”) li imbarazza ancor di più.
Il Maestro solleva la questione della colpa ed inchioda i farisei alle loro responsabilità. L’accecamento è nei piani di Dio e si attua con la venuta di Gesù, ma non va inteso come un decreto divino teso ad abolire la libera decisione degli uomini, che sono “ciechi” per loro colpa. Se i farisei sono ciechi e non riescono a vedere in Gesù l’inviato di Dio, devono incolpare solo se stessi e la propria presunzione, che li induce a non scrutare con retta intenzione il significato delle Scritture, di cui affermano di conoscere tutto.
In secondo luogo, la risposta di Gesù mira ad aprire gli occhi dei farisei sulla loro intima costituzione, non tanto rinfacciando loro di essere ciechi ma, con dialettica tipica dei rabbini, accusandoli di avere la “pretesa” di vedere. Essendo essi esperti di Sacra Scrittura e teologicamente molto ben preparati, dovrebbero capire che Gesù “viene da Dio” (9,29-33), ma se non vogliono intender ragioni la causa di tutto ciò risiede nel loro peccato di orgoglio.
In terzo luogo, Gesù spiega ciò che Egli intende per cecità: essa è un’interiore chiusura dell’uomo alla rivelazione di Dio ed è causata da presunzione e da errata valutazione di sé. La ricerca del proprio onore, che nel caso di questi farisei addirittura prende a pretesto l’onore di Dio (cf. 9,24; 16,2) è il vero motivo della loro chiusura alla rivelazione e della loro cecità (cf. 5,40-44; 8,49; 12,43). Il peccato dei farisei è molto ben illustrato dal comportamento che essi hanno tenuto nei confronti del cieco nato: rifiuto della sua testimonianza e odio nei suoi confronti, sfociato nell’espulsione dalla sinagoga, perché ha confessato e sostenuto la sua fiducia nel “profeta” di nome Gesù. A ciò si aggiunge il rifiuto, immotivato e senza alcuna comprensione, dell’Inviato di Dio e questo è il peccato per antonomasia nel IV Vangelo (cf. 8,21; 15,22.24; 16,9; 19,11). Dal momento che i farisei non si lasciano distogliere dalla loro presunzione neppure dal grande segno e dalla testimonianza diretta del miracolato, il loro “peccato” rimane grande ed imperdonabile. Gesù mette a nudo, così, l’incoerenza del comportamento umano: quando l’uomo si ripiega su se stesso e si nega all’esigenza di Dio, che pure insinua il dubbio nel suo cuore, s’irrigidisce nel suo atteggiamento quanto più duramente si trova a confronto con la richiesta di Dio e non riesce a liberarsi della sua ostinazione egocentrica.
Nel corso dei secoli, la vicenda del cieco nato ha suscitato numerose interpretazioni, due delle quali meritano un’attenzione particolare per la loro originalità. Per s. Ireneo di Lione il gesto di Gesù, che quasi modella gli occhi del cieco nato, gli appare come un portare a compimento il gesto di Dio che modella il corpo d’Adamo:
“Quando si trovò di fronte il cieco dalla nascita, gli rese la vista non con parole, ma con un’azione e ciò non per caso, ma per mostrare (che fu) la mano di Dio che all’inizio creò l’uomo. Perciò, ai discepoli i quali chiedevano per quale motivo fosse cieco, se per colpa sua o per colpa dei suoi genitori, rispose: «Né costui né i genitori peccarono, ma ciò avvenne perché si manifestasse l’opera di Dio in lui» (Gv 9,3). Opera di Dio è la formazione dell’uomo, che egli compì con l’azione, come dice la Scrittura: «Il Signore prese del fango dalla terra e plasmò l’uomo» (Gen 2,7). Per questo il Signore (nel caso del cieco nato) sputò per terra, fece un po’ di fango e lo plasmò sugli occhi indicando come avvenne la prima creazione e rivelando, a coloro che sanno intendere, la mano di Dio con la quale fu plasmato l’uomo. Ciò che il Verbo aveva omesso di fare nel seno della madre, compì poi pubblicamente, perché in lui fosse manifesta l’opera di Dio e noi non andassimo più a cercare altra mano che abbia plasmato l’uomo e altro Padre, poiché ora sappiamo che la stessa mano di Dio che ci plasmò al principio e che ci plasma ancora nel seno della madre, negli ultimi tempi venne a ricercare noi che eravamo perduti e recuperò la pecorella perduta, se la pose sulle spalle e la riportò tutto felice con le altre alla vita” (tratto dall’opera di s. Ireneo, Contro le eresie, V, 15,2).
Con molta intelligenza, s. Ireneo proietta sul testo la luce dell’Antico Testamento, che ha il suo compimento nel Nuovo, poiché il gesto di Gesù è strettamente collegato al gesto creatore primordiale, dal quale è scaturito l'uomo. Quanto, poi, al lavaggio nella piscina di Sìloe, esso permette al cieco nato di riconoscere Colui che lo ha modellato fin dal seno materno (momento della creazione) e di poter incontrare il Signore che gli ha donato la vista, ossia la fede (momento della salvezza). Per s. Ireneo c’è quindi una continuità teologica e storica tra i due eventi, quello della creazione e quello della salvezza, che fanno parte di un unico progetto provvidenziale ideato da Dio fin dall’eternità, di cui Cristo Gesù è il fondamento unico ed irripetibile, essendo l’unico vero Mediatore tra Dio Padre e l’uomo.
In modo diverso da s. Ireneo, ma con intuizione altrettanto originale, s. Agostino focalizza la propria attenzione sul segno dell’acqua e sull’invio del cieco alla piscina di Sìloe:
Era stato spalmato (con quel fango), ma ancora non vedeva. Egli (Cristo) lo mandò alla piscina, denominata Sìloe. L’evangelista stesso ha creduto opportuno spiegare il nome di questa piscina e dice: « Ciò che significa: “Inviato”». (Il cieco) lavò dunque i suoi occhi in questa piscina, che significa “Inviato”, egli fu battezzato in Cristo. (Il Cristo) l’ha battezzato in qualche modo in se stesso… Avete udito un grande mistero… (tratto dall’opera In Joannem 44,2).
Agostino, pertanto, si sofferma su due dati importanti del racconto giovanneo: l’azione di lavarsi ed il nome di Cristo che porta la piscina. Da questi due elementi narrativi assai rilevanti dal punto di vista teologico, egli deduce il significato sacramentale del racconto. Anche se non tutti gli esegeti condividono la lettura sacramentale in chiave battesimale del testo, tuttavia va sottolineato come il dialogo tra Gesù ed il cieco nato sia stato inserito nella liturgia catecumenale (mercoledì della 3ª settimana di Quaresima), dove giunge fino alla professione di fede; nelle catacombe, poi, l’episodio viene raffigurato per esprimere la fede dei cristiani nel valore del battesimo.
Al di là di ogni valutazione teologica ed esegetica del racconto testé esaminato, rimane una spontanea simpatia per la figura del cieco nato, nel quale può e deve riconoscersi ogni cristiano seriamente intenzionato a non lasciarsi sfuggire l’occasione propizia di incontrare Cristo e di farsi illuminare da Lui. Se si legge attentamente la pericope, ci si accorge che l’incontro tra Gesù ed il cieco nato non è stato casuale e che esso è avvenuto grazie ad una libera iniziativa di Cristo, che “vede” il cieco mentre passa per via. Il cieco “non vede” ancora il Salvatore che gli si sta facendo incontro, ma è tuttavia un uomo “in attesa” di essere salvato, anche se non chiede nemmeno di essere guarito, non avendo la piena consapevolezza del proprio bisogno di “vedere” e di allargare i confini della propria conoscenza interiore. Ciononostante, costui sa essere pronto e non si fa cogliere alla sprovvista davanti alla novità di un cambiamento radicale della propria esistenza; in fondo, egli ha percepito l’inadeguatezza del proprio modo di rapportarsi con l’esterno ed ha saputo ascoltare la profonda insoddisfazione scaturita dal proprio intimo più profondo. Il cieco “sente” il proprio limite e non si abbandona alla disperazione, ma reagisce prontamente all’aiuto inatteso che gli viene da quella “Voce”. Questa sua disponibilità ad “ascoltare”, unitamente ad una fiducia “cieca” in Colui che gli sta parlando, fanno di quest’uomo un esempio da imitare a tutto tondo. Il coraggio dimostrato nel sostenere accuse, insulti, minacce e violenze è frutto di una accoglienza totale e piena della Parola di Dio divenuta Luce sfolgorante per i suoi occhi oscurati dalle tenebre dell’ignoranza e del peccato esistenziale, che lo accomunano a tutti gli uomini che si affacciano alla vita su questa terra tribolata ed inquieta. Tutti gli uomini sono “ciechi” a causa del peccato originale ereditato dai progenitori e sono prigionieri delle tenebre del male, della presunzione e dell’ignoranza. Per tutti, però, arriva il momento di incontrarsi con Colui che, Lui solo, può donare la “vista” a patto di accettare la sua Parola di salvezza. Non sempre sono disposti a lasciarsi guarire, cioè salvare, i più intelligenti ed i più furbi tra gli uomini, forse perché si fidano troppo della propria intelligenza e furbizia e presumono di potersi salvare da soli senza bisogno di affidarsi ad un Salvatore, che è sempre pronto a tendere la mano ma non impone mai d’autorità il proprio aiuto. Si può essere come il cieco nato, umile e semplice di cuore ma pronto a collaborare attivamente e con totale fiducioso abbandono con il Signore-che-salva (GESÙ’), oppure come i farisei, arroganti e presuntuosi, prigionieri del proprio arido sapere ed incapaci di un minimo sentimento di gratitudine nei confronti di quel Dio, che credono di servire e di amare solo perché si attengono scrupolosamente a delle norme, in nome delle quali sono pronti anche ad uccidere chi non la pensa come loro.
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07/07/2010 10:05
 
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Gesù buon Pastore
(Gv 10, 1-21)

Nel Libro di Enoc, un testo apocrifo composto in epoca anteriore al 164 a.C., la seconda visione quivi descritta racconta la storia del popolo ebreo sotto il velo delle vicissitudini di un gregge di montoni alle prese con dei lupi. Uno dei temi ricorrenti è che i montoni sono ciechi ma, per intervento del Padrone, essi cominciano a vedere; il testo congiunge, quindi, il tema della cecità a quello del gregge condotto dal vero pastore (cf. Apocrifi dell’Antico Testamento a cura di P. Sacchi, I, pp. 612-630). L’associazione tra l’immagine della luce e quella del buon pastore non è, come si può ben vedere, nuova nel panorama letterario religioso di Israele e ciò è abbastanza comprensibile se si tiene conto del fatto che l’evangelista conosceva bene il retroterra culturale e religioso del suo popolo. È ovvio, pertanto, l’aggancio tematico tra la guarigione del cieco nato per opera di Colui che si manifesta come Luce che illumina il mondo ed il discorso di auto-rilevazione di chi si propone, autorevolmente, come l’unica vera Guida di tutti gli uomini.
La metafora del pastore, che protegge e conduce al pascolo il proprio gregge, difendendolo dai lupi, esprimeva bene il rapporto tra il sovrano, umano o divino, ed i suoi sudditi e tale immagine era frequentemente usata negli scritti dell’antico Vicino Oriente (cf. l’Inno a Shamash in Testi sumerici ed accadici, UTET, Torino1987, pp. 385-386. L’autore dell’inno si rivolge al dio sole definendolo luce che illumina la terra, giudice dei cieli e pastore di tutte le creature).
Limitandoci ai testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, la metafora del pastore alla guida del proprio gregge veniva spesso utilizzata dagli autori ispirati del testo sacro per esprimere lo stretto legame esistente tra il popolo di Israele e YHWH (cf. Gen 49,24; Ger 13,17; 23,1.3; Ez 34,31; Sal 74,1; 79,13; 80,2; Mi 7,14), la cui premura nei confronti dei suoi fedeli adoratori non era mai venuta meno, sia durante l’esodo dall’Egitto (Sal 78,52s; 77,21; 95,7; Am 3,12), sia in occasione delle pur tristi vicende storiche successive. Nella fedeltà di Dio a favore del suo popolo, i sacri autori della Bibbia ravvisavano un progetto di salvezza proiettato in un futuro lontano ma certo (Is 49,95). Persino la relazione personale del pio israelita con il suo Dio era sovente espressa dall’immagine del buon pastore (Sal 23), che garantisce sicurezza e pascoli sempre verdeggianti alle sue pecore, nonostante le aggressioni che provengono dall’esterno del gregge (cf. Is 40,11; Sir 18,13). Nel corso della storia Dio ha, di volta in volta, affidato il suo popolo ad alcuni suoi servi, fedeli esecutori della sua suprema volontà, affinché il popolo da Lui prescelto fra molti popoli della terra non rimanesse privo di guida “come un gregge senza pastore” (Nm 27,17; 1Re 22,17; Ger 50,6; Mt 9,36; Mc 6,34). In questo senso erano considerati “pastori” Mosè, Giosuè, i Giudici e persino il re persiano Ciro il Grande (Sal 77,21; Nm 27,17; 2Sam 7,7s; Sal 78,79s; Is 44,28). Nel testo sacro non mancano le invettive contro i pastori infedeli, che sfruttano le pecore e lasciano andare in rovina il gregge per calcolo o per tornaconto personale; contro questi cattivi pastori si infiamma la collera divina, dalla quale essi saranno spazzati via dalla faccia della terra con grande ira e furore (Ger 22,22; cfr. 2,8; 10,21; Zac 11,15-17).
La triste esperienza dell’abuso di potere, di cui si sono resi colpevoli i capi religiosi e politici del popolo di Israele nel corso della sua storia tribolata e ricca di contraddizioni, ha suscitato l’attesa che il Signore stesso stia per tornare ad occuparsi di persona delle pecore del suo gregge, poiché esse appartengono a Lui solo (Ger 22,2-3). L’intervento di Dio, contenuto come promessa nelle parole del profeta (“Voi avete lasciato… che le mie pecore si sbandassero! Ma io stesso radunerò il resto delle mie pecore!”), si concreta nell’annuncio messianico di un misterioso pastore che Dio susciterà, secondo i desideri del suo cuore, come un nuovo Davide. Grazie al Messia-Pastore, il popolo di Israele “sarà salvato ed abiterà nella sicurezza” (Ger 23,5s). Il testo profetico di Ez 34 sintetizza, nel suo linguaggio pastorale, il tema della salvezza di Israele sotto la guida sicura e rassicurante di YHWH, il Pastore supremo che giudica e salva, o condanna, non solo le pecore del suo gregge ma anche gli stessi pastori, inviati come suoi rappresentanti per prendersi cura del suo gregge.
Sembra evidente che l’evangelista abbia radicato il suo testo nel terreno biblico (cf. anche Mt 2,6; 9,36; 25,32; 26,31; Mc 6,34; Lc 15,4-6; At 20,28; Ef 4,11; Eb 13,20; 1Pt 5,2.4; Ap 2,27; 7,17; 12,5; 19,15), ma la sua opera rimane originale poiché il Pastore di cui parla è unico (non si fa cenno ad altri pastori cui siano rivolti dei rimproveri) e si tratta di un Pastore che dona la vita per le sue pecore, fatto del tutto inverosimile o assai poco verosimile nell’abituale comportamento degli uomini, che pensano a salvare se stessi ed a lasciare le pecore al loro destino di fronte ad un grave pericolo.
Il discorso si articola in due parti tra loro disuguali, separate da un’annotazione dell’evangelista sull’incomprensione degli ascoltatori (10,6). La prima parte (10,1-5) presenta un quadro pastorale nello stile impersonale (egli, il pastore), mentre la seconda parte applica a Gesù e sviluppa in stile personale (io) due temi ripresi dal quadro iniziale (10,7-10; 11-18). La pericope si conclude con un’osservazione dell’evangelista circa la divisione provocata nell’uditorio dalle parole di Gesù (10, 19-21).

10,1 “In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro ed un brigante. 2 Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. 3 Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. 4 E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. 5 Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. 6 Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro.
Per esprimere il conflitto aspro e molto polemico esistente fra Lui ed i farisei, Gesù ricorre ad una paroimìa (corrispondente all’ebraico mashàl), vale a dire una similitudine espressa per enigmi, un quadro simbolico desunto da una normale scena di vita pastorale, di cui però gli astanti non comprendono il significato (10,6).
All’epoca di Gesù esistevano due tipi di “ovile” (aulé): lo stabbio eretto all’aperto, fuori del villaggio ed utilizzato durante il periodo del pascolo e l’ovile vero e proprio, una sorta di “cortile” che si trovava in posizione adiacente ad una casa ed era protetto da un muro di cinta. In questo secondo tipo di ovile, o cortile stabile, venivano spesso custodite le pecore di piccoli greggi appartenenti a padroni diversi, i quali stipendiavano un guardiano fisso che vigilava sulle greggi durante il periodo di riposo dei pastori. Nel suo breve racconto, Gesù farebbe riferimento proprio ad una struttura di questo genere. Di primo mattino, ogni pastore si presentava all’ingresso dell’ovile (la porta) e, dopo l’avvenuto riconoscimento della sua identità, veniva fatto entrare dal guardiano all’interno del cortile, dove non aveva alcuna difficoltà a riconoscere le proprie pecore ed a radunarle chiamandole anche per nome. Una volta radunato il proprio gregge, il pastore lo conduceva al pascolo mettendosi alla testa delle pecore, che lo seguivano senza troppe difficoltà poiché ne “conoscevano la voce” (10,4).
L’ambientazione pastorale del breve racconto dà modo a Gesù di alludere alle intenzioni malvagie dei suoi oppositori farisei, da Lui definiti ladri, briganti, estranei e, per contrasto, gli offre l’occasione per porre Se stesso al centro di questo ideale accerchiamento ostile presentandosi e rivelandosi come il Pastore in reciproco rapporto di conoscenza con le “sue” pecore. Chi è estraneo al gregge, non sempre è ben intenzionato nei confronti delle pecore!
Il duplice “amen” (tradotto con l’espressione “in verità, in verità”), con cui Gesù introduce la similitudine o racconto simbolico, ha lo scopo di rafforzare lo stridente contrasto tra la figura positiva e centrale del pastore e quella negativa dei nemici del gregge, di cui sono definite le dinamiche conflittuali attraverso azioni tra loro opposte: il pastore “entra” per la porta, mentre i ladri e briganti “salgono” da un’altra parte del recinto; le pecore “seguono” il vero pastore perché ne “conoscono” la voce, ma “fuggono” dall’estraneo di cui “non conoscono” la voce. Al contempo, il duplice “amen” iniziale anticipa e rafforza il valore di quello successivo (10,7), che introduce una duplice formula di auto-rivelazione divina: “Io sono la porta… Io sono il buon pastore” (10,7.11).
Il vero pastore si presenta alla porta dell’ovile, che sta a simboleggiare il diritto e la legittimità del pastore, avallati l’uno e l’altra dalla presenza del portinaio. Entrato nel recinto dell’ovile, il vero pastore si fa riconoscere dalle sue pecore chiamandole per nome “una per una” poiché con ciascuna di esse ha stabilito un rapporto personale di reciproca conoscenza e fiducia, al punto che le pecore seguono spontaneamente lui solo, di cui riconoscono la voce anche senza vederlo. Nella cultura semitica, il “nome” era l’equivalente dell’essere e, secondo la prospettiva biblica, il legame tra il nome e la persona che lo portava era assai stretto e dinamico. Sia il nome in sé che l’imposizione del nome ad una persona implicavano un rapporto di relazione interpersonale pressoché unica ed irripetibile ed era impensabile intrattenere un vero rapporto dialettico con un essere umano di cui non si conosceva il nome. Chiamare per nome il proprio interlocutore aveva il significato di affermare il peculiare diritto ad un rapporto personale esclusivo, quasi possessivo ed è per questo motivo che gli ebrei evitavano di chiamare per nome il loro Dio, consapevoli di non poterlo “possedere” né di poter avere con Lui un rapporto di superiorità. Il sacro Nome proprio di Dio, YHWH, poteva essere pronunziato dal sommo sacerdote soltanto una volta l’anno, nel giorno dello yôm kippùr (o giorno dell’espiazione) ed a Lui ci si poteva rivolgere, direttamente od indirettamente, usando nomi alternativi, generici (El, Elohim, Adonai, Shaddaj) oppure definendolo semplicemente “il Nome” (Hashshèm). La bestemmia contro Dio era sanzionata con l’immediata pena di morte!
Il pastore, che chiama per nome ogni sua pecora (usanza attestata ancora oggi tra i pastori palestinesi), afferma dunque il proprio diritto ad un rapporto personale, privilegiato ed unico con ciascuna di esse e, al contempo, sancisce la loro appartenenza a lui soltanto. Appare ovvio ritenere che l’evangelista abbia inteso sottolineare lo stretto vincolo che lega Gesù a tutti coloro che credono in Lui (cf. anche Is 43,1) e ne “ascoltano la voce”, distinguendosi da coloro che “non sanno” riconoscere la sua parola e si tengono in disparte da un progetto di salvezza offerto a tutti.
Una volta radunate le proprie (tà ìdia) pecore, il pastore le fa uscire dal recinto e le conduce fuori, verso nuovi pascoli, camminando davanti a loro e prendendosi la responsabilità di guidarle per sentieri sicuri; fiduciose, le pecore lo seguono perché lo riconoscono come colui che si prende veramente cura di loro (“conoscono la sua voce”). Nel discorso figurato, ciò che importa all’evangelista è che le pecore seguano obbedienti il loro pastore, non un altro. Esse conoscono la voce del loro pastore (cf. Sal 95,7) e stabiliscono con lui un rapporto di reciproca confidenza: al richiamo del pastore corrisponde l’ascolto delle pecore. Le espressioni “seguire” (che esprime la sequela nella fede) e “conoscere la sua voce” (che significa conoscere il Rivelatore e comprendere la sua rivelazione) sono familiari ai lettori credenti del Vangelo, i quali sanno bene a chi si riferisce l’evangelista quando contrappone alla “voce” del vero pastore quella minacciosa degli “estranei”. Poco prima (10,1) l’autore aveva definito “ladri e briganti” coloro che entrano nell’ovile scavalcando il recinto senza passare dalla porta, ora li chiama “estranei”; ma chi sono questi loschi figuri, che sembrano minacciare l’esistenza stessa delle pecore? Gesù si è presentato al popolo d’Israele (il gregge di Dio, secondo la definizione del Sal 99,3-4) per suscitare la sua fede nei propri confronti, poiché Egli è l’Inviato di Dio e, per condurre a termine tale missione, è entrato nel Tempio (l’ovile) al fine di ammaestrarlo. La maggior parte del popolo ebraico ha rifiutato di credere in Gesù (il vero pastore), non ha saputo riconoscere la sua voce e non lo ha seguito, ma quanti hanno creduto in Lui si sono posti alla sua sequela ed Egli li ha condotti verso il Padre, facendoli uscire da un ambiente divenuto ormai ostile ed oppressivo, dominato da ladri e briganti (i giudei, ossia i capi religiosi di Israele) che non hanno a cuore le sorti del popolo, ma tramano per condurlo alla rovina. L’immagine del pastore che cammina alla testa delle sue pecore è applicabile, nell’ottica dell’Antico Testamento, anche al popolo di Israele che viene condotto da Dio fuori dall’Egitto (Es 3,10; 6,26; 14,19; Dt 1,33; 4,37; 5,6; Sal 78 [77],52; Is 63,11.14).
Coloro che hanno creduto in Gesù e lo hanno seguito, hanno creato un netto distacco esistenziale con quanti si sono rifiutati di credere (“non seguono l’estraneo… ma fuggono da lui… perché non riconoscono la sua voce”) e tale distacco è reciproco. Come il vero pastore è unito alle sue pecore inseparabilmente, così altri uomini, estranei o lontani dalle pecore, sono separati da esse in modo definitivo e radicale. La similitudine può essere trasferita da un contesto storico-esistenziale ben preciso, caratterizzato dal rifiuto di Gesù da parte dei suoi contemporanei, ad un contesto escatologico nel quale il rifiuto della fede in Gesù da parte degli uomini assume i contorni di un dramma che si consumerà solo alla fine dei tempi, allorquando il giudizio finale sancirà la definitiva separazione delle pecore (i salvati) dai capri (i dannati).
Risulta facile equiparare i “ladri e briganti” ai tanti falsi messia che, nel corso della storia remota e recente, hanno tentato e tentano di spacciarsi per “veri” pastori del popolo di Dio. La storia della Chiesa, in particolare, così come la storia dell’uomo in generale, è piena zeppa di millantatori che, in buona o cattiva fede, hanno cercato di proporre se stessi come gli unici e veri interpreti del Vangelo e della morale evangelica o come i nuovi ed autentici “salvatori” del mondo trascinando con sé alla rovina tanti cristiani sprovveduti e creduloni alla ricerca della soluzione più facile ai propri problemi di carattere esistenziale, siano essi di ordine materiale, etico o religioso in senso stretto. Viene spontaneo pensare che molti di coloro che sono stati sviati dalla retta fede ed indotti a seguire i “falsi” pastori, non si siano nemmeno impegnati più di tanto a “riconoscere” la voce del pastore “vero” e che per calcolo o comodità abbiano preferito assecondare la voce più suadente ed ingannatrice di chi promette e garantisce scorciatoie più convenienti per raggiungere la felicità.
Essi non capirono. La rivelazione di Gesù cozza contro un’incredulità radicale, che sembra insuperabile e senza rimedio. Il resto del discorso di auto-rivelazione non farà che confermare l’oggettivo rifiuto di accogliere il Rivelatore da parte dei destinatari della salvezza.

7 Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. 8 Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9 Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10 Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
Gesù riprende nuovamente il discorso, cercando di chiarire agli astanti perplessi ed increduli il significato della similitudine appena esposta. Il duplice “amen” introduttivo serve a ribadire l’importanza di quanto Gesù sta per affermare paragonando se stesso alla porta dell’ovile, attraverso la quale può transitare legittimamente solo il vero pastore delle pecore per condurle fuori del recinto verso pascoli sempre più ricchi ed appetibili o per riportarle dentro l’ovile, al sicuro dai lupi rapaci, dopo averle condotte al pascolo. La “porta” dell’ovile, cui si paragona Gesù, va assunta come simbolo della legittimità di colui che entra e come prova del diritto del pastore ad accostarsi alle proprie pecore. Poiché Gesù è la “porta” d’accesso dell’ovile, interdetta ai ladri ed ai briganti, ne consegue che Egli è anche il vero e legittimo proprietario delle pecore, il loro unico pastore. Poiché il pastore entra dalla porta, egli è indiscutibilmente il pastore delle pecore mentre gli altri sono solo dei malintenzionati che cercano di scavalcare il recinto solo “per rubare, uccidere, distruggere”. Nel momento in cui Gesù, vero pastore, è immesso nella funzione di “porta”, si infrange contro di lui qualsiasi illegittima pretesa di rivelazione, di guida e di salvezza. C’è un unico accesso alle pecore ed è “occupato” da Gesù; c’è un solo portatore di salvezza, una sola via che conduce al Padre: Gesù, la “porta”, il buon pastore (cf. 14,4-6). In quanto unica ed assoluta via alla salvezza, Gesù è la porta attraverso la quale le pecore possono uscire ed entrare nell’ovile in piena sicurezza (10,9); in quanto è l’unico rivelatore, capace di smascherare le cattive intenzioni di ladri e briganti, Egli è l’unica porta per accedere alle pecore con rette intenzioni. Con questa immagine, Gesù si contrappone senza mezzi termini ai tanti falsi messia, che pullulano sulla terra in ogni epoca della storia umana spacciandosi per salvatori dell’umanità.
La scelta della porta, come simbolo del portatore della vera ed unica salvezza, potrebbe stare in rapporto con l’interpretazione in chiave messianica del Sal 118,20: “E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti” (cf. anche Gv 12,13; Mc 12,10; Mt 23,39). In tal caso, l’evangelista avrebbe inteso sottolineare, caso mai ve ne fosse ancora bisogno, l’unicità di Gesù Cristo come mediatore e portatore di salvezza in contrapposizione stridente con qualsivoglia altro pseudo-messia.
L’assolutezza della pretesa di Gesù esclude, pertanto, tutti i concorrenti: ma chi sono quelli venuti prima di Lui ed etichettati come ladri e briganti? Probabilmente l’evangelista aveva nel mirino i farisei, che guidavano il giudaismo a lui contemporaneo e che si opponevano con tutte le loro forze alla fede in Gesù (cf. Mt 23,1-36; Lc 11,39-52; Mc 6,34). Per loro fortuna, le pecore (cioè i credenti in Cristo) non “hanno ascoltato” le false promesse di salvezza formulate dai nemici di Gesù.
Io sono la porta. Gesù ribadisce questa formula di auto-rivelazione, ripetendola una seconda volta dopo il duplice “amen” di apertura, per rafforzare la sua funzione salvifica esclusiva: “se uno entra attraverso di me, sarà salvo”. La salvezza, acquisita mediante la fede in Cristo, viene resa da una sequenza di azioni (entrare, uscire, trovare pascolo) tipicamente semitica e di derivazione vetero-testamentaria (cf. Dt 28,6; 31,2; 1Sam 29,6; 2Sam 3,25); i termini contrari (entrare, uscire), infatti, esprimono in ebraico il concetto di totalità (cf. Dt 6,7) che, in questo caso, ha come fine il raggiungimento della pienezza di vita (trovare pascolo). Pascolando, le pecore si mantengono in vita ed i pingui pascoli sono un’immagine dell’assistenza divina (Sal 23,2), che viene applicata sia alla salvezza di Israele (Ez 34, 12-15) che alla benedizione escatologica (Is 49,9ss). L’evangelista riprende, così, un’immagine antica per far comprendere ai suoi lettori che la vita divina viene comunicata ai credenti attraverso Gesù (10,10).
Per descrivere l’azione malefica dei ladri, dei predoni e degli estranei, l’autore precisa le tipiche azioni del ladro assassino, che “ruba, uccide, distrugge”. Al contrario di costui, Gesù (porta e pastore delle pecore) mantiene in vita le pecore, anzi, vuole accrescere la loro vita oltre misura. La rovina, causata dal ladro assassino e distruttore, è la morte eterna, ossia la perdita della vera vita che solo i credenti possono ricevere grazie a Gesù (cf. Gv 3,16.36; 5,40; 6,33.35.48.51; 14,6; 20,31; Ap 7,17; Mt 25,29; Lc 6,38). L’eccezionale pienezza di vita che viene da Dio è, in altri passi, illustrata con le immagini della sorgente zampillante (4,14; 7,38) o del pane che estingue per sempre la fame (6,35.50.58) ed è qualificata dalla dimensione atemporale dell’eternità. La vita eterna, di cui parla l’evangelista per bocca di Gesù, non è tanto, o non solo, la vita post-mortale presso Dio distinta dalla vita presente, ma è la vita indistruttibile che sopravvive alla morte del corpo, è la vita escatologica che partecipa, con pienezza e sovrabbondanza, della vita stessa di Dio.

11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. 12 Il mercenario, invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; 13 egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 come il Padre conosce me ed io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore.
Gesù riprende l’immagine del pastore con una nuova formula di auto-rivelazione (“Io sono il buon pastore”) per spiegare la sua particolare relazione col Padre e con gli uomini che credono in Lui ed alla sua missione di redenzione. Non si tratta di una nuova parabola, ma dello sviluppo della rivelazione avvenuta poco prima e centrata sulla formula “IO SONO”, tipicamente giovannea. Se in precedenza la figura del “vero” pastore era posta in antitesi coi “ladri e briganti”, ora viene messa in aperto conflitto con la negativa figura del “mercenario”. Il vero pastore non è più tale soltanto perché le pecore di sua proprietà (tà ìdia) ne riconoscono la voce, ma perché si è sviluppata una reciproca conoscenza basata sulla fiducia più totale, garantita dalla disponibilità del pastore a sacrificare la propria stessa vita pur di tutelare quella delle pecore. Tale disponibilità a privarsi di ciò che è più prezioso per un uomo, vale a dire la vita, sottolinea la radicale differenza tra bontà e malvagità, tra verità e menzogna ed un pastore disposto a tanto non può che essere “buono” (in greco suona letteralmente come “bello”, cioè kalòs) e “vero”.
Io sono il buon pastore. All’inizio della parabola, Gesù si era presentato come il legittimo proprietario delle pecore, ma ora si definisce “buon” pastore volendo accentuare il carattere sacrificale della propria relazione con le pecore. Nell’Antico Testamento l’immagine del pastore era applicata, in senso traslato, all’idea dell’assistenza di Dio, il quale guida il suo popolo, proteggendolo, raccogliendolo e circondandolo di cure amorose. Talvolta venivano definiti pastori i capi politici e militari di Israele, mai però il re in carica, poiché costui governava il popolo in nome e per conto di Dio, l’unico vero Pastore di Israele. Nel linguaggio profetico, il titolo di “pastore” in senso proprio era ritenuto legittimamente applicabile, oltre che a Dio medesimo, soltanto al futuro Messia-Re, che sarebbe sorto dalla casa di Davide per guidare il popolo eletto in virtù di un incarico ricevuto da Dio in persona (cf. Ez 34,23ss; Mi 5,1-3). Il profeta noto come Deutero-Zaccaria profetizza di un pastore di Dio che viene ucciso e la cui morte conduce ad una svolta della storia (Zc 13,7-9); egli lo identifica con un misterioso “trafitto” pianto dal popolo (Zc 12,10). Nel Nuovo Testamento tale profezia pastorale viene applicata a Gesù (cf. Mc 14,27 pp; Gv 19,37), che è al tempo stesso pastore e salvatore delle pecore, per assistere le quali è disposto a sacrificare se stesso.
La figura del mercenario, che come salariato conduce al pascolo le greggi, viene disegnata da Gesù in modo totalmente negativo, poiché nel momento del pericolo costui abbandona il gregge al suo destino e se la dà a gambe per salvare la propria pelle. Anche dai pastori salariati ci si aspettava che facessero tutto il possibile per salvare le greggi dagli attacchi degli animali feroci o dei briganti e, secondo il diritto della Mishnà, in caso di evidente negligenza il mercenario era tenuto ad indennizzare il proprietario del gregge per le pecore andate perdute per opera dei predatori (a due od a quattro zampe!). In fin dei conti, lascia capire Gesù, il mercenario non ha alcun vero rapporto con le pecore, poiché a lui interessano soltanto il salario e la propria sicurezza, ma il vero bersaglio di Gesù sono i farisei ed i capi politici del popolo ebraico. Tutti costoro si comportano non come veri o “buoni” pastori di Israele, ma come mercenari, poiché gli uni si limitano a maledire il popolo che ignora la Legge (7,49) e ad espellere dalla sinagoga i malcapitati trasgressori dei numerosi precetti legali (9,22.34; 12,42), mentre gli altri pensano solo a conservare od a migliorare la propria posizione sociale ed economica (11,48). Niente di nuovo sotto il sole, come lamentava a suo tempo il saggio e disincantato Qoélet (Qo 1,9); chi possiede un frammento di potere fa di tutto per non perderlo e nulla lascia di intentato pur di rafforzarlo, allora come oggi!
Quanto alla figura del lupo, c’è chi vi ha ravvisato la strisciante e subdola presenza del diavolo nelle vicende umane, ma, più probabilmente, l’evangelista aveva in mente i tanti falsi profeti e propagatori di false idee circa la salvezza che si stavano profilando all’orizzonte già ai suoi tempi (cf. anche Mt 7,15; At 20,29ss). In senso più generale, il lupo (al singolare, gr. lýcos) andrebbe inteso come simbolo di un grave pericolo, che illustra e definisce il comportamento egoista del mercenario.
La figura negativa del mercenario ha lo scopo precipuo di porre in rilievo il comportamento del “buon” pastore, che si preoccupa delle sue pecore, non le abbandona, non fugge ma, anzi, dà la sua vita per esse. Sullo sfondo oscuro e minaccioso del mercenario, che non ha alcun legame con le pecore né sul piano affettivo né su quello puramente economico, visto e considerato che non gli appartengono, si staglia luminosa la figura del buon pastore, che con le sue pecore ha sviluppato, invece, un reciproco rapporto di amore e di conoscenza, di fiducia e di rispetto. Dopo aver ripetuto nuovamente la formula di auto-rivelazione (“Io sono il buon pastore”), Gesù parla in termini positivi della comunione intima che ha sviluppato con i suoi. Egli li conosce singolarmente nel profondo del loro essere così come il pastore conosce le sue pecore e le chiama per nome; si tratta di un rapporto di confidenza amichevole o, meglio ancora, di tipo familiare. La conoscenza reciproca tra Gesù ed i suoi non è puramente speculativa, razionale ma, secondo il tipico modo di concepire la conoscenza nel linguaggio semitico in generale e biblico in particolare, essa consiste in una personale unione molto intima che sfocia in una sorta di fusione del cuore e della mente di due persone in un unico essere, di cui la conoscenza esistente tra due coniugi è un’immagine assai calzante. Come Gesù “conosce” i suoi, così i suoi “conoscono” Lui e tale relazione scaturisce da un dono che Dio Padre ha fatto al Figlio suo unigenito, avendogli “consegnato” ed “affidato” come suo gregge molti uomini, letteralmente strappati dai lacci di un “mondo” malvagio e dominato dal male. Dietro l’immagine del buon pastore, che ama le sue pecore ed è ricambiato d’altrettanto amore da parte loro, si cela il concetto dell’elezione divina, che non va confusa con una predestinazione arbitraria da parte di Dio, giacché ci sono altre pecore da ricondurre all’ovile e che non appartengono al gregge del buon pastore (cf. 10,16). L’amore di Dio non raggiunge pregiudizievolmente alcuni uomini a scapito di altri, ma abbraccia l’intera umanità. La scelta (o elezione) di alcuni uomini come membri del gregge di Cristo rientra nell’ambito della provvidenza divina, misteriosa ed imperscrutabile ma sempre provvidente. Da tale scelta, compiuta dal Padre (e da Gesù), scaturisce l’amore che crea comunione; Gesù ha amato i suoi nel mondo e li ha amati fino all’ultimo sacrificando la propria vita (cf. 13,1) ed ha voluto che l’amore, col quale il Padre ha amato Lui, fosse presente e vivo anche in loro (17,26) e li attirasse sempre più nella comunione con Dio (16,27). Come Gesù riconosce nei credenti coloro che gli sono stati dati dal Padre e li abbraccia con amore, poiché li “conosce” e si rivela ad essi (15,15), così i credenti divengono capaci di “conoscere” Gesù e di crescere nella comunione con Lui. Il modello della “conoscenza” e dell’amore reciproco tra Gesù e coloro che credono in Lui è la “conoscenza amorosa” tra il Padre ed il Figlio ed a questo modello devono ispirarsi tutti i seguaci di Cristo, invitati ad essere perfetti come è perfetto il Padre celeste (Mt 5,48), termine ultimo ed unico di ogni perfezione. Il dono supremo di se stesso è il sigillo, che garantisce la “bontà” del pastore e del suo rapporto d’intima e reciproca “conoscenza” con il proprio gregge.

16 E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. 17 Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio”. 19 Sorse di nuovo dissenso tra i giudei per queste parole. 20 Molti di essi dicevano: “Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare?”. 21 Altri invece dicevano: “Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi dei ciechi?”.
Le altre pecore, di cui parla Gesù, sarebbero gli uomini provenienti dal paganesimo, che avrebbero creduto in Lui attraverso le parole dei suoi discepoli (17,20), ovvero uomini scelti da Dio e destinati alla comunità di fede in Gesù ma, tuttora, dispersi nel mondo (11,52). Tutti costoro non appartengono all’ovile nel quale si trovano le pecore appartenenti al pastore, non fanno parte, in altri termini, del popolo eletto di Israele, ma sono altrettanto cari al pastore-Gesù, che li vorrebbe nel proprio gregge per condurli ai pascoli della vita eterna sottraendoli alle rapaci mani dei “ladri e briganti”, che sono sempre in agguato e pronti a sottrarre anime al Regno di Dio. Gesù deve condurre queste “altre” pecore in assoluta e perfetta aderenza alla volontà del Padre, che le vuole appartenenti ad un unico gregge sotto la guida di un unico e legittimo pastore, anche se non viene precisato se Gesù unirà queste pecore alle prime e neppure che le condurrà insieme con esse. L’appartenenza definitiva ad un unico gregge guidato da un unico pastore non comporta necessariamente la perdita della propria identità culturale né l’annullamento del sentimento religioso, che è specifico di ogni popolo. Si può essere un solo popolo di Dio anche conservando e rispettando la molteplice diversità delle lingue, dei costumi e delle capacità espressive proprie di ciascun gruppo etnico. È compito del pastore condurre le pecore al pascolo e dare la propria vita per esse, mentre è proprio delle pecore “ascoltare” e “riconoscere” la voce del pastore, compiendo il gesto volontario di seguirlo.
Diventeranno un solo gregge e un solo pastore. Lo sguardo di Gesù si estende verso i tempi ultimi, allorquando saranno superati gli angusti confini che gli uomini sanno così ben delimitare anche quando si tratta di usare il linguaggio comune della fede. La perfetta unità della Chiesa come icona dell’unità del Padre col Figlio (cf. 17,21) appare sempre più come un dono preveniente e, al tempo stesso, come metà irraggiungibile su questa terra. La morte di Gesù (11,51) e la sua intercessione presso il Padre (17,20ss) sono pegno e garanzia del raggiungimento di tale unità da parte di tutti coloro che, nel tempo storico della Chiesa, costituiscono il nuovo Popolo di Dio scaturito dal Sangue versato da Cristo sulla croce. L’unità e l’unicità del gregge, formatosi sotto la guida dell’unico pastore, realizzano entrambe il contenuto della profezia di Ez 37,24 che prospetta la dimensione universale della Nuova Alleanza, in forza della quale, come dice Paolo, non esistono più né uomo né donna, né ebreo né greco, né schiavo né libero ma tutti sono una cosa sola in Cristo Gesù (Gal 3,28).
Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Dopo lo sguardo prospettico di Gesù sul futuro escatologico, il discorso ritorna al sacrificio volontario del pastore, che dona la propria vita per le pecore. Col dono totale di se stesso, il Figlio dimostra la propria obbedienza assoluta al Padre, il quale gli ha affidato il compito di guidare alla meta ultima e definitiva l’intera umanità simboleggiata dal gregge, formato da pecore di varia provenienza (“altre pecore.. non sono di questo ovile”). Al tempo stesso, però, il Figlio offre liberamente la propria vita ed altrettanto liberamente se la riprende poiché dopo l’auto-immolazione farà seguito la resurrezione, intesa come suggello della perfetta comunione d’amore che unisce il Padre ed il Figlio suo unigenito. L’obbedienza del Figlio verso il Padre, totale e radicale sino alla rinuncia volontaria della propria esistenza inchiodata al legno di una croce ed il potere del Figlio sulla vita stessa, liberamente riconquistata con la resurrezione dai morti, caratterizzano l’intenso reciproco amore delle Persone divine.
La sovranità del Figlio, coeterno e consustanziale al Padre, traspare dall’affermazione di Gesù che nessuno può togliergli la vita, per quanto alcuni uomini si diano tanto da fare per raggiungere tale scopo; al contrario, è Gesù stesso che spontaneamente e per decisione propria dona la propria vita “offrendola da se stesso”. Egli non fa nulla da sé (cf. 5,19) e neppure in questa occasione si arroga alcun potere personale di fronte al Padre, nei cui riguardi non prende decisioni autonome, ma conserva tuttavia la sua libertà di fronte agli uomini. L’agire del Figlio è in perfetta sintonia col volere del Padre, ma è sovranamente libero nei confronti degli uomini e l’evangelista Giovanni sottolinea la volontarietà di Gesù nel consegnarsi alla passione ed alla morte nel momento cruciale della cattura nel giardino del Getsèmani (18,4-8). Neppure Pilato ha il “potere” di annullare la libertà di Gesù pronunciando la condanna a morte, perché la croce rientra nei piani del Padre, sulla cui volontà si radica il potere umano di Pilato stesso (19,11). Da se stesso Gesù prende la croce portandola sino al Calvario (19,17) e, d’altro canto, la sua morte viene presentata dall’evangelista come un gesto sovrano (19,30).
Il potere di disporre a piacimento della propria vita traspare non tanto, o non solo, dall’accettazione volontaria della morte, bensì dal fatto che Gesù può “riprendersela” quando vuole e tale potere gli è stato conferito dal Padre come un “comando”, per cui la potestà vera e propria del Figlio sulla morte si manifesta nel suo potersi riprendere la vita nello stesso modo in cui l’ha donata. La morte e la resurrezione formano un tutt’uno indissolubile, un unico evento del quale il Figlio può disporre liberamente in assoluta consonanza con la sovrana libertà del Padre. Nella prospettiva teologica di Giovanni, Gesù è colui che, donando in piena libertà la propria vita e riprendendosela per proprio sovrano potere ed in perfetta sintonia col volere del Padre, rimane il soggetto attivo anche nel momento in cui muore poiché Egli è il Figlio in grado, come il Padre, di resuscitare i morti. Agendo in unità inseparabile col Padre, Gesù esegue fedelmente l’incarico che da Lui ha ricevuto e la sua resurrezione va vista nell’ottica di una e vera e propria “glorificazione” da parte del Padre medesimo (cfr. 12,16; 13,31s; 17,1).
Sorse… dissenso tra i giudei. Le parole enigmatiche ed incomprensibili di Gesù sono tali da suscitare dissensi profondi tra coloro che le ascoltano. Molti lo considerano un povero pazzo, se non un posseduto dal demonio (cf. anche 7,20; 8,48.52) e, per la mentalità del tempo, la differenza è davvero minima se non inesistente. Lo strano linguaggio di Gesù non merita nemmeno di essere ascoltato, secondo il parere dei più, ma ci sono alcuni che sanno percepire la profondità teologica delle sue parole e sanno cogliere i suoi miracoli come gesti o segni di salvezza: “può forse un demonio aprire gli occhi dei ciechi?”. Il dibattito, sempre incombente, tra coloro che credono e coloro che rifiutano in modo radicale di credere in Gesù è un refrain storico ricorrente, che si concluderà solo con la fine del tempo dell’attesa del ritorno glorioso del Figlio dell’Uomo. Sino ad allora, Gesù sarà per gli uomini “segno di contraddizione” (Lc 2,34), venuto nel mondo “per la rovina e la resurrezione di molti “ (ibid.).
Il dibattito fra Gesù ed i giudei prosegue (10,22-42) e raggiunge il suo punto più drammatico nel tentativo da parte di questi ultimi di lapidare Gesù. Dopo averlo letteralmente “accerchiato” (10,24) mentre sta passeggiando nel Tempio, gli chiedono di dichiarare, senza tanti giri di parole, se è davvero Lui il Cristo, l’Unto di Dio, il Messia di Israele inviato da Dio per liberare il suo popolo. Come il suo solito, Gesù non dice “Sì, sono io il Messia” (solo con la samaritana al pozzo di Giacobbe si è espresso in questi termini così espliciti; cf. 4,26), ma avvalora la sua vera messianicità, che non ha alcun carattere politico come vorrebbero i giudei, con le “opere” compiute nel nome del Padre suo (10,25). Il vero problema, dal punto di vista di Gesù, non sono i miracoli già compiuti in abbondanza (uno più, uno meno, non farebbe molta differenza), ma l’atteggiamento negativo dei giudei, radicati nei loro pregiudizi e tenacemente ancorati ad una concezione puramente politica del messianismo; per questo motivo essi non fanno parte del gregge di Cristo (10,26) e sono destinati alla perdizione eterna. La connotazione messianica di Gesù, al contrario, è caratterizzata dall’intimità assoluta con il Dio di Israele (10,30): “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Per i giudei tale affermazione è una vera e propria bestemmia, motivo più che sufficiente per lapidare Gesù seduta stante (10,31-33), anche se Gesù si appella alle Scritture per giustificare e dare valore alla propria affermazione (10,34). Gesù è veramente il Figlio di Dio e non tanto per una sorta di adozione da parte di YHWH, il Santo di Israele, l’unico e vero Dio, ma in quanto è realmente consustanziale al Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. I prodigi compiuti da Gesù sono un’attestazione di quanto sta affermando, ma i giudei non riescono proprio ad accettare la pretesa divinità di un loro simile. Un estremo tentativo di catturare Gesù e di ucciderlo sommariamente e senza processo, fallisce d’un soffio (10,39): padrone del proprio destino, Gesù sfugge alle loro mani assassine perché non è ancora giunta l’ora della sua glorificazione sulla croce. Non tutti, però, si irrigidiscono nella loro incredulità e facendo il confronto tra Giovanni il Battista, figura carismatica che non ha mai compiuto prodigi e Gesù, taumaturgo di chiara fama, trovano più di un motivo per credere (10,42). Ritiratosi al di là del Giordano (10,40), Gesù si prepara ad affrontare l’ultima e decisiva prova proprio nei luoghi in cui Giovanni aveva battezzato e reso testimonianza proprio a Lui, l’Agnello di Dio (1,29-34).

Lazzaro, vieni fuori!
(Gv 11,1-44)

Dopo il duro scontro con i giudei, sempre più rigidamente bloccati nella loro posizione di rifiuto nei confronti della rivelazione di Gesù, questi compie un ultimo “segno” per dimostrare la propria origine “da Dio” (cf. 10,33) quasi a voler esaudire, questa volta in modo definitivo e senza appello, la loro richiesta di un prodigio incontrovertibile per poter credere in Lui senza più dubbio alcuno (cf. 6,30). Delle tre resurrezioni compiute da Gesù e riportate dagli evangelisti (quella del figlio della vedova di Nain in Lc 7,11-15 e quella della figlia di Giairo, capo della sinagoga, in Mt 9,18-25pp furono operate da Gesù a breve distanza dal decesso dei due sventurati ragazzi), certamente suscitò molto scalpore la resurrezione di un certo Lazzaro, fratello di Marta e di Maria e, come loro, molto amico di Gesù. Egli, infatti, era morto da ben quattro giorni, era ormai stato sepolto e dal sepolcro “già manda[va] cattivo odore” (11,39). Molto si è discusso circa l’attendibilità storica di un simile episodio, ma la sobrietà del racconto evangelico e le sfumature psicologiche che vi si possono cogliere depongono per la veridicità del fatto narrato dall’evangelista.
Ritenere, come fanno alcuni, che i discepoli avessero fatto un patto con Lazzaro affinché simulasse la sua morte, in modo che Gesù potesse resuscitarlo da una morte presunta e così diventare famoso, oppure che Gesù stesso fosse d’accordo con questa truffa o che l’avesse Egli stesso architettata per trarre in inganno i suoi connazionali e ottenerne un qualche vantaggio politico o religioso, è frutto della perversa fantasia degli scettici ad oltranza. La prima parte di Gv 11 si legge come il racconto proprio di un testimone oculare ed auricolare, trovatosi con Gesù nella regione situata a Est del fiume Giordano e meravigliato del fatto che il Maestro si fosse trattenuto per ben due giorni in quei luoghi, nonostante fosse stato avvisato delle gravi condizioni di salute dell’amico Lazzaro (11,6). Solo un testimone diretto poteva riferire i detti efficaci di Gesù riguardanti le ore della giornata (11,9) o l’apparente assurdità della sua pretesa di essere “la resurrezione e la vita” (11,25) e di poter garantire addirittura la vita eterna a chi crede in Lui (ibid.); ancora, solo un testimone diretto, che più volte aveva percorso quella strada, poteva sapere che la distanza che separava il villaggio di Betania da Gerusalemme era di “due miglia” scarse (11,18) e poteva riferire le ansie di Tommaso e degli altri discepoli, consapevoli che Gesù e loro stessi rischiavano la vita, una volta messo piede nella Città Santa (11,8.12-16).
Se l’evangelista si propone come scrittore e testimone attendibile nella prima parte del racconto, perché ritenerlo inattendibile e fantasioso quando narra l’accaduto della resurrezione di Lazzaro, riferendo per di più particolari poco adatti alla solennità del momento, come il pianto di Gesù, addolorato per la morte dell’amico (11,35)? Si può anche ragionevolmente affermare che ciò che la narrazione sottace è impressionante quanto ciò che dice. Non viene riportata alcuna parola di Lazzaro e nulla viene riferito della sua esperienza nell’altro mondo durante quei “quattro giorni”. Un narratore poco affidabile si sarebbe dilungato nell’amplificare a dismisura la portata di un miracolo di per sé straordinario ed inaudito. La sobrietà dell’evangelista è la migliore credenziale della sua affidabilità come testimone e narratore.
La resurrezione di Lazzaro rappresenta, per l’evangelista, il culmine dei “segni” operati da Gesù di Nazareth, del quale riporta una parola d’auto-rivelazione (11,25ss) che costituisce la chiave di lettura dell’intero episodio. L’importanza dell’accaduto, dal punto di vista cristologico e soteriologico, è brevemente trattata all’inizio e nel punto culminante del racconto (11,4.40). Insieme alla guarigione del cieco nato, questo miracolo esprime appieno l’idea cristologica che guida ed ispira il IV Vangelo: Gesù è la luce e la vita del mondo (cf. 1,4). L’evangelista ha inserito l’episodio della resurrezione di Lazzaro proprio al culmine del drammatico scontro tra la fede e l’incredulità ed il “segno” rappresenterebbe, per i giudei, la decisiva spinta a credere nel ruolo messianico di Gesù ed in effetti, dopo il miracolo, molti scelgono di avere fede in Lui (11,45). Preoccupati per la piega assunta dagli avvenimenti (cf. 11,48; 12, 9), i capi giudei decidono di passare al contrattacco e di prendere ufficialmente, durante una seduta del sinedrio, la decisione di mettere a morte Gesù: meglio la morte di un uomo solo che la rovina di un popolo intero (11,50)!
Non è un caso che, proprio nel momento in cui il Figlio di Dio manifesta la sua potenza vitale nel modo più sublime, gli uomini che rifiutano di credere in Lui siano ferocemente determinati a farlo scomparire dalla faccia della terra, prendendo tutte le misure necessarie per raggiungere il loro scopo omicida. Il cammino della croce è già tracciato, ma, contrariamente a quanto pensano gli uomini, esso rientra nei piani di Dio addirittura dall’eternità, perché l’esaltazione di Gesù sulla croce coincide misteriosamente con la glorificazione di Dio stesso nel Figlio suo unigenito. Il “segno” di Lazzaro richiamato alla vita dopo “quattro giorni”, quando ormai il suo spirito vitale ha abbandonato per sempre il corpo mortale ed è sceso nello sheòl, addita già questa glorificazione finale (11,4) e l’involontaria profezia del sommo sacerdote Caifa (11,51ss) dimostra che il complotto degli uomini è necessariamente al servizio dei piani di Dio.
Vari commentatori, in passato, si sono chiesti come mai l’episodio della resurrezione di Lazzaro, così straordinario ed unico nel suo genere, non sia stato riportato anche dai Sinottici. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che, all’epoca in cui furono scritti i Vangeli sinottici, Lazzaro fosse ancora vivente; da un lato, gli evangelisti non avevano voluto esporlo ad inutili pericoli da parte delle autorità giudaiche e romane narrando il prodigio di cui era stato il fortunato protagonista e, dall’altro, Lazzaro stesso poteva essere il testimone più autorevole e credibile del beneficio ricevuto, grazie al quale era assai noto presso le comunità cristiane di quel tempo. Seguendo la logica di questo ragionamento, all’epoca in cui fu composto il IV Vangelo Lazzaro era di nuovo deceduto, quindi erano venuti a mancare i presupposti per una possibile azione di ritorsione nei suoi confronti. Non è da escludere che tutti gli evangelisti abbiano selezionato solo alcuni tra i tanti miracoli attribuiti a Gesù con lo specifico intento di utilizzarli in funzione della personale interpretazione teologica dei fatti narrati.
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07/07/2010 10:06
 
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11,1 Era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. 2 Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3 Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, il tuo amico è malato”.
La lunga storia della resurrezione di Lazzaro inizia con molta semplicità. Il luogo, in cui si è verificato lo straordinario prodigio, è un villaggio che dista circa 3 km da Gerusalemme (corrispondenti alla misura di 15 stadi o di 2 miglia, secondo il modo di misurare le distanze in quel tempo), e si trova sulle pendici orientali del Monte degli Ulivi. La situazione attuale ed il tipo di costruzione del sepolcro di Lazzaro non danno luogo ad obiezioni circa la veridicità del racconto e della sua ambientazione, anche se non possono ovviamente confermare la storicità del racconto giovanneo. La tomba di Lazzaro si trova attualmente all’interno della località El-‘Azaraje e, in origine, si trovava fuori dell’abitato, che sorgeva un po’ più ad occidente, sui fianchi montagnosi del Ras Esh-Shijah. Il nome Lazzaro era assai comune a quel tempo ed il suo significato è “Dio l’aiuta” (un nome assai azzeccato, si direbbe!).
Per conferire una connotazione veritiera e storica al racconto, l’evangelista precisa che Lazzaro è di Betània; se così non fosse, gli abitanti del villaggio lo smentirebbero in un attimo, negando di aver mai avuto un concittadino di quel nome beneficato in quel modo da Gesù di Nazareth. Il racconto, quindi, non è frutto di fantasia e di immaginazione! Ad ulteriore conferma di non temere smentite, l’evangelista precisa che Betania è il villaggio di “Maria e di Marta, sua sorella” e che entrambe sono sorelle di Lazzaro; a giudizio dei critici, il v. 2 sembra l’aggiunta del redattore che ha curato la stesura finale del Vangelo giovanneo e che si è preoccupato di precisare di quale Maria si tratti, visto che questo nome ricorre molto spesso nel testo evangelico essendo di uso piuttosto comune (basti pensare a Maria, la madre di Gesù ed a sua sorella Maria [moglie] di Cleofa, madre di Giacomo il minore e di Ioses [Mc 15,40], noti anche come “fratelli” del Signore nel senso di cugini di primo grado; oppure a Maria di Magdala). Tale aggiunta esplicativa (definita, in termine tecnico, “glossa”) serve a chiarire l’identità dei personaggi in questione e ad anticipare, in qualche modo, l’episodio dell’unzione di Betània (cf. Gv 12,3ss), gesto per il quale Maria sarà criticata da Giuda Iscariota ma lodata da Gesù, che in quel gesto vedrà l’annuncio profetico della sua morte e sepoltura.
Il messaggio, che le sorelle fanno pervenire a Gesù, nasconde una tacita preghiera; esse vogliono indurre l’illustre amico ad accorrere al capezzale del fratello ammalato col chiaro intento di farlo guarire prontamente. In poche righe il vocabolo “malato” (in greco, asthenòn) ricorre per ben tre volte, quasi a voler sottolineare l’estrema gravità delle condizioni di Lazzaro, che di lì a poco, infatti, morirà. Gesù, però, sembra non scomporsi più di tanto davanti alla notizia della “grave malattia” dell’amico e tergiversa, causando lo stupore dei suoi stessi discepoli.

4 All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. 5 Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro.
La risposta di Gesù intende elevare l’avvenimento umano, naturale sia pure nella sua drammaticità, al piano delle intenzioni particolari di Dio. La malattia e la morte fanno parte dell’esperienza umana comune e, spesso, si è indotti ad imputare a Dio la causalità di entrambe anche se, secondo il testo biblico, alla radice della sofferenza e dell’angosciosa ineluttabilità della morte sta il peccato originale commesso dai progenitori a nome e per conto dell’intera umanità (cf. Gen 3,1-19). Il male è generato dal male. Anche il testo evangelico sembra collocarsi su questa linea di pensiero, con una sottolineatura di speranza sino ad allora sconosciuta: se Dio colpisce il peccato col male e la morte, non lo fa come gesto di vendetta né per annientare le sue creature, ma così ha deciso per donare speranza a coloro che scelgono liberamente di aprirsi alla fede nel Figlio suo. Nel momento stesso in cui Dio ha giustamente castigato l’uomo per il suo gesto di ribellione e di superbia, gli ha aperto le porte della speranza (Gen 3,15) orientando l’attesa della liberazione dal peccato e dal male sul suo Unto, su Gesù Cristo. Pur concludendosi con la morte naturale, la malattia di Lazzaro non è finalizzata all’oscurità del dissolvimento del corpo e dello spirito, ma alla gioiosa attesa della resurrezione, di cui Gesù è il frutto ed il protagonista più atteso, essendo Egli “resuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20). Davanti alla malattia mortale dell’amico Lazzaro, Gesù è consapevole che il Padre sta operando per mezzo suo al fine di affermare la propria sovranità assoluta sulla vita e sulla morte e che l’imminente prodigio della resurrezione di un uomo morto da quattro giorni è orientato alla sola gloria di Dio Padre, cui, però, è strettamente correlata la gloria del Figlio stesso, che è “uno col Padre” (Gv 10,30).
La “glorificazione” reciproca del Padre e del Figlio è il leitmotiv della cristologia di Giovanni. Quando giunge la sua “ora”, Gesù glorifica il Padre affrontando la propria immolazione volontaria con un atteggiamento di assoluta obbedienza (Gv 10,17s) a Colui che lo ha inviato presso gli uomini come vittima sacrificale e come prezzo per il riscatto di ogni uomo peccatore (Rm 4,25; 5,8-11), ma, al tempo stesso, Egli viene glorificato dal Padre (Gv 13,31s; 17,1) nel preciso momento in cui viene “innalzato” sulla croce (8,28), attirando su di sé lo sguardo di tutti gli uomini (Zc 12,10; Gv 19,37) disposti a credere in Lui e nella sua opera di redenzione. Nelle parole che preannunciano il segno della resurrezione di Lazzaro (“questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio…”) sono implicite anche la morte di Gesù e la sua resurrezione. Il Figlio di Dio annuncia la propria resurrezione mediante il richiamo alla vita dell’amico defunto e, paradossalmente, compiendo questo straordinario prodigio Gesù decreta anche la propria morte (cf. Gv 11,47-53), grazie alla quale, però, il Padre manifesta la propria gloria richiamando il Figlio nella celeste comunione di vita in cui Egli si trovava prima di scendere sulla terra (cf. 17,5) e conferendogli il potere di trasmettere la vita a tutti i credenti (cf. 17,2).
Dopo questa breve ma significativa interpretazione degli avvenimenti che stanno per accadere, Giovanni ritorna al suo racconto per rimarcare il forte vincolo di amicizia che lega Gesù ai fratelli di Betània. Per esprimere il sentimento di amore che Gesù prova nei loro confronti, l’evangelista usa il termine agàpe il quale, pur non escludendo un’inclinazione affettiva naturale ed una spontanea e reciproca simpatia, pone l’accento soprattutto sull’affinità spirituale di questi personaggi (cf. anche Gv 13,23; 19,26). Marta e Maria sanno che Gesù le “ama”, il che le rende forti nella fede in quell’amico speciale, capace di compiere segni fuori della portata di qualsiasi essere umano (11,21.32) perché è ormai chiaro a tutti che Gesù “viene da Dio” (cf. 9,30-33).

6 Quand’ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava.
La malattia di Lazzaro è il preludio della sua morte e di quella di Gesù (11,13.14), così come il prodigio della resurrezione del primo è anticipazione di quella, ben più importante ai fini della salvezza dell’uomo, del secondo. Si può ben comprendere quale valore l’evangelista intende attribuire alla collocazione della storia di Lazzaro nel tracciare la via di Gesù: è l’ultimo tratto di strada che egli deve percorrere prima di affrontare la sua fatidica e cruciale “ora”, quella della sua passione e morte redentrice. Sul cammino verso la morte, che ormai va profilandosi all’orizzonte quale evento ineluttabile e tragico, splende come una promessa la resurrezione dell’amico Lazzaro, quasi a voler significare che la morte non è la fine di tutto, ma è piuttosto la premessa necessaria per l’ingresso nella vita nuova e piena “da risorti” in Cristo Signore, colui che per primo è risorto da morte, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20).
L’annotazione che Gesù voleva molto bene a Lazzaro ed alle sue sorelle (11,5) stride con la decisione del Maestro di fermarsi ancora “due giorni nel luogo dove si trovava”, vale a dire nella località “dove prima Giovanni [Battista] battezzava” (10,40), ad oriente del fiume Giordano. Il comportamento dell’uomo Gesù è spesso sconcertante e controcorrente, ma è giustificato dalla sua obbedienza assoluta e fedele alla volontà del Padre; le sue reazioni, umanamente sorprendenti (cf. 11,15), diventano comprensibili solo se correlate all’incarico che Dio ha affidato al Figlio suo prediletto. A causa della sua natura fragile, limitata e corrotta, l’uomo non è in grado di penetrare e di comprendere la sapienza di Dio (cf. Gb 28), che misteriosamente, ma infallibilmente, lo guida verso la salvezza, ma in Gesù è all’opera lo stesso Spirito di Dio che conosce, Lui soltanto, i segreti di Dio (1Cor 2,11).

7 Poi disse ai discepoli: “Andiamo di nuovo in Giudea!”. 8 I discepoli gli dissero: “Rabbì, poco fa i giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?”.
Solo dopo che sono trascorsi i due giorni Gesù invita i suoi a tornare in Giudea ed a recarsi a Betània dall’amico Lazzaro.
Usciti di scena fin dalle prime battute dell’episodio della guarigione del cieco nato (cf. 9,2), i discepoli ricompaiono nel racconto evangelico e si rendono nuovamente protagonisti di uno scambio di battute con Gesù, il quale spiega loro il senso del suo desiderio di recarsi in Giudea. La vera meta del Maestro è Gerusalemme, la città santa nella quale deve compiersi il suo destino umano ed i discepoli vengono da Lui coinvolti nel progetto di salvezza stabilito dal Padre fin dall’eternità. Per il momento si deve giungere solo a pochi chilometri di distanza dalla capitale, ma persino i sassi sanno che per Gesù non tira una buona aria, non solo a Gerusalemme ma persino nell’intera regione di Giudea, dove l’influenza delle autorità giudaiche è in grado di far sentire il proprio peso politico anche sul potere locale romano (cf. 4,7; 7,1). I discepoli si rendono immediatamente conto che il loro rabbì sta cacciandosi in un brutto guaio e si ricordano assai bene del tentativo fatto dai giudei di lapidarlo (10,39) in occasione della festa della Dedicazione del Tempio, nell’inverno appena trascorso (10,22). Dotati di comune buon senso, i discepoli sanno che per Gesù non ci sarebbe scampo se dovesse cadere nelle mani dei suoi nemici dichiarati, pronti a tutto pur di mettere a tacere per sempre quella bocca così scomoda!

9 Gesù rispose: “Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10 ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce”.
Com’era già accaduto in occasione della guarigione del cieco nato, anche in questo caso Gesù si sottopone alla legge del tempo, che il Padre ha fissato per Lui e che l’evangelista Giovanni circoscrive entro due coordinate storiche e psicologiche: Gesù deve operare “finché è giorno” (cf. 9,4) perché sa che, prima dell’ora stabilità dal Padre suo, i suoi nemici non possono fargli del male (cf. 7,30; 8,20). La risposta, che Gesù dà ai suoi discepoli, confermerebbe tale ipotesi.
Gesù è pienamente inserito nell’ambiente culturale del suo tempo. Gli ebrei consideravano il “giorno” come il tempo del lavoro e dell’efficienza psico-fisica, cui poneva fine la “notte” che, a quei tempi, rendeva assai precarie, se non impossibili, le condizioni del lavoro per la quasi totale mancanza di luce, garantita solo dalle torce, dalle lampade ad olio e… dalla luna. La notte era il tempo del riposo per i più, dello studio per pochi altri, ma anche delle malefatte per ladri, assassini e cospiratori di vario genere. Al tramonto del sole, gli agglomerati urbani dotati di cinte murarie chiudevano le porte d’accesso alla città per non correre il rischio di subire incursioni notturne e saccheggi per opera di briganti e d’eserciti nemici. Chi si trovava all’interno delle mura poteva ritenersi al sicuro, ma in un certo qual modo era anche prigioniero ed esposto al pericolo d’eventuali regolamenti di conti e, per ovvi motivi, chi si trovava fuori delle mura non poteva fruire di protezione alcuna. La stessa ripartizione della giornata in dodici ore di luce e dodici di buio corrisponde all’usanza ebraica, che non teneva conto della reale durata del periodo di luce che varia da stagione a stagione, attribuendo un valore relativo alla misurazione cronologica del tempo.
L’alternanza della luce e del buio permette all’autore del IV Vangelo di esprimere, in modo simbolico, la vicenda storico-salvifica di Gesù di Nazareth: la notte alluderebbe alla passione e morte di Cristo, mentre la luce ricorderebbe la sua resurrezione gloriosa. Secondo un’altra chiave di lettura, il buio indicherebbe il cammino di Gesù verso la propria morte di croce mentre la luce esprimerebbe l’illuminazione interiore che lo rende consapevole del proprio destino, ma alcuni commentatori scorgono nel detto di Gesù un ammonimento rivolto ai suoi stessi discepoli, interpretando il verbo “inciampare” (in greco, proskòptein) in senso figurato. Chi non cammina illuminato da Gesù-luce, rischia di cadere spiritualmente e di perdere la salvezza; per questo gli uomini, che presumono di salvarsi da soli, sono come ciechi che camminano al buio rischiando di rompersi l’osso del collo! Gesù stesso è la luce interiore che illumina e guida l’uomo che decide di fidarsi di Lui, mentre chi lo rifiuta non può attendersi altre luci altrettanto adeguate ad illuminare le sue scelte esistenziali. Chi sceglie di non credere in Gesù, si priva dell’unica luce in grado di guidarlo alla salvezza ed alla piena comunione con Dio, che “è luce ed in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1,5).

11 Così parlò e poi soggiunse loro: “Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo”.
Dopo la riflessione sul viaggio a Gerusalemme, la città santa nella quale sta per compiersi il destino umano di Gesù, strettamente intrecciato col futuro di salvezza d’ogni uomo, il dialogo tra Gesù ed i suoi discepoli ritorna nuovamente alla situazione concreta, contingente. La realtà materiale trova il suo senso compiuto se rimane collegata alle esigenze superiori dello spirito e, viceversa, il mondo spirituale può affermare la sua supremazia su quello materiale nel momento in cui viene riconosciuto come compimento di quest’ultimo.
Gesù afferma candidamente che l’amico Lazzaro si è addormentato, alludendo però alla sua morte, di cui rileva il carattere provvisorio e relativo annunciando semplicemente che intende andare a svegliarlo. Di fronte alla morte eterna dello spirito, la dissoluzione fisica del corpo è paragonabile alla dolcezza dell’addormentamento quieto e sereno di chi ha faticato durante la giornata e si merita il giusto riposo ristoratore. Gesù suggerisce un diverso modo di rapportarsi con la tragica realtà della morte, intendendola come il passaggio alla vita vera e definitiva in Dio, ma i discepoli fraintendono il significato delle parole del Maestro, denotando la loro scarsa propensione al ragionamento speculativo e la sostanziale incapacità, tipica di coloro che sono abituati a misurarsi con la concretezza della realtà quotidiana, di cogliere il senso trascendente della vita.

12 Gli dissero allora i discepoli: “Signore, se s’è addormentato, guarirà”. 13 Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno.
Il ragionamento dei discepoli non fa una grinza, almeno dal loro punto di vista e, soprattutto, dimostra una certa elasticità mentale da parte loro, perché hanno ovviamente intuito che Lazzaro non è semplicemente “addormentato” ma soltanto “ammalato”, anche se in modo non grave, giacché ne danno per scontata la guarigione. Saldamente ancorati al comune buon senso, i discepoli fanno fatica a tenere il passo di Gesù, che li sollecita con pazienza amorevole ad interpretare correttamente il significato delle sue parole. L’esplicita dichiarazione del Maestro, “Io vado a svegliarlo” (11,11), avrebbe dovuto far scattare nella loro mente il ricordo di altri miracoli di resurrezione compiuti da Gesù ed interpretati da Lui stesso come “risvegli” dal sonno della morte (cf. Mc5,35-42 pp), ma i discepoli dimostrano di avere i riflessi piuttosto lenti e tardano a comprendere le intenzioni del loro rabbì.

14 Allora Gesù disse loro apertamente: “Lazzaro è morto 15 e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!”.
A questo punto, a Gesù non rimane altro da fare che dichiarare esplicitamente come stanno le cose e sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Lazzaro è morto e, cosa veramente stupefacente, Egli non ha fatto nulla per guarirlo dalla malattia mortale perseguendo un fine ben preciso: suscitare la fede dei discepoli nel Figlio di Dio e, per questo motivo, è lieto di non essersi trovato a Betània a tempo opportuno e di poter mostrare, con certezza, l’origine divina della sua missione tra gli uomini (cf. 16,30). Egli sa già in anticipo ciò che sta per fare, ma i discepoli ancora non se ne rendono conto; richiamando in vita Lazzaro, Gesù prepara i suoi discepoli ad affrontare lo scandalo dell’imminente passione e morte di croce, consapevole che l’orrore del patibolo subito dal loro Maestro li farà fuggire tutti, rendendo uno di loro un traditore ed un altro un rinnegato. Il rafforzamento della fede dei discepoli è una cura costante di Gesù, che più volte anticipa loro la propria sorte affinché non cessino di credere quando tutto sarà compiuto (cf. 13,19; 14,29; 16,4). La fede, che sta tanto a cuore a Gesù, non riguarda i suoi poteri taumaturgici, che raggiungono il culmine dell’incredibile con la resurrezione di un morto, sepolto ormai da ben quattro giorni, bensì la sua identificazione con l’Unto del Signore, col Figlio di Dio. Attraverso la resurrezione di Lazzaro, i discepoli sono sollecitati a riconoscere in Gesù colui che vince la morte e che dà la vita al mondo, specie quando Egli stesso sarà, come Lazzaro, chiuso nel sepolcro da “tre giorni” (cf. Lc 24,21).

16 Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: “Andiamo anche noi a morire con lui!”.
Tommaso, detto “il gemello” (ovvero didimo) è l’esemplificazione del discepolo scettico e prudente anche di fronte all’evidenza, se non addirittura tardo di comprendonio, tanto che la sua incredulità davanti alla testimonianza resa dai confratelli, che dichiarano di aver visto Gesù risorto e la sua stessa professione di fede nella divinità del Risorto (“Signore mio e Dio mio!) sono considerate un valido motivo per credere nella resurrezione e nella divinità di Gesù per gli uomini d'ogni tempo (cf. Gv 20,24-29). Nonostante la lentezza nel professare la propria fede in Gesù, Tommaso si riscatta per la fedeltà al Maestro anche a costo della propria vita, esempio di una fede semplice che sa mantenersi ed affermarsi anche nei momenti più oscuri della vita. La fede non è sempre facile e neppure scontata, specie quando gli eventi del vivere quotidiano spingono i credenti ad interrogarsi sui contenuti e sui “vantaggi” o “rischi” della propria fede. Non sempre l’uomo vuole o sa rischiare le proprie certezze scommettendo su un Dio che vede e sente nelle profondità della propria coscienza.

17 Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro.
Più che descrivere, queste poche e semplici parole lasciano capire il clima emotivamente drammatico vissuto dalla famiglia del defunto, il cui decesso doveva essere avvenuto poco dopo la partenza del messaggero inviato a Gesù dalle sorelle di Lazzaro. La sottolineatura che costui si trovasse nel sepolcro “già da quattro giorni” non avrebbe l’ovvio intento di indicare il periodo trascorso dall’evento luttuoso, bensì di escludere qualsiasi dubbio sulla realtà del decesso.
Secondo la concezione giudaica, l’anima del morto ritornava nella tomba per tre giorni, per poi entrare definitivamente nello sheòl, il regno dei morti, vagandovi come un’ombra per l’eternità mentre il corpo andava incontro alla definitiva ed inarrestabile corruzione e decomposizione. La fede nella resurrezione dei morti era di poco anteriore alla venuta di Cristo e non era condivisa da tutti i giudei; creduta dai farisei, ma respinta dai sadducei, la resurrezione era stata “vista” dal profeta Ezechiele durante una visione profetica (Ez 37,1-14) e successivamente affermata e data per certa dall’autore del secondo libro dei Maccabei (cf. 2Mac,7,9.14.23.29), non accolto nel canone ebraico per essere stato scritto in lingua greca, quindi non ritenuto ispirato da Dio. Resuscitando l’amico Lazzaro, la cui anima già vagava definitivamente nello sheòl, Gesù conferma la realtà escatologica della resurrezione dei morti, che, in definitiva, viene prospettata come l’affermazione della gloria di Dio sull’orrore della corruzione. Creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), l’uomo non può essere destinato alla definitiva distruzione del suo essere; attraverso la resurrezione di Cristo ogni uomo ha la certezza che anche il suo corpo verrà recuperato alla gloria della visione eterna del suo Creatore, attraverso la resurrezione finale.

18 Betània distava da Gerusalemme meno di due miglia 19 e molti giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello.
All’evangelista interessa far notare come tra i testimoni della resurrezione di Lazzaro vi erano molti giudei, considerati come gli avversari di Gesù e, quindi, attendibili nel rendere testimonianza dell’accaduto. La distanza tra Gerusalemme ed il villaggio di Betània, circa 3 km, consentiva ai più di recarsi a piedi dalla famiglia di Lazzaro per porgere le loro condoglianze alle sorelle del defunto. Il fatto che in “molti” si fossero recati a Betània per assolvere il dovere della partecipazione al lutto per la morte di Lazzaro, fa supporre che questo personaggio fosse piuttosto noto nella vicina Gerusalemme. Il consolare gli afflitti era, presso i giudei, una delle opere di misericordia più apprezzate che nessun devoto giudeo trascurava di compiere, non solo prima della sepoltura del defunto ma anche nei sette giorni successivi alla tumulazione, per far sentire ai familiari afflitti per la perdita del loro congiunto la solidarietà del clan familiare e degli amici di famiglia. Questa condoglianza non deve essere scambiata con la lamentazione ad alta voce fatta sul defunto subito dopo la morte (cf. Mc 5,38s e pp), usanza comune anche ad altre culture (le préfiche erano donne pagate per fare le lamentazioni nelle case dei defunti anche presso il mondo greco e romano).

20 Marta, dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21 Marta disse a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!
Le due sorelle di Lazzaro sono molto differenti tra loro. Mentre Maria è il prototipo della persona contemplativa (cf. Lc 10,38-42), quieta e riflessiva, capace di stare al suo posto e di porsi in ascolto, Marta è esemplare nel sapersi mettere a servizio degli altri con dedizione ed efficienza, senza perdersi in ciance inutili. L’attivismo di Marta è ben organizzato, finalizzato al benessere dell’ospite ed è privo d’invadenza. Quando Gesù si recava presso la famiglia degli amici di Betània, si trovava a proprio agio e riusciva a recuperare le energie fisiche e psicologiche immergendosi in un clima familiare che, con tutta probabilità, aveva molti punti in comune con la sua stessa famiglia: amore, rispetto, operosità, silenzio, raccoglimento, capacità di ascoltare.
Conformemente al proprio carattere, volitivo ed intraprendente, Marta si reca per prima incontro al Maestro, mentre Maria rimane in casa, “seduta”, in atteggiamento di umile ascolto delle parole che Gesù le dirà a breve, pronta a farle proprie come una “vera discepola” del rabbì tanto amato. Le prime parole rivolte da Marta a Gesù suonano quasi come un sommesso rimprovero per un’attesa andata delusa: “se ti fossi affrettato a venire qui… non avresti lasciato morire il tuo amico…”. In realtà, Marta fa una semplice constatazione di merito; ella sa benissimo che Gesù è dotato di poteri sovrumani e lo conosce come uomo generoso e buono, capace di compiere miracoli incredibili perché è un vero uomo di Dio, un profeta. Senza dubbio, Gesù non avrebbe permesso alla malattia di portarsi via un amico ospitale e sempre disponibile come Lazzaro e lo avrebbe certamente guarito. In questa dolorosa circostanza, le parole di Marta esprimono, quindi, una fede semplice e sincera ed un’amorevole fiducia nei confronti dell’amico Gesù, che mai e poi mai avrebbe permesso che dolore ed angoscia entrassero in quella casa!

22 Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”.
Queste parole non fanno che confermare l’incrollabile fede di Marta in Gesù, al quale attribuisce il grande potere di intercedere presso Dio a favore degli uomini più sfortunati e deboli (cf. 9,31). L’evangelista sta preparando, come un abile regista, l’adatto clima di fede nel quale deve avvenire il prodigio inaudito della resurrezione di Lazzaro. Dalle parole di Marta sembrerebbe che, da parte sua, ci sia l’attesa di un miracolo di resurrezione, anche se il fratello è ormai in decomposizione, ma probabilmente la donna intende solo affermare la propria fiducia in Gesù e nel suo rapporto privilegiato con Dio e non intende “forzargli” la mano pretendendo l’impossibile. I fatti dimostreranno che Marta si sbaglia, perché in Gesù opera Colui che può tutto ed al quale “nulla è impossibile” (Lc 1,37; Gen 18,14; Ger 32,27).
Marta è una donna pronta alla fede (“anche ora so…”) e, in forma volutamente generica ed indeterminata (“qualunque cosa chiederai…”), accenna ad una speranza ed esprime una preghiera che lascia aperte tutte le possibilità (“Dio… te la concederà”). Come nella muta preghiera di Maria, che alle nozze di Cana aveva chiesto al figlio Gesù di intervenire in aiuto di chi si trovava in uno stato di necessità (2,3), l’evangelista fa intravedere l’idea di un miracolo senza farla esplicitamente esprimere dalla stessa Marta, che con molta delicatezza lascia a Gesù la libertà di decidere cosa sia meglio per lei e per la sua famiglia provata dal dolore.

23 Gesù le disse: “Tuo fratello risusciterà”. 24 Gli rispose Marta: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”.
La risposta di Gesù è volutamente ambigua (cf. 11,11) poiché parla della resurrezione sia in senso generico, facendo riferimento alla fede giudaica nella resurrezione finale, escatologica, sia in senso specifico, alludendo alla propria volontà di resuscitare subito Lazzaro, senza aspettare la fine dei tempi. Marta si attiene alla prima interpretazione, condividendo la fede, assai diffusa tra il popolo ebraico, nella resurrezione escatologica che, al tempo di Gesù, era sostenuta dai farisei ed avversata dai sadducei (cf. Mc 12,18-27 pp). La professione di fede giudaica, resa da Marta, richiama con forza l’attenzione sull’ultimo giorno, la fine dei tempi. Il ricordo di questo giorno, che solo Giovanni definisce “ultimo” (cf. 6,39.40.44.54; 12,48), consente all’evangelista di contrapporre l’attesa futura giudaica all’attualità della salvezza, che per i cristiani si è compiuta ed è divenuta certezza in Gesù Cristo, il Salvatore ultimo e definitivo dell’umanità, il Signore dei cieli e della terra.
[Per molti esegeti, Giovanni ha inteso smantellare polemicamente, a favore dell’attualità della salvezza (praesentia salutis), tutta l’escatologia drammatica e futura sostenuta prima di lui da altri pensatori cristiani dei primi tempi della Chiesa].

25 Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26 chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?”.
L’espressione Io sono (la resurrezione e la vita) ha un tono particolarmente possente e solenne. Se si parla di resurrezione, Marta non deve guardare ad un futuro lontano e dai vaghi contorni, perché la resurrezione è vicina a lei ed è presente in carne ed ossa nella persona misteriosa, ma reale e concreta, di Gesù di Nazareth, che incarna per i credenti l’ora della resurrezione attuale ed escatologica insieme. Gesù attesta di essere colui al quale è stata attribuita la potenza, riservata a Dio solo, di vivificare (cf. 5,21), cioè di dare la vita (e far tornare in vita) e tale potenza è intimamente sua (cf. 5,26), come ha già ampiamente dimostrato mediante i grandi segni compiuti sugli infermi (cf. 4,50-53). La vita e la morte ruotano attorno alla fede nel Figlio di Dio, nella cui persona è racchiuso il giudizio finale, presente già nell’oggi storico: chi crede ha la vita eterna, che non può essere distrutta dalla morte fisica, mentre chi consapevolmente non crede o rifiuta di credere si consegna alla morte definitiva. Marta dev’essere convinta che Gesù l’aiuterà all’istante e le mostrerà la gloria di Dio (cf. 11,40) e, al tempo stesso, è invitata da Gesù ad essere un esempio di fede per tutti i credenti: credi tu questo? Dalla risposta di Marta dipende non solo la propria vita eterna, ma anche quella di tanti altri credenti futuri e Marta indica la via, sull’esempio di Maria, la madre di Gesù.
La vita fisica, ritornata in una salma in putrefazione, non è che un pallido riflesso della vera vita che Gesù risveglia nel credente ed il potente grido con cui Gesù fa uscire Lazzaro dal sepolcro (11,43) non è che una debole eco di quel grido con cui Egli, l’Inviato di Dio, chiama tutti gli uomini, che credono in Lui, alla vita di Dio (cf. 5,24s). Rivolgendosi a Marta per avere da lei una proclamazione di fede (“credi tu questo?”), Gesù interpella indirettamente ogni singolo uomo e sollecita una risposta decisa, affermativa o negativa, non già tentennante ed indecisa (cf. Mt 5,37; 2Cor 1,17-19; Gc 5,12) e su tale risposta si gioca il destino di ciascuno di fronte a Dio, giusto giudice, l’unico che può leggere nel profondo del cuore d’ogni essere umano e comprenderne le scelte di fede e di vita.
Io sono la resurrezione e la vita. Tale abbinamento è fondamentale per comprendere il vero significato dell’affermazione successiva, costruita con un distico di grande efficacia espressiva:
1)“chi crede in me, anche se muore vivrà
2)“chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”.
In questo parallelismo sinonimico, artificio letterario che consente di ribadire un concetto esprimendolo con affermazioni equivalenti, la fede occupa la prima parte di ciascun emistico e costituisce la necessaria premessa alla vita, che nel secondo emistico viene proposta nella sua forma assoluta, come negazione della morte definitiva (non morrà in eterno). Ogni volta, l’esistenza terrena costituisce il punto di partenza per giungere alla vera vita. Infatti, nel primo emistico, la vita dell’uomo viene proposta come realtà relativa e finita (anche se muore), riscattata però da una scelta di fede (chi crede in me) e da una promessa certa e sicura (vivrà). Nel secondo emistico, il vivere quotidiano di ogni essere umano è strettamente collegato al mondo superiore dello spirito, di cui la fede rappresenta il mezzo più efficace (chiunque vive e crede in me) per superare l’opprimente limite della vita terrena (non morrà), che acquista un senso compiuto solo se proiettata nell’eternità (in eterno).
La fede costituisce, quindi, l’inevitabile punto d’incontro tra la vita terrena e quella eterna dello spirito ed è posta dall’evangelista in forte rilievo come esigenza incondizionata. Nelle parole di Gesù si coglie la contrapposizione tra la vita terrena, naturale e quella dello spirito e si intuisce come la fede sia considerata indispensabile per superare la frontiera della morte corporale. Grazie a Gesù, la vita terrena acquista una nuova dimensione perché chi crede in Lui, datore di vita e di salvezza, riceve la garanzia dell’immortalità.
Credi tu questo? Gesù non si limita a chiedere a Marta se ha fede nella sua persona, ma le chiede se crede a ciò che le sta dicendo. Le parole hanno l’effetto di creare un legame fra chi parla e chi ascolta, ma la parola di Gesù, che è l’eterna Parola di Dio incarnata, crea un vincolo di comunione e di amore indissolubile con il credente che l’ascolta e l’accoglie nella profondità della propria anima. Non basta aderire agli enunciati della dottrina cristiana per dirsi ed essere veramente cristiani, ma occorre fare entrare nella propria vita (che è intelligenza, volontà, sentimento, relazione, azione) ogni parola pronunciata da Gesù, facendo propria l’affermazione di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (6,68). Attraverso Gesù e grazie alla sua parola viene concesso ad ogni credente il dono della vita.

27 Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”.
Marta pronuncia una professione di fede in piena regola, anche se, forse, non comprende totalmente la portata di ciò che va affermando. La sua risposta affermativa ed assai impegnativa alla domanda di Gesù non vuol dire che essa abbia afferrato completamente il significato delle sue parole, ma il “sì” con cui accoglie le parole di Gesù, riconoscendolo come l’unto di Dio, predetto dai profeti e destinato a portare la salvezza ad Israele, le apre il cuore e la mente al mistero, come poc’anzi aveva fatto Pietro dopo il discorso di rivelazione sul pane di vita, pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafàrnao e parso ai più assai duro e difficile da comprendere (cf. 6,60.63.68). L’atteggiamento di Marta è esemplare, rispecchiando una fede sicura, capace di resistere anche contro ogni evidenza contraria ed è questa disponibilità a credere che l’evangelista vuole suggerire ai membri della sua comunità. Il giusto atteggiamento d’ogni vero credente prevede di non pretendere, a qualsiasi costo, di penetrare il mistero di Dio con il lume della ragione, ma di affidarsi a Gesù, grazie al quale l’aiuto di Dio non potrà mai venire meno. La professione di fede di Marta, così come quella pronunciata da Pietro (cf. 6,68-69), è una fede nel Messia in pieno senso cristiano e riprende, sostanzialmente, le stesse parole usate dall’evangelista nella conclusione originale del suo Vangelo (20,31) per esprimere la propria fede, supportata dalla testimonianza diretta, nel Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza degli uomini: “… perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e… credendo, abbiate la vita nel suo nome”.
Riconoscendo in Gesù “il Messia”, Marta sostiene implicitamente che l’attesa giudaica per il Liberatore d’Israele si è compiuta nel rabbì di Galilea, che l’onora della sua amicizia, ma definendolo anche “Figlio di Dio” ella si spinge più in là dei suoi connazionali nella comprensione del messianismo voluto da Dio e rivelato attraverso le parole della Sacra Scrittura. La messianicità di Gesù, infatti, non si limita al mero aspetto politico e non interessa il solo popolo ebraico, ma ha un significato squisitamente spirituale ed una dimensione universale già intuiti dai profeti, ma male interpretati dagli stessi rabbini, studiosi ed interpreti autorevoli della Parola di Dio.
Le varie professioni di fede di Natanaele (1,49), di Pietro (6,69) e di Marta (11,27) sono state formulate direttamente per la comunità cristiana di Giovanni e trasposte dai tempi di Gesù a quelli dell’evangelista, né vale la pena di chiedersi se simili dichiarazioni, espresse a favore di Gesù, siano storicamente possibili. È certo, però, che la fede dei cristiani della fine del I secolo d.C. era profondamente collegata alla figura storica di Gesù di Nazareth e garantita dall’esperienza diretta del Risorto da parte degli apostoli e di pochi altri discepoli. Così, non c’è da sorprendersi se Marta pronuncia parole che sono attribuibili, quasi certamente, all’evangelista Giovanni: “…che deve venire nel mondo”. Tale locuzione ha la funzione di caratterizzare la figura di Gesù, che è al tempo stesso il Messia ed il Figlio di Dio, il portatore della salvezza inviato da Dio stesso e poco importa che Giovanni l’abbia messa sulla bocca di Marta rispettando o no il dato storico puro e semplice. Giovanni è stato uno dei testimoni della resurrezione e Marta ne ha condiviso la testimonianza; tanto basta all’evangelista per esprimere la propria fede mediante le parole della donna.

28 Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: “Il Maestro è qui e richiama”.
Giovanni interrompe bruscamente il dialogo tra Gesù e Marta, della quale non riporta frasi superflue circa il suo commiato da Gesù od un eventuale incarico da Lui ricevuto di avvisare Maria del suo arrivo a Betània. Sembra quasi che l’evangelista voglia trasmetterci i tratti essenziali del carattere di Marta lasciandoceli intuire più che parlandone direttamente. Questa donna è di poche ed essenziali parole, ma dinamica e senza fronzoli e sa precedere nei fatti le intenzioni dei suoi interlocutori. Marta chiama la sorella di nascosto, sia per evitare ogni scalpore circa l’arrivo di Gesù e sia per allontanare Maria dall’ingombrante presenza dei giudei venuti per le condoglianze di circostanza. Pare di arguire che alle due sorelle fosse di conforto la sola presenza di Gesù e non di tutta quella gente, lì convenuta per semplice convenienza sociale. I giudei erano molto rispettosi e fedeli osservanti delle buone regole riguardanti tanto l’aspetto cultuale quanto quello puramente sociale della loro vita quotidiana, al punto da essere persino petulanti.
Il Maestro ti chiama. Più che a Maria, questo avvertimento sembra rivolto ai lettori, invitati a comportarsi come Maria, la cui fede in Gesù si traduce in una grande capacità di mettersi in ascolto delle sue parole, che sono “parole di vita eterna” (6,68). A coloro che credono in Lui, Gesù parla in modo diverso rispetto a quello che gli è consentito fare con i lontani e gli increduli, per i quali il contenuto del messaggio cristiano è un inciampo (scandalo) alle loro scelte di vita.

29 Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui.
La contemplativa Maria non è da meno dell’energica e volitiva sorella Marta. La sola notizia dell’arrivo di Gesù la fa scattare in piedi e correre dal Maestro, dal quale non si aspetta solo parole di conforto e d’incoraggiamento, come richiederebbero le circostanze, bensì parole capaci di scaldarle il cuore e di aprirle la mente alle profondità dell’Amore di Dio, che sa consolare gli afflitti e sostenere i disperati d’ogni genere (cf. Sal 107). La fretta, che anima la riflessiva e quieta Maria, riflette l’urgenza della chiamata di Dio, che è presente “ora” nel nostro bisogno e che sollecita “subito” la nostra adesione al suo progetto d’amore e di salvezza, non tollerando tentennamenti né ripensamenti (cf. Ap 3,16) di sorta. Incapace di vedere oltre il tempo finito e contingente della propria esistenza, spesso incerto e dubbioso della reale esistenza dell’eternità, l’uomo fa fatica a sintonizzarsi sul tempo di Dio, per il quale il tempo umano è assai ristretto (Sal 39,6-7; 62,10; 90,9-10; 94,11). L’infinita pazienza e misericordia di Dio si ferma di fronte alla libera volontà dell’uomo, che con pervicacia si oppone all’urgenza della salvezza.

30 Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andato incontro. 31 Allora i giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: “Va al sepolcro per piangere là”.
Sapendo che, secondo l’usanza, la casa di Marta e Maria potrebbe essere piena di gente convenuta per le condoglianze rituali, Gesù evita di andarvi ed attende Maria per parlare a cuore a cuore e lontano da orecchi indiscreti. Il linguaggio, che Gesù suole usare con chi crede in Lui, è sempre diverso da quello utilizzato con la folla ostile ed incredula: a questa parla in parabole e per allusioni, agli altri parla in modo esplicito anche se non sempre viene compreso. Gesù sa che, a tempo opportuno, lo Spirito farà ricordare e comprendere a quanti credono in Lui le parole che ha loro detto.
Le mosse di Maria non sfuggono agli attenti giudei, che non sospettando la presenza di Gesù nei dintorni, la seguono presumendo che stia recandosi al sepolcro per piangere il fratello defunto. Il loro arrivo impedisce il colloquio privato ed intimo fra Maria e Gesù. La presenza dei giudei, in ogni caso, crea la giusta atmosfera di lutto e di lamenti che rende comprensibile il “fremito” di Gesù (11,33).
I giudei, accorsi per confortare Maria, hanno la sorpresa di vedere Gesù e già sono pronti a muovergli delle critiche gratuite (11,37) ma, loro malgrado, dovranno essere i testimoni di un prodigio inaudito, a motivo del quale i capi religiosi della nazione giudaica decreteranno la morte di Gesù (11,50).

32 Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”.
Maria ripete pari pari le parole di sua sorella Marta ed anche in questo caso non bisogna scorgervi alcuna traccia di rimprovero. Il gesto di cadere ai piedi di Gesù potrebbe molto semplicemente esprimere il gran dolore di Maria, ma anche indicare la sua adorazione del Maestro, ritenuto con buona ragione capace di evitare la morte del fratello, qualora Egli fosse stato presente durante la malattia di Lazzaro. La fiducia di Maria e di Marta nelle proprietà taumaturgiche dell’amico è grande, ma le due donne non hanno ancora compreso a fondo la vera natura di Gesù, anche se nel profondo della loro anima hanno già intuito che non è un uomo come gli altri. Facendo risorgere Lazzaro, Gesù prepara le due donne ed i suoi discepoli ad assorbire il terribile impatto dello scandalo della sua morte sulla croce.

33 Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: 34 “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”.
Il breve incontro con Maria ha, da un punto di vista letterario, un valore poco rilevante in sé, ma serve come scena intermedia per introdurre il pathos della seconda fase della narrazione, centrata su due gruppi di personaggi: Gesù e Lazzaro da una parte, i giudei dall’altra. La partecipazione di Lazzaro allo svolgimento degli avvenimenti è del tutto passiva, ma la sua resurrezione dal sepolcro diventa il vero fulcro della crisi tra Gesù ed i giudei. Nonostante l’evidenza dei fatti, i giudei assumono un atteggiamento di radicale rifiuto della verità e Gesù finisce i suoi giorni terreni su una croce.
Il pianto sincero di Maria ed il pianto di circostanza dei giudei provocano in Gesù una reazione emotiva sconcertante. La “profonda commozione”, manifestata da Gesù al cospetto di quei lamenti ed associata al “turbamento” interiore, ha suscitato svariati commenti, non tutti concordi: per Origene (fr. 84; GCS IV,549) e Giovanni Crisostomo (PG 59,350) Gesù ha voluto reprimere un sentimento di dolore che lo aveva assalito come nell’ora del Getsémani; per Cirillo Alessandrino (PG 74, 53A) ed Ammonio (fr. 379, Reuss p. 291) Gesù ha represso nella forza dello Spirito Santo un istinto della sua natura umana o carnale; per Teodoro di Eraclea (fr. 155, Reuss p. 105) ed Agostino d’Ippona (CC 428 s) Gesù ha volontariamente suscitato questo moto affettivo, tipicamente umano, per manifestare il suo dolore per la morte dell’amico.
I verbi greci, usati dall’evangelista per esprimere la reazione psicologica di Gesù, lasciano perplessi: il verbo embrimàsthai (tradotto, in italiano, col verbo “commuoversi”) significa propriamente “sbuffare” ed esprime un’eccitazione irata, non la commozione, il dolore o la partecipazione al dolore altrui. Nel racconto originario, il verbo potrebbe aver significato un investire irosamente coloro che stavano facendo il cordoglio di circostanza (cf. Mc 1,43; 14,5; Mt 9,30), anche se l’evangelista ha fatto un’aggiunta ulteriore per imprimere al verbo il significato di un fremito interiore, usando il sostantivo “nello spirito” (in greco, tò pnèumati) che nella versione italiana è stato reso con l’avverbio “profondamente”.
Lo spirito (13,21) o anima (12,27) di Gesù è eccitata e turbata e, per esprimere questo sentimento, l’evangelista usa il verbo greco taràssein, che propriamente significa “agitare, rimescolare” e che, applicato a Gesù, esprime lo smarrimento di fronte alla morte imminente (12,27) o lo sgomento per il tradimento perpetrato da uno dei Dodici (13,21). Ma qual è il motivo di quest’irato fremito interiore di Gesù? Secondo l’evangelista lo adira la fede insufficiente dei presenti, come si può dedurre dal commento malizioso dei giudei, che rimproverano Gesù, capace di guarire un cieco nato, di non essere stato in grado di salvare il suo amico, ma, così facendo, i giudei denunciano un sostanziale rifiuto a credere anche di fronte all’evidenza. È meno probabile che all’origine della reazione irata di Gesù vi sia lo sdegno contro la potenza della morte, dietro alla quale è riconoscibile satana, il distruttore della vita nemico di Dio. Per Giovanni, in definitiva, i veri rappresentanti dell’incredulità radicale sono proprio i giudei, che si distinguono solo per i loro lamenti e non ritengono possibile che Gesù possa venire in aiuto all’uomo in una situazione come quell’attuale.
Dove l’avete posto (“seppellito”)? Gesù vuole che tutti i presenti siano testimoni, volenti o nolenti, del prodigio che sta per compiere e si fa accompagnare sul luogo della sepoltura di Lazzaro. Alcuni Padri della Chiesa hanno colto, in questa domanda di Gesù, una potenziale obiezione alla sua scienza divina e, pertanto, hanno interpretato in questo modo la domanda del Signore: “Come uno che non ama vantarsi egli disse ciò e finse di non sapere, per la bassezza dell’umana natura; egli che pure in quanto Dio sa tutto, [così parlò] per portare molti uomini sul luogo” (Ammonio fr. 380, Reuss p.291; cf. anche Cirillo Alessandrino, PG 74,53). Giovanni non si fa scrupoli del genere, poiché dal suo vangelo già emerge l’ovvia constatazione che Gesù sa sempre quello che deve fare e che domina da padrone assoluto qualsiasi situazione, anche la propria morte.
Signore, vieni a vedere. Si tratta di una locuzione tipicamente semitica (cf. 1,39), che esprime la necessità di attivare tutte le proprie facoltà psicologiche (volontà, decisione, intelligenza) per verificare e comprendere una situazione di fatto. Gesù viene, in altre parole, invitato dai giudei a controllare di persona la realtà dei fatti e prendere atto anche della propria impotenza di fronte ad un cadavere in avanzata fase di decomposizione: solo Dio potrebbe far tornare in vita il povero Lazzaro! Gesù li accontenta subito.

35 Gesù scoppiò in pianto. 36 Dissero allora i giudei: “Vedi come lo amava!”. 37 Ma alcuni di loro dissero: “Costui che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che questi non morisse?”.
L’evangelista usa due verbi greci differenti per descrivere il pianto di lamento di Maria e dei giudei (klàio) e quello di Gesù (dakrùo). Nel primo verbo si può intuire il desolato sconforto della creatura umana di fronte alla tragica realtà della morte, che come un colpo di spugna spazza via un’intera esistenza destinandola all’oblio ed all’inconsistenza di un aldilà ricco d’incognite; nel secondo verbo si possono coglier diverse sfumature psicologiche, sia nei giudei, convinti che Gesù pianga la morte di un amico assai caro ed amato, sia in Gesù, rattristato per le tenebre dell’ignoranza e dell’incredulità che avvolgono l’uomo e per l’oscurità del destino mortale, da lui stesso condiviso. In altri passi del Nuovo Testamento (Eb 5,7; At 20,19; Ap 7,17; 21,4) le lacrime adombrano il clima d’oppressione e di persecuzione che sempre ed inevitabilmente accompagna la vita del cristiano, il quale deve confrontarsi e scontrarsi con un mondo ostile al progetto salvifico di Dio. L’evangelista non passa sotto silenzio l’orrore del sepolcro, ma suggerisce di superarlo mediante la fede (cf. 11, 25.39-40). La grandezza del prodigioso segno, operato da Gesù, può essere riconosciuta solo se non si minimizza la durezza e la cruda realtà della morte fisica. Le lacrime di Gesù, segno di uno smarrimento momentaneo ed umanamente comprensibile, precedono di poco la calma e la quieta sicurezza che Egli trova nella preghiera rivolta al Padre (11,41; cf. anche 12,27s) e, in questo senso, il Gesù giovanneo è indissolubilmente legato al destino degli uomini ed aperto alle loro miserie. In Gesù, Dio ha provato nel suo cuore e sulla propria pelle ogni sfumatura della complessa psicologia dell’uomo, “eccetto il peccato” (Eb 4,15) ed attraverso la croce, subita dal Figlio, ha sopportato il dolore ed ha conosciuto l’orrore della morte fisica. Attraverso il segno della resurrezione di Lazzaro, Dio ha voluto dare consistenza alle speranze dell’uomo di una vita senza fine dopo la morte del corpo.
Vedi come lo amava! I giudei, che spiegano il pianto di Gesù con l’amore che Egli nutriva per l’amico, si dimostrano superficiali alla stregua della folla che, udita la voce proveniente dal cielo per rendere testimonianza a Gesù (cf. 12,29), la scambia per un tuono. È lungi dalla mentalità dei giudei che Gesù possa proporsi come colui che può eliminare l’oscurità della morte. Essi possono anche nutrire della simpatia per il Maestro venuto dalla Galilea, ma la fede in Lui sembra al di fuori della loro portata. A qualcuno dei presenti torna alla mente il prodigio compiuto da Gesù sull’uomo nato cieco, ma il ricordo non è propriamente positivo, visto il rimprovero che segue: ha guarito un cieco nato, ma non ha impedito la morte di un proprio amico. Si tratta di una critica ingiusta e gratuita, che spiega il gesto di reazione di Gesù, che freme d’ira nel suo intimo di fronte ad una malafede così palese e preconcetta. Il richiamo alla guarigione del cieco nato permette all’evangelista di sottoporre ai lettori il collegamento teologico tra questo segno e la resurrezione di Lazzaro. I due grandi miracoli vanno considerati nel loro insieme, perché rivelano Gesù come luce e vita degli uomini.

38 Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra.
La rinnovata emozione di Gesù, che nel suo intimo freme di sdegno per l’incredulità dei giudei, si riferisce evidentemente al loro malizioso commento: “… non poteva anche far sì che questi non morisse?”. Nonostante il fremito interiore, Gesù non si scompone, così come non aveva reagito apertamente di fronte ai piagnistei di circostanza dei visitatori (11,33). Senza dire una parola, Gesù si reca al sepolcro, nel quale è sepolto Lazzaro. L’evangelista ci rivela i particolari del luogo della sepoltura del defunto: si tratta di una grotta, cioè una cavità scavata nella viva roccia, la cui apertura è ostruita da una pietra di grosse dimensioni, fatta scorrere grazie ad un’apposita scanalatura opportunamente confezionata nel terreno antistante la grotta. Questo tipo di sepolcro è differente da quello in cui sarà deposto più tardi il corpo di Gesù, ad accesso orizzontale e più frequentemente usato dalla tradizione giudaica.

39 Disse Gesù: “Togliete la pietra!”. Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni”.
L’ordine di Gesù è perentorio e non ammette repliche, anche se Marta si fa interprete della perplessità dei presenti facendo notare, tra le righe, che ci si dovrà turare il naso. Il lezzo emanato da un cadavere in decomposizione è nauseabondo e provoca ribrezzo e voltastomaco, oltre a rendere impura l’aria respirata dagli astanti. Nemmeno le bende intrise d’aromi, usate per avvolgere i cadaveri, hanno il potere di trattenere il cattivo odore che si sprigiona da un corpo in preda alla putrefazione. L’ulteriore sottolineatura di una morte datata quattro giorni contribuisce a rendere più clamoroso il prodigio che sta per compiersi, perché sottintende la definitiva separazione dell’anima dal corpo mortale.
In senso allegorico, la morte del corpo, di cui il fetore è il segno più repellente, è simbolo della morte di un’anima che si è allontanata definitivamente da Dio, il quale avverte il cattivo odore della malvagità, del peccato, dell’orgoglio, della presunzione e della superbia che scaturiscono dal cuore di quanti hanno deciso di consegnarsi nelle mani del principe della morte eterna.

40 Le disse Gesù: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”.
Nell’immediato, la gloria di Dio è visibile attraverso la resurrezione del defunto Lazzaro, ma Gesù orienta lo sguardo del credente verso orizzonti più ampi ed affascinanti, perché nella resurrezione di un morto si può scorgere il potere di Gesù di dare la vita vera, che sopravvive alla morte e che dura per l’eternità. Per questo motivo anche l’espressione “vedrai la gloria di Dio” è volutamente ampia ed indeterminata. Attraverso la malattia e la morte di Lazzaro si svela la gloria di Dio, che traspare attraverso l’azione salvifica del Figlio (cf. 11, 4). Tutti i segni o miracoli compiuti da Gesù rendono visibile la gloria di Dio e di Gesù stesso (cf. 2,11), ma solo i credenti riescono a vederla (cf. 1,14).

41 Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. 42 Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”.
Secondo il modo di sentire giudaico, gli avvenimenti straordinari potevano accadere per intervento diretto di Dio onnipotente, grazie all’intercessione di uomini devoti e pii, mentre la cultura religiosa greco-ellenistica attribuiva agli uomini divini il potere sovrumano di compiere prodigi, senza il concorso necessario di una qualsivoglia divinità. La preghiera, che Gesù rivolge al Padre, non è dettata da un bisogno umano puro e semplice (cf. 12,27s; 17,1-25) ma scaturisce dalla totale sottomissione del Figlio al Padre (cf. 14,28.31). Poiché il Figlio vive in piena unità col Padre, del quale conosce e compie la volontà con assoluta fedeltà, la sua preghiera è sempre certa di essere esaudita. L’intima unione di Gesù col Padre viene espressa dal gesto compiuto da Gesù, che leva gli occhi al cielo o in alto (17,1); colui che è disceso dal cielo rimane costantemente collegato con il cielo, vale a dire col Padre suo (cf. 1,51). Questo modo di rivolgersi a Dio in preghiera, levando gli occhi verso l’alto, non era del tutto estraneo al mondo religioso ebraico, che intendeva esprimere così un sentimento di fiduciosa implorazione (cf. Sal 123,1; Lam 3,41), ma se per i Sinottici lo sguardo di Gesù verso il cielo aveva in sé qualcosa di speciale (cf. Mc 6,41pp), per Giovanni tale gesto era una peculiare espressione della sua dignità di Figlio; si comprende pertanto come la preghiera di Gesù si trasformi necessariamente in ringraziamento.
Gesù è sicuro di essere esaudito dal Padre perché sa di compiere sempre ciò che il Padre gli chiede di fare (cf. 8,29) in virtù di quel continuo flusso d’amore, che unisce l’uno all’altro in modo indissolubile. La relazione personale unica, che intercorre tra Gesù ed il Padre, è racchiusa in questo circolo virtuoso: uno chiede e l’altro esaudisce, in modo assolutamente reciproco. Anche coloro che credono in Gesù possono accedere alla dinamica virtuosa del dono reciproco con Dio, poiché è stato loro assicurato il pieno esaudimento delle richieste fatte al Padre nel nome di Gesù (14,13; 15,7.16; 16,23s).
Gesù non formula per sé la preghiera rivolta al Padre, ma per la gente che gli sta attorno, affinché comprenda il miracolo come testimonianza del Padre per la missione del Figlio. I presenti devono essere indotti a credere, così come devono essere esortati alla fede i lettori del testo evangelico.
Nella propria coscienza umana Gesù ha elaborato la consapevolezza che, per salvarsi, gli uomini devono credere con convinzione nella sua missione di salvezza, progettata e decisa dal Padre in totale conformità col volere del Figlio.

43 E detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. 44 Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”.
Il grido di Gesù esprime la potenza della voce di Dio o del suo angelo, che nel giorno del giudizio finale risveglia nelle loro tombe tutti i morti della terra, riportandoli alla vita (cf. 1Tess 4,16) e chiamando ciascuno per nome. In quell’ordine imperioso, rivolto al defunto Lazzaro, si rendono manifeste la maestà ed il potere soprannaturale del Figlio di Dio, origine e vertice di tutta la creazione, “l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine” (Ap 22,13) d’ogni cosa che si trova “nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10). Colui, grazie al quale “tutto è stato fatto e senza il quale niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (1,3), ha il dominio completo sulla natura e tutto è stato messo in suo potere, compresa la morte (cf 1Cor 15,25-26), che è la negazione assoluta della vita sia del corpo sia dello spirito. Il tono del racconto, narrato dall’evangelista, è chiaramente di stampo apocalittico, poiché in esso viene adombrata la resurrezione finale di tutto il genere umano, ma dal punto di vista prettamente stilistico l’avvenimento miracoloso è descritto in modo molto realistico, anche se s’intuisce una situazione ambientale surreale. Il defunto esce dalla tomba da solo, con mani e piedi avvolti nelle bende e col volto coperto dal sudario. Si possono immaginare le reazioni emotive dei presenti alla vista di quello spettacolo sconvolgente: paura, stupore, inquietudine, sbalordimento, gioia, angoscia, ammirazione, incredulità. Qualcuno è convinto veramente di trovarsi di fronte ad un prodigio inaudito, qualcun altro insinua maliziosamente che è tutto un trucco e che è stata montata una grossolana messinscena.
Molti degli astanti credono (11,45), mentre altri restano convinti di aver assistito ad una truffa e si precipitano a riferire la cosa ai loro capi (11,46). Gesù non si cura delle reazioni della gente, ma ordina semplicemente di liberare Lazzaro dalle bende che lo tengono legato e di lasciarlo andare. Il ritorno alla vita di tutti i giorni è la prova migliore dell’avvenuto miracolo.
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07/07/2010 10:07
 
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L’episodio della resurrezione di Lazzaro suscita alcune riflessioni sul concetto di “vita” elaborato e proposto dal quarto evangelista:
1)Gesù Cristo è di volta in volta definito pane di vita (6,35.48), luce della vita (8,12) e vita in senso assoluto (11,25; 14,6) perché è stato inviato dal Padre per dare la vita al mondo (6,33); Gesù è il principio stesso della vita, vale a dire il suo punto di partenza.
2)Nella propria persona ed attraverso le parole che ha pronunciato od i miracoli che ha compiuto, Gesù ha incarnato, rivelato e comunicato la vita di Dio, dovuta a quanti accolgono la sua rivelazione e credono in Lui. Per costoro la vita consiste nella liberazione dal dominio della morte (5,24) e nel superamento dei confini angosciosi della morte (8,51; 11,26; 12,25) già nel tempo dell’esistenza presente, non solo in una prospettiva futura.
3)Il dono e la promessa della vita sono la risposta positiva di Dio all’interrogativo dell’uomo sul senso della propria esistenza e sul contenuto della vera salvezza. La vita è “la luce degli uomini” (1,4), la chiarificazione del senso del loro cammino sulla terra, altrimenti oscuro e tragico (8,12). Il concetto di vita contribuisce ad esprimere meglio il significato della salvezza, che solo con la fede si riesce a comprendere pienamente come nuova e definitiva esistenza in Dio. Di tale esistenza l’uomo è assolutamente debitore nei confronti di Dio.
4)La vita, che l’uomo riceve attraverso Cristo, non è una dotazione materiale né una forza magica, ma una realtà divina, una piena partecipazione alla vita di Dio, che è origine d’ogni vita (5,26; 1Gv 1,2). Il possesso della vita da parte del credente, frutto del dono del Padre attraverso il Figlio (1Gv 5,11), opera la comunione col Padre e col Figlio (1Gv 1,3; 2,23s; 5,12).
5)Anche i sacramenti hanno la loro importanza nel processo di comunicazione della vita ai credenti, perché sono segni efficaci che uniscono i credenti a Cristo e, per mezzo suo, al Padre (Gv 3,5; 6,53-57; 1Gv 5,7s). La vita donata a chi (nel battesimo) è generato da Dio è, per sua natura, permanente (Gv 6,27; 1Gv 2,27; 3,9) e deve condurre ad una relazione viva e cosciente con Cristo e con Dio, ad una permanenza nell’amore (Gv 14,21.23; 15,9). Per rimanere in Cristo ed avere la vita eterna è indispensabile l’eucaristia (6,56).
6)La vita divina donata al cristiano diventa dovere morale e chiede di essere confermata nell’amore fraterno (1Gv 4,20s).
Giovanni distingue nettamente tra la vita biologica (bìos), con relativo aspetto psichico, intellettivo e volitivo (psykhé), che caratterizza la parte terrena e caduca dell’esistenza umana e la vita eterna (zoé), verso la quale ogni uomo tende in virtù di una vocazione comune all’eternità connessa con l’atto creatore di Dio, che ha fatto l’uomo “a propria immagine e somiglianza” (Gen 1,26-27). Secondo la teologia giovannea, la vita proviene da Dio e giunge agli uomini attraverso Gesù Cristo (cf. 3,16; 5,26; 6,57), ma l’uomo coltiva naturalmente, quasi geneticamente, dentro il proprio essere l’ansiosa ricerca della salvezza, identificata con un genere d’esistenza necessariamente diversa da quella sperimentata sulla terra come provvisoria e fugace (cf, 4,13s; 6,27; 7,38; 8,12; 17,3). Grazie a Gesù Cristo, l’uomo può comprendere che la meta della sua esistenza è la vita in Dio e che può giungervi “conoscendo” il Padre attraverso il Figlio: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (17,3). Il mandato di Dio a Gesù significa vita per gli uomini, ai quali è offerta l’eternità come un dono prezioso da accogliere consapevolmente e con impegno personale.
Il risalto che viene dato al ruolo di Gesù Cristo nel trasmettere la vita di Dio agli uomini, rende implicitamente evidente la non disponibilità a buon mercato di questo tipo di vita. Solo ed abbandonato a se stesso, l’uomo non riesce a liberarsi dei propri limiti creaturali (3,31), dalla schiavitù dei suoi desideri (8,34-36) e dall’attrazione verso ciò che è passeggero (6,26.35); solo la fede in Colui che è portatore di vita può vincere la cecità spirituale dell’uomo e schiudergli la via per ottenere l’agognata pienezza di vita. Senza la mediazione del Figlio di Dio, l’uomo non è in grado di raggiungere, da solo, la vita eterna, che è pienezza d’amore e di conoscenza di Dio.
La vita eterna, donata da Cristo a chi crede in Lui e nella sua missione, non è solo una promessa per il futuro, ma è una realtà che si realizza nel presente dell’esistenza terrena, nella quale ogni credente può realizzare l’attesa della vita futura mediante rapporti d’amore e di servizio a vantaggio dei suoi simili. La vita, donata all’uomo nella fede, va ben oltre la morte del corpo materiale, che naturalmente provoca timore ed angoscia ma che, grazie alla Rivelazione, denuncia la propria provvisorietà ed inconsistenza di fronte alla promessa nella quale Dio stesso si è impegnato resuscitando il proprio Figlio, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 1,20).
Per ottenere la vita eterna, cioè per vivere eternamente in Dio e con Dio, l’uomo non può pensare al singolare; chi aspira alla salvezza deve spogliarsi d’ogni angusto e meschino individualismo e collocarsi nella prospettiva di una salvezza collettiva, in comunione coi suoi fratelli e compagni di viaggio. Il passaporto per entrare nella vita eterna, in comunione reciproca con Dio, è l’amore a due dimensioni: verso Dio e verso il prossimo (cf. 15,7-10).
Il miracolo della resurrezione di Lazzaro fa precipitare gli eventi. Messi sull’avviso da alcuni giudei, testimoni del prodigio compiuto da Gesù a Betània (11,46), i sommi sacerdoti ed i farisei decidono di riunire il sinedrio (11,47), il tribunale religioso ed amministrativo della nazione giudaica e discutono sul da farsi. È grande la preoccupazione che i romani possano intervenire con la forza delle armi per reprimere una possibile rivolta popolare capeggiata da Gesù (11,48), forte delle sue qualità taumaturgiche, ma il sommo sacerdote Caifa offre la giusta soluzione al caso-Gesù: meglio la morte di un uomo solo che la rovina di un’intera nazione (11,49-50). La motivazione politica della condanna a morte di Gesù, pronunciata dal sinedrio per istigazione di Caifa, s’intreccia inesorabilmente col progetto salvifico di Dio, che attraverso la morte del Figlio vuole riscattare l’intera umanità dal peccato e sottrarla alla perdizione eterna. Nonostante le intenzioni malvagie ed il calcolo politico dei capi della nazione giudaica, il sommo sacerdote Caifa pronuncia un’involontaria profezia (11,51): la morte di Gesù avrà lo scopo di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (11,52).
Nell’attesa che giunga la sua “ora”, Gesù si ritira presso la città di Efraim e per un po’ non si fa più vedere nei pressi di Gerusalemme (11,54-57), dove tutti sono in attesa di vederlo, gli uni per festeggiarlo e gli altri per fargli la festa (nel senso di ucciderlo…).

L’unzione di Betània
(Gv 12,1-11)

L’ultima parte dell’attività pubblica di Gesù è contrassegnata dall’avvicinarsi della pasqua della sua morte. I giudei si preparano a questa santa festa (11,55), che risveglia le loro maggiori speranze messianiche. Gesù è il compimento della speranza di salvezza dei giudei, è il re d’Israele ed il Messia atteso, ma in un senso completamente diverso da quanto si attende il giudaismo (12,13-15). Egli entra in Gerusalemme come un principe della pace (12,12-14) e quivi muore la sera della pasqua come il vero agnello pasquale (19,14.36). La sua morte sacrificale adempie la profezia di Caifa ed ha conseguenze ben diverse e di portata assai più vasta di quel che s’immagini il giudaismo.
Sullo sfondo del racconto s’intravede la polemica vivace esistente tra giudaismo ufficiale e cristianesimo all’epoca della composizione del Vangelo giovanneo. Le autorità giudaiche procedono inesorabili contro Gesù (11,57) e cercano con ogni mezzo di soffocare al suo nascere la fede in Lui (12,10s), senza riuscirvi. Molti giudei non si lasciano dissuadere dal seguire Gesù (12,12.19) e persino dei greci vengono a Lui per incontrarlo e conoscerlo di persona (12,20s). Si tratta di un ritratto della Chiesa primitiva, formata da giudei e da pagani e fondata sulla morte e resurrezione di Cristo, la cui gloria, unitamente a quella del Padre, si manifesta proprio sul trono infamante della croce (12,23; cf. 12,32; 19,37). Il seme di frumento, che muore nel terreno, dà molto frutto (12,24), così come la croce si trasforma da strumento di tortura e di morte in simbolo di vita e d’esaltazione, per mezzo della quale il Figlio dell’uomo attrae tutti gli uomini a Sé (12,32s). In tal modo, l’ora più oscura e tragica di Gesù si muta in manifestazione della sua gloria e potenza (12,12,27s), capace di infrangere definitivamente il potere del principe del male, da cui sembra essere dominato il mondo intero (12,31). Gesù Cristo rimane eternamente glorioso proprio nel momento in cui la sua morte infamante sembra asserire il contrario (12,34).

12,1 Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva resuscitato dai morti.
L’episodio dell’unzione di Betània è raccontato anche dai Sinottici (Mc 14,3-9; Mt 26,6-13; Lc 7,36-50). Dopo la discussione fra i giudei (11,56), l’evangelista narra ciò che Gesù ha fatto qualche giorno prima della sua ultima festività pasquale. Lasciato il rifugio di Efraim (11,54), Egli ritorna nuovamente a Betània, località da cui si era allontanato, dopo aver compiuto il miracolo della resurrezione dell’amico Lazzaro, per sottrarsi alle ricerche poco amichevoli dei giudei. Il ritorno a Betània, quindi, si dimostra una mossa poco saggia e, forse, storicamente poco attendibile. Nel suo racconto, però, l’evangelista non ha molti riguardi per il susseguirsi cronologico degli avvenimenti ed accosta gli episodi della resurrezione di Lazzaro e dell’unzione a Betània perché i due fatti si sono effettivamente svolti nello stesso luogo; poco importa al suo intento teologico che la successione degli avvenimenti sia stata effettivamente quella da lui riportata nel IV Vangelo. Qualche autore (D. Mollat, Bibbia di Gerusalemme, Parigi ² 1960), ha fatto notare come l’evangelista non abbia mancato di porre l’accento sull’ultima settimana della vita pubblica di Gesù, seguendola con molta cura (12,12; 13,1; 18,28; 19,31) alla stessa stregua della prima settimana d’auto-rivelazione al mondo (2,1+). L’una e l’altra settimana si concludono con la manifestazione della gloria di Gesù: a Cana di Galilea, Gesù inaugura il “tempo dei segni” (2,4.11), mentre a Gerusalemme si compie l’ora della sua glorificazione sul legno della croce (cf. 12,23; 13,31s;17,1.5).

2 E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. 3 Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento.
A Betània si offre, dunque, una cena in onore di Gesù, il benefattore della casa di Lazzaro e delle sue sorelle, Marta e Maria. Questi tre personaggi sono citati dall’evangelista secondo le loro caratteristiche personali: il resuscitato Lazzaro è, in qualche modo, il festeggiato insieme con Gesù, ma rimane defilato, quasi che la sola sua presenza sia più assordante di qualsiasi discorso che egli possa tenere a proposito della sua esperienza nel regno dei morti; Marta è la solita donna di casa, tutta compresa nel suo ruolo di silenziosa ed operosa domestica della famiglia; sorprende l’azione di Maria, descritta altrove come una persona introversa e dedita alla meditazione ed alla contemplazione (Lc 10,39s) e che, in quest’occasione, compie un gesto insolito senza proferire parola, secondo il suo stile. Mentre la cena è in pieno svolgimento, Maria si presenta in sala da pranzo con una libbra di preziosissimo olio profumato, a base di nardo puro (quest’unguento era estratto dalle radici di una pianta originaria dell’India e costava un patrimonio) e compie due gesti sorprendenti e, al tempo stesso, assai poco convenienti se messi in relazione con il galateo del tempo. Maria, infatti, si mette ai piedi di Gesù e glieli unge con l’unguento prezioso (327,25 grammi d’olio profumato!), per poi asciugarli coi propri capelli. Secondo la sensibilità giudaica, una donna non avrebbe mai dovuto permettersi di ungere i piedi ad un uomo, specie durante un pasto e, tanto meno, avrebbe usato i propri capelli per asciugarglieli. Secondo un’usanza babilonese, durante le nozze di una vergine delle donne versavano sul capo (e non sui piedi!) dei rabbini presenti l’unguento profumato, mentre una schiava lavava mani e piedi dell’ospite con olio d’oliva; inoltre, in pubblico la donna ebrea non mostrava mai ad un uomo la propria capigliatura e teneva un velo sul capo per pudore. Solo al proprio marito la donna poteva mostrare i capelli disciolti e, certo, mai alla presenza dei figli o dei servi di casa: il gesto di sciogliersi i capelli davanti ad un uomo aveva, infatti, un evidente significato erotico e non poteva essere esibito in pubblico. Solo le prostitute potevano osare tanto!
Maria, dunque, compie un’azione da schiava in modo non appropriato e, soprattutto, interpretata dai presenti in maniera assai ambigua, se non maliziosa. L’evangelista riferisce che il profumo dell’essenza inonda la casa, attribuendo a questo particolare narrativo un significato teologico rilevante, com’emerge dalla fase successiva della narrazione. L’intero racconto (l’olio prezioso, l’unzione dei piedi ed il buon odore che si diffonde per tutta la casa) ha, infatti, lo scopo di mettere in rilievo la maestà di Gesù, che a buon diritto riceve quest’onore prima della sua morte e sepoltura (19,39s) e che proprio in questo senso interpreta il gesto della donna, seppure compiuto senza rispettare le regole del bon ton della società di quel tempo.

4 Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: 5 “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. 6 Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro.
Giuda Iscariota, che l’evangelista bolla col titolo di “traditore” (cf. 6,71), ci fornisce il valore di tre etti abbondanti di profumo di nardo: trecento denari, quasi un anno di paga di un bracciante agricolo! L’apostolo traditore si scandalizza per tanto spreco e pensa già al mancato guadagno, che s’invola dalle sue avide mani di ladro recidivo, ma sa ben dissimulare il suo disappunto manifestando un ipocrita interesse nei confronti dei poveri. Giuda non s’accorge nemmeno delle regole di buon galateo infrante da Maria, ma si preoccupa solo del proprio meschino interesse, anche se, forse, si rende interprete dell’opinione di altri apostoli, che se ne stanno zitti anche senza riuscire a nascondere la disapprovazione e l’indignazione per quello sciupio (cf. Mc 14,4; Mt 26,8).
Giuda Iscariota è l’amministratore della cassa comune dei discepoli, ma probabilmente, conoscendo Gesù dai suoi atteggiamenti di bontà e generosità nei confronti dei più deboli e poveri, non ci sono mai soldi sufficienti per garantire al seguito di Gesù il necessario per vivere giorno per giorno. Gesù stesso insegna ad osservare gli uccelli del cielo ed i fiori dei campi, mantenuti in vita dal Padre celeste anche se non svolgono alcuna delle attività lavorative e lucrative tipiche degli uomini; Dio vede e provvede alle necessità di quanti si fidano di Lui e del suo aiuto (Mt 7,26ss). Gli uomini devono capire che la loro preoccupazione principale deve essere quella di conquistare un posto nel Regno di Dio e di comprenderne le istanze di giustizia, di santità, d’amore, di misericordia, di bontà, di pace e di mitezza (cf. Mt 5,3-11), perché Dio è dispensatore, prima di tutto, di beni spirituali (cf. Is 11,2), ma non si dimentica delle esigenze materiali delle sue creature (Mt 7,31-32). Tanti uomini soffrono la fame e la sete non tanto perché Dio si è distratto ed ha volto altrove il suo sguardo, ma perché gli uomini sono egoisti, avidi e “ladri”, sono indifferenti alle sofferenze dei loro simili e li rapinano persino del naturale diritto alla sopravvivenza, sottraendo loro il necessario per vivere con un minimo di dignità. Gesù non dà minimamente valore al denaro, perché ne conosce il potere distruttivo sulla dignità stessa dell’uomo quando questi non sa farne un uso distaccato (cf. Mt 7,24; 19,21-26), ma Giuda sembra non aver compreso nulla degli insegnamenti del suo Maestro. Intento a riempirsi le tasche con i pochi fondi a disposizione della piccola comunità apostolica, Giuda non si rende conto di essersi consegnato, ormai, nelle mani di Satana, che fa leva sul denaro, sul potere e sul successo mondano per conquistare più uomini possibile alla sua causa, sottraendoli a Dio e privandoli del suo regno d’eterno amore e di felicità infinita. Pur di intascare qualche soldo, Giuda Iscariota, probabilmente deluso dal basso profilo della missione messianica interpretata dal Maestro galileo, non esiterà a consegnare Gesù ai suoi nemici per una discreta somma di denaro (trenta denari d’argento, sufficienti per acquistare un campo di dimensioni non modeste e, dopo il suicidio di Giuda, destinato dalle autorità giudaiche alla sepoltura degli stranieri deceduti in Gerusalemme ed immediate vicinanze), ma perderà i beni più preziosi: la propria vita e l’anima (cf. Mt 27,3-10).

7 Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. 8 I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”.
La risposta di Gesù è immediata e zittisce la palese protesta di Giuda e quella più sommessa, o solo pensata, di qualche altro discepolo. Nel gesto di Maria, Gesù riconosce la volontà del Padre che, per il Figlio unigenito ha preparato il “giorno” (concetto estensivo dell’ora) della glorificazione, di cui l’unzione funebre al momento della sepoltura del corpo senza vita di Gesù è solo un passaggio necessario ed obbligato, in vista della definitiva vittoria sulla morte contrassegnata dalla gloriosa resurrezione del Figlio di Dio. A Gesù appare chiaro che Maria stia compiendo un gesto profetico, anticipatore della sua morte sulla croce e, pertanto, chiede ai suoi di rispettare sino in fondo il volere salvifico del Padre suo: “Lasciala fare!”. Oltretutto, a Gesù non sfugge l’ipocrita preoccupazione di Giuda per i poveri e ci tiene a rimarcare che la sua presenza fisica tra gli uomini è prossima alla fine e, al tempo stesso, addita a tutti i presenti, specie ai suoi discepoli, la grande fede di Maria. In modo semplice e silenzioso, questa donna addita agli uomini la grandezza e la maestà di Gesù, di cui, inconsciamente, attesta la glorificazione che diverrà evidente nella tragica circostanza della sua morte e sepoltura. Dal punto di vista dell’evangelista, il comportamento di Maria non è tanto la dimostrazione di un amore umano, alimentato da simpatia o da riconoscenza del tutto comprensibili, viste le circostanze della vicenda in cui sono stati coinvolti i membri della famiglia di Lazzaro, ma è una convinta testimonianza di fede ed un incitamento a credere in Gesù, che merita anche qualche atteggiamento stravagante da parte di chi si fida di Lui e della sua missione di salvezza. Gesù, infatti, non si limita a giudicare le apparenze, ma conosce e giudica i sentimenti inespressi che si trovano nelle pieghe più intime dell’animo umano (1Gv 3,20).

9 Intanto la gran folla di giudei venne a sapere che Gesù si trovava là, e accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva resuscitato dai morti. 10 I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, 11 perché molti giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.
Essendo vicina la grande festività pasquale, la città di Gerusalemme è piena di pellegrini, molti dei quali hanno già avuto modo di vedere Gesù e di assistere ai suoi prodigi, compiuti in tutta la Palestina, ma molti altri ne hanno solo sentito parlare e sono ansiosi di vedere e toccare un personaggio di cui hanno sentito raccontare mirabilie. Gesù è la star del momento e non c’è da meravigliarsi se attorno a Lui vi sia tanta curiosità e molto entusiasmo, specie da parte di chi si aspetta di assistere a qualche prodigio paragonabile alla resurrezione di Lazzaro, che in città ormai tutti conoscono. Betània è raggiungibile da Gerusalemme in poco più di mezz’ora di cammino e sono in tanti a mettersi in viaggio per vedere Gesù e parlare anche con Lazzaro, colui che è stato resuscitato dall’oltretomba. Chissà quanti desiderano fargli domande sullo sheòl: “Com’è? Chi ha visto? Come si sta? Ma esiste davvero?”. Un simile evento farebbe, ancora oggi, impazzire i media di tutto il mondo ed il primo giornalista televisivo o della carta stampata, che lo potesse documentare, farebbe uno scoop di grandissimo impatto su un pubblico di portata planetaria!
Anche fra i cosiddetti “credenti”, molti si interrogano sulla reale esistenza dell’aldilà: c’è chi la nega decisamente, considerandola un’invenzione del clero e una pia illusione di persone sprovvedute e credulone; c’è chi la teme e chi la considera una realtà certa e rassicurante; c’è anche chi ricorre con troppa disinvoltura ai medium per interrogare le anime dei defunti, vuoi per trovare conforto e serenità dopo un lutto doloroso, vuoi per curiosità o per motivi di assai basso profilo morale, come avere delle anticipazioni sul proprio futuro o ricevere la rivelazione dei numeri per vincere il lotto! Nella convinzione di poter essere padroni assoluti del proprio destino in questa e nell’altra vita, alcuni non esistano a vendere l’anima al diavolo, certi di poter trattare con lui da pari a pari.
Lazzaro, dunque, rappresenta un pericolo per i giudei più intransigenti, che in lui vedono un testimone scomodo delle qualità taumaturgiche di Gesù. Se la gente crede a Lazzaro, deve necessariamente credere anche a Gesù ed al suo messianismo spirituale e ciò produrrebbe un cambiamento di vita e di costumi tale da mettere a repentaglio la sicurezza stessa ed il futuro della nazione ebraica (cf. 11, 48-50). Sarebbe, quindi, opportuno eliminare entrambi i personaggi più popolari del momento, prima che il controllo degli eventi possa sfuggire di mano alle autorità.
La fede della gente comune del popolo è condizionata dal miracolo di facile esecuzione, mentre quella delle autorità giudaiche è refrattaria anche ai prodigi, nei quali vede non il segno della presenza di Dio ma di quella del diavolo (Mt 12,24). La fede non è merce che si trovi a buon mercato, anche se Dio dona a tutti la possibilità di credere; il difetto di fede non è imputabile ad un’arbitraria decisione di Dio, ma alla libertà dell’uomo, cui spetta la scelta finale di accettare o di rifiutare la signoria di Dio nella propria vita e nelle conseguenti scelte morali.

Ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme
(Gv 12,12-19)

La fine di Gesù è stata ormai decisa da qualche tempo, ma prima di conoscere l’umiliazione estrema della morte in croce, Gesù anticipa la gloria della sua resurrezione ricevendo, seppure per breve tempo, l’ovazione del popolo di Gerusalemme. Nelle intenzioni dell’evangelista, le gioiose acclamazioni della folla all’indirizzo di Gesù sono il compimento fedele delle Scritture. Gesù, infatti, è la realizzazione perfetta della Legge e dei Profeti.

12,12 Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, 13 prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!”.
14 Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: 15 «Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina».
L’evangelista colloca l’ingresso di Gesù in Gerusalemme “il giorno dopo”, evidentemente dopo l’episodio dell’unzione a Betània. Tutti i giudei desiderosi di vedere Gesù e che, per un motivo o per l’altro non si erano potuti recare a Betània, venuti a conoscenza dell’arrivo di Gesù nella Città Santa gli vanno incontro festosi, accogliendolo con canti e con rami di palme agitati in segno di gioia.
Qualcuno ha messo in dubbio che i pellegrini convenuti a Gerusalemme potessero aver preso rami di palma proprio a Gerusalemme, che, per l’altitudine in cui si trova la città, avrebbe un clima poco favorevole allo sviluppo di tale pianta. Secondo altri commentatori, invece, a Gerusalemme crescevano le palme nella valle orientale della città, dove il clima più caldo consentiva la crescita di questo genere di pianta, molto più comune a sud di Gaza e nella depressione umida e calda della vallata del fiume Giordano, dove si trovava la cittadina di Gerico, nota come “città delle palme”. Che i pellegrini si fossero procurati i rami di palma a Gerusalemme o altrove non ha alcuna importanza per il narratore, che vede nel gesto, compiuto dalla gente di Gerusalemme, un atto di deferenza nei confronti di Gesù, trattato come un re vittorioso (cf. 1Mac 10,7; 2Mac 14,4) o come un generale vincitore in battaglia (cf. 2Mac 10,7; Ap 7,9). Dall’epoca dei Maccabei, il ramo di palma era un simbolo di vittoria in seno al giudaismo, così come il grido d’osanna era, nella coscienza giudaica, strettamente collegato al ramo di palma.
I pellegrini vogliono festeggiare Gesù come re messianico e non è da escludere anche una coloritura politica dei festeggiamenti, del tutto coerente con l’accentuato nazionalismo giudaico del tempo. In altre parole, Gesù è accolto dalla folla come un sovrano vittorioso e su di lui la gente comune fa confluire tutte le speranze dell’attesa liberazione dal dominio asfissiante di Roma. Il sentimento d’entusiastica gioia della gente comune nei confronti di Gesù non appare nuovo; già dopo la miracolosa moltiplicazione dei pani gli uomini di Galilea avrebbero voluto proclamare re il loro concittadino e, ora, la folla che anima le strade di Gerusalemme lo acclama come un sovrano. In Galilea Gesù si era defilato, sottraendosi all’entusiasmo della folla ed aveva preso le distanze da una valutazione politica della sua vocazione messianica; a Gerusalemme Egli accetta le acclamazioni festose della gente, interpretandole come l’adempimento delle parole dei profeti a suo riguardo (cf. Zc 9,9s).
L’evangelista evidenzia così, meglio dei colleghi sinottici, l’intenzione messianica della folla reverente e, quasi certamente, non del tutto consapevole di essere uno strumento di annuncio evangelico voluto da Dio: vox populi, vox Dei.
Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele. La folla accoglie Gesù citando la Scrittura (Sal 118,26) e scegliendo un passo della liturgia di ringraziamento, che i pellegrini cantavano al loro ingresso nel Tempio di Gerusalemme. Il salmo citato appartiene al gruppo dei salmi dell’hallel, utilizzati nel servizio liturgico giudaico specie durante le feste di pasqua e dei tabernacoli. In particolare, il versetto cantato dalla folla riflette l’attesa messianica del popolo ebraico, anche se, originariamente, l’espressione “benedetto colui che viene nel nome del Signore” era applicata ai pellegrini che entravano nel Tempio santo; in questo caso, però, il grido è rivolto all’indirizzo di Gesù come un segno di distinzione, se non di vera e propria predestinazione, come pare di capire dall’aggiunta fatta dall’evangelista, “il re d’Israele”, con lo scopo di rimarcare l’attesa messianica più genuina del popolo eletto.
Osanna! Tale vocabolo significa “vieni in aiuto” ed è un grido di supplica (che manca nel v. 26 del Sal 118), diventato grido di saluto e d’omaggio, in stretta correlazione con l’augurio di benedizione per colui “che viene nel nome del Signore”. La successiva citazione del profeta Zaccaria (“Non temere figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina”, Zc 9,9) contribuisce a spogliare di ogni significato politico e militare il messianismo di Gesù, profeta e re di un “regno che non è di questo mondo” (Gv 18,36; cf. anche Sof 3,15).
Gesù accetta le acclamazioni della folla e ciò mette in imbarazzo i capi giudei senza fede (cf. 12,19), che non sanno più che pesci pigliare. Nonostante le acclamazioni, però, la fede del popolo rimane fragile ed insufficiente, incapace di opporsi alle insistenti richieste di condanna a morte di Gesù (19,6.15), durante il processo davanti a Pilato, l’odiato nemico romano. Il “crucifige” del Venerdì Santo sovrasterà l’”osanna” della Domenica delle Palme. Nella visione del profeta, il Messia si presenterà al popolo eletto cavalcando “un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9), la cavalcatura degli antichi principi d’Israele, non un focoso destriero purosangue, come quello cavalcato dai re bellicosi e superbi del regno di Giuda e di Samaria. Il re-messia della profezia è “giusto e vittorioso, umile” (Zc 9,9). Egli è giusto non nel senso che rende giustizia (cf. Is 11,3-5), ma che sarà oggetto della giustizia del Signore, ossia della sua potente protezione (Is 45,21-25); è umile (‘anì), vale a dire sottomesso a YHWH, Dio d’Israele, nel quale riporrà la sua fiducia assoluta (cf. Sof 3,12) e condividerà tale virtù col popolo eletto rimasto fedele a Dio (Sof 2,3+), nonostante le prove sopportate nel corso della storia, intrisa di sangue e di violenza, di prevaricazione e d’ingiustizia, d’orgoglio e di presunzione; pur rinunciando all’apparato dei re storici (Ger 17,25; 22,4), il re messianico si presenterà al popolo come un principe vittorioso, ma mite come la sua cavalcatura (cf. Gen 49,11; Gdc 5,10; 10,4; 12,14; 1Re 1,5.38). Il re-messia è, nella prospettiva profetica, l’umile e mite principe a capo di un “resto” di persone (cf. Esd 1,4; Ne 1,4; Is 4,3) umili (anawìm) ed operatrici di pace (Mt 5,3.9).

16 Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto. 17 Intanto la gente che era stata con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo resuscitò dai morti, gli rendeva testimonianza. 18 Anche per questo la folla gli andò incontro, perché aveva udito che aveva compiuto quel segno. 19 I farisei allora dissero tra di loro: “Vedete che non concludete nulla? Ecco che il mondo gli è andato dietro!”.
L’evangelista coglie nell’avvenimento una testimonianza del vero regno di Gesù, che non conosce né pretese politiche né la forza (cf. 18,36), ma consiste nella rivelazione della verità e nella comunicazione della salvezza divina (18,37). In questo senso Gesù è l’atteso Messia delle Scritture, anzi, il Figlio di Dio (1,49; 11,27; 20,31). Ciò diventa visibile e comprensibile nell’ingresso trionfale di Gesù nella Città Santa, poiché Egli compie la profezia di Zaccaria ed è salutato dalla folla, che rappresenta Israele, il popolo della salvezza e della promessa (cf. Dt 7,6; Gv 1,31; Rm 9,4). I discepoli di Gesù non riescono a comprendere il significato di quanto sta accadendo intorno a loro, perché non si è ancora compiuta la “glorificazione” di Gesù, vale a dire la sua passione e morte, la resurrezione dai morti e l’invio dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste (cf. 2,22; 7,39; 12,23.32). Essi ricorderanno i fatti, di cui sono stati testimoni, e sapranno interpretarli come realizzazione della Sacra Scrittura solo quando saranno stati illuminati ed ispirati dallo Spirito Santo (cf: 14,26; 16,14).
L’evangelista spiega il motivo dell’entusiastica accoglienza di Gesù da parte degli abitanti di Gerusalemme e dei pellegrini quivi convenuti per le festività pasquali: quanti avevano assistito al prodigio della resurrezione di Lazzaro, avvenuto a Betània, sono dei testimoni ascoltati e considerati degni di fede. La reazione rabbiosa dei capi giudei non si fa attendere e, come spesso succede quando le cose non vanno secondo i piani prestabiliti, cominciano a litigare tra loro incolpandosi a vicenda del mancato arresto di Gesù, che porrebbe fine al suo successo presso il popolo (il vocabolo “mondo”, in greco kòsmos, è un’evidente esagerazione dei farisei e dei capi giudei, sempre che l’evangelista non stia facendo una rilettura storica dell’espansione del messaggio cristiano, che, nel momento in cui compone il suo Vangelo, ha preso piede in diverse parti dell’impero romano e persino a Roma, la capitale di quest’immenso regno). Il livore dei farisei e degli esponenti dell’éstablishment giudaico appare giustificato dall’accorrere verso Gesù di esponenti del mondo pagano.

I greci incontrano Gesù, che annuncia
la sua glorificazione attraverso la morte
(Gv 12,20-36)

Il monoteismo degli ebrei faceva proseliti anche presso i pagani, forse nauseati e stanchi della loro religione politeistica, sin troppo elaborata e, sostanzialmente, pure immorale. Moltissime divinità, dal comportamento volubile e capriccioso, popolavano il pantheon greco e romano e, più che esseri divini superiori agli esseri umani, questi dei parevano delle proiezioni celesti dei vizi umani. Era evidente, alle persone più accorte e culturalmente più preparate, che la religione politeistica era, di fatto, una forma subdola di ateismo mascherato, all’ombra del quale erano giustificate tutte le nefandezze compiute dagli uomini. La semplicità teologica del monoteismo giudaico ed il relativo rigore morale avevano attirato le simpatie persino di alcuni esponenti della famiglia imperiale e, a Roma, la comunità giudaica era numerosa e ben organizzata anche all’epoca di Gesù. Il più delle volte, i proseliti si fermavano all’adesione formale alla Tôrah ed al riconoscimento dell’unicità di Dio, ma non si sottoponevano alla pratica della circoncisione, che li avrebbe inseriti di diritto nel giudaismo ufficiale. Le espressioni “timorato di Dio” (cf. At 10,2.22.35; 13,16.26) e “credente in Dio” (cf. At 13,43.50;16,14; 17,4.17; 18,7) indicavano, appunto, quanti simpatizzavano per il giudaismo, senza però arrivare all’integrazione con il popolo giudaico attraverso la circoncisione (cf At 2,11+). I greci, che chiedono di poter incontrare Gesù, appartengono a questa categoria di ammiratori dell’ebraismo ed osservanti, almeno in parte, della Legge mosaica.

12,20 Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni greci. 21 Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero; “Signore, vogliamo vedere Gesù. 22 Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
I greci, di cui parla l’evangelista, sono dunque dei proseliti, saliti in pellegrinaggio a Gerusalemme per adorare YHWH in occasione delle festività pasquali, ma non possono mangiare l’agnello pasquale né entrare nella parte più sacra del Tempio, interdetta ai non giudei. Il pellegrinaggio dei proseliti di provenienza pagana è un fatto storicamente accertato (cf. Giuseppe Flavio, De bello judaico 6,427).
Questi greci vogliono vedere e conoscere personalmente Gesù, delle cui parole ed opere sono venuti a conoscenza durante i loro contatti col mondo giudaico. Essi non osano rivolgersi a Lui direttamente e cercano un mediatore, in grado di farli incontrare con quel personaggio tanto famoso e pure misterioso. I greci interpellano Filippo, che ha un nome greco e che proviene da una cittadina della Galilea (1,44), regione impregnata d’ellenismo e confinante coi territori pagani (cf. Mt 4,15). Evidentemente, Filippo sa esprimersi correntemente in greco e, nel caso che Gesù parli solo in aramaico, può tornare molto utile come interprete. Filippo si rivolge al compaesano Andrea, non perché sia più cauto o meno risoluto di questi, ma perché questi due discepoli, gli unici di cui si conosce il solo nome greco, sono sempre insieme e sono, indubbiamente, molto amici (cf. 6,7s). Secondo la tradizione, Filippo ed Andrea avrebbero svolto la loro missione di evangelizzazione limitatamente alle popolazioni di lingua greca.
Il desiderio espresso dai greci (“vogliamo vedere Gesù”) attesta, secondo l’evangelista, una vera aspirazione religiosa, così come la domanda della samaritana, che Gesù istruisce sulla vera adorazione di Dio (4,20-24). La comparsa improvvisa dei greci sulla scena è da interpretare come un segno della prossima conversione dei pagani (cf. 4,42; 10,16;11,52) in sostituzione di quella, più ovvia ed attesa, dei giudei, che per primi hanno ascoltato il messaggio di Gesù Cristo. L’incontro tanto atteso dei greci con Gesù si sarebbe svolto nell’atrio dei Gentili, l’unico luogo del Tempio accessibile ai non ebrei, ma l’evangelista sorvola su tale circostanza.

23 Gesù rispose: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. 24 In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
La risposta di Gesù a Filippo ed Andrea non fa alcun riferimento ai greci, la cui presenza, però, viene spiegata in senso teologico. L’evangelista, infatti, omette di riferirci se l’incontro di Gesù coi greci è avvenuto veramente, né si comprende se la risposta del Maestro ai due solerti discepoli dimostri un suo cortese rifiuto ad incontrarli. È possibile che Gesù abbia preso tempo, pensando al proprio sacrificio sulla croce, “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23) e che abbia voluto prima prendere su di sé il gravoso peso della morte infame (Dt 21,23; At 5,30+; Gal 3,13) per dare la salvezza prima ai giudei e, poi, anche ai greci (cf. 11,52). Gesù è consapevole che la sua “ora” è, finalmente, arrivata. Prima di questo momento, Egli aveva sempre affermato che la sua “ora” non era ancora giunta (7,30; 8,20), ma adesso si sta realizzando la sua definitiva “glorificazione” attraverso l’esaltazione della croce (3,14; 8,28), grazie alla quale Egli acquisisce la pienezza del potere salvifico concessogli dal Padre (13,32; 17,1s) ed attira tutti a Sé (12,32). Con la breve parabola del chicco di grano, Gesù annuncia la propria morte, il cui carattere sacrificale e la cui finalità redentrice sono racchiuse in tre verbi dal significato ambivalente e, dal punto di vista del linguaggio biblico, assai espressivi: cadere, morire, produrre (molto frutto). Nella caduta è simboleggiata la fragilità dell’uomo, peccatore e debole nella sua provvisorietà (Sap 2,1-24 è un ritratto calzante della natura corrotta dell’uomo, che è consapevole della propria condizione mortale e che, in questa vita, sceglie la via della sopraffazione e della violenza per impossessarsi di pochi attimi di gloria, altrettanto mortale). Di per sé, la morte non è solo una realtà ineluttabile della natura umana e di tutte le creature viventi, che popolano la terra, ma è pure la chiave di lettura del destino dell’uomo oltre la morte del corpo; nella morte fisica si allude alla morte dello spirito, qualora l’uomo decida di violare la Legge di Dio (Ap 20,6 parla esplicitamente di questa seconda morte, il cui carattere è definitivo e che, invece, alcuni s’ostinano a negare confidando in un’apocatàstasi finale, ossia in un rifacimento ex novo di tutto il creato, una sorta di “punto e a capo” deciso da Dio per rimediare ad un proprio errore iniziale, in forza del quale ha commesso lo sbaglio di creare un uomo libero di scegliere il male). Il chicco di grano, che cade per terra e muore, è invece simbolo di una scelta libera operata da Gesù, il quale, cadendo e morendo volontariamente, riscatta gli uomini dalla loro natura peccatrice e ribelle e li libera dalla morte dello spirito. Dalla scelta di Gesù scaturisce l’abbondante raccolta del frutto della redenzione: la salvezza eterna per tutti gli uomini.

25 Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26 Se uno mi vuol servire mi segua e, dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà.
Per l’evangelizzazione dei greci c’è tempo. Per Gesù, la questione più urgente da chiarire coi suoi discepoli è la loro disponibilità a seguirlo sino in fondo, accettando anche di morire per Lui e come Lui. L’attenzione dei discepoli è orientata sul tema centrale della vita, di cui sono messi in rilievo i due estremi esistenziali: la vita terrena (“in questo mondo”) e quella celeste (“la vita eterna”). Creato da Dio, il quale lo ha tratto dalla terra (adamah), rossiccia (dam) come il sangue che scorre nelle sue vene, l’uomo (adam) è un essere limitato (Gen 1,7), che realizza la propria esistenza dentro le rigide coordinate del tempo e dello spazio (il mondo), ma in virtù della componente spirituale (ruàh) e vitale (nefèsh) della sua realtà carnale (basàr), che Dio stesso gli ha donato, rendendolo simile a Sé (Gen 1,26.27), egli non esaurisce in questo mondo il proprio ciclo vitale, ma è destinato ad una vita “altra”, diversa da quella terrena perché “eterna”.
Quando l’uomo “ama” in modo esclusivo la propria esistenza terrena e non riesce a vedere ciò che si trova oltre i confini ristretti della realtà carnale, corre il serio rischio di “perdere” la vita eterna. Al contrario, quando l’uomo sa trascendere (“odia”) la propria carnalità, liberandosi dai vincoli oppressivi delle esigenze materiali quotidiane e sa dare importanza alle necessità dello spirito, allora egli può incamminarsi con serena fiducia incontro al proprio destino d’immortalità. La contrapposizione odio/amore appartiene al tipico modo di esprimersi degli antichi semiti, che ponevano in tal modo l’accento sulla priorità delle scelte esistenziali. Per Gesù, la scelta di fondo, che deve guidare ogni esistenza umana, è e rimane sempre e solo Dio, al punto che chi decide di “seguire” (ossia, “imitare”) Gesù, è “onorato” da Dio e partecipa della sua stessa “gloria”. Gesù è l’esempio da imitare, se si desidera conquistare la libertà, tipica dei figli di Dio e la vita eterna. Chi vuole imitare (“servire”) Gesù, sa che i tratti caratteristici del Maestro divino sono la disponibilità al servizio ed al sacrificio di se stesso per amore dei fratelli ed è consapevole che la morte del corpo, specie quando questa è la conseguenza della fedeltà a Cristo Signore, dischiude le porte della vita celeste, la vera patria di Gesù (12,26), il luogo verso cui Egli sta andando (14,2ss) e dal quale proviene (1,1.14).

27 Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! 28 Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo; “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!”.
Gesù riprende il tema dell’ora, quella della sua morte e della sua glorificazione. A differenza dei Sinottici, l’autore del quarto Vangelo non menziona la paura angosciante che assale Gesù nel giardino del Getsèmani (Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,40-46), al punto tale da farlo sudare in modo così straordinariamente copioso che il suo sudore cade a terra in gocce spesse come il sangue (Lc 22,44) e da farlo vacillare di fronte all’imminenza dell’atroce morte di croce. Il terrore per la morte violenta (“l’anima mia è turbata”) è adombrato da Giovanni sotto forma di una domanda, che Gesù rivolge a Se stesso ed alla quale risponde con un’affermazione di consapevole accettazione del proprio destino: “per questo sono giunto a quest’ora”. La lotta (“agonia”), che Gesù ingaggia contro l’umana paura, provata di fronte al pericolo imminente e contro la tentazione di sfuggire alla morte, si svolge nel suo intimo e non traspare esteriormente, come descritto dai Sinottici. L’obbedienza di Gesù al volere del Padre si manifesta in un’invocazione che, al contempo, è anche il contenuto vero della missione salvifica di Gesù tra gli uomini: la gloria del Padre. La risposta del Padre all’invocazione del Figlio non si fa attendere e mette in evidenza la reciprocità della gloria. Con la sua vita e morte, il Figlio rende gloria all’amore del Padre e, nella gloria del Padre, si ritrova la fulgida gloria del Figlio, che dona tutto Se stesso per la salvezza dell’uomo. La gloria del Padre e del Figlio si esprime nell’amore reciproco e nell’amore per l’uomo.
La voce, che proviene dal cielo, ricorda quella udita da quanti erano stati presenti al battesimo di Gesù per mano di Giovanni il Battista (Mt 3,17; Mc 1,11), episodio di cui l’evangelista Giovanni non fa cenno nel suo Vangelo ma che, in un caso e nell’altro, esprime il valore assoluto della testimonianza resa dal Padre al Figlio unigenito e la definitiva consacrazione dell’umanità redentrice di Gesù. La stessa voce si fa udire anche da Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor (Mt 17,1, mc 9,2-8; Lc 9,28-36; 2Pt 1,16-18), dove Gesù si trasfigura davanti ai loro occhi lasciando intravedere un raggio della sua gloria, prima della morte ignominiosa sulla croce. Con la sua vita e le sue opere, Gesù ha reso gloria al Padre, raggiungendo il culmine della glorificazione di Dio sul trono doloroso ed assai scomodo della croce, ma anche il Padre ha mostrato al Figlio obbediente la sua vicinanza e la piena comunione con Lui (8,16.29.54). La glorificazione del Figlio, da parte di Dio Padre, sarà pienamente manifestata a tutti gli uomini nel giorno della sua resurrezione dai morti, segno della sua vittoria sul Maligno e sulla morte.

29 La folla che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. 30 Rispose Gesù: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31 Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32 Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”.
La gente, che sta ascoltando Gesù, interpreta la voce, proveniente dal cielo, come un tuono o come la voce d’un angelo. Si tratta di due espressioni equivalenti, poiché nel linguaggio della letteratura apocalittica, assai diffusa al tempo di Gesù, si era soliti interpretare il fragore del tuono com’espressione dell’intervento di Dio nella vita di un singolo uomo o di un popolo intero (cf. Es 19,6; 1Sam 12,17s; Sal 29,3-9; Gb 37,2-5; Ez 1,13; Ap 4,5). Quanto all’idea che a parlare sia un angelo, si possono ravvisare reminiscenze bibliche d’origine vetero-testamentaria (Gen 21,17; 22,11) ed anche apocalittica (Dn 10,9; 14,33) presenti nel linguaggio popolare; del resto, la fede nell’esistenza degli angeli, trasmettitori fedeli della parola e della volontà di Dio Altissimo, era assai diffusa nel periodo storico in questione.
Gesù non chiarisce se il rumore, avvertito dalla folla, sia proveniente da Dio o da un fenomeno naturale, ma si preoccupa d’esortare i presenti a credere ed a riconoscere che Dio stesso ha reso testimonianza al suo Inviato (cf. 11,42). Probabilmente, anche i discepoli sono rimasti sconcertati dall’avvenimento al pari della gente comune ed estranea al gruppo dei prescelti e, forse, è proprio ai suoi seguaci che Gesù rivolge l’invito a credere in Lui. Il giudizio (krìsis) è in atto già adesso (“ora”): di fronte alla missione redentrice del Figlio di Dio, ogni uomo deve compiere una scelta di fede. L’eventuale rifiuto definitivo ed inappellabile del progetto salvifico di Dio, realizzato nel Figlio e per mezzo del Figlio, implica una sentenza di condanna non solo in occasione del giudizio finale, ma anche nel tempo presente. La morte di Gesù sulla croce ha già segnato la sconfitta definitiva del “principe di questo mondo”, ossia di satana, ma Dio, infinitamente paziente e misericordioso, lascia all’uomo tutto il tempo necessario per compiere una scelta di campo definitiva ed irrevocabile, lasciandosi “attirare” o no dal Figlio suo inchiodato sulla croce in un atteggiamento d’amorevole attesa e di perdono. L’uomo, che rifiuta Cristo crocifisso come suo salvatore, non rimane in una specie di zona neutrale, ma compie necessariamente una scelta a favore dell’anti-Cristo (cf. 14,30; 16,11), il nemico di Dio e ”principe di questo mondo”, conosciuto con molti nomi (satana, demonio, diavolo, serpente antico, Belial, Beelzebul, Lucifero, accusatore, tentatore ecc.) che indicano una sola realtà malvagia, nemica anche dell’uomo oltre che di Dio (cf. Gv 6,70; 8,44; 13,2; 1Gv 2,13s; 3,12; 5,18). Nella prospettiva teologica dell’autore del IV Vangelo, Gesù ha infranto, con la sua morte sul legno della croce, il dominio del principe di questo mondo e, col giudizio su di lui, sono giudicati anche quanti, per propria esclusiva colpa, non credono in Gesù. Su coloro che, invece, si lasciano attirare dall’uomo della croce, il dominio di satana non ha alcun potere perché costretto a fermarsi (“gettato fuori”) di fronte alla fede che essi professano nel Figlio di Dio. Quando sarò elevato da terra. L’allusione all’elevazione del Cristo sulla croce (v. 33) non deve essere disgiunta dalla sua elevazione “al cielo” (3,13.14+; 8,28; cf. 6,62) nel giorno della sua resurrezione (20,17+), poiché i due avvenimenti sono altrettanti aspetti dello stesso mistero (13,1+). Esaltato alla destra del Padre, nella gloria (12,23; 17,5+), il Cristo manderà lo Spirito (7,39) e, attraverso di lui, estenderà il proprio dominio sul mondo (16,14; cf. 3,35+), nonostante la forte opposizione delle forze del male, che avvolgono il mondo nelle tenebre dell’ignoranza, dell’odio e del rifiuto (cf. 1,5.10.11; 12,35.36).
Attirerò tutti. Elevato sulla croce, Gesù apparirà agli occhi di tutti gli uomini come il salvatore del mondo (cf. 19,37); questa è l’indiretta risposta ai greci pii, venuti appositamente per “vederlo” (12,21). Per coloro che volgeranno altrove il loro sguardo, cercando la salvezza presso i falsi messia di questo mondo, è già in atto il “giudizio” nel tempo presente (v. 31).

33 Questo diceva per indicare di quale morte doveva morire. 34 Allora la folla gi rispose: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?”.
Non solo Gesù è consapevole della sua prossima fine (7,33; 9,4; 11,9), ma è addirittura a conoscenza, con ampio anticipo, del tipo di morte che i giudei gli hanno riservato. Parlando di “esaltazione” ed asserendo che, morendo, “attirerà tutti a sé”, Gesù lascia intendere cosa s’aspetta dagli uomini ed i giudei comprendono assai bene di cosa stia parlando Gesù, tanto da ritrarsi inorriditi di fronte alla prospettiva salvifica della croce, orribile ed umiliante strumento di tortura e di morte. Per Gesù, invece, obbediente al volere salvifico del Padre, la croce è il segno universale della salvezza (3,14; 12,32), destinata a quanti accettano di lasciarsi “attrarre” dal Crocefisso, per mezzo del quale Dio vuole raccogliere tutti i suoi figli dispersi (11,52) ed aprire le porte del suo Regno persino ai pagani (10,16; 12,20).
Rimovendo dalla propria mente la tragica figura della croce, la folla preferisce equivocare sul termine usato da Gesù per indicare la propria “esaltazione”. Il vocabolo aramaico ‘istallaq significa “essere portato in alto, essere innalzato” ma anche “andare via”. Sia il termine aramaico, sia quello greco (upàgo) possono suggerire anche l’idea di un rapimento, molto noto alla letteratura apocalittica in auge al tempo di Gesù, ma la folla sembra non capirci più nulla, poiché è prigioniera dei propri pregiudizi. Testimoni dei prodigi da Lui compiuti, molti giudei si sono illusi d’aver trovato in Gesù il Messia tanto sospirato, ma, anche in quest’occasione, dimostrano i limiti delle proprie attese messianiche, che sono di natura esclusivamente politica. Il richiamo alla Scrittura (la “Legge” come in 10,34; 15,25), forse al Salmo 88 (“in eterno durerà la sua [di Davide] discendenza, il suo trono davanti a me quanto il sole”, v.37), non fa che confondere le idee della gente; se il regno del Messia sulla terra, come tutti pensano, è il dominio perenne della giustizia, della felicità e della pace (Is 9,6; Ez 37,25; Sal 17,4; Lc 1,33), com’è possibile che il Figlio dell’uomo se ne vada via, sia rapito o sia innalzato, ossia messo in croce? Occorre, pertanto, chiarire i termini della questione: chi è il Figlio dell’uomo? Forse Gesù e la folla parlano di un personaggio diverso ed è meglio per tutti che l’equivoco sia chiarito una volta per sempre. Dalle parole dell’evangelista, che riporta la perplessità dei giudei, traspare la polemica assai vivace esistente tra cristiani e giudei all’epoca in cui compose il IV Vangelo, verso la fine del I secolo dell’era cristiana. Gli uni sostenevano che la salvezza coincideva con la glorificazione di Cristo sulla croce, gli altri opponevano un’immagine gloriosa e trionfante del Figlio dell’uomo (Dn 7,13s) ben diversa da quella prospettata dai cristiani, assurdi e blasfemi adoratori di un uomo morto come uno schiavo e considerato niente meno che il Figlio di Dio.

35 Gesù allora disse loro: “Ancora per poco la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. 36 Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce”. Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da loro.
Gesù rivolge ai giudei un accorato appello a credere in Lui, luce del mondo, prima che sia troppo tardi. Il tenore di queste parole non è nuovo (cf. 7,33), ma l’imminenza dell’esaltazione del Figlio dell’uomo sulla croce imprime loro la forza commovente dell’implorazione. Ancora una volta, Gesù ricorre all’immagine dell’uomo che cammina al buio o alla luce del giorno (cf. 8,12), ma ora incombe il pericolo di camminare nel buio totale di una notte che non gode nemmeno del debole chiarore del cielo stellato. Una simile notte, in cui nessuno può lavorare (cf. 9,4) o andare in giro senza inciampare negli ostacoli (cf. 11,10), getta la sua ombra tenebrosa anche sull’attività di Gesù e dei suoi discepoli e minaccia gli uomini, chiamati ad unirsi a Gesù mediante il vincolo della fede. Le tenebre, di cui parla Gesù, sono il simbolo inquietante delle potenze del male, che stanno per scatenarsi per assalire, sopraffare ed aggiogare l’umanità (cf. 1Gv 2,11), resa schiava del peccato e della morte, del giudizio e dell’annientamento (cf. 1,5; 3,19; 5,24; 8,21). Solamente Cristo, luce del mondo, può liberare l’umanità dalla minacciosa presenza delle tenebre (8,12; 12,46). Il dualismo luce-tenebra (cf. 1,5) incombe su ogni essere umano, che viene al mondo in una situazione di buio esistenziale (cf. cap. 9) e che, grazie a Gesù, può ottenere il dono della luce della vita (8,12). Senza la luce, donata dal Figlio di Dio, l’uomo “non sa dove va”.
Gesù non si limita a mettere in guardia gli uomini dal pericolo delle tenebre del male e dell’ignoranza, ma li esorta a rivolgersi alla luce, mettendo in risalto l’aspetto fondamentalmente salvifico della sua missione tra loro (3,17; 12,47). Il giudizio di condanna pende sul capo di chi rifiuta di credere in Gesù, ma non è definitivo sino a quando non vi sarà più tempo per ravvedersi; sempre, anche nell’ora suprema, è possibile sfuggire alle tenebre e sottrarsi all’abbraccio mortale del principe delle tenebre. L’ingresso nel mondo della luce è chiaramente definito come fede “nella luce” e tutti coloro che credono in Gesù diventano “figli della luce”. Quest’espressione, tipicamente semitica, accentua il carattere di stretta appartenenza dell’uomo a Dio, suo creatore e salvatore (Lc 16,8; 20,36; Mt 8,12; Mc 3,17; 1Ts 5,5; Ef 5,8-14).
A questo punto, Gesù conclude la sua esortazione e, con essa, anche la sua rivelazione pubblica al mondo e se ne va, nascondendosi al popolo, che non lo capisce e che non vuole arrivare alla fede. Prima di morire, Gesù completerà la sua missione come Rivelatore della salvezza soltanto ai suoi discepoli, che dovranno raccogliere il suo insegnamento per trasmetterlo a tutti i popoli della terra, fino alla fine del tempo.
L’evangelista conclude questa sezione narrativa (12,37-43) con una constatazione di merito: nonostante i prodigi compiuti, la gente di Palestina, salvo poche eccezioni, rifiuta di credere in Gesù e giustifica tale incredulità con le parole profetiche pronunciate da Isaia alcuni secoli prima (Is 6,9s+; 53,1). Il grande profeta aveva previsto l’ostilità del popolo ebraico alla parola di Dio, divenuta carne per rendersi visibile, udibile e comprensibile anche ai più tardi di comprendonio. Tra quanti hanno saputo accogliere con fede le parole di Gesù, ci sono anche alcuni capi del popolo ebraico (12,42), ma per timore e pusillanimità, alcuni di loro hanno preferito non esternare la loro fede per non perdere la posizione di potere che godono presso il popolo (12,43) e continuano ad amare “ la gloria degli uomini più della gloria di Dio”.
Agganciandosi a quanto Gesù ha appena detto, prima di ritirarsi definitivamente dalla sua missione pubblica nell’imminenza della sua passione e morte, il redattore finale ha aggiunto, in modo evidentemente maldestro, alcuni detti di Gesù (12,44-50), trasmessi dalla tradizione ed il cui contenuto è sostanzialmente identico a quello del discorso riportato dall’evangelista.

44 Gesù allora gridò a gran voce: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; 45 chi vede me, vede colui che mi ha mandato. 46 Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. 47 Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48 Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell’ultimo giorno. 49 Perché io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. 50 E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me”.
Si tratta, a prima vista, di una raccolta di detti (lòghia) pronunciati, forse, in occasioni diverse, ma il redattore li ha riportati secondo un filo logico e coerentemente col testo evangelico sinora commentato, anche se li ha inseriti nel racconto originario non tenendo conto dell’osservazione fatta dall’evangelista, il quale ha appena affermato che Gesù si è definitivamente ritirato, nascondendosi agli occhi del mondo (12,36). In questa breve pericope, di cui tralasciamo qualsivoglia critica circa il suo sviluppo diacronico (ossia, relativo al modo in cui essa si è costituita nell’ambito della composizione del testo evangelico), riconosciamo i protagonisti della storia della salvezza degli uomini: il Padre ed il suo Verbo eterno, che “in principio… era presso [ossia, rivolto verso] Dio” (1,1) per ascoltare le parole del Padre e trasmetterle, poi, agli uomini. La dinamica della salvezza si fonda, pertanto, sull’ascolto, poiché chi ascolta fa proprie le parole ascoltate e le traduce in gesti concreti. Il risultato positivo dell’ascolto (shemà) è la salvezza, poiché chi accoglie la parola accoglie anche colui che l’ha pronunciata. Per farsi ascoltare dagli uomini e renderli protagonisti attivi, non passivi, della loro salvezza, Dio Padre ha inviato tra gli uomini la sua Parola eterna, che si è resa concretamente visibile ed ascoltabile assumendo la carnalità dell’uomo (1,14), ma innescando, al contempo, un conflitto d’interessi col mondo delle tenebre, perennemente in lotta contro la luce portata dal Verbo incarnato per illuminare gli uomini e sottrarli all’ignoranza, al male, al peccato ed alla morte. Su questi presupposti si fonda il destino dell’uomo, libero di ascoltare e di accogliere (vale a dire, credere) la Parola di vita e di luce inviata dal Padre oppure di respingerla. Nel momento stesso della scelta si consuma il giudizio, che è di salvezza se l’uomo sceglie di credere o di perdizione se rifiuta di credere a Dio ed al suo Inviato. Il giudizio diventa definitivo “nell’ultimo giorno”, che non va inteso soltanto come il giorno del giudizio universale, ma è da intendere come giorno ultimo d’ogni umana esistenza. Dio non è per nulla fiscale ed ha la pazienza d’aspettare ciascun uomo, sino al momento in cui esala l’ultimo respiro ed ha l’estrema possibilità di accettare la mano, che Dio gli tende per attrarlo a Sé.
I comandamenti di Dio, che spesso gli uomini respingono come un limite insopportabile alla loro libertà, sono, in realtà, finalizzati al bene supremo della salvezza eterna, ma l’uomo si mostra insofferente nei confronti della Legge divina, che si fonda sui precetti dell’amore verso Dio e verso gli altri uomini, perché è “cieco” e non riesce a percepire la forza vitale che Cristo Gesù, Luce che illumina ogni uomo (1,4.9), porta con Sé poiché egli è vero Dio. Gesù di Nazareth ha indicato agli uomini la via della salvezza e chi vuole salvarsi deve credere in Lui, imitarlo, seguirlo ed ascoltare le sue parole, che sono grazia e verità (1,17).
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07/01/2012 22:56
 
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Il Vangelo di Giovanni

Parte seconda (cc. 13-21)


Commento a cura di


Damiano Antonio Rossi


Con la collaborazione delle Suore Adoratrici Perpetue


del S.S. Sacramento di Vigevano




















L’ultima cena di Gesù coi suoi discepoli
(Gv 13-17)

Premessa

I primi dodici capitoli del IV Vangelo sono stati caratterizzati da segni (seméia) e da discorsi mediante i quali Gesù si è rivelato al mondo come la Parola (Lògos) incarnata di Dio, storicamente inserita nella realtà concreta delle vicende umane per essere la fonte della salvezza per l’intera umanità, ottenebrata dal male e dall’ignoranza. Di volta in volta, Gesù è stato riconosciuto o si è manifestato come “l’agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo” (1,29), “il Figlio di Dio, […] il re d’Israele” (1,49; 10,38), il Tempio della nuova e definitiva Alleanza (2,19-22), l’Inviato del Padre (3,16-17), la luce del mondo (3,19; 8,12), l’acqua che dona la vita eterna (4,13-14), colui che dona la vita e la salute (4,50; 5,6-9.21), il pane disceso dal cielo (6,32-33), colui che domina la natura (6,18-21) perché Egli è lo stesso Io sono adorato dal popolo eletto come unico e vero Dio (8,24.58), il buon pastore (10,11), la porta attraversando la quale si può giungere alla salvezza eterna (10,9), la resurrezione e la vita (11,25), il Messia (12,13).
I capitoli 13-17 del Vangelo giovanneo sono incentrati sui discorsi di addio, che Gesù rivolse ai suoi discepoli nel cenacolo in occasione dell’ultima cena; la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia, presente nei sinottici, manca del tutto nel racconto del quarto evangelista, il quale ha invece voluto porre in evidenza l’episodio della lavanda dei piedi, gesto che getta una luce chiarificatrice sul contenuto teologico dell’intero discorso di commiato, pronunciato da Gesù prima della sua passione.
I capitoli 18-19 narrano la passione di Cristo, di cui l’evangelista propone particolari narrativi che gli sono propri, come l’interrogatorio condotto da Pilato e caratterizzato da un dialogo serrato con Gesù, che risponde da par suo a quel giudice piuttosto riluttante nel pronunciare la condanna a morte (18,28-19,11); l’episodio drammatico dell’Ecce homo (19,5); l’affidamento della madre di Gesù al discepolo prediletto (19,26-27); il colpo di lancia che trafigge il costato di Gesù, ormai morto, facendo uscire dal suo cuore squarciato “sangue e acqua” (19,34); la presenza di Nicodemo accanto a Giuseppe d’Arimatea, al momento della sepoltura di Gesù (19,39).
Il capitolo 20 narra l’evento della resurrezione di Gesù, di cui Maria di Magdala è la testimone privilegiata, prima ed unica nell’alba di quel giorno straordinario ed irripetibile nella storia dell’intera umanità (20,1). Le apparizioni di Gesù ai suoi discepoli sono, in certo qual modo, avvalorate dal dubbio, tipicamente umano, di Tommaso, che rifiuta di credere se prima non vede di persona il Risorto, verificando “scientificamente” che non si tratti di un’allucinazione collettiva o di un fantasma (20,24-25), salvo poi riconoscere, primo fra tutti i discepoli, che il Risorto è il “Signore e Dio” (20,28).
Secondo gli esperti di esegesi e di critica letteraria, il capitolo 21 del IV Vangelo è un’aggiunta redazionale tardiva, compiuta dall’evangelista stesso in epoca successiva alla stesura del racconto evangelico originario, oppure composta da un suo discepolo.
Lasciando agli esperti le questioni relative allo sviluppo diacronico del testo evangelico (chi lo compose; come, quando, per chi e perchè fu composto), a noi interessa lo studio meditato del IV Vangelo nella sua presentazione sincronica, così come ci è pervenuto nel corso dei secoli nella sua versione attuale, consapevoli che dall’accoglienza o dal rifiuto della persona del Risorto e del suo messaggio dipendono la nostra salvezza o perdizione. Il mondo moderno, così come noi lo conosciamo (globalizzato e dominato da internet, dai cellulari, dai servizi televisivi in diretta, dai reality show, dal rapido mutamento dei costumi e dei valori etici, talvolta surrogati da scoperte scientifiche che pretendono di dimostrare come l’uomo sia l’artefice di se stesso e che non sia necessaria l’esistenza di un Essere supremo per saper programmare e realizzare il proprio destino), sembra non aver bisogno di Cristo e delle sue esigenze etiche e mostra indifferenza nei confronti di un “Risorto” che non si lascia vedere o toccare e che non concede facilmente grazie e miracoli a richiesta. Il mondo occidentale “cristiano” si sta laicizzando e scristianizzando, sta perdendo sempre più la fede nel Cristo risorto per inseguire la certezza di ciò che vede, che tocca e che può manipolare e dominare, giungendo persino a considerare l’intero cristianesimo come una solenne montatura storica, messa in atto da una gerarchia ecclesiastica perversa e scaltra, il cui scopo non dichiarato è quello di esercitare un dominio globale sulle coscienze, ma dovrebbe ricordare le parole che Gesù rivolse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (20,29). L’attacco a Cristo ed ai cristiani non è una novità d’oggi, ma è sempre stata una realtà storica, “umana e diabolica” insieme, che nel corso dei secoli ha prodotto persecuzioni, ostilità, rifiuto, derisione, insofferenza e schiere di martiri in ogni angolo del globo terrestre. Perché, allora, perdere tempo a leggere, meditare e cercare di comprendere il Vangelo di Cristo? Perché Cristo ha vinto il mondo con la sua passione, morte e resurrezione ed ha assicurato la salvezza a quanti credono in Lui, che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); perché l’uomo, senza Cristo, perde se stesso; perché solo con Cristo l’uomo può dare un senso alla propria vita ed al mondo che lo circonda; perché solo con Cristo l’uomo si sente veramente “amato” da qualcuno fino all’estremo sacrificio di sé; perché solo con Cristo l’uomo può sperare nell’eternità, non accontentandosi solo di una vita ultracentenaria per effetto delle conquiste della medicina; perché solo Cristo può curare lo spirito umano inquieto e perennemente insoddisfatto; infine, perché no? Perché non credere? Perché non accettare il rischio della fede? Perché non riconoscere l’esistenza del mistero? Perché presumere di essere così autosufficienti da non aver bisogno del soprannaturale? Perché aver paura di Dio, che interpella l’uomo nel profondo della sua coscienza? Perché tentare di sfuggire al proprio destino di eternità e d’infinito?

La lavanda dei piedi
(Gv 13,1-20)

13,1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.
Il preambolo all’episodio della lavanda dei piedi è solenne, denso di significato e fissa tre coordinate, entro le quali l’autore intende muoversi per dare la giusta interpretazione a quanto sta per esporre: la circostanza storica della festività pasquale, in occasione della quale sta per consumarsi la tragedia della morte del Figlio di Dio; la consapevolezza di Gesù che sta incombendo l’ora della sua passione; l’amore di Gesù per i suoi discepoli.
La festa della pasqua, in cui Gesù doveva essere condannato al patibolo, è un evento dominante nell’esposizione dell’autore del IV Vangelo (11,55; 12,1; 18,28.39; 19,14) e non solo per motivi storici, bensì per ragioni prettamente teologiche. Secondo l’evangelista Giovanni, infatti, Gesù è morto come perfetto agnello pasquale del nuovo e definitivo patto (testamentum), al quale non è stato rotto alcun osso (cf. 19,36) come preannunciato dalle antiche Scritture (Es 12,46; Sal 34,21), sottolineando l’aspetto sacrificale ed espiatorio della morte in croce di Cristo. L’interpretazione teologica della morte di Gesù ha una sfumatura diversa nei vangeli sinottici e nelle lettere scritte dall’apostolo s. Paolo, da cui emerge che il sacrificio di Gesù è stato compreso come l’elemento fondamentale del nuovo banchetto pasquale, in sostituzione dell’antico rito pasquale ebraico, che prevedeva la manducazione dell’agnello sacrificato durante la cena pasquale. Secondo tale interpretazione, col suo sacrificio Gesù si è offerto come pasto in sostituzione dell’agnello pasquale per ripristinare l’intima comunione tra Dio salvatore e l’uomo peccatore, colmando l’abissale distanza tra Dio e l’uomo causata dal peccato originale e ribadita dal peccato abituale, commesso da ciascun essere umano. Giovanni, dunque, accentua la dimensione sacrificale ed espiatoria della morte di Gesù Cristo, mentre Paolo e gli evangelisti sinottici ne evidenziano la dimensione eucaristica. Tale differente sottolineatura da parte degli evangelisti e dell’apostolo Paolo è rintracciabile nella differente collocazione temporale della morte di Gesù, che Giovanni fa coincidere con il momento in cui gli agnelli venivano uccisi nel Tempio prima di essere distribuiti per essere consumati durante la cena pasquale ebraica, mentre i Sinottici e Paolo la fanno corrispondere al giorno stesso in cui veniva celebrata la cena pasquale.
L’indicazione temporale iniziale (“prima della festa di Pasqua”) è strettamente collegata al fatto che Gesù “sa” che è giunta la sua ora, quasi a volerne sottolineare la prescienza divina; Gesù non è un uomo qualunque, ma è anche Dio e, quindi, sa tutto circa il suo destino umano, conosce in anticipo l’ora prestabilita della sua morte ed è consapevole delle atroci sofferenze cui sta per sottoporsi (cf. 7,30; 8,20), prima di giungere alla piena glorificazione (cf. 12,23). L’evangelista descrive la morte-glorificazione di Gesù come un “passaggio” da questo mondo al Padre, utilizzando una metafora spaziale che gli è cara: il “mondo”, nel quale Gesù ha compiuto la sua opera come rivelatore del Padre (cf. 9,5), è anche il regno delle tenebre, assoggettato al “principe di questo mondo”, che è identificato con il diavolo, nemico giurato di Dio (cf. 12,31; 14,40), ma il passaggio di Gesù al Padre presuppone anche lo spodestamento dell’avversario antico come inevitabile conseguenza della glorificazione del Figlio di Dio (cf. 13,31s). Da raffinato esegeta, s. Agostino d’Ippona collega il verbo “passare” (gr. metabàino, lat. trànseo) al vocabolo ebraico “pasqua” (pesàch; aram. pascha), che significa “passaggio”: “Ecce Pascha, ecce transitus” (In Joannem 55,1). Secondo una lettura allegorica, accolta da vari esegeti antichi e moderni, l’evangelista avrebbe tenuto presente, come modello del trapasso di Gesù da questa vita al Padre, l’antico esodo del popolo ebraico (Es 14), che fuggì dall’Egitto malvagio, schiavista ed idolatra, per attraversare le paludi insidiose del “mare delle Canne” (divenuto il più celebre Mar Rosso nel linguaggio poetico e rievocativo, adottato dall’autore sacro) e raggiungere la terra promessa della Palestina. Secondo tale modello interpretativo, Cristo (e noi con lui) è passato da questo mondo, prigioniero del peccato, per raggiungere il Padre, di cui la terra promessa è immagine e prefigurazione, ma solo dopo aver attraversato le acque paludose e mortali dello sheòl, il mondo dei morti. Ciò che caratterizza il transito di Cristo da questa vita al Padre è una motivazione profondamente “etica”: l’amore.
“Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo” è un’espressione che acquista un significato particolare se interpretata sulla base della parabola del buon pastore (10,1-18). Tra Gesù (il pastore) e quanti credono in Lui (le sue pecore) si crea un vincolo di reciproca fiducia e di amorevole intimità; Egli si prende cura di loro (cf. 10,3.4.12) ed essi lo seguono perché ne riconoscono la voce (10,14) e sanno di appartenergli, certi che Egli mai li tradirà né mai li consegnerà nelle mani del nemico (il lupo). Il “mondo” è come un grande ovile, nel quali i falsi pastori, ladri ed assassini, pullulano come non mai, pronti ad insidiare le anime impaurite e sprovvedute, incapaci di riconoscere la voce del vero pastore, il solo capace di condurle ai verdi pascoli della salvezza (Sal 22 [23],1-3). L’amore, che Gesù nutre per i suoi (gr. òi ìdioi), è realmente smisurato, insuperabile e dimostrato sino alle estreme conseguenze (gr. éis télos, “fino alla fine, all’estremo”). Nell’ora in cui Gesù muore, la sua ultima parola, di cui il solo Giovanni fa menzione, è: tetélestai (“è compiuto”). Con questo verbo, Giovanni dà un senso compiuto all’ora vissuta da Gesù come realizzazione di un amore senza limiti temporali (fino alla fine) o qualitativi (fino all’estremo). Possiamo chiederci se la suprema prova d’amore di Cristo per i suoi sia sintetizzabile più dal gesto della lavanda dei piedi o dalla morte in croce; la seconda opzione appare come la più ovvia, ma per l’evangelista la lavanda dei piedi sarebbe da intendersi come chiara anticipazione profetica del martirio di Gesù sul Gòlgotha. Nella lavanda dei piedi, infatti, si può cogliere l’estrema dedizione di Gesù per i suoi (cf. 15,13) ed il pieno significato di quel gesto, servile ed al contempo amorevole, è quello di preannunciare sia la morte violenta di Cristo, sia la sua piena comunione con i discepoli, fondata propriamente nel suo sacrificio cruento (13,7s).
Questa frase, così densa di contenuto teologico, è adatta a servire tanto da titolo all’intera seconda parte del IV Vangelo quanto da introduzione all’episodio della lavanda dei piedi, nel senso inteso dall’evangelista.

2 Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone di tradirlo, 3 Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4 si alzò da tavola, depose le vesti, e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto.
La frase, contrassegnata dai vv. 2-4, è costruita in modo contorto, quasi ad esprimere la complessità della tragedia che sta per consumarsi. Si fronteggiano da una parte gli apparenti vincitori della vicenda storica in questione, Giuda e satana e, dall’altra, i due presunti sconfitti, Gesù e Dio, gli uni e gli altri riuniti attorno ad un’unica mensa. Tradizionalmente, l’occasione di una cena è un evento di condivisione, di amicizia, di allegria e di sincerità, specie se supportata da un buon bicchiere di vino schietto e d’annata. In vino veritas, affermavano gli antichi e non a torto, specie se si pensa che l’effetto tipico dell’alcol è quello di sbloccare i freni inibitori, rendendo aperti e sinceri i propri pensieri e le proprie emozioni. Chi eccede nel consumo del vino, però, va spesso e volentieri oltre le righe di un comportamento controllato e garbato. In occasione di questa particolare cena, al contrario, s’interpone l’azione malefica del “diavolo” (letteralmente, “colui che separa”), che s’insinua nel cuore e nella mente di uno dei Dodici per metterlo contro Gesù e contro Dio, dei quali il maligno è l’antagonista sul piano storico ed esistenziale (cf. 8,44; 14,30; 1Gv 3,8). Giuda figlio di Simone e chiamato Iscariota per le sue origini (nativo della cittadina di Keriot, come lascerebbe supporre il passo di Gs 15,25) o per le sue inclinazioni psicologiche alquanto ambigue (come farebbe intendere il vocabolo aramaico sheqarja, che significa “mentitore, ipocrita”), non ha bisogno di ubriacarsi di vino per mettersi a tramare contro il suo rabbì, ma gli basta assecondare la passione che cova nell’intimo della propria coscienza e sulla quale fa leva la potenza diabolica (cf. 6,70s; 8,44; 12,31; 13,27; 16,11; Ap 12,4.17;13,2; Lc 22,3; 1Cor 2,8). D’altra parte, non sembra plausibile che Giuda sia giunto a tradire Gesù in modo repentino, quasi colto da un raptus, ma è più logico supporre che, dentro di sé, abbia covato giorno dopo giorno sentimenti di invidia, gelosia, bramosia, avidità, avarizia al punto da formarsi la convinzione che non valesse la pena di seguire un maestro, il quale non dava alcun peso al denaro, agli onori, al successo ed al potere e che, al contrario, si schierava coi poveri, i diseredati ed i maledetti di tutta la Palestina. L’evangelista Giovanni ha definito Giuda Iscariota “ladro” ed avido perché, essendo il tesoriere del gruppo degli apostoli, arraffava dalla cassa comune quanto veniva offerto dalle anime buone per sostenere le esigenze materiali di Gesù e dei suoi (cf. 12,6). Orbene, mentre Giuda sta studiando il da farsi per consegnare Gesù alle autorità ebraiche e di realizzare il massimo possibile come prezzo del tradimento, Gesù matura la piena consapevolezza di essere sul punto di ritornare al Padre, dal quale è stato inviato e dal quale ha ricevuto il potere su ogni cosa, anche se le potenze del male sembrano sul punto di prevalere e di vincere su tutti i fronti (cf. 7,30.44; 10,28s; 14,30), mandando all’aria i progetti di salvezza di Dio sull’uomo. Il potere, di cui gode Gesù, si fonda sulla potenza di Dio e nulla potrà scalzare Dio dal suo supremo ed eterno potere. Colui che viene da Dio e sta per tornare a Dio è superiore a qualsiasi avversario di Dio, diavolo compreso (cf. 8,44; 1Gv 3,8.10; 4,4).
Mentre cenavano. Il fatto che Gesù interrompa la cena per lavare i piedi dei suoi discepoli sarebbe, dal punto di vista strettamente storico, un fatto poco verosimile, perché solitamente la lavanda dei piedi dei commensali per opera di schiavi avveniva prima che ci si mettesse a tavola (cf. Lc 7,44), occupando ciascuno il posto assegnatogli secondo precise norme di etichetta. È possibile che l’evangelista contestualizzi l’episodio senza preoccuparsi troppo delle evidenti incongruenze di carattere storico o di semplice galateo, ma è pure possibile che egli voglia sottolineare con particolare enfasi la straordinarietà del gesto compiuto da Gesù che, in qualità di “padrone di casa” o “di capo-famiglia”, interrompe in modo del tutto inconsueto la cena per compiere un gesto, tipico di uno schiavo, lavando i piedi dei suoi commensali-familiari. Gesù ci sorprende per il suo modo di fare imprevedibile e controcorrente e non c’è da stupirsi se i suoi discepoli, che lo veneravano come il più grande dei rabbì, ne siano rimasti a dir poco sconcertati e di stucco, come possiamo arguire dalla reazione veemente di Pietro (13,8). Fatto sta che Gesù, con semplici gesti, privi di particolare solennità ma tra lo sgomento generale, si alza da tavola, depone le vesti (meglio, la sopravveste), prende un asciugatoio e se lo cinge ai fianchi, versa dell’acqua in un catino, lava i piedi dei suoi discepoli e glieli asciuga con l’asciugatoio. Dal punto di vista narrativo, l’evangelista ci fa ripercorrere in tutta semplicità un evento teologicamente assai rilevante: di propria iniziativa, il padrone di casa (il Figlio di Dio) si è alzato (lasciando la sua condizione celeste), si è tolto le vesti (spogliandosi della sua dignità divina ed assumendo la condizione umana), si è cinto i fianchi con un asciugatoio (disponendosi a svolgere un umile lavoro servile al servizio degli uomini) ed ha lavato ed asciugato i piedi dei suoi discepoli (segno di una totale donazione di sé, il cui culmine è il patibolo su cui muore come uno schiavo, privato di qualsiasi parvenza di dignità umana). Il breve dialogo tra Gesù e Pietro (13,6-11), interrompe la sequenza dei gesti che, come vedremo, completano la parabola discendente ed ascendente del Figlio di Dio: dopo essersi completamente spogliato della dignità divina ed umana, Egli ritorna al posto che più gli compete, alla destra del Padre (cf. 13,12).

6 Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. 7 Rispose Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”. 8 Gli disse Simon Pietro: “Non mi laverai mai i piedi”. Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. 9 Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo”. 10 Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti”. 11 Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete mondi”.
Inarrivabile Pietro! Il capo degli apostoli non conosce proprio mezze misure, ma è tutto d’un pezzo, solido ed affidabile come una “pietra”. Non per nulla Gesù, che legge nel profondo del cuore tutti gli uomini, ha affibbiato al pescatore galileo Simone, figlio di Giovanni (Mt 16,18), l’azzeccato soprannome di Pietro (aram. kefa, “roccia”).
Venne dunque da Simon Pietro. La scena con Simon Pietro, che consente di spiegare il gesto compiuto da Gesù, ha una struttura tipicamente giovannea. Il dialogo, che si svolge tra il rabbì ed il suo discepolo, produce in questo un’incomprensione ed un equivoco, tale da richiedere da parte del primo un ulteriore chiarimento e la rivelazione del significato profondo di quanto ha affermato in precedenza. Lo schema è semplice: affermazione di Gesù – incomprensione da parte del suo interlocutore, che equivoca sul significato delle sue parole – nuovo intervento chiarificatore di Gesù.
Dal testo non si capisce se Pietro sia stato il primo a ricevere la lavanda dei piedi (s. Agostino), o l’ultimo (Origene), ma è facile arguire che egli abbia espresso ad alta voce la perplessità di tutti gli altri discepoli, seppure con la veemenza che gli è propria e che appare giustificata dal profondo rispetto che egli nutre per Gesù: Signore, tu lavi i piedi a me? Sembra di vedere il povero Pietro, che strabuzza gli occhi e che non riesce a credere a quanto sta avvenendo. Gesù ha appena compiuto un miracolo che ha dell’inverosimile, resuscitando Lazzaro (11,17.43-44), morto da ben quattro giorni e si abbassa a lavare i piedi a lui, che sa solo pescare e che spesso non riesce nemmeno a “beccare” l’ombra di un pesce (cf. Lc 5,5). Tu…a me? Pietro capisce bene che tra il “Tu” maestoso ed ineffabile di Gesù ed il “me” del povero apostolo, che non è nemmeno il più istruito dei Dodici, c’è un abisso incolmabile, che neppure le distanze siderali possono lontanamente far immaginare. Il rifiuto espresso da Pietro di farsi lavare i piedi da Gesù non è un atteggiamento superficiale o arrogante, ma è espressione di un sentimento di umiltà consapevole e supportata da fatti ben precisi ed evidenti agli occhi di tutti. Pietro si sente letteralmente annichilito e, nello stesso tempo, scandalizzato al punto che Gesù cerca di rincuorarlo. Ora non lo capisci, ma lo capirai dopo. C’è un tempo per ogni cosa (cf. Qo 3,1); ora è il momento di vedere il Cristo umiliato, offeso ed ucciso, ma verrà anche il tempo del Cristo glorioso e trionfante sul male e sulla morte. Dio non ha fretta, perché i suoi tempi sono infinitamente più ampi e di lungo respiro rispetto a quelli dell’uomo (Sal 89 [90],4; 102 [103],15), che calcola tutto in centesimi di secondo. Nel cenacolo, i discepoli sono ora nel buio più totale della mente e non sanno capire né i gesti né le parole del loro Maestro, ma verrà il giorno in cui lo Spirito Santo chiarirà il senso degli uni e delle altre, gettando una luce abbagliante sul significato del sacrificio supremo di Gesù (cf. 14,26; 16,12s.25.29-32). Ora… dopo. Tra il tempo presente, intriso di angoscia, paura, tristezza, debolezza, tradimento ed il tempo futuro, che sarà contrassegnato dallo Spirito, da cui scaturiranno pace, sicurezza, gioia, coraggio, fiducia e fermezza nella testimonianza, c’è di mezzo un evento tragico ed ineluttabile, la croce, che Dio ha scelto come strumento e veicolo per incontrarsi con l’uomo e fare pace con lui (Is 9,5-6).
Non mi laverai mai i piedi! L’umanissima ottusità di Pietro produce un categorico “mai!” che in greco suona ancora più solenne e drastico: “ non mi laverai i piedi in eterno!”. Un adagio corrente recita: mai dire mai. Anche l’ateo più convinto, l’anti-cristiano più accanito, il mangia-preti ideologicamente ben strutturato, il nemico giurato del Vaticano e dintorni, l’ex bacia-pile passato ad altra religione può, prima o poi ed a Dio piacendo, scontrarsi di brutto con la croce di Cristo e venire disarcionato dalle proprie convinzioni come successe a Saulo sulla via di Damasco (At 9,3-4). Proprio Pietro avrebbe sperimentato sulla propria pelle e nella propria coscienza il valore assai relativo del vocabolo “mai”, quando, proprio nel contesto dell’ultima cena, Gesù gli avrebbe predetto di lì a poco il suo rinnegamento, nonostante la sua professione di fedeltà assoluta al Maestro (cf. Mt 26,33-35; Gv 13,37-38). Sebbene da venti secoli viva, ormai, nella gloria eterna del Regno di Dio, dopo aver versato il proprio sangue per amore di Cristo, il triplice canto del gallo risuona probabilmente ancora nelle orecchie del primo papa della Chiesa!
La risposta di Gesù alle proteste di Pietro, che Egli ha scelto come capo della sua Chiesa, suona come una minaccia, forse solo sussurrata, ma decisa e tale da non ammettere repliche: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Il dono, che Gesù promette a chi gli è fedele, è la partecipazione alla sua gloria (17,22.24) nella casa del Padre (cf. 12,26; 14,3; 17,24), dove sarà completamente svelata la pienezza dell’amore di Dio e del Figlio suo, Gesù Cristo (14,21.23). Per poter accedere a tale immenso dono, è necessario approvare la logica di Gesù, che consiste nell’accettazione totale, libera e volontaria, del sacrificio di sé per amore dell’uomo, di cui la lavanda dei piedi è solo un’immagine simbolica. Se Pietro vuole salvarsi, deve accettare di farsi salvare da Cristo nel modo che Egli ha scelto come elemento essenziale del piano, stabilito dal Padre sin dall’eternità. Pietro, che ancora non ha compreso il significato reale e profondo della lavanda dei piedi (né lo hanno capito gli altri discepoli), recepisce comunque il senso dell’oscura minaccia pronunciata da Gesù e, probabilmente temendo di essere allontanato dal gruppo dei seguaci dell’amato Maestro, reagisce da par suo: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo”. O tutto o niente; così Pietro non smentisce il proprio carattere deciso, irruente e senza mezze misure. Così, equivocando sul significato della lavanda dei piedi, da lui intesa in senso strettamente materiale, non esita a dichiararsi pronto a farsi lavare tutto intero. Gesù, che con tutta probabilità si aspettava una simile reazione da parte di Pietro, ribadisce, forse con un sorriso di compiacimento, che la purezza interiore è elemento essenziale per entrare nel regno di Dio e che ne sono segno e riferimento l’amore fraterno e la disponibilità al reciproco servizio, fino al dono totale di se stessi (cf. 15,2-3; 1Gv 1,7; Eb 10,22). I discepoli, scelti da Gesù, sembrano ben disposti ad accettare le condizioni da Lui imposte, eccetto uno: il traditore. “Voi siete mondi (puri), ma non tutti”. C’è sempre qualcuno che, purtroppo per lui, pensa di cavarsela da solo e di non aver bisogno di nessuno; anche il cielo può andare stretto per chi è pieno di sé. Qualche commentatore ha pensato di ravvisare nella lavanda dei piedi un riferimento al battesimo, ma se ci atteniamo al contesto narrativo possiamo cogliere, nei versetti testé commentati, non tanto un significato sacramentale quanto piuttosto una dimensione cristologica e soteriologica: la lavanda dei piedi è un’azione che ha il carattere del segno, mediante cui Gesù ha reso visibile ed efficace per i suoi discepoli la propria volontaria consegna alla morte, in virtù di un amore supremo di cui essi faranno esperienza fino all’estremo (13,1).
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07/01/2012 22:58
 
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12 Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15 Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. 16 In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. 17 Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.
Secondo il suo solito, l’evangelista è sobrio nel descrivere i gesti di Gesù, quasi fossero privi di qualsiasi importanza, ma il modo in cui li mette in sequenza ci fa comprendere come l’autore vi abbia annesso un rilevante valore teologico: dopo aver lavato i piedi agli apostoli (simbolo, come abbiamo già avuto modo di riflettere, del suo sacrificio volontario sulla croce e della sua discesa nel mondo ultraterreno dei morti), Gesù si alza e si rimette le vesti (immagine della resurrezione), andando di nuovo a sedersi a tavola (il che dà a intendere che Gesù ritorna alla destra del Padre, luogo da Lui occupato sin dall’eternità e che si riappropria della sua piena dignità divina). Neppure il più abile dei cineasti odierni avrebbe saputo fare di meglio.
Sapete ciò che vi ho fatto? No, i discepoli non lo hanno capito e sono troppo frastornati per formulare una risposta coerente, sicché se ne stanno in silenzio, in attesa di ulteriori spiegazioni che Gesù non tarda a fornire.
Voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene, perché lo sono. Ecco precisati i ruoli dell’uno e degli altri, senza alcun equivoco di sorta. Gesù è il Signore (6,68; 13,6.9.36s ecc.) e ne fanno fede i miracoli da lui compiuti a dimostrazione della sua signoria sulla natura e sulle forze del male ed è, inoltre, il Maestro o rabbì (1,39; 11,28; 20,16), da tutti ascoltato con ammirazione e rispetto anche dai notabili della nazione giudaica ed i cui insegnamenti contengono “parole di vita eterna” (6,68). Il preambolo auto-rivelativo di Gesù (“voi mi chiamate… e dite bene… perché lo sono”) conferisce maggior peso a quanto sta per affermare: se io, che sono il Signore ed il Maestro, ho lavato i piedi a voi, che siete i miei discepoli, allora anche voi dovete fare altrettanto, lavandovi i piedi a vicenda. Le parole di Gesù non suonano come una supplica o una raccomandazione, ma come un ordine: se vogliono rimanere all’interno del piano di salvezza e seguire Gesù nella gloria, i discepoli devono necessariamente mettersi al servizio gli uni degli altri, abbandonando qualsiasi velleità di predominio e scordandosi di eventuali e presunti diritti di precedenza. La disponibilità a mettersi al servizio fraterno gli uni degli altri è premessa essenziale per il dono supremo di se stessi sull’esempio del Maestro e Signore, che per primo ha amato sino ad effondere tutto il suo sangue sulla croce per amici e carnefici. Se l’uomo moderno vuole recuperare appieno la propria dignità umana, non può sfuggire alla logica del servizio, offerto per amore ai propri consimili e compagni di viaggio verso l’eternità: la sopraffazione, la violenza, l’ingiustizia, l’accaparramento dei primi posti nei vari ambiti della vita sociale, la negligenza, la furbizia maliziosa non sono atteggiamenti degni di un seguace di Cristo, ma, al contrario, sono comportamenti certamente anti-cristiani, anche se assunti da cosiddetti uomini “di Chiesa”. L’ordine di Gesù (“dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”) non ammette deroghe, perché è parte integrante del “comandamento nuovo” dell’amore (13,34), che fa di tutta la vita di Gesù, e soprattutto della sua morte, il metro del reciproco amore dei discepoli (15,12; 1Gv 2,6;3,3.7; 4,17). Il presente salvifico, elargito a piene mani da Gesù, esige che si “faccia la verità” (3,21) e, per tutti gli uomini, questo significa accogliere, custodire ed osservare il comandamento dell’amore nel reciproco servizio; se ciò vale anche per i non cristiani per l’intrinseco valore salvifico del Vangelo di Cristo, a maggior ragione deve valere per ogni cristiano minimamente dotato di ragione.
Vi ho dato l’esempio. Gesù sa quanto sia difficile, per l’uomo, rinunciare al proprio egoistico interesse personale ed alla propria sicurezza psico-fisica. In un certo senso, anche nel nostro tempo ci vuole un certo coraggio per andare controcorrente e comportarsi secondo la dinamica del servizio totale, amorevole, disinteressato, assolutamente gratuito e spesso gratificato non con medaglie e riconoscimenti, ma con insulti, incomprensioni, dileggi o, peggio, con attentati alla propria incolumità. Era difficile dimostrare la propria fede cristiana in epoca di aperte persecuzioni, ma non è facile nemmeno oggi, nell’ambito di un contesto sociale sempre più egoista, litigioso e guastato da rapporti interumani basati sulle vuote apparenze (quanti soldi sperperati da personaggi pubblici per curare la propria “immagine”!). Vi ho dato l’esempio, fate come me; non otterrete premi in questa vita, ma il Regno del Padre mio è pronto per voi (Lc 22,29) se agirete come me. Gesù vuole incoraggiare i suoi attenti e sconcertati discepoli, che non molto tempo prima avevano sollevato la questione su chi, tra loro, fosse il più grande ed il più degno a sedere alla sua destra ed alla sua sinistra (Mt 20,21) e vuol far capire loro che devono deporre ogni velleità di predominio gli uni sugli altri, “perché come ho fatto io, facciate anche voi”.
Il servo non è più grande del suo padrone e l’apostolo non è più importante di colui che lo ha inviato. Questo concetto dovette arrivare ben chiaro nella mente degli apostoli, che con tutta probabilità non avevano ancora pienamente afferrato il senso del discorso fatto dal loro Maestro per spiegare le implicazioni “etiche” del gesto, da Lui compiuto poco prima. Dopo i tragici fatti della passione e dopo lo straordinario evento della resurrezione del loro Signore e Maestro, i discepoli comprenderanno forte e chiaro il valore immenso dell’umile ed amorevole servizio reso loro da Gesù e sapranno farne tesoro, conducendo per mano le sorti della Chiesa primitiva con dedizione assoluta e generoso impegno sino ad affrontare il martirio per amore del loro Signore e Dio.
Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica. Gesù non definisce beato colui che si limita a sapere, vale a dire a conoscere approfonditamente il contenuto del suo messaggio d’amore e di servizio reciproco, ma chiama beato chi sa mettere in pratica ciò che ha appreso. È questo il significato reale del verbo biblico “ascoltare” (Dt 6,3-9). La conoscenza del Vangelo, anche se erudita, può limitarsi ad uno sterile esercizio intellettuale, ma se è seguita da un’azione concreta ed impegnata significa che tutte le facoltà umane sono coinvolte nella dinamica del vero “ascolto” della Parola di Dio. Per giungere alla piena conoscenza della verità (3,21; 7,17; 8,31s), è necessario mettere in pratica la legge dell’amore sull’esempio concretamente dimostrato da Gesù e che ogni suo discepolo deve sforzarsi d’imitare. Il macarismo (ossia, il ricorso alla formula “beati…”) ricorre nel Vangelo secondo Giovanni solo due volte (13,17; 20,29) e, con tutta probabilità, risente di una consolidata tradizione sinottica (cf. Lc 11,27s; 12,37s; 14,14), anche se ricorre frequentemente in tutto il cristianesimo delle origini (cf. Gc 1,25; Ap 14,13; 16,15), con evidente significato parenetico (esortativo). Esprimendo il concetto in parole semplici: solo se ti comporterai conformemente all’insegnamento di Gesù, allora potrai considerarti beato (gr. machàrios, lat. beatus, ossia felice e pienamente realizzato come persona), come possono esserlo solo coloro che godono dell’eterna luce e dell’infinita pace di Dio (gli angeli, i santi), anche se sei ancora alle prese con i tanti problemi e le quotidiane difficoltà di questo mondo terreno. La beatitudine dell’uomo trova, infatti, la sua piena realizzazione solo “nel mondo altro”, ultraterreno, ma ha il suo inizio concreto e reale già in questo mondo, dove va plasmandosi la fiduciosa attesa delle promesse divine. Gesù invita i suoi discepoli a fidarsi di Lui ed a non scoraggiarsi neppure di fronte allo scandalo supremo della croce.

18 Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto; ma si deve adempiere la Scrittura: Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno. 19 Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che IO SONO. 20 In verità, in verità vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato.
Il tradimento di Giuda e la morte di Gesù sulla croce dovranno rafforzare la fede dei discepoli, manifestando la scienza divina di Gesù e la verità delle Scritture. La pericope 13,18-20 costituisce, probabilmente, il passaggio redazionale dalla spiegazione morale al preannuncio della morte in croce di Gesù Cristo. Infatti, perché un discepolo dovrebbe essere escluso dal comandamento universale dell’amore? Questo passo si riallaccia alla pericope 13,1-10 di cui riprende il tema del tradimento di Giuda, che sta per essere consumato.
Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto. Per i cristiani della prima ora, lo scandalo del tradimento di Giuda, uno dei prescelti da Gesù, doveva sembrare un evento così mostruoso e misterioso da richiedere una spiegazione da parte dell’evangelista. Gesù ha scelto personalmente i suoi collaboratori diretti, conoscendo di ciascuno “vita , morte e miracoli”, difetti e virtù, debolezze e slanci interiori, carattere e temperamento ed ha chiamato a seguirlo, consapevolmente e liberamente, anche il suo futuro traditore, un uomo introverso, avido, meschino ed avaro; il destino umano di Gesù e quello di Giuda Iscariota erano indissolubilmente legati sin dalla notte dei tempi e non è difficile immaginare il velo di tristezza che, per un attimo, deve aver offuscato lo sguardo limpido, sereno e sicuro di sé di Cristo quando, per la prima volta, ha incrociato quello obliquo e malizioso di quel discepolo inaffidabile. Perché Dio ha scelto di incarnarsi e di morire su una croce? Perché ha deciso di essere tradito da un uomo di sua fiducia? È possibile trovare una spiegazione logica al comportamento di Dio? Il “mistero della salvezza” (mysterium salutis) si è scontrato con il “mistero dell’iniquità” (mysterium iniquitatis) e, a prima vista, è Dio che ci ha rimesso la credibilità ed il prestigio, perché si è fatto battere dal male su tutti i fronti, subendo il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, la fuga di tutti gli altri discepoli impauriti e smaniosi di salvare la propria pelle e, infine, patendo la tortura, la morte e la sepoltura. Eppure, Gesù ha dato più di una chance di ravvedimento e di conversione a quel suo discepolo rinchiuso nei propri dubbi e prigioniero delle proprie debolezze e fragilità, così come l’ha concessa a Pietro ed agli altri compagni di ventura. Prima della tragica notte del tradimento, Gesù non ha mai rimproverato apertamente Giuda né gli ha riservato atteggiamenti discriminatori, ma lo ha trattato amorevolmente alla stessa stregua degli altri undici apostoli. Come tutti i suoi compagni, Giuda ha ascoltato gli insegnamenti di Gesù, ha assistito ai suoi miracoli, ha visto coi propri occhi Lazzaro uscire dalla tomba avvolto nelle bende funebri, ha condiviso lo stesso timore quando ha visto Gesù camminare sulle acque agitate e tempestose del lago di Galilea, ma, nonostante il privilegio di aver condiviso per tre anni le vicende umane del Maestro, non ha saputo scegliere da che parte stare, o meglio, ha scelto la parte sbagliata e, colmo dei colmi, non ha saputo o voluto ravvedersi dell’errore compiuto ed ha preferito togliersi la vita, gesto di estremo rifiuto e di aperta sfiducia nei confronti della misericordia di Dio, che Gesù aveva insegnato a chiamare abbà, papà.
L’evangelista giustifica la scelta di Giuda come apostolo, nonostante che Gesù ne conoscesse le inclinazioni al male ed al tradimento, in quanto realizzazione della profezia: “Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno” (Sal 40 [41],10). Un commensale di Dio (“colui che mangia il pane con me”) preferisce compiere un gesto blasfemo supremo (“ha levato contro di me il suo calcagno”), disprezzando Colui che l’ha sfamato ed accolto con fiducia, piuttosto che riconoscere la propria miseria ed indigenza e ringraziare il suo benefattore del dono ricevuto! Il giudizio storico sul comportamento di Giuda non è sempre stato univoco e coerente. Infatti, ad alcuni il discepolo traditore è sembrato un predestinato al tradimento, privo di vera libertà di scelta: secondo il piano di salvezza, stabilito da Dio sin dall’eternità, era necessario che Cristo fosse proditoriamente consegnato ai suoi carnefici ed era inevitabile che ci fosse un traditore. Secondo costoro, Giuda sarebbe colpevole di tradimento per necessità e suo malgrado, sicché la sua colpa sarebbe irrilevante essendo un “necessario ed incolpevole prescelto” da Dio per compiere un’azione malvagia, finalizzata ad un’azione di salvezza universale. Mettendo a confronto il tradimento di Giuda ed il rinnegamento di Pietro, però, si può recuperare il tanto contestato principio del libero arbitrio.
Macchiatosi pure lui di una colpa grave, al pari di Giuda, Pietro ha avuto un rimorso sincero dell’atto compiuto e, riconoscendosi un miserabile peccatore, si è disposto a chiedere perdono al suo Signore, ripetutamente rinnegato con spergiuro; i tre rinnegamenti hanno valore non tanto sul piano quantitativo, bensì su quello teologico, poiché per la cultura semitica il numero “3” esprime un valore di perfezione che, in questo caso, è da intendersi in senso assolutamente negativo, dal che si può dedurre che Pietro abbia rinnegato il Signore liberamente, consapevolmente e volontariamente, seppure per paura. Dopo la resurrezione, Pietro si sentirà chiedere per tre volte da Gesù se lo ama e per tre volte Pietro gli dichiarerà il proprio amore (21,15-17), pur essendo pienamente consapevole del proprio peccato, per il quale ha già pianto amaramente (Mt 26,75); la triplice professione d’amore ripara il peccato commesso e ricolloca Pietro nella perfetta dimensione dell’amore per Dio, il quale richiede che lo si ami “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5).
Al contrario di Pietro, Giuda non si è fidato della misericordia e del perdono di Gesù ed ha mantenuto, sino alla fine, un atteggiamento di disperato orgoglio. Il suicidio di Giuda è affidato al giudizio insindacabile di Dio, il quale “conosce quelli che ha scelto”.
Ve lo dico fin d’ora… perché… crediate che IO SONO. Gesù si premura di preparare i suoi al momento dello scandalo della croce e li sollecita ad avere fede in Lui. La fede è cristologicamente accentuata con la formula tipicamente giovannea dell’IO SONO. Il fatto inconcepibile del tradimento non sminuisce il valore della realtà: Gesù è l’Inviato di Dio, il Messia, il Profeta, l’Eletto, l’Emmanuele, il Figlio di Dio, il Salvatore, il Signore della storia. Dopo lo sconvolgente evento della croce, ci si accorgerà che il tradimento di Giuda e l’assalto disperato di satana sono serviti all’esaltazione di Gesù Cristo, “che è resuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20). La formula assoluta “IO SONO” riceve luce da 8,28: i giudei conosceranno, dopo l’elevazione del Figlio dell’uomo, che Gesù giustamente avanza il diritto assoluto, contenuto in quella formula, alla maestà ed alla dignità divina. In 14,29-30 manca la formula esplicita IO SONO, ma il significato delle parole ivi riportate è analogo: il principe di questo mondo (satana) non ha alcun potere su Gesù, poiché è giudicato e spodestato per effetto della crocifissione del Figlio di Dio (cf. 12,31). Se si aggiunge che satana incita e trascina il traditore a compiere il suo misfatto (13,27.30), si riconosce la spiegazione teologica che l’evangelista vuole dare a tutto l’avvenimento, comunicandola ai lettori con la formula IO SONO.
Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Questo detto di Gesù (gr. lòghion), riportato dall’evangelista o dal redattore finale del testo evangelico, concorda quasi alla lettera con Mt 10,40 ed esprime il principio giuridico giudaico, in base al quale un inviato vale quanto il suo mandante. Il tradimento di Giuda avrebbe potuto delegittimare l’autorità e, in futuro, anche l’affidabilità degli altri apostoli agli occhi del mondo, sicché Gesù si premura di qualificare i suoi discepoli con un “certificato di garanzia”, per assicurare che essi riporteranno sempre fedelmente i suoi insegnamenti. Gli apostoli sono i veri rappresentanti di Gesù, come pure i loro successori (i vescovi), ma non devono illudersi di avere vita facile in questo mondo, perché alcuni li accoglieranno con la stessa venerazione con cui accoglierebbero Gesù, ma molti altri li respingeranno, perseguiteranno ed uccideranno così come hanno respinto, perseguitato ed ucciso Gesù. Chi accogli me, accoglie colui che mi ha mandato. Gesù è l’Inviato del Padre e, chi accoglie Gesù nella fede, lo riconosce come il mediatore unico del Dio onnipotente; chi rifiuta Gesù, invece, si mette contro Dio stesso. La scelta dell’uomo è libera ed assolutamente responsabile; ciascuno è causa della propria salvezza o dell’autodistruzione.

Annuncio del tradimento di Giuda
(Gv 13,21-30)

Dopo l’intermezzo della lavanda dei piedi, il racconto prosegue con un’altra scena dai contorni drammatici. Ripreso il banchetto, interrotto per un tempo che agli occhi dei discepoli deve essere sembrato un’eternità, Gesù si cala nuovamente nel clima mesto e confidenziale di quella serata, da tutti i presenti avvertita come speciale, unica. Nella sala si fa sentire il pàthos di un addio improvviso ed imprevisto; solo Gesù appare sicuro di sé ed i suoi gesti sono calmi e misurati, come sempre, mentre gli apostoli si fanno inquieti. Il gesto di Gesù li ha frastornati e dentro di sé vanno interrogandosi sul significato di quella lavanda. Gesù li ha abituati a frequenti azioni insolite e controcorrente, ma questa volta li ha veramente sorpresi superando ogni immaginazione. Come un abile e consumato cineasta, l’evangelista fa emergere dalla scena quattro personaggi: Gesù e Giuda Iscariota da una parte, Pietro e Giovanni dall’altra. Sullo sfondo, si avverte la presenza defilata degli altri discepoli, la cui inquietudine e perplessità sono quasi palpabili.

13,21 Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”. 22 I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse.
Il sorprendente annuncio del tradimento (cf. anche Mc 14-18; Mt 26,21), fatto improvvisamente da Gesù dopo aver compiuto un gesto di amore estremo nei confronti dei suoi discepoli, coglie questi impreparati. Tutto si sarebbero aspettato i seguaci di Gesù, fuorché un tradimento per opera di uno di loro! Non per nulla l’evangelista mette in risalto la profonda commozione provata da Gesù nel dare tale annuncio, un sentimento assai simile a quello da Lui provato mentre si stava avvicinando alla tomba dell’amico Lazzaro (11,33) od a quello che aveva manifestato poco prima, dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme (12,27). Il profondo turbamento interiore, quasi viscerale, provato da Cristo, va di pari passo con lo sbigottimento dei discepoli, che si guardano l’un l’altro negli occhi, quasi a voler cogliere nel vicino una scintilla della perfidia tipica dei traditori e, nello stesso tempo, cercando ognuno di rassicurare se stesso. Lo smarrimento iniziale, cede il posto alle indagini. Chi sarà mai il malvagio, capace di tradire l’amato rabbì? Ciascuno dei discepoli si sente messo sotto esame e, quasi certamente, si va chiedendo se può aver fatto qualcosa di sbagliato, durante il periodo di convivenza con Gesù, tanto da lasciar trasparire una qualche tendenza al tradimento. Fatto un rapido esame di coscienza, tutti gli apostoli, eccetto uno, spostano la loro attenzione sul vicino di tavola; ognuno cerca di scoprire negli altri qualche indizio dell’imminente misfatto e si sforza di mantenere la calma per sviare da sé gli altrui sguardi indagatori. Il silenzio di Gesù, che ha lasciato in sospeso la frase accusatrice, sembra durare un’eternità.

23 Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. 24 Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: “Dì, chi è colui a cui si riferisce?”. 25 Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”.
La scenetta, per certi versi gustosa e, dal punto di vista psicologico, assai efficace ed aderente alla realtà dei fatti, non può che essere frutto di un’esperienza vissuta in prima persona, anche se qualche commentatore ha voluto ridurla a semplice immagine simbolica. Come un abile regista, l’evangelista riprende la scena con un grandangolo, per inquadrare tutti i presenti e, poi, sfuma l’insieme dei discepoli per soffermarsi su uno solo di essi, rendendo nitidi i suoi contorni con uno zoom adatto per un ritratto di alta precisione, mentre tutto il resto dell’immagine rimane sfocata, lontana, fuori campo. Il discepolo, ora inquadrato, è esaminato sino al profondo dell’anima: egli è “quello che Gesù amava”. L’annotazione dell’evangelista-regista non è di poco conto. Gesù amava tutti i suoi discepoli, anche quello che lo avrebbe tradito per una manciata di monete d’argento, prezzo di un rancore covato da tempo e senza una ragione plausibile, se non, forse, un’attesa di gloria e di trionfo andata delusa: Gesù non era un re-messia glorioso ed invincibile, ma un miserabile senz’arte né parte, un illuso sognatore, capace di fare miracoli senza essere nemmeno capace di monetizzare tutta quella grazia di Dio che, misteriosamente ed inspiegabilmente, sprigionava dalle sue mani e dalla sua bocca! Un talento veramente sprecato.
Quel discepolo, che “Gesù amava”, era forse il più giovane ed il più innocente del gruppo dei Dodici ed a lui il Maestro riservava delle confidenze precluse agli altri. Lo stesso gesto di reclinare il capo sul petto di Gesù, con atto filiale, rafforza la convinzione che egli fosse il discepolo prediletto. Secondo la moda del tempo, i convitati ad un banchetto stavano coricati su un fianco sopra appositi lettini, rialzati in avanti, detti triclini, disposti a raggiera attorno alla mensa sulla quale si trovavano le vivande e collocata a breve distanza dalla testa e dalle mani dei commensali. Il gesto del discepolo prediletto si spiega con la sua vicinanza, quasi intima, al venerato Maestro: “si trovava al fianco di Gesù”. Con un gesto furtivo, Simon Pietro, che secondo logica si trovava, a sua volta, accanto al giovane collega, cerca di attirare la sua attenzione, senza farsi troppo notare dagli altri, con un gesto universalmente noto, piegando più volte e rapidamente verso di sé il dito indice: ehi, guarda qua, avvicinati che ti devo parlare… dì un po’, fatti dire chi è quello svitato che lo vuole tradire…
Detto, fatto. Il giovane discepolo, incuriosito pure lui, non si fa ripetere due volte la richiesta di Pietro, il capo riconosciuto dei Dodici e, con innocente noncuranza, appoggia la testa sul petto di Gesù e gli sussurra: “Signore, chi è?”, a me lo puoi dire… La risposta di Gesù è immediata, quasi a volersi togliere subito un peso che gli opprime il petto.
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07/01/2012 22:59
 
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26 Rispose allora Gesù: “E’ colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò”. E intinto un boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. 27 E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse: “Quello che devi fare fallo al più presto”. 28 Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; 29 alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: “Compra quello che ci occorre per la festa”, oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. 30 Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte.
Gesù compie un gesto simbolico di grande impatto emotivo e dal profondo significato cristologico. Egli non intinge nell’intingolo un boccone di erbe amare, che nella cena pasquale ebraica erano mescolate a marmellata di frutta, ma un pezzo di pane (cf. la citazione scritturistica di Gv 13,18), normalmente usato dagli ebrei come posata e lo offre a Giuda Iscariota, pure lui fisicamente vicino a Gesù a mensa ma assai lontano dal Maestro col cuore e con la mente, col duplice scopo di smascherarlo agli occhi del discepolo prediletto ed indirettamente a quelli di Pietro e, al tempo stesso, per allontanarlo da Sé. Da tempo, ormai, Gesù conosce il traditore che sta per consegnarlo nelle mani dei carnefici e, adesso che è giunta la sua ora, per la quale è venuto al mondo (cf. 2,4; 10,18), vuole accelerare i tempi dell’incontro con la croce. Giuda ha compiuto la sua “missione”, Gesù deve concludere la propria; per libera scelta, l’apostolo traditore si è escluso dall’esperienza della resurrezione del suo Maestro e Signore tradito e si è consegnato definitivamente nelle mani di satana, il principe delle tenebre. Pietro e l’apostolo prediletto da Gesù non intervengono, né potrebbero fermare Giuda o convincerlo a recedere dal suo proposito, perché l’ora di Gesù incombe e non ammette deroghe o ripensamenti. Ciò che è scritto, è scritto (19,22) sin dalla notte profonda dei tempi e Gesù non può e non vuole sottrarsi al suo destino umano, perché così è stato stabilito dal Padre per la salvezza degli uomini. Dopo avergli offerto il boccone di cibo, Gesù aspetta che Giuda prenda la sua decisione, definitiva ed irrevocabile. Già tentato in precedenza da satana (13,2), Giuda compie la sua scelta e, tra il Maestro ed il diavolo, sceglie quest’ultimo (cf. Lc 22,3). È facile immaginare la profonda tristezza di Gesù, che pure si aspettava tale sviluppo degli eventi ed è altrettanto intuibile la sua fiduciosa speranza in un ravvedimento in extremis del discepolo traditore, forse anche mentre sarebbe penzolato nel vuoto con la corda attorno al collo, pochi istanti prima chiudere definitivamente la sua tragica vicenda, che lo avrebbe affidato alla storia futura come il traditore più malvagio comparso sulla faccia della terra.
Quello che devi fare fallo al più presto. Offrendo il pezzo di pane a Giuda, Gesù lancia l’estremo segnale a satana, che può finalmente entrare in azione ed impossessarsi definitivamente della sua preda, libera e consapevole del peccato commesso. In certo qual modo, Gesù costringe Giuda a compiere la scelta esistenziale, sottoponendosi al giudizio definitivo (cf. 3,19-21; 9,39). L’evangelista considera la decisione dell’uomo, a favore dell’oscurità e del male, un passo così incredibile e così misterioso nella sua iniquità (mysterium iniquitatis) da ritenere che esso sia provocato dall’avversario di Dio e di Gesù (cf. 8,44). Ancora più radicale diventa tale prospettiva alla luce dell’evento della croce (cf. 12,31; 14,30), causato dall’atto del traditore. Con un gesto, che di per sé è simbolo di condivisione, d’intimità e d’amore, Gesù allontana definitivamente Giuda Iscariota, consegnandolo al suo destino di perdizione eterna. Per ogni uomo, non solo per Giuda, non esiste una soluzione di equidistanza tra Dio e satana; la neutralità è considerata da Dio come opposizione al suo progetto di vita e giudicata alla stessa stregua del tradimento, meritevole di condanna senza diritto d’appello (cf. Ap 3,15-16).
Nessuno dei commensali capì, eccetto il discepolo prediletto e Pietro, ovviamente. Rimasti al di fuori del duetto mimico e dialogico, interpretato furtivamente da quei due, gli altri discepoli interpretano le parole del Maestro come un invito ad occuparsi delle faccende tipiche del suo incarico. Giuda Iscariota, infatti, era il cassiere del gruppo ed abitualmente si occupava dei problemi logistici della piccola comunità, formata dagli apostoli e dalle persone al seguito ed al servizio del Maestro; tra le sue mansioni, c’era anche quella di provvedere alle necessità dei poveri incontrati per via e, visto l’attaccamento al denaro, c’era da scommettere che più di un apostolo non vedeva di buon occhio quel loro collega taciturno e taccagno. Possiamo maliziosamente ipotizzare che, vedendo Giuda uscire dal cenacolo, più di uno abbia provato un senso di sollievo, non immaginando neppure lontanamente quanto fosse giustificato il loro disagio per l’appartenenza di costui al gruppo dei Dodici.
Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte. Giuda esce momentaneamente di scena, senza dire nemmeno una parola o fare un cenno di saluto, ma esegue immediatamente l’ordine ricevuto da Gesù. Come si suole dire, il male mette addosso una “fretta del diavolo” ed il malvagio non ha mai pace, né prima né dopo aver compiuto le sue iniquità. Uscendo da quella sala, in cui si trovava il Signore della luce (cf. 8,12; 1Gv 1,5; Sal 26[27],1; Sap 7,26), Giuda sprofonda nel buio della notte, regno del male e dell’opposizione radicale a Dio (1,5; 11,10; 1Gv 2,8). Lasciata la luce alle sue spalle, Giuda s’incammina incontro al suo tenebroso destino scegliendo per sé una méta senza ritorno.
L’uscita di scena del traditore, consente a Gesù di formulare il lungo discorso d’addio (13,31-16,33), culminante nella commovente preghiera “sacerdotale” (17,1-26), cui fanno subito seguito i tragici eventi della passione e morte in croce di Cristo.




Il discorso d’addio
(Gv 13,31-16,33)

L’allontanamento del traditore, strettamente collegato alla realizzazione dell’ora di Gesù, significa che è giunto il momento della glorificazione del Figlio da parte del Padre. La preoccupazione di Gesù non riguarda solo i suoi fedeli discepoli, che prepara alla sua dipartita infondendo in loro la speranza del suo ritorno, ma si estende anche ai seguaci futuri e promette la venuta di un “Consolatore”, che scenderà sui discepoli facendo loro da maestro e guida, ricordando loro tutto ciò che Gesù ha detto ed insegnato e guidando la comunità dei fedeli (la Chiesa) lungo i pericolosi sentieri della storia sino alla méta finale, la patria celeste. L’apparente vittoria del principe delle tenebre è, in realtà, l’inizio del trionfo di Cristo, disceso dal cielo per condurre alla salvezza l’umanità intera.

13,31 Quand’egli fu uscito, Gesù disse: “Ora il figlio dell’uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui. 32 Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
L’uscita di scena del traditore è l’evento storico e concreto, necessario ed imprescindibile per mettere in moto la dinamica finale della salvezza, che l’evangelista sintetizza e racchiude nel concetto di gloria, la cui realizzazione avviene entro i confini misteriosi del tempo di Dio (“ora… subito”), che è contemporaneamente chrònos (in altre parole, il tempo materiale soggetto alla misurazione cronografica ed alla successione cronologica degli eventi storici) e chairòs (o tempo di grazia, tempo dell’azione di Dio nelle vicende umane, tempo del “già” e del “non ancora”, tempo escatologico di una salvezza che è già avvenuta, ma non ancora compiutamente realizzata, tempo in cui Dio è sempre presente per condurre l’uomo alla sua piena realizzazione oltre la fine del tempo). Il tempo di Dio si dilata nell’eternità (“ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte”, Sal 90 [89],4), ma il suo perno centrale è la “pienezza del tempo” (Gal 4,4), il tempo in cui si è incarnato il Figlio di Dio, nascendo da una donna per fare degli uomini dei veri “figli di Dio”. Proprio per questo motivo, il tempo di Dio non ammette perdite di tempo; la salvezza è un fatto urgente, che non accetta deroghe e non consente all’uomo di tergiversare, prendendosi del tempo per ragionare troppo sul proprio destino. Il “treno di Dio” passa assai spesso una volta sola (“ora… subito”) e non concede soste alternative, costringendo l’uomo a compiere senza indugi le proprie scelte di vita. Il tradimento di Giuda avvisa Gesù che è ormai giunta l’ora della sua gloria, l’ora della croce ed egli non si sottrae alla volontà salvifica del Padre. Proprio per questo, infatti, Egli è nato facendosi uomo nel grembo di una vergine.
Il tema della gloria (gr. dòxa) diventa incalzante e l’evangelista l’elabora quasi in forma poetica:
1.Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato
2.e anche Dio è stato glorificato in lui.
3.Se Dio è stato glorificato in lui,
4.anche Dio lo glorificherà da parte sua
5.e lo glorificherà subito.
La gloria, che compete a Dio ed al Figlio suo, ha dei connotati assai differenti da quelli con cui vuole caratterizzarla l’uomo. La gloria umana non prevede né sofferenza né rinuncia e, spesso, si accontenta dell’adulazione altrui; la gloria di Dio e del suo Cristo conosce, invece, la tragica sofferenza della croce, mediante la quale il Padre ed il Figlio si rendono reciprocamente gloria (e testimonianza). Cristo celebra il suo trionfo sulla croce, glorificando il Padre e Dio celebra il trionfo del Figlio accogliendolo con Sé nella gloria del cielo. Un orribile strumento di tortura e di morte diventa, nei piani insondabili di Dio, lo strumento di gloria e di esaltazione per eccellenza, poiché è la morte stessa, male supremo dell’essere umano e simbolo del peccato, ad essere sconfitta definitivamente dalla croce di Cristo Dio. L’evangelista interpreta la vicenda umana del Figlio di Dio come un misterioso intreccio di sofferenza e di trionfo, di umana debolezza e di potenza divina, di apparente sconfitta e di effettiva vittoria della somma Luce sulle perfide Tenebre. La croce su cui muore Gesù diventa il trono della sua gloria e la sua morte coincide col suo immediato trionfo: “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (19,37; Zc 12,10). Se la croce rappresenta il culmine della sofferenza e della gloria di Cristo, la sua resurrezione costituisce l’inevitabile sigillo del suo trionfo presso gli uomini e presso il Padre celeste.

33 Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io, voi non potete venire.
Gesù comunica ai suoi fedeli discepoli il fatto dell’imminente e dolorosa separazione e si rivolge loro chiamandoli affettuosamente “figlioli”. L’amorevole delicatezza con cui Gesù si rivolge ai suoi addolcisce, in qualche modo, il contraccolpo provato dai discepoli al momento della dipartita del loro amato Maestro. Solo l’esperienza gioiosa della resurrezione di Gesù getterà una luce nuova sulle parole pronunciate da Gesù durante la cena d’addio, così cariche di pàthos e, al tempo stesso, così incomprensibili per i discepoli, che interpretano il discorso di Gesù come annuncio di un distacco definitivo e di un abbandono senza ripensamenti. Mi cercherete… dove vado io, voi non potete venire. Le stesse parole erano state pronunciate da Gesù ai giudei (7,33s), provocando in loro un inevitabile equivoco, ma anche Pietro (13,36) dimostrerà di non essere da meno in fatto di comprendonio, perché la sua capacità di comprensione non è ancora illuminata da una fede piena e sostenuta dall’azione dello Spirito Paraclito (14,26), incaricato da Gesù a far capire ai discepoli ed ai futuri cristiani il vero senso del progetto divino della salvezza. Prima di tornare alla destra del Padre, riappropriandosi della dignità divina che gli compete di diritto in virtù della sua provenienza da Dio, Gesù deve affrontare l’ora tragica e sublime della sofferenza e della morte in croce. Da un punto di vista cronometrico, il tempo della passione di Gesù dura solo poche, ma da un punto di vista teologico, l’ora della salvezza si dilata oltre i confini temporali della storia ed abbraccia l’intero universo, passato, presente e futuro.
Mi cercherete. La ricerca di Gesù non è esclusiva prerogativa dei discepoli, che si interrogheranno a breve sulla tragica sorte subita dal loro amato rabbì, ma è propria di ogni uomo di buona volontà, che non si limita a vivere il suo presente come se fosse un valore assoluto, ma va alla continua ricerca dell’Unico trascendente capace di dare un senso compiuto all’esistenza umana, diventando per ciò stesso un “amato dal Signore” (cf. Lc 2,14).
Dove vado io, voi non potete venire. Per poter contemplare il Volto di Dio, l’uomo deve prima essere redento da Cristo e deve provare una sete ardente della salvezza. Chi presume di salvarsi senza Cristo, non potrà mai godere della visione beatifica di Dio perché Gesù è l’unica via per giungere al Padre. L’auto-redenzione non è scritta nel pur complesso DNA dell’essere umano.

34 Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35 Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.
Molti autorevoli commentatori hanno ritenuto che il “comandamento dell’amore”, tipica espressione del pensiero teologico di Giovanni, come si evince dal contenuto della prima delle tre Lettere a lui attribuite, sia stato inserito un po’ arbitrariamente nel contesto narrativo attuale dal redattore finale del IV Vangelo, interrompendo il filo logico del racconto, tanto è vero che al v. 36 (ragionevolmente accostabile ai vv. 33-34) Pietro chiede a Gesù dove avrebbe intenzione di andarsene, sorvolando clamorosamente su un precetto di enorme rilevanza sul piano emotivo, religioso, sociale, psicologico e culturale per ogni credente cristiano di qualsiasi epoca. Limitandoci alla lettura sincronica del testo e trascurando forzatamente le questioni relative al suo sviluppo diacronico, il “comandamento dell’amore” ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio testamento, che Gesù ha lasciato ai suoi prima di morire.
Dal punto di vista letterario, i due versetti formano un’unità che è chiusa in se stessa. In modo sobrio, ma solenne, Gesù definisce “nuovo” il suo comandamento, che è molto di più di una semplice raccomandazione rivolta ai suoi seguaci. Il comandamento, infatti, implica un obbligo moralmente impegnativo per tutti coloro che sono, o presumono di essere, cristiani; la formulazione del comandamento avviene in due riprese, che ne definiscono la natura e ne precisano gli effetti. Gesù vuole che i suoi discepoli si amino reciprocamente (“gli uni gli altri”) con la stessa forza e perseveranza con cui Egli li ha amati, nonostante i loro difetti e le loro manchevolezze d’amore, emerse a più riprese durante i tre anni di convivenza (cf. Mt 18,1-5 pp., circa la disputa sorta fra i discepoli su chi fosse il più grande tra loro ed il più meritevole di sedere ai lati di Gesù, una volta che il suo Regno si fosse affermato in Israele e nel mondo intero). L’amore tra tutti i discepoli di Gesù, passati, presenti e futuri, deve attingere a piene mani all’infinito amore scaturito dal suo cuore divino ed umano, senza accontentarsi di una caricatura di imitazione. Non ci si può amare reciprocamente, allo stesso modo con cui Gesù ci ha amati, se non si è assistiti dallo Spirito Santo, grazie al quale l’amore del Figlio per i suoi discepoli genera in loro il movimento dell’amore: è l’amore di Cristo che passa nei suoi discepoli, quando essi amano i fratelli e ne sono riamati. Nei capitoli 15 e 17 del IV Vangelo scopriremo che nell’amore di Gesù, che sboccia nei credenti, si rivela l’amore stesso di Dio Padre. L’amore di Gesù per i suoi è il fondamento e la fonte del reciproco amore tra i discepoli e, con tutta evidenza, Gesù ne fa oggetto di un comandamento “estremo”, poiché il suo amore per loro coincide col dono della propria vita. Ne consegue che la carità (agàpe) fraterna dei credenti è un modo di esistere in unione con Gesù, che talvolta può esigere anche il supremo sacrificio della propria vita: “nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (15,13). In fondo, è proprio questo il significato della lavanda dei piedi.
È poi davvero così “nuovo” il comandamento dell’amore, lasciato da Gesù ai suoi discepoli come testamento prima di morire? Il vocabolo stesso “comandamento” (entolé) rimanda all’alleanza stipulata tra Dio ed il suo popolo sul monte Sinai, sicché il comandamento di Gesù non può che fare riferimento alla Sacra Scrittura, laddove si ordina di amare il proprio prossimo (Lv 19,18), ma la vera “novità” proclamata da Gesù consiste nella natura dell’amore che i discepoli devono avere gli uni per gli altri e che s’identifica con l’amore di Gesù medesimo, resosi manifesto in loro. Attraverso i suoi discepoli, infatti, Gesù può rivelare a tutti gli uomini che nel mondo è ormai presente l’Amore di Dio Uni-Trino, il quale “rinnova il cuore degli uomini” (Ez 11,19) rendendoli partecipi del suo amore infinito e non circoscrivibile da alcun tipo di legge umana. Se la comunità dei discepoli di Gesù (la Chiesa) saprà testimoniare la presenza dell’Amore di Dio tra gli uomini mediante un amore vicendevole, anche coloro che non credono in Dio e nel suo Cristo dovranno rendersi conto della diversità dei cristiani, riconoscendoli come “appartenenti a Cristo”, che è l’amore di Dio incarnato: “tutti sapranno che siete miei discepoli”.

36 Simon Pietro gli dice: “Signore, dove vai?”. Gli rispose Gesù: “Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi”. 37 Pietro disse: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!”. 38 Rispose Gesù: “Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte”.
A nome di tutti i discepoli, rimasti evidentemente interdetti dalle parole del Maestro, Pietro interrompe il monologo di Gesù e gli rivolge la domanda che tutti stavano pensando e che nessuno aveva il coraggio di esprimere a voce alta: Signore, dove vai? In queste poche e semplici parole sono racchiusi i profondi sentimenti di affetto, premuroso e devoto, nei confronti di Gesù e di trepida preoccupazione per una sua improvvisa ed imprevista perdita. Anche i Giudei avevano rivolto a Gesù la medesima domanda, ma con ben altre preoccupazioni: forse che l’odiato rabbì galileo aveva intenzione di togliere il disturbo e recarsi tra i greci (7,35)? O, meglio ancora, aveva forse intenzione di suicidarsi (8,22)? Pietro reagisce in modo impulsivo all’annuncio di Gesù e dimostra, ancora una volta, di non saper comprendere appieno il significato delle sue parole, fraintendendole come in occasione della lavanda dei piedi. Il clima di ostilità, che le autorità giudaiche avevano creato ad arte nei confronti di Gesù, era palpabile e perfino i discepoli ne erano consapevoli, tanto da percepire il pericolo di un attentato alla vita del loro Maestro (cf. 11,16), sicché appare quanto mai fuor di luogo l’ottusità di Pietro, a meno che non rappresenti un artificio letterario, messo in atto dall’evangelista, per dar modo a Gesù di chiarire ulteriormente il suo pensiero, preannunciando anche il rinnegamento di Pietro ed il suo futuro martirio.
Dove io vado per ora non puoi seguirmi. Il verbo “seguire” ha un duplice significato, materiale e spirituale. Pietro non può “materialmente” seguire Gesù nel martirio, perché questa è l’ora del Cristo, non ancora quella del suo discepolo; a tempo debito, anche Pietro dovrà affrontare la propria “ora”, rendendo testimonianza al suo Signore e Dio (21,28) mediante l’effusione del proprio sangue. In secondo luogo, per poter “seguire” Cristo come suoi veri discepoli, è necessario che prima si compia il “passaggio pasquale” del Figlio di Dio, che grazie alla propria passione, morte e resurrezione rende possibile la comunione dei suoi discepoli con Dio Padre, in virtù di una fede piena ed illuminata nel Risorto.
Mi seguirai più tardi. Pietro deve avere pazienza. Anche per lui arriverà, a tempo debito, il momento dell’accettazione del martirio, necessario per vivere eternamente la comunione di Gesù col Padre. Chi vuole servire Gesù (12,26) e diventare suo perfetto discepolo, deve rinunciare alla propria volontà, ascoltare la parola di Gesù (13,36) e lasciarsi guidare anche dove non vuole (21,18). Solo il passaggio di Gesù al Padre permette al discepolo di raggiungere lo stesso scopo e solo Gesù, che per primo è passato al Padre vincendo l’annientamento della morte, implicita negazione della “vita”, rappresenta l’unica via (14,6) per raggiungere l’Autore della vita. L’entusiasmo ed il profondo affetto per Gesù rendono Pietro impaziente ed incauto, inducendolo a minimizzare la propria umana debolezza: “Perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!”. Secondo un vecchio adagio, l’inferno è lastricato di rette intenzioni e di buoni propositi, che sono andati letteralmente in fumo. Pietro non si rende nemmeno conto dell’orribile fine che incombe sull’amato Maestro e non sa con quanto timore Egli stia preparandosi al doloroso appuntamento col Golgotha. Il supplizio della croce era così spaventosamente crudele, che i romani evitavano di infliggerlo a quanti erano in possesso della cittadinanza romana, ma lo applicavano assai generosamente a chi apparteneva ad altra etnìa, specie per punire gli schiavi che tentavano di sfuggire alla loro misera sorte con la fuga o che si rendevano colpevoli di furto e di assassinio, in particolare se perpetrati a danno dei loro padroni, oppure per condannare quanti si ribellavano all’autorità di Roma ricorrendo al tradimento o fomentando rivolte armate. Va da sé che l’interpretazione delle norme del codice penale, in tema di delitto di “lesa maestà”, era a discrezione del magistrato romano, come dimostrerà a breve Ponzio Pilato quando dovrà occuparsi del “caso Gesù”. Almeno a parole, Pietro si dichiara pronto a dare la propria vita per Gesù, ma i fatti dimostreranno proprio l’esatto contrario. Gesù, che conosce intimamente il suo discepolo, sa bene che anche Pietro dovrà sperimentare la sconvolgente paura della morte e che, almeno per quella volta, se la darà a gambe anche a costo di rinnegare il Maestro, pur di salvare la propria vita. Il triplice canto di un gallo accompagnerà, per il resto dei suoi giorni, il rimorso del pur generoso capo degli apostoli. Il discorso d’addio entra ora nel vivo. Lasciato Pietro ai suoi dubbi e ad una comprensibile delusione per le ultime parole ascoltate dal Maestro, così cariche di mistero e di severo rimprovero (“non canterà il gallo, prima che tu m’abbia rinnegato tre volte”), Gesù si rivolge nuovamente a tutto il gruppo dei discepoli, invitandoli a credere (14,1) e chiarendo il motivo del diniego, fatto a Pietro, di una sequela immediata (14,2-3). Un dialogo serrato coi discepoli, Tommaso e Filippo in particolare, consente a Gesù di indicare se stesso come la via obbligatoria per raggiungere Dio, finendo per identificare se stesso col Padre (14,4-10). Un nuovo invito a credere in Lui (14,11) conclude la prima parte del capitolo 14 del IV Vangelo, centrata sulla fede in Dio e nel suo Cristo.
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07/01/2012 23:00
 
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14,1 “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2 Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; 3 quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. 4 E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.
Evidentemente, l’annuncio del tradimento di Giuda, del rinnegamento di Pietro e della partenza imminente di Gesù ha turbato, e non poco, gli apostoli. Gesù cerca di rincuorarli e, per prima cosa, li invita a credere in Dio ed in Lui, sapendo che la loro fede è messa in pericolo dallo scandalo della croce. Il turbamento dei discepoli, sembra di capire, non è causato solo dall’imprevista separazione da colui che si è rivelato necessario alla loro esistenza, ma anche dalla profonda delusione circa il valore ed il risultato fallimentare dell’impresa di Gesù, del cui successo erano tutti convinti, tanto da discutere tra di loro per la spartizione dei posti nell’ambito del glorioso regno messianico, di cui Gesù sarebbe stato il Capo indiscusso in un futuro ormai prossimo (cf. Mt 20,20-23). Per questo motivo Gesù si preoccupa del turbamento del loro cuore, che secondo la mentalità semitica è sede dei sentimenti, ma anche della volontà e della forza decisionale. Un cuore turbato può spingere un uomo oltre l’orlo del precipizio del nulla esistenziale. Da qui giunge ai discepoli un chiaro invito a credere secondo l’accezione biblica di questo verbo, che significa “costruire fermamente su.., appoggiarsi con forza su qualcosa o su qualcuno” (cf. Sal 18 [17] 2-4), il che equivale ad un fidarsi ad occhi chiusi di Colui che tutto può e che non è condizionato da nulla e da nessuno1. In altre parole, Gesù fa appello alla fede di ogni pio ebreo, che non considera mai se stesso come realtà personale autonoma ed indipendente da Dio, il quale è l’unico in grado di dare alle sue creature la stabilità psicologica e morale paragonabile alla forza, alla saldezza ed al “peso” di una roccia. Colpisce, nell’invito di Gesù, l’identificazione di se stesso con Dio: chi vuole avere fiducia in Dio, deve aver fiducia, necessariamente, anche in Gesù. Pur non potendo seguirlo nell’esperienza mortale della croce e nell’oltretomba, i discepoli devono fidarsi della sua “invisibile” presenza, che Egli garantisce al fianco di ogni suo discepolo sino alla consumazione del tempo (cf. anche Mt 28,20) . Appoggiarsi su Gesù equivale a sostenersi su Dio stesso, perché Gesù e Dio sono “una cosa sola” (17,22).
Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Su questa frase si sono sbizzarriti molti esegeti del passato, come i Padri della Chiesa (Ireneo, Origene, Clemente di Alessandria d’Egitto, Agostino), ma anche quelli a noi contemporanei. L’idea di una patria celeste, nella quale trovano dimora le anime dei giusti, non era del tutto nuova all’epoca in cui fu composto il Vangelo giovanneo, sia nell’ambito della letteratura religiosa ebraica e sia in testi non giudaici, specie di matrice gnostica. Seguendo l’interpretazione datane da s. Ireneo di Lione (cf. Adversus Haereses 5,36,2) i Padri della Chiesa hanno spesso ravvisato in questi “molti posti” o “dimore” (gr. monài) dei differenti gradi di beatitudine, corrispondenti ai rispettivi meriti delle anime degli eletti, concordando con l’opinione espressa dai rabbini ebrei (cf. Midrash sui Salmi 11,6), secondo i quali vi sono in paradiso sette classi di eletti. A tali dimore si accede al momento del decesso individuale (secondo l’opinione di Origene e di Clemente di Alessandria), oppure in occasione della resurrezione universale dei morti (come asserisce s. Agostino; cf. In Joannem, 68,2), ma tali opinioni non sono giustificate dal pensiero teologico dell’autore del IV vangelo, secondo cui l’aggettivo “molti” esprime l’abbondanza della salvezza divina, non un differente grado di salvezza. La “cosificazione” delle realtà spirituali appartiene più alla mentalità materialista degli uomini, che hanno bisogno di misurare tutto per costruirsi delle certezze e di crearsi dei punti di riferimento precisi per il timore di perdersi in un terreno sconosciuto ed incommensurabile, come quello rappresentato dal mondo extrasensibile, soprannaturale, ma Dio non ha bisogno di ricorrere alle metodologie umane per donare a tutti il suo amore salvifico. Basti ricordare la parabola degli operai mandati nella vigna (Mt 20,1-16), raccontata da Gesù per far comprendere ai suoi ascoltatori che i metodi usati da Dio sono assai differenti, se non addirittura contrari, rispetto al modo di agire degli uomini. I salvati della prima e dell’ultima ora ricevono la salvezza allo stesso modo e senza distinzioni, a dimostrazione che per Dio non esistono figli e figliastri e che tutti gli uomini sono invitati alla medesima mensa, senza che alcuno presuma di accomodarsi ai primi posti (cf. Lc 14,7-11), sentendosi migliore degli altri.
Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. Con questa punteggiatura, la frase ha un senso ambiguo e la traduzione del testo greco risulta insoddisfacente. Alcuni autori propongono una traduzione in forma interrogativa: se no, vi avrei forse detto che vado a prepararvi un posto? Con una differente punteggiatura, la frase acquista un senso più comprensibile ed aderente al testo. Gesù si allontana da questo mondo, non per perdersi nelle oscurità dello sheòl, l’oltretomba ebraico, ma per preparare un posto, accanto al Padre celeste, per quanti sono disposti a credere in Lui, l’Inviato di Dio. Per questo motivo Gesù ha premesso che nella “casa del Padre… vi sono molti posti”, pronti per essere occupati da chi ne sarà degno, non tanto per meriti personali ma per la fede espressa, vissuta e testimoniata nell’unigenito Figlio di Dio. Come conseguenza di questa premessa, si comprende meglio l’invito, rivolto da Gesù ai suoi discepoli, di non turbarsi per la sua imminente dipartita da questo mondo, che essi non devono interpretare come un “addio”, ma come un vero e proprio “arrivederci” in un mondo “altro”, assai differente da “questo mondo”, che è dominato dalle tenebre del male e del rifiuto di Dio e del suo Cristo. È questo il senso logico della frase successiva: “quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”, ossia “alla destra del Padre” (cf. Mt 26,64; At 2,33; Sal 110,1; Dn 7,13), pienamente immersi nell’eterna beatitudine di Dio. La tradizione comune, risalente agli albori del cristianesimo, fissa questo ritorno di Gesù alla fine dei tempi (cf. 1Ts 4,16s; 1Cor 4,5; 11,26; 16,22; Ap 22,17.20; 1Gv 2,28), ma l’evangelista non sembra essere di questo parere; le affermazioni, fatte da Gesù poco dopo (14,18-19), sembrano avvalorare la personale convinzione di Giovanni che il “ritorno” del Signore debba coincidere con la sua “presenza” nell’oggi della comunità post-pasquale. Nella Chiesa delle origini era assai viva l’attesa del ritorno (parusìa) imminente del Signore, evento di cui s. Paolo sembrava essere personalmente convinto, tanto da esprimersi in tal senso scrivendone alla comunità cristiana di Tessalonica circa 20 anni dopo la morte e resurrezione di Gesù, nell’inverno tra il 50 ed il 51 dell’era cristiana (1Ts 4,16-17), ma l’apostolo Giovanni aveva preparato la sua comunità a non quantificare il tempo del ritorno del Signore, bensì a considerarlo presente tra i suoi in senso spirituale, ma non per questo in modo meno reale, proprio in virtù della sua gloriosa resurrezione. Il ritorno di Cristo ha, quindi, un valore meta-temporale ed è subordinato ad un ufficio da lui compiuto, senza che l’uomo possa vantarne alcun diritto, ma di cui gode un grande beneficio: Egli è andato a “preparare un posto” per i suoi fedeli discepoli. Occorre precisare, per inciso, che nella versione greca della Bibbia il vocabolo “posto” (tòpos) indica spesso il Tempio di Gerusalemme (cf. 1Re 8,10; 2Mac 2,8.18; 3,2; Gv 11,48; At 6,13), dal che si potrebbe arguire che l’evangelista abbia voluto lasciare intendere che Gesù Cristo sia il vero ed unico Santuario in cui è possibile incontrarsi con Dio. Una volta preparato il posto per i suoi, Gesù “ritornerà” e li “condurrà” presso di Sé, dunque presso Dio. Ne consegue che l’accesso dei discepoli al Padre è possibile solo per merito ed opera del Figlio ed a nessun essere umano è possibile salvarsi da solo o facendo, comunque, a meno di Cristo, il quale già si trova presso il Padre in forza dell’unione intima ed indissolubile con Colui che l’ha mandato (“perché siate anche voi dove sono io”).
E del luogo dove io vado, voi conoscete la via. È curioso notare l’accostamento tra il verbo di stato del v. 3 (“dove sono io”) ed il verbo d’azione del v. 4 (“dove io vado”), entrambi espressi al presente. Il primo verbo esprime una realtà sovratemporale, nella quale Gesù è già inserito in forza della sua natura divina, mentre il secondo esprime l’attualità storica di un evento che è ancora in corso di sviluppo, ma intimamente collegato alla situazione di pre-esistenza divina, manifestata dall’espressione “dove sono io”. In Gesù Cristo il tempo materiale s’incontra e si dissolve nel “tempo senza tempo” dell’eternità, tanto da far esclamare all’autore ispirato che “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8).
Dove io vado. Ai vv. 2 e 3 il verbo “andare” viene espresso in greco con un termine dal significato generico (poréuomai), mentre nel v. 4 l’evangelista usa un verbo analogo, ma con un significato più specifico (hypàgo), che esprime meglio sia la méta cui tende Gesù (alla destra del Padre), sia l’invito rivolto ai discepoli a seguirlo (facendosi suoi imitatori, credendo in Lui) ed a percorrere una via a loro ben nota, per recarsi dove Egli stesso sta andando. Se i discepoli sapessero ricordare le parole di Gesù e riflettere sul loro significato, non avrebbero bisogno di chiedere ulteriori spiegazioni. Infatti, nella parabola del “Buon Pastore” Gesù ha già chiarito che chi vuole accedere al Padre deve entrare attraverso la “porta dell’ovile”, che è Lui stesso (cf. 10,9) e che non c’è altra via di salvezza. Voi conoscete la via. L’immagine della via è universale ed esprime l’orientamento di un’esistenza oppure una scelta decisiva da compiere. La Bibbia suggerisce l’esistenza di due vie (Ger 21,8; Dt 30,15.19; Mt 7,14), di cui una conduce alla morte esistenziale, mentre l’altra conduce alla vita. Consapevole della distanza abissale che separa la creatura dal suo Creatore, il popolo eletto aveva osato credere che Dio gli avesse manifestato le sue vie per illuminarne le scelte di vita individuale e collettiva, al fine di ereditare la Promessa di un personalissimo ed esclusivo vincolo di alleanza. Era ferma convinzione degli ebrei che la Legge, donata da Dio a Mosè sul monte Sinai, indicasse in modo eccellente la via per conseguire una vita di intima relazione, quasi sponsale, col suo Dio. Il Salmo 119 [118], che esprime un significativo “elogio della Legge divina” e che si presenta come il capitolo più lungo dell’intero testo sacro, celebra in modo entusiastico la “via che conduce a Dio” grazie alla fedele e rispettosa osservanza dei comandamenti, di cui si sprecano i sinonimi: precetti, decreti, comandi, parole, leggi, voleri, giudizi, insegnamenti, vie, diritto e giustizia, parole di giustizia, alleanza, promesse, testimonianze. Chi recita con attenzione e sentimento il Salmo 119 si accorge del ritmo incalzante, quasi ossessivo, con cui l’autore ispirato ha inteso far penetrare nel cuore degli ebrei l’amore per la Legge divina e l’ansioso desiderio di rispettarla anche a costo della propria vita. In Gesù Cristo, la Legge di Dio si è resa visibile agli uomini, avendo assunto “forma umana” (1,14) ed ha pienamente illuminato le loro coscienze, per sottrarli al dominio delle tenebre dell’ignoranza e del male e per condurli alla luce della vita (8,12).

5 Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. 6 Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 7 Se conoscete me, conoscerete anche il Padre; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”. 8 Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. 9 Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? 10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non le dico da me; ma il Padre che è in me compie le sue opere. 11 Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.
A nome di tutti, l’apostolo Tommaso, un uomo molto concreto e poco incline alle riflessioni di carattere speculativo (cf. anche 20,24-25), fa un’osservazione, a prima vista, del tutto ragionevole e coinvolge anche Filippo nella sua perplessità. Com’è possibile conoscere la via indicata da Gesù se non si sa neppure dove Egli stia andando? L’ignoranza di Tommaso, come pure quella degli altri discepoli, che tacciono ma, evidentemente, acconsentono, potrebbe essere semplicemente un artificio letterario, che l’evangelista ha utilizzato per sviluppare ulteriormente la rivelazione di Gesù, ma non sarebbe fuor di luogo supporre che i discepoli siano talmente duri di comprendonio, da non capire che Gesù sta, poco velatamente, parlando della propria morte imminente come evento inevitabile per poter accedere alla salvezza ed alla “conoscenza del Padre”. La risposta di Gesù è immediata ed assume il carattere solenne di una vera e propria auto-rivelazione divina: “Io Sono la via, la verità e la vita”.
Questa frase di auto-rivelazione è una delle più affascinanti tra quelle incontrate in tutti i Vangeli. Gesù è l’unica via che conduce al Padre perchè è il rivelatore del Padre (12,45; 14,9), ci fa conoscere la via per giungere al Padre (At 9,2), è Lui stesso l’unico accesso al Padre (1,18; 14,4-7), viene dal Padre e va al Padre (7,29.33; 13,3; 16,28) e, tuttavia, è tutt’uno con Lui (10,30; 12,45; 14,9; 17,22). L’accostamento della via alla verità (cf. 8,32) ed alla vita (cf. 3,15) offre lo spunto per tre differenti interpretazioni della formula di auto-rivelazione:
1.“Io sono la via che conduce alla verità ed alla vita”; la verità rappresenterebbe lo scopo da raggiungere in quanto correlata alla stessa essenza divina, che l’uomo può ottenere per condivisione in virtù di un’adozione da parte di Dio (cf. Gal 4,5), il quale ha donato suo Figlio come riscatto (ga’al) per liberare l’uomo dalla schiavitù del Maligno (cf. Rm3,24; 1Gv 2,2;4,10). Detta con parole più semplici, Gesù è la via che conduce l’uomo a Dio, il quale è , in assoluto, “la Verità e la Vita”.
2.“Io sono la via che attraverso la verità conduce alla vita”; tale interpretazione conserva, come la precedente, una progressione verso una méta, rappresentata dalla vita. La verità, identificata con la divina rivelazione rivolta agli uomini, è il mezzo per raggiungere la vita, di cui Dio è la fonte e la pienezza assoluta (cf. 5,26).
3.“Io sono la via perché sono la verità ed anche la vita”; secondo questa interpretazione, i predicati “verità” e “vita” hanno un valore esplicativo, in quanto spiegano perché Gesù è la via verso il Padre. In altre parole, “Gesù è la via perché rivela la verità che dona la vita”, ma questa interpretazione ha il difetto di ridurre il valore assoluto dei termini “verità” e “ vita”, che Gesù applica a Se stesso con la formula “IO SONO”.
Si può concludere, seguendo la logica del pensiero teologico dell’evangelista Giovanni, che la vita coincide con la conoscenza dell’unica verità assoluta, che è Dio, il quale ha mandato nel mondo il suo inviato, Gesù Cristo (17,3), per illuminare gli uomini con la sua Parola (17,7) incarnata (1,14.17); Gesù Cristo è la Parola veritiera e verace del Dio vivente (1,1) ed è l’unica via per raggiungere Dio, pienezza di Vita e di Verità. Poiché Dio Padre ed il Figlio suo, Gesù Cristo, sono “una cosa sola” (17,21), la conseguenza appare ovvia: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Gesù è, in definitiva, l’unico “cammino” verso il Padre, l’unica “porta” attraverso cui è necessario passare per entrare nel Regno di Dio (10,9), l’unico “luogo” (o Tempio) in cui possibile incontrare Dio stesso (2,21) per vivere con Lui la definitiva Alleanza.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Ci si aspetterebbe una locuzione differente: “nessuno va al Padre se non…”, ma Gesù dichiara proprio che “nessuno viene al Padre”, quasi a voler indicare che Egli già si trova proprio dove il discepolo vuole arrivare, vale a dire “presso Dio” perché Gesù è Dio (1,1). Per l’evangelista, Gesù non poteva essere più esplicito di così nell’affermare la propria natura divina, ma quegli uomini “sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti” (Lc 24,25), dovranno sentirsi ripetere da Gesù altre volte ancora che Egli è veramente Dio (cf. 14,7.11.23; 16,15.27-28; 17,5.11.20.22.24) e che in Lui si “vede il Padre” (14,9). La fuga dei discepoli, al momento della cattura del loro Maestro, dimostrerà quanto sia stato per loro difficile credere, fino in fondo, alle sue parole.
Se conoscete me, conoscerete anche il Padre; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto. In Gesù Cristo, il Dio invisibile ed inconoscibile della tradizione religiosa ebraica (cf. Is 45,15) si è fatto, nella sua volontà di salvare gli uomini, così visibile e conoscibile, che essi possono raggiungere la meta della loro conoscenza solo se accolgono con fede la verità svelata loro in Gesù Cristo, partecipando in pienezza alla sua vita. L’essenza della teologia giovannea è racchiusa in questa fondamentale nozione di identità, non di Persona ma di sostanza, tra Gesù e YHWH, il Dio assolutamente trascendente del popolo ebraico. Questo versetto, a giudizio degli esegeti più autorevoli, riformula in senso positivo l’affermazione del versetto precedente, che pone l’accento sul Mediatore: nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Il v. 7, invece, sposta l’attenzione sul Padre, di cui però il Mediatore, Gesù di Nazareth, è il vero Volto umano, che tutti possono vedere, toccare, venerare, accarezzare e, purtroppo, anche colpire ed oltraggiare. La diretta conoscenza di Dio, “Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili”, come recita il Simbolo niceno-costantinopolitano (381 d.C.), è già possibile “ora”, nell’attualità del tempo storico, se si accetta di credere che Gesù è l’auto-rivelazione di Dio agli uomini. L’uomo biblico, “assetato del Dio vivente” ed ansioso di “vedere il suo Volto” santo e misericordioso (Sal 42 [41], 3), è stato accontentato; chi accoglie Gesù nella fede, fa esperienza vitale, intima e profonda di Dio, superando il limite, altrimenti invalicabile, di una conoscenza puramente intellettuale, speculativa, tipica dei filosofi e di quanti non sanno o non si decidono a compiere il passo decisivo della fede. Le parole di Gesù, infatti, urtano la suscettibilità di chi non crede in un Assoluto trascendente, che non è sperimentabile con metodi scientifici, ma urta anche la sensibilità di chi crede fermamente nell’assoluta trascendenza, invisibilità, santità e non-sperimentabilità di Dio; tuttavia, Gesù non lascia alternative ed afferma esplicitamente che l’unico mezzo per “vedere” Dio, facendone direttamente conoscenza, è “vedere” Gesù, vale a dire “credere in Lui”.
Signore, mostraci il Padre e ci basta. Filippo e Tommaso sono due ossi duri anche per la pazienza di Gesù che, ad ogni buon conto, non si scompone neppure questa volta di fronte all’ennesima manifestazione di razionale ottusità dei suoi discepoli, ma cerca di spiegarsi ancora meglio, se mai fosse possibile usare un linguaggio più accessibile per quelle menti poco disposte ad aprirsi al mistero del Figlio di Dio. Filippo si “accontenterebbe” di vedere il Padre, per ritenersi soddisfatto; Gesù sta andando troppo per le lunghe, a suo parere ed il fedele discepolo, che non ha mai mancato di manifestare il suo entusiasmo per il Maestro (cf. 1,43-47; 12,21), esprime il disagio di tutti. Mostraci il Padre e ci basta. Per bocca di Filippo, tutti i discepoli chiedono una diretta rivelazione di YHWH allo stesso modo in cui l’aveva sollecitata Mosè sul monte Sinai (Es 33,18), dimostrando ancora una volta di non aver compreso che Gesù non è un mediatore qualunque, deputato a parlare per conto di qualcun altro, ma che è il Cristo in persona, in cui umanità e divinità sono perfettamente unite per rendere possibile la riconciliazione degli uomini con Dio.
Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Filippo si merita il rimprovero di Gesù, che costata come i discepoli, da Lui scelti per essere testimoni delle sue opere (miracoli) e delle sue parole, non siano stati capaci di comprendere che nel loro rabbì aveva parlato ed agito Dio stesso, resosi “visibile” ai loro occhi proprio nella persona del suo Cristo. Chi ha visto me ha visto il Padre. Questa dichiarazione di assoluta identità col Dio unico, invisibile ed innominabile d’Israele rende ancora più sconcertante e “scandalosa” la figura di Gesù agli occhi di coloro che non sanno staccarsi dalla concretezza della loro razionalità e non si fidano delle parole di un uomo vissuto in Palestina all’epoca di Tiberio Cesare, imperatore di Roma. Le parole di Gesù suonano come ammonimento a quanti cercano, in ogni tempo, esperienze visionarie di Dio, un’unione diretta con Dio trascurando l’elemento più importante della relazione d’amore con Lui: la fede nel Figlio suo, il Mediatore assoluto del rapporto di conoscenza esistenziale tra gli uomini e Dio Padre.
Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Per il credente è cosa certa che Gesù è nel Padre e che il Padre è in Gesù. Questa formula di reciproca immanenza è un modo per esprimere la perfetta unità di Gesù col Padre, naturalmente solo invisibile in quanto risulta impossibile qualsiasi analogia. Solo chi crede in Gesù può conoscere la profondità nascosta del suo essere, vale a dire la totale unione col Padre, a motivo della quale Egli è interamente “nel Padre”. In modo altrettanto reciproco, “il Padre è nel Figlio” ed attraverso Lui si rivela ed esprime, facendosi “conoscere” per quello che è: Dio Padre. Le parole di Gesù sono, in definitiva, le parole del Padre (cf. 8,26; 12,46). Solo la fede consente di discernere la presenza immanente del Figlio nel Padre e quella del Padre nel Figlio, ma Filippo cade nell’umanissimo errore di sollecitare una strepitosa manifestazione del Padre. Ai discepoli, evidentemente, non bastano i miracoli straordinari compiuti da Gesù e non riescono ad accettare l’idea che sia Dio stesso a realizzare prodigi per mano di suo Figlio e non si rendono nemmeno conto che le parole, pronunciate dal loro Maestro in pubblico od in privato, sono le stesse parole che Dio proferisce tramite Lui. Le parole che io vi dico, non le dico da me… il Padre che è in me compie le sue opere. In Gesù, la “parola” di Dio è annuncio di una salvezza diventata realtà attuale e storicamente presente (le “opere”), mentre i prodigi (altrimenti chiamati anche “segni, miracoli, opere”), che Egli compie per mezzo del Figlio, costituiscono una sorta di certificato di garanzia che la sua Parola è realmente “verità e vita” (14,6).
Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse. Gesù scongiura i suoi discepoli a credere in Lui ed alle parole che egli pronuncia, se non altro per i miracoli da Lui compiuti ad esclusivo e gratuito beneficio degli uomini (cf. anche 10,37-38). L’uomo è generalmente incline a fidarsi solo dei suoi sensi, coi quali può sperimentare la realtà concreta del mondo che lo circonda e trova una comprensibile difficoltà a fidarsi pienamente di un mondo soprannaturale, extrasensibile, che sfugge al suo naturale controllo sensoriale. Pur avendo la capacità di trascendere se stesso e la realtà materiale, l’uomo ha delle riserve mentali e psicologiche nel dare forma e sostanza alle sue intuizioni ed aspirazioni. Egli desidera la felicità, aspira ad una vita senza fine, sogna di essere onnisciente ed onnipotente ma, intimamente consapevole dei propri limiti fisici, creaturali, teme l’ignoto: “se non vedo…, non credo” (cf. 20,25). Gesù conosce intimamente i suoi discepoli, sa che sono pronti a seguirlo ma anche a tradirlo, a rinnegarlo o ad abbandonarlo al suo destino; tuttavia, Egli li sollecita ripetutamente ed amorevolmente a fidarsi di Lui senza riserve: se non altro, credetelo per le opere stesse. La fede è una scelta così poco scontata, che Gesù definirà “beati” coloro che decideranno di credere in Lui anche senza aver visto i prodigi da Lui compiuti durante la sua vita terrena (20,29).
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07/01/2012 23:02
 
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12 In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre. 13 Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. 14 Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò.
La fede in Gesù introduce il credente in una nuova dimensione esistenziale, il cui preludio è il ritorno di Gesù al Padre e la cui garanzia fondante è la reciproca immanenza tra Padre e Figlio. Intimamente unito a Cristo, dal quale viene inabitato, il credente si trova immerso nell’infinita profondità del mistero di Dio, di cui “compirà le opere” allo stesso modo in cui le ha compiute il Figlio. Per il credente, quindi, si apre uno scenario di gloria, di eternità e di potenza che gli può derivare solo dalla sua nuova condizione di “figlio nel Figlio”. La fede in Cristo è condizione indispensabile per l’agognata “divinizzazione dell’uomo”.
Nonostante la partenza di Gesù, o proprio a causa di essa, i discepoli potranno esercitare un’attività che Gesù non esita a definire come propria, perché Egli è il vero autore delle opere compiute dai suoi discepoli in ogni “oggi” storico e fino alla consumazione del tempo. Le opere, che i discepoli compiranno in perfetta unione con Cristo, non sono le medesime opere che Egli ha già compiuto durante la sua esperienza umana, ma quelle che Egli compirà in perfetta unione col Padre, a favore del mondo. Come il Padre ha agito ed agisce per mezzo del Figlio, così il Figlio agisce ed agirà per mezzo dei suoi discepoli compiendo “opere [ancora] più grandi” per la salvezza dell’umanità. Le “opere”, di cui parla Gesù, non sono necessariamente da interpretare come eventi miracolosi (quale miracolo può essere superiore alla guarigione di un uomo nato cieco o la resurrezione di un defunto, morto e sepolto?), che pure ogni tanto gli uomini possono compiere “nel nome e per conto di Cristo” (cf. Mc 16,17-20; At 3,1-10), quanto piuttosto la realizzazione escatologica del progetto salvifico di Dio, attraverso la diffusione in tutto il mondo del suo “Vangelo”, le cui finalità sono il raduno, nell’unità divina, di tutti i figli di Dio dispersi (11,52) e lo smascheramento finale del mondo incredulo (16,8-11). I miracoli, compiuti da Gesù durante la sua vita terrena, sono stati dei segni anticipatori e profetici della piena realizzazione del Regno di Dio, resa possibile solo con la sua elevazione sulla croce (12,32), il suo ritorno al Padre e l’opera dei suoi discepoli (14,12). Il compito dei discepoli di Cristo è di grandissima responsabilità, essendo stati prescelti sin dall’eternità per consentire, in unione con Gesù Signore, il vasto fluire delle forze vitali di Dio nel mondo degli uomini (17,2). Guai a quei discepoli che si opporranno alla realizzazione del progetto salvifico di Dio a favore dell’uomo: meglio sarebbe stato, per loro, non essere mai nati (Mt 26,24). Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. I discepoli sapranno compiere “opere più grandi” perché Gesù è, ora, presso il Padre ed ascolta le loro preghiere per esaudire ciò che essi chiedono. Ovviamente, i discepoli non devono limitarsi a chiedere la realizzazione di qualsivoglia desiderio egoistico, ma devono pregare incessantemente affinché si realizzi il Regno di Dio nel cuore, nella mente e nella volontà degli uomini: per questo, infatti, Dio si è fatto uomo (1,14) ed ha scelto di morire come un malfattore tra malfattori (Is 53,9.12; Lc 22,37), condividendo i guasti provocati da un’aperta ribellione dell’uomo all’amore salvifico di Dio. Nel piano misterioso e provvidente di Dio, i credenti diventano gli attori dell’opera divina della salvezza perché compiono le stesse opere di Gesù, il quale fa ciò che essi gli chiedono non per meriti propri, ma in forza del suo “Nome”, sicché le loro opere sono, a tutti gli effetti, le opere di Gesù Cristo, Dio e Salvatore degli uomini. Le preghiere dei credenti possono essere efficacemente esaudite se sono conformi alla volontà di Gesù, che ha agito in perfetta unione col Padre affinché “il Padre fosse glorificato nel Figlio” (14,13). In definitiva, il credente deve mirare allo stesso scopo: rendere gloria al Padre attraverso il Figlio, il quale rende gloria al Padre (17,4) compiendo le opere che il Padre gli ha dato (5,36;10,25.32) e ricevendone, in contraccambio, una testimonianza di gloria al cospetto di tutti gli uomini (12,28). In tal modo, si crea un circolo virtuoso che coinvolge Dio Padre, Gesù Cristo Figlio unigenito di Dio ed il credente, ma, in ultima analisi, è Dio Padre che, tanto in Gesù quanto nei discepoli, “compie le sue opere” (14,10). L’intero ragionamento giunge, così, alla sua logica conclusione. Ai discepoli, pertanto, viene promesso che, dopo il ritorno di Gesù al Padre ed a motivo di essa, parteciperanno addirittura al suo operare con il Padre e per il Padre. Secondo questa logica, non esiste alcun equivoco circa le richieste che, secondo la promessa, saranno esaudite; non si tratta di tutte le possibili richieste, ma soltanto di quelle relative ai compiti ed alle difficoltà dell’annuncio e corrispondenti alla volontà di Dio (1Gv 5,14). La preoccupazione di ogni credente in Dio deve concentrarsi sulla realizzazione del Regno di Dio; il resto gli sarà dato in aggiunta (Mt 6,33).
Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò. Nel versetto precedente (v. 13), l’invito a chiedere nel nome di Gesù ha un senso ancora generico e l’accento è posto sulla garanzia assoluta che qualunque cosa chiedano i discepoli, sarà soddisfatta da Gesù con lo scopo di rendere gloria al Padre. Ora, invece, è Gesù stesso al centro dell’attenzione, essendo colui che è pregato dai credenti e che esaudisce le loro preghiere. Il v. 14, pertanto, non è un’inutile ripetizione del v. 13, come vari autori hanno supposto, ma serve a precisare e ad accentuare la centralità salvifica di Gesù, che continua ad operare nel mondo per mezzo dei suoi discepoli, sino alla fine del tempo dell’uomo (Mt 28,20). Ancora una volta, l’evangelista distoglie i credenti dalle proprie umane preoccupazioni e dai propri egoistici interessi per orientare la loro attenzione sul senso ultimo di tutta la vicenda umana, che consiste in un libero e gratuito atto di redenzione donato da Dio agli uomini, alla loro storia ed al mondo in cui essi vivono (cf. Ef 1,10).

15 Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. 16 Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, 17 lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi. 18 Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. 19 Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20 In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. 21 Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui.
In linea di principio, Gesù afferma il diritto, che è proprio di Dio Padre e creatore, di essere amato ed obbedito. Si potrebbe commentare il v. 15 affermando, molto sinteticamente, che il frutto dell’obbedienza è l’amore e che l’amore si rispecchia nell’obbedienza alla legge di Dio, il che equivale ad obbedire alle parole di Gesù. Detto questo, occorre notare che le espressioni “amarmi” e “osservare i miei comandamenti” si pongono sempre in relazione assolutamente reciproca, di modo che, qualunque sia il loro ordine sequenziale, l’una riflette l’altra. L’evangelista non fa che riprendere l’antica tradizione ereditata dal libro del Deutoronomio, laddove si afferma che per il popolo d’Israele, chiamato all’Alleanza, amare Dio aderendo alla sua volontà (Dt 5,10; 6,5s; 10,12s; 11,13.22) e osservare i suoi comandamenti, racchiusi nel Decalogo (Es 20,1-21; Dt 5,6-22), sono un tutt’uno. Il frutto dell’amore/obbedienza alla Legge di Dio è l’amore indefettibile ed assiduo di Dio per coloro che gli sono fedeli. Così proclama il deuteronomista: “Riconoscete dunque che il Signore vostro Dio è Dio, il Dio fedele, che mantiene la sua alleanza e benevolenza per mille generazioni, con coloro che l’amano e osservano i suoi comandamenti” (Dt 7,9). Di pari passo, il testo evangelico dichiara che chi accoglie ed osserva i comandamenti di Gesù, lo ama ed è amato dal Padre (v. 21).
Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Gesù ha più volte dichiarato di parlare a nome e per conto del Padre (cf, Gv 3,34; 7,28; 8,26) ed ha affermato di non essere venuto ad abolire la Legge, ma a darle compimento (cf. Mt 5,17), ma l’invito, che Gesù rivolge ai suoi discepoli di osservare i suoi comandamenti per dimostrargli il loro amore, sembra assumere un connotato ancor più radicale, esistenziale. In altre parole, i discepoli devono calarsi in una realtà di fede “cieca” e fedele nel Signore Gesù, senza dimenticare che da una “vita di fede”, così intesa, discendono delle esigenze etiche inevitabili e che, altrettanto inevitabilmente, esse devono essere rispettate se non si vuol cadere nella pura ipocrisia, di farisaica memoria. Solo se i discepoli restano uniti a Gesù Cristo nell’amore e nella fedeltà ai suoi insegnamenti (o, se si vuole, ai suoi comandamenti), Egli farà tutto per loro, sino a condurli ad una piena inabitazione di Dio nelle loro anime e di tutto il loro essere in Dio (v. 20). Sollecitato da un dottore della Legge a precisare quale fosse il comandamento più importante da osservare per ottenere la vita eterna (Mt 22,35-40), Gesù aveva risposto, senza giri di parole, che due erano i comandamenti dai quali traspariva tutto il contenuto della rivelazione di Dio all’uomo e di cui la Bibbia intera costituiva la chiave di lettura: amare Dio con tutto il proprio essere (Dt 6,5) ed il prossimo come se stessi (Lv 19,18). Tutta la Legge, rivelata da Dio agli uomini, è contenuta in questi due semplici, ma assai impegnativi, comandamenti che l’uomo è tenuto ad osservare, imitando in tutto e per tutto Gesù, se vuole collaborare con la grazia di Dio, santo e misericordioso, per ottenere la salvezza eterna.
Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Gesù, ritornato presso il Padre e riappropriatosi della propria dignità divina in totale pienezza (Fil 2,9-11), intercederà a favore degli uomini affinché Dio Padre mandi loro un “altro” Paraclito, che prosegua l’opera del Figlio, il “primo” Paraclito donato da Dio agli uomini. Il vocabolo greco “paraclito” può essere tradotto col termine generico di “consolatore” o, meglio ancora, con quello più tecnico di “avvocato (difensore)”. Nel Nuovo Testamento, il vocabolo paràcletos appare solo nei discorsi giovannei dell’addio ed è riferito quasi sempre alla persona divina dello Spirito Santo; soltanto nella prima lettera di Giovanni tale vocabolo è riferito a Gesù nella sua qualità di intercessore celeste (1Gv 2,1). Il “primo” Paraclito, Gesù, sta per morire sulla croce e sta per tornare al Padre, dopo aver sconfitto la morte con la propria resurrezione, per essere riconosciuto da tutto il creato come il Risorto e l’eterno Vivente (Ap 1,8.17-18), colui davanti al quale ogni creatura s’inchina per rendere omaggio alla sua signoria (Fil 2,11). Conclusa la sua missione tra gli uomini, Gesù sparirà alla loro vista (At 1,9), ma la sua presenza tra gli uomini sarà garantita, sino alla fine del tempo (Mt 28,20), dall’azione del “secondo” Paraclito, il cui compito è quello di assistere, guidare, animare, sostenere quanti credono, in ogni epoca della storia, che Gesù è Dio e Signore (Gv 21,28-29). Si profila l’identità personale della terza persona della S.S. Trinità, distinta dal Padre e dal Figlio, ma intimamente unita a loro e Gesù ne indica la funzione specifica: essere l’anima della Chiesa, Corpo mistico di Cristo. Proprio per questo motivo, lo Spirito Santo sarà per sempre con gli uomini. Non tutti gli uomini, però, sono in grado di riconoscere la presenza vivificante e santificante dello Spirito, perché rifiutano la Verità. Il “mondo” è valutato dall’evangelista come un’entità ostile a Dio e soggetta a satana, padre della menzogna (cf. 8,44; 15,26; 16,13; 1Gv 4,5s) e nemico giurato della verità, al punto da rendere gli uomini “ciechi” di fronte all’evidenza che essi sono creature di Dio e che non sono in grado di salvare se stessi, ma che hanno bisogno di un Salvatore.
Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi. Lo Spirito di verità è tale per chi accetta di accogliere in sé la verità senza pregiudizi. I discepoli di Gesù hanno il privilegio di “conoscere” intimamente lo Spirito, inviato dal Padre per mezzo del Figlio suo, perché hanno scelto di lasciarsi istruire ed illuminare dalla verità, acconsentendo di farsi in qualche modo “separare” da un mondo incredulo e malvagio (cf. 8,23; 12,25.31; 13,1) per seguire, pur tra mille difficoltà e pericoli, la luce dello Spirito, il cui compito è insegnare tutto ciò che riguarda il misterioso piano della salvezza e richiamare alla memoria l’insegnamento di Gesù (cf. 14,26), rendere testimonianza a Gesù (15,26) e convincere il mondo della propria colpevole opposizione alla giustizia ed al giudizio di Dio (16,8-11). Lo Spirito Santo, però, non ha solo l’incarico di “consolare” i discepoli per la perdita di Gesù, sostituendosi a Lui nel ruolo di insegnante o di giudice del mondo, ma quello altrettanto importante di rafforzare la loro fede sia in relazione alla loro condizione di sequela del Cristo, inviato da Dio e sia in rapporto al loro dovere di “inviati” da Dio nel mondo. Per vivere in pienezza la vocazione di “discepoli” e di “inviati”, coloro che credono in Gesù hanno bisogno del sostegno e della guida dello Spirito, dal quale possono ricevere, incessantemente, una potente forza interiore. Con la netta linea di demarcazione tra lo “Spirito di verità” ed il “mondo” ostile a Dio ed al suo Inviato, da una parte e, dall’altra, con l’attribuzione dello Spirito stesso ai discepoli di Gesù, viene rafforzata in questi la coscienza della loro elezione (cf. 15,16.19). Il mondo non è in grado di ricevere lo Spirito, né di accoglierlo come fonte di luce e di verità proprio perché incapace di afferrare, con mezzi propri, la sua forza prorompente e, per giunta, maldisposto nei confronti di Dio e del suo progetto salvifico. Al contrario, i discepoli di Gesù conoscono lo Spirito per diretta conoscenza e certezza perché lo possiedono intimamente (“egli dimora presso di voi e sarà in voi”); da tale inabitazione dello Spirito nei credenti scaturisce la reciproca inabitazione di Dio nei suoi fedeli e di questi in Dio (1Gv 3,24).
Non vi lacerò orfani, ritornerò da voi. I discepoli resteranno, tra poco, orfani per la morte di Gesù, ma tale dolorosa condizione sarà di breve durata, perché si troveranno immersi in una comunione nuova con il loro Maestro, più spirituale e profonda di quella sperimentata sino ad allora e tale da proiettarli in un rapporto assolutamente “familiare” con Gesù ed il Padre. L’immagine dell’orfano abbandonato evoca la triste condizione in cui, anche all’epoca di Gesù, si venivano a trovare, oltre agli stranieri residenti in Palestina, “orfani e vedove”, le categorie più sventurate e deboli della società ebraica, tanto che persino la Toràh, la Legge mosaica, prescriveva una serie di norme volte a proteggere queste persone dalle ingiustizie e dalle sopraffazioni, riservate a chi non può o non sa difendersi dalla malvagità del prossimo (cf. Es 22,20s; Dt 24,17; 27,19), il quale, come spesso insegna la storia dell’uomo, è sempre pronto ad approfittare delle debolezze altrui. La dipartita certa di Gesù non sarà definitiva, ma ad essa seguirà l’altrettanto certo ritorno di un Gesù “nuovo e definitivo”, che sarà per sempre coi suoi sino alla fine del tempo e della storia umana (Mt 28,20). Il ritorno definitivo di Gesù presuppone, anche, che non vi sarà più alcuna sofferenza per i deboli e gli indifesi e che non vi sarà più posto per i prepotenti ed i malvagi di questo mondo.
Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più. La morte ingloriosa di Gesù sulla croce convincerà i suoi acerrimi nemici, che costituiscono il ben noto “mondo” dei prepotenti e dei violenti, di aver tolto di mezzo, una volta per tutte, un pericoloso individuo, capace di causare gravi danni al loro potere col suo invito alla fratellanza, al perdono, alla giustizia, alla pace, alla conversione del cuore, al rispetto dei deboli, all’amore reciproco, al servizio umile e disinteressato ed alla ricerca dell’ultimo posto nella scala sociale. Un “uomo” così non va bene in nessuna società di qualsiasi tempo e luogo, laica o religiosa che sia, perché la sua logica è l’esatto contrario di quella umana, fondata sul privilegio, sulla visibilità, sul successo, sul dominio e sul possesso. Questo tipo di “mondo” non è nemmeno degno di “vedere” Gesù, né ora né mai e tragicamente si priva persino della possibilità di vederlo, un giorno, “seduto alla destra di Dio” (cf. Mt 26,64) se non da molto lontano, pari all’abissale ed eterna distanza che separa il cielo dall’inferno.
Voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. Il “mondo” vede solo ciò che è esteriore e superficiale, mentre gli occhi della fede riescono a vedere meglio e più in profondità. Tre giorni dopo la sua morte sul Calvario, i discepoli vedranno Gesù risorto e realmente vivo in una visione che non sarà soltanto sensibile, ma anche spirituale ed interiore mediante la fede (cf. 20,29). I discepoli possono vedere il Vivente grazie al comune possesso della “vita”; ricevendo lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, i discepoli saranno da Lui “inabitati” e resi partecipi della vita divina del Risorto, perché lo Spirito di Dio è Spirito di verità e di vita.
Io vivo… voi vivrete. In quanto Figlio di Dio, che ha in sé la vita dal Padre (cf. 5,26), Gesù può parlare solo al presente: io vivo (sottinteso, dall’eternità e per l’eternità, perché Gesù è Dio fatto uomo). I discepoli, invece, ai quali Gesù comunica la vita per mezzo del suo Spirito, possono in linea di principio parlare al presente (cf. 5,24), ma poiché ricevono la vita solo dal Signore glorificato (cf. 17,2), di essi si può parlare anche al futuro (cf. 6,57): voi vivrete (vale a dire, “parteciperete della mia vita per l’eternità”). Mentre il distacco del mondo di Gesù ha un valore definitivo, esistenziale (“non mi vedrà più”), la separazione dei discepoli dal loro Maestro è temporaneo e dura lo spazio di soli “tre giorni”. Nel racconto della creazione, composto da un autore ispirato appartenente alla casta “sacerdotale” ebraica del VI-V secolo a.C., il “terzo giorno” è quello in cui compare sulla terra la “vita” vegetale (Gen 1,11-13). Dopo il caos (Gen 1,2) psicologico causato dalla morte di Gesù, i discepoli sono rianimati dalla vista di colui che “vive da sempre e per sempre” (cf. Ap 1,17-18) e che “risorgendo, dona la vita” (cf: 1Cor 15,20-22; Rm 6,4) a chi crede in Lui quasi ripercorrendo il cammino della creazione primordiale. La morte e la resurrezione di Gesù segnano l’inizio di una nuova creazione, da cui scaturisce un “uomo nuovo” (cf. Ef 2,14-18) sanato dal peccato e riconciliato con Dio. Così recita la liturgia bizantina: “Cristo è resuscitato dai morti. Con la sua morte ha vinto la morte, ai morti ha dato la vita” (v. Tropario di Pasqua, Roma 1884, p. 6).
In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. Gesù fa proprio il linguaggio dei profeti di Israele nel momento in cui annuncia la realtà di una nuova e perfetta conoscenza della reciproca immanenza intra-trinitaria ed umano-divina. In quel giorno: così i profeti designavano il tempo dei grandi interventi di Dio nella storia del popolo eletto e, di riflesso, in quella di tutti i popoli della terra (cf. Is 2,17; 4,1s). Nel caso specifico, Gesù allude al tempo che farà seguito alla sua resurrezione e si tratta di un tempo assai dilatato, secondo i parametri umani, poiché la rivelazione dell’avvenuta salvezza si protrae, attraverso la Chiesa, sino alla fine del tempo terreno. Prima che si concluda il ciclo vitale del genere umano, tutti devono venire a conoscenza della “lieta novità” della redenzione in Gesù Cristo e chi, liberamente, sceglierà di credere sarà inserito, grazie alla mediazione di Gesù, nell’intima comunione che unisce in perfetta reciprocità il Padre ed il Figlio (cf. Gv 6,57; 10,14-15; 15,9 ecc.): saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. Solo la diretta esperienza del Risorto trasformerà la fede inadeguata dei discepoli in piena conoscenza di fede, “costringendoli” a trasmetterla tale e quale a tutti i popoli della terra (cf. Mt 28,19-20), affinché tutti gli uomini possano raggiungere la fede piena in Cristo Signore. Tale formula di reciproca immanenza tra il Padre ed il Figlio e tra il Figlio e gli uomini è strettamente collegata alla formula eucaristica di Gv 6,56: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui”. L’effetto di questa nuova relazione di comunione tra Gesù e coloro che credono in Lui è il rapporto di intima unione dell’uomo col Padre, grazie alla mediazione di Gesù: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (6,57). La prospettiva teologico-morale è affascinante e, al tempo stesso, assai impegnativa per l’essere umano: il Padre, il Figlio e gli uomini costituiscono, per l’azione santificante ed unificatrice dello Spirito Santo, una vera e propria famiglia umano-divina da cui si autoesclude solo chi rifiuta di farne parte. Tutto ha avuto origine dal Padre creatore e tutto ritorna al Padre per mezzo del Figlio redentore, grazie all’azione dello Spirito di santità e di amore. Di fronte ad un simile progetto di salvezza, l’uomo non può comportarsi da semplice spettatore neutrale, pena la condanna ad una morte eterna: “Chi vive e crede in me non morrà in eterno” (11,26) ed il destino di chi rifiuta ostinatamente di credere e di vivere in Cristo non può essere che la mancata “comunione intima e vitale” con Dio.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Il vero fondamento della comunione esistenziale con Gesù Cristo è l’amore, concretamente dimostrabile con l’obbedienza ai suoi insegnamenti, il che equivale ad osservare i suoi comandamenti. L’evangelista non specifica quali siano tali comandamenti, ma non è difficile identificarli coi due citati da Gesù ed indicati ad un dottore della legge come riassuntivi di tutto il contenuto dell’antica Legge (Toràh) consegnata da Dio a Mosè: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente […], amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,37-38). L’esemplificazione di tali “comandamenti” è mirabilmente contenuta nelle dieci beatitudini, definite con buona ragione la Magna Charta del cristianesimo (cf. Mt 5,3,12) e strettamente correlate al Decalogo (Es 20,2-17; Dt 5,6-21), che Gesù non ha rinnegato, bensì portato a pieno compimento (Mt 5,17). Non basta, dunque, limitarsi alle parole, ma è necessario dimostrare con gesti concreti il proprio amore per il Signore Gesù custodendo, rispettando ed osservando la “sua” Legge con la piena adesione del proprio essere (cuore, anima, mente).
La fedeltà alla “legge di Cristo” comporta delle conseguenze inequivocabili: Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui. A ben vedere, si tratta di una descrizione sintetica della perfetta “vita in Dio”, altrimenti definita paradiso. Seguendo s. Agostino e la sua abituale capacità analitica e sintetica nell’esposizione esegetica del testo evangelico, leggiamo il seguente passo, tratto dal commento al vangelo di Giovanni: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi li custodisce nella memoria e li attua nella vita; chi li tiene presenti nelle sue parole e li esprime nei costumi; chi li ha perché li ascolta e li osserva praticandoli; oppure chi li ha perché li pratica e li osserva costantemente, ecco chi è colui che mi ama. L’amore bisogna dimostrarlo con i fatti, altrimenti è una parola vuota e sterile. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui. Dice che lo amerà, forse perché ancora non lo ama? No davvero. Come potrebbe infatti amarci il Padre senza il Figlio, o il Figlio senza il Padre? Ma in quale modo possono agire separatamente essi, che operano sempre inseparabilmente? Egli dice: lo amerò, per concludere subito: e mi manifesterò a lui. Lo amerò e mi manifesterò, cioè lo amerò per manifestarmi a lui. Ora, infatti, ci ama concedendoci di credere in Lui e di rimanere nell’obbedienza della fede; allora ci manifesterà il suo amore, concedendoci di vederlo e di ricevere, con la visione beatifica, il premio della nostra fede. E anche noi, ora, lo amiamo credendo ciò che allora vedremo, mentre allora lo ameremo vedendo ciò che ora crediamo (Commento al Vangelo di s. Giovanni, Omelia 75,5). A chi crede è concesso, dunque, un grandissimo privilegio: essere inabitato dal Figlio e dal Padre, per mezzo dello Spirito. Parafrasando s. Agostino, chi crede amando ed ama credendo partecipa alla gioia del paradiso già su questa terra, perché in lui abita la SS. Trinità.

22 Gli disse Giuda, non l’Iscariota: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?”.
La domanda di Giuda Taddeo o Lebbeo (Mt 10,3; Mc 3,18), fratello di Giacomo di Alfeo (Lc 6,16; At 1,13; Gd 1,1) e, forse, cugino di Gesù (confrontando Mt 13,55; Mc 6,5; At 12,17; 15,13 ecc. non è del tutto certo che Giacomo d’Alfeo e Giacomo il minore, cugino di Gesù, siano la stessa persona), sembra sintetizzare tutte le perplessità sollevate sia da alcuni cristiani della comunità dell’apostolo Giovanni e sia dei loro avversari giudei: perché l’esperienza della pasqua di Cristo è stata limitata ai soli apostoli e la manifestazione gloriosa del Messia non è stata concessa a tutto il mondo? Il testo di At 10,40-42 è illuminante: “Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la resurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio”. La scelta arbitraria di Dio dava fastidio a molti, ai quali era richiesta una fede certa e salda sulla base della testimonianza di pochi individui (cf. Origene, Contro Celso, II, 63-67). Mentre Gesù allude ad una manifestazione “intima” dell’amore di Dio a quanti credono alle parole ed ai gesti del Figlio suo, Giuda è saldamente ancorato alla credenza ebraica d’una manifestazione esteriore, clamorosa ed universale della potenza di Dio, il quale avrebbe scelto Israele come capofila privilegiato dell’intera umanità. Giuda esprime, in modo esemplare, la meraviglia e la delusione di quanti si sentono esclusi dall’autorivelazione di Gesù come il Cristo di Dio, ma a costoro Gesù regala l’ennesima “beatitudine”, solo se sapranno fidarsi di Lui: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Gv 20,29).

23 Gli rispose Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24 Chi non mi ama, non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Sulla domanda dell’apostolo, Gesù sembra voler glissare, quasi suggerendo a lui ed a tutti noi che non gli interessa affatto ciò che il “mondo” pensa del suo modo di agire. Giuda vede soddisfatta la propria curiosità, ma a condizione di riflettere con molta attenzione sulla risposta del Maestro, centrata esclusivamente sull’intimo legame esistente tra l’ascolto obbediente della Parola di Dio e l’amore. Chi obbedisce a Gesù, Parola incarnata di YHWH, ama ed è riamato da Dio; anzi, colui che ama Dio diventa addirittura sua “dimora”, suo “tempio santo” e luogo privilegiato dell’amore intra-trinitario di Dio stesso, il quale si rivela per quello che è: Dio uno ed unico in tre Persone uguali e distinte. Il cuore dell’uomo è il vero “paradiso” di Dio e, viceversa, Dio è il vero “paradiso” dell’uomo; ciò che rende l’uno il paradiso dell’altro è il vincolo indissolubile dell’amore. Il “mondo”, inteso come realtà negativa, ostile in modo radicale all’amore di Dio ed incapace di amare persino se stesso, non è in grado di osservare le parole di Dio (cf 8 37.43.47) ma comprende solo le parole dell’odio, della sopraffazione, della violenza, dell’inganno e dell’ingiustizia, che costituiscono la negazione assoluta dell’amore. Chi ascolta le parole di Gesù, assimilandole, amandole, rispettandole e traducendole in gesti concreti di vita quotidiana, obbedisce alla parola eterna del Dio vivente, fonte e fine di ogni esistenza, di cui Cristo è al tempo stesso il Figlio co-eterno e consustanziale e l’Inviato, il Messia, apparso nel mondo come un uomo tra gli uomini per redimerli grazie alla sua inalienabile natura divina. L’ineffabile legame d’amore che unisce il Padre ed il Figlio, insieme allo Spirito Santo, è tale da rendere i Tre un solo Dio e l’umanità tutta è chiamata ad essere la “casa” di questo immenso oceano d’amore e di grazia. La tragedia di quanti, liberamente, coscientemente ed ostinatamente si negano a tale destino di amore, reciprocamente gratificante, è veramente immane. A quanti non amano e non capiscono Gesù (cf. 8,42), egli non può e non vuole manifestarsi perché ne rispetta la libertà di scelta, anche a costo di abbandonarli alla loro stessa incredulità (cf. 7,16; 8,26.28; 12,49; 15,22) e ad un destino di morte. Fedele allo stile letterario ebraico, l’evangelista utilizza un parallelismo antitetico per esprimere il diverso destino dell’uomo in relazione alla Parola di Dio: se uno mi ama, osserverà la mia parola… chi non mi ama, non osserva le mie parole. Nell’ascolto/amore è racchiusa la promessa della salvezza, nel non-ascolto/non-amore è contenuta, invece, l’attesa della condanna.

25 Queste cose vi ho detto quando ero ancora con voi. 26 Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Gesù, seguendo il filo dei suoi pensieri, è già immerso nel futuro di Dio Padre, al quale passato, presente e futuro sono contemporanei come un solo ed unico istante. Il doloroso evento della croce deve ancora accadere, ma è come se fosse già avvenuto, superato dalla novità della venuta dello Spirito Santo di Dio. La presenza fisica di Gesù fra gli uomini è storicamente vera, ma è stata limitata nel tempo e di breve durata; proprio per questo, molti uomini consegnati alla storia come i “grandi” della terra hanno cercato di cancellare dagli annali della storia la presenza ingombrante e scomoda di Cristo, ma la loro presuntuosa pretesa è andata delusa proprio per l’intervento dello Spirito Santo, il vero protagonista della storia degli uomini. Crollano gli imperi, passano di moda le ideologie rivoluzionarie ed i fanatismi politici e religiosi, ma la “debole” Chiesa di Cristo sfida imperterrita le numerose e stucchevoli novità del secolo presente perché in essa agisce lo Spirito di Dio, mandato dal Padre nel nome di Gesù per insegnare e ricordare, per guidare e sostenere, per consolare ed animare il cuore e la mente degli uomini, che sono sempre in bilico tra la tensione verso le infinite altezze dell’amore del Creatore e l’attrazione per le effimere bellezze della creazione. Sullo sfondo di ogni singola storia umana si staglia, inquietante, l’esperienza della colpa originale simboleggiata dalla fatale attrazione verso l’albero della conoscenza del bene e del male (Gen 2,17), di cui l’uomo vuole mangiare il frutto per essere come Dio (Gen 3,5), padrone di se stesso ed artefice del proprio destino. L’insegnamento di Gesù, invece, va in direzione diametralmente opposta, proponendo un diverso modo di rapportarsi con Dio e con le creature e spetta al suo Spirito il compito di far comprendere il senso vero di tale insegnamento: egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Il Paraclito non fa altro che continuare la rivelazione di Gesù, non con nuove dottrine, bensì approfondendo e chiarendo quella insegnata da Gesù stesso (cf. 16,13), trasmessa oralmente dagli apostoli e fissata per iscritto nei quattro “vangeli”. Una volta conclusa l’esperienza terrena del Verbo incarnato, tocca allo Spirito Santo continuare nel mondo l’opera di Gesù sino alla fine dei tempi, poiché egli è stato inviato dal Padre per essere, in un certo senso, il vero rappresentante di Gesù sulla terra (cf. 14,16) e l’autentico continuatore della sua missione tra gli uomini (cf. Gal 4,6; 1Pt 1,12). Dopo la partenza del Cristo, infatti, lo Spirito lo sostituisce presso i fedeli (14,16-17; 16,7); egli è il “consolatore”, l’avvocato che intercede presso il Padre (1Gv 2,1) o perora davanti ai tribunali umani (15,26-27; cf. Lc 12,11-12; Mt 10,19-20; At 5,32), è lo Spirito di verità (8,32) che guida alla verità tutta intera (16,13). Egli fa comprendere la personalità misteriosa del Cristo, come egli compia le Scritture (5,39), quale sia il senso delle sue parole (2,19), dei suoi atti, dei suoi “segni” (14,16; 16,13; 1Gv 2,20-27; Rm 8,16), tutte cose che i discepoli non avevano compreso prima (2,22; 12,16; 13,7; 20,9). Con ciò, lo Spirito darà testimonianza al Cristo (15,26; 1Gv 5,6-7) e confonderà l’incredulità del mondo (16,8-11; cf. Lc 24,49; Rm 5,5).

27 Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Shalòm, era il saluto o l’espressione d’addio abituale dei giudei, che si auguravano a vicenda l’integrità del corpo e la perfetta felicità, di cui il Messia liberatore sarebbe stato il portatore ideale. Gesù, però, non si congeda dai suoi discepoli col consueto saluto di pace (cf. 1Sam 1,17; 20,42; 29,7), ma donando la sua pace, il che è molto più di un semplice augurio di prosperità e di gioia. Per “pace” s’intende la salvezza escatologica (Is 52,7; Ez 37,27) che Dio offre e dona agli uomini inviando il Figlio suo (Lc 2,14; 19,38.42; At 10,36), grazie al quale la salvezza può raggiungere tutti gli uomini (Mc 5,34; Lc 7,50) anche attraverso la predicazione dei suoi discepoli (Lc 10,5; Mt 10,13). In tal modo, la pace che prima della sua passione Gesù dona ai suoi discepoli è la stessa che egli, ormai risorto, elargisce con generosità a tutta l’umanità, redenta dal suo sangue effuso sulla croce (20,19.21). La pace, che Gesù sta offrendo ai suo apostoli, è una garanzia di conforto e di aiuto nel momento della prova presente e futura (16,33) poiché la “sua pace” è un dono duraturo, ben diverso dal tipo di pace che il “mondo” è in grado di offrire all’uomo. Gesù stesso è la pace degli uomini e, senza di Lui, il mondo è un luogo privo di pace vera e stabile. Per l’apostolo Paolo, la pace donata da Cristo è il frutto dei “desideri dello Spirito” (Rm 8,6; Gal 5,22) e, insieme alla giustizia ed alla gioia, è manifestazione del Regno di Dio (Rom 14,17). Anche per l’evangelista Giovanni la pace è un elemento specifico del tempo dello Spirito ed il mondo non è in grado di offrire una pace di questo genere, poiché esso è come uno spazio chiuso, ostile ed assolutamente refrattario alla pace di Cristo e, semmai, interessato ad un surrogato di pace, che normalmente si regge su fragili equilibri politici, economici, militari e diplomatici su cui si allunga l’ombra inquietante dell’arroganza e della forza bruta del potente di turno. I regni di questo mondo non sono l’immagine speculare del Regno di Dio, che è caratterizzato da valori per lo più disprezzati ed irrisi dagli uomini “di questo mondo”: l’amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bontà, la fedeltà, la mitezza, il dominio di sé (Gal 5,22). Al contrario, nei regni di questo mondo prevalgono la fornicazione, l’impurità, il libertinaggio, l’idolatria, le stregonerie, le inimicizie, la discordia, la gelosia, i dissensi, le fazioni, le invidie, le ubriachezze, le orge e cose di questo genere (Gal 5,19), che costituiscono la puntuale negazione della pace di Cristo. La comunità dei cristiani deve, pertanto, essere nel “mondo” un segno visibile della vera pace di Cristo se non vuole confondersi con “i regni di questo mondo”, perdendo non solo la propria identità ma, soprattutto, la propria salvezza. I cristiani non hanno bisogno di sventolare alcun tipo di bandiera, mono o multicolore che sia, per farsi riconoscere come portatori della pace donata da Gesù; basta che vivano con fedeltà e amore l’insegnamento di Cristo Signore, per essere “luce del mondo e sale della terra” (Mt 5,13-16) in un mondo privo del sapore e della luce di Dio.
“Che cosa ci lascia [Gesù] quando se ne va, se non se stesso, dal momento che non ci abbandona? Lui stesso è la nostra pace, lui che ha superato in sé ogni divisione. Egli è la nostra pace se crediamo in lui e sarà nostra pace quando lo vedremo così come egli è. […] Ci lascia la pace al momento di andarsene, ci darà la sua pace quando ritornerà alla fine dei tempi. Ci lascia la pace in questo mondo, ci darà la sua pace nel secolo futuro. Ci lascia la sua pace affinché noi, permanendo in essa, possiamo vincere il nemico; ci darà la sua pace, quando regneremo senza timore di nemici. Ci lascia la pace, affinché anche qui possiamo amarci scambievolmente; ci darà la sua pace lassù, dove non potrà esserci più alcun contrasto. Ci lascia la pace affinché non ci giudichiamo a vicenda delle nostre colpe occulte, finché siamo in questo mondo; ci darà la sua pace quando svelerà i segreti dei cuori e, allora, ognuno avrà da Dio la lode che si merita. In lui è la nostra pace e da lui viene la nostra pace, sia quella che ci lascia andando al Padre, sia quella che ci darà quando ci condurrà al Padre. […] Egli è la nostra pace, sia adesso che crediamo che egli è, sia allorché lo vedremo come egli è. Se infatti egli non ci abbandona esuli da sé, mentre dimoriamo in questo corpo corruttibile che appesantisce l’anima e camminiamo nella fede e non per visione, quanto maggiormente ci riempirà di sé quando finalmente saremo giunti a vederlo faccia a faccia? ” (s. Agostino, Commento al Vangelo di s. Giovanni, Omelia 77, 1.3). Bisogna diffidare della pace di cui si fa promotore e garante un mondo senza Dio, anche quando sembra animato da buone intenzioni, perché si sa, come recita un vecchio adagio, che “di buone intenzioni sono lastricate tutte le strade che conducono all’inferno”. Il mondo, specie quando è ostile ai disegni di Dio, non è per nulla affidabile, neppure quando proclama “libertà, fraternità, uguaglianza” per tutti gli uomini, perché troppo spesso tali proclami nascondono la punta di una baionetta o la bocca fumante di un cannone. Ci sorprende, ancora una volta, l’attualità del pensiero di s. Agostino: “Questa pace, che ci ha lasciato in questo mondo, è da considerarsi piuttosto nostra che sua. Egli, non avendo alcun peccato, non porta in sé alcun contrasto; noi invece possediamo ora una pace che non ci dispensa dal dire: Rimetti a noi i nostri debiti. Esiste dunque per noi una certa pace, quando, secondo l’uomo interiore ci compiacciamo nella legge di Dio; ma questa pace non è completa, in quanto vediamo nelle nostre membra un’altra legge che è in conflitto con la legge della nostra ragione. Esiste pure per noi una pace tra noi, in quanto crediamo di amarci a vicenda; ma neppure questa è pace piena, perché reciprocamente non possiamo vedere i pensieri del nostro cuore e, per cose che riguardano noi, ma che non sono in noi, ci facciamo delle idee, gli uni degli altri, in meglio od in peggio. Questa è la nostra pace, anche se ci è lasciata da lui; e non avremmo neppure questa, se non ce l’avesse lasciata lui. La sua pace, però, è diversa [perché lassù] da noi non potranno più sorgere contrasti e nulla, nei nostri cuori, rimarrà occulto gli uni agli altri” (ibid., 77,4). L’uomo non può darsi da sé la pace, perché condizionato dal peccato, dall’egoismo, dalla superbia e da tutto il male che scaturisce dal suo cuore e, se non riesce a darla a se stesso, non può pretendere di darla neppure ai suoi simili.
Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. L’esortazione di Gesù a non avere paura della cattiveria aggressiva del mondo, che farà di tutto pur di separare i discepoli da Gesù, è ripetuta una seconda volta (14,1) costituendo un’ampia inclusione (14,1-27) stilistico-letteraria, i cui temi dominanti sono: la fiducia in Dio e nel suo Inviato, l’intimo rapporto di comunione tra Gesù ed i suoi discepoli, l’inserimento dei credenti nel vincolo d’amore solidale e reciprocamente immanente tra Dio Padre ed il Figlio suo, la stretta correlazione tra amore ed obbedienza alla parola di Dio nel segno dello Spirito Santo. Gesù anticipa la paura dei suoi discepoli, posti di fronte all’orribile prospettiva della croce e, in certo qual modo, ne scusa la fuga al momento del suo arresto per mano delle guardie del Tempio. Gesù sa bene che pure a lui toccherà provare “angoscia e tristezza” per la morte imminente (Mt 26,37) e che la paura della sofferenza lo farà “sudare sangue” (Lc 22,44); poiché sperimenta personalmente il profondo turbamento psicologico degli esseri umani di fronte alla sofferenza ed alla morte, il Maestro solidarizza coi suoi discepoli e li incoraggia a tener duro sino al momento in cui lo rivedranno risorto e glorioso. L’esperienza della Pasqua di Cristo non impedirà ai discepoli di provare il brivido della paura e dell’angoscia nel momento della loro “passione”, ma li renderà decisi a tutto pur di rendere testimonianza al loro “Dio e Signore” (Gv 20,28) al cospetto di tutti gli uomini, anche a costo della propria vita. L’esortazione di Gesù a non temere le persecuzioni si estende, attraverso l’esperienza dei discepoli, ai credenti d’ogni tempo, perché vi saranno sempre uomini ostili al disegno di salvezza voluto da Dio e nemici giurati di Cristo, che è l’amore dialogante di Dio in “carne e ossa” (Gv 1,14).

28 Avete udito che vi ho detto: Vado e tornerò a voi; se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me.
Questo versetto ha fatto letteralmente scorrere fiumi d’inchiostro, a partire dall’epoca delle controversie cristologiche del III-IV secolo d.C., quando soprattutto l’arianesimo sembrò mettere in serio pericolo l’ortodossia della fede cristiana nella reale umanità e nella vera divinità di Cristo. La partenza di Gesù è la condizione necessaria per il suo ritorno in pianta stabile in quello stesso mondo che, tra poco, lo respingerà in malo modo e, proprio per questo, la sua temporanea dipartita deve essere considerata dai discepoli come momento di pura gioia. La vera comunità cristiana deve fondarsi su questi due sentimenti, di cui Gesù è l’origine ed il fine ultimo: la pace e la gioia. Non può esservi vera gioia senza la pace donata da Cristo, dal quale tutto ha avuto inizio (1,10) ed al quale tutto sarà ricondotto alla fine del tempo (Col 1,20; Ef 1,10; 2,14-18). Di più, non si può essere veramente depositari della pace donata da Cristo e fruitori della gioia che ne scaturisce, se il proprio cuore rimane chiuso all’amore per Gesù. Non basta una semplice adesione intellettuale e filosofica al messaggio cristiano né una banale infatuazione del personaggio Gesù, per molti versi affascinante e di grande interesse sociologico; per appartenere a pieno titolo a Cristo ci vuole molto di più sul piano esistenziale. L’amore costituisce, infatti, la vera “misura” della propria appartenenza a Gesù, vero Uomo e vero Dio, principio e fine dell’intero creato (Ap 22,13).
Vado… tornerò. Sembra, a prima vista, un gioco a rimpiattino tra Gesù e gli uomini, i quali, durante il periodo in cui Gesù rimane “nascosto” ai loro sensi, vanno alla sua ricerca per chiedergli spiegazioni sul senso ultimo della loro esistenza e, in ultima analisi, sull’irritante presenza del male nel mondo. In termini del tutto razionali, anche Gesù è uno sconfitto se ha dovuto assoggettarsi alla sofferenza ed alla morte per trasmettere agli uomini una speranza di salvezza; non sarebbe stato più semplice eliminare il male ed il dolore con un colpo di spugna e garantire, in tal modo, un’anticipazione in questo mondo della felicità che Egli pretende di donarci nell’altra vita? Che senso ha un Dio che dà per scontata la presenza del male nel mondo e che, per giunta, gli si sottomette al punto da subirne le estreme conseguenze? La partenza di Gesù da questo mondo non avrebbe senso, infatti, se non ci fosse la garanzia certa del suo definitivo ritorno, dopo aver ricevuto dal Padre la signoria su tutte le cose che appartengono a questo mondo (Fil 2,9-11), persino sulla morte (1Cor 15,25-28), suprema sintesi del male che, in questo mondo, si oppone tenacemente al progetto di vita racchiuso nell’esistenza stessa di Dio. Nell’esperienza umana di Gesù di Nazareth, Dio ha voluto assaporare insieme agli uomini l’amaro gusto della sconfitta, dell’odio, della sofferenza, del disprezzo e della morte affinché anch’essi potessero provare, insieme a Lui, il dolce ed inebriante sapore della vittoria definitiva sul male, sulla disperazione e sull’angoscia di un totale annientamento della propria dignità per mano dell’altrui malvagità. Nella passione e nella morte di Cristo è adombrata la sofferenza di ciascun essere umano, ma nella sua resurrezione è prefigurata la liberazione dell’umanità da ogni forma di oppressione, fisica e spirituale, ereditata dalla ribellione primordiale alla signoria di Dio su tutto il creato.
Vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me. Su questa frase hanno giocato “sporco” tanti eretici “cristiani” antichi e moderni, incapaci di accettare il mistero dell’incarnazione di una delle tre Persone divine e, di riflesso, ostili anche al mistero dell’Uni-Trinità divina. Affermando che Gesù era “solo” un uomo, pur santo e grande profeta, chi si oppone alla sua reale divinità intende disinnescare il significato “rivoluzionario” delle sue parole e delle sue opere e, tutto sommato, cerca di rendere innocua la Parola stessa di Dio e priva di sostanziale interesse per le umane vicende. In questo mondo l’uomo è solo e deve cavarsela coi soli propri mezzi, auspicando tutt’al più la benedizione di un Dio che, all’atto pratico, rimane lontano e distaccato e che, a seconda del mutare degli eventi, può essere ritenuto colpevole dei rovesci e delle disgrazie degli uomini o, quando tutto va bene, solidale con le fortune di chi lo ha invocato ed è stato capace di “tenerselo buono”. Un Dio così concepito può essere facilmente ridotto ad amuleto portafortuna o, all’occorrenza, a vittima delle proprie frustrazioni e destinatario di tutte le maledizioni che mente umana possa concepire, quasi un parafulmine dell’arrogante presunzione degli uomini. Il modo di agire del Dio rivelato da Gesù Cristo rimane incomprensibile e non classificabile in alcun modello razionale umano e non a tutti è concesso di accettare, tout court, la misteriosa e provvidente presenza di un Dio siffatto nella storia umana. L’uomo vuole certezze in questo mondo, ma il Dio di Gesù di Nazareth si sottrae a questo genere di garanzie, esponendosi anzi, contro ogni logica, alla prepotenza di una creatura che Egli ama in modo fedele e che accoglie, perdona e salva rispettandone la libertà e sopportandone i deliri di onnipotenza.
Il Padre è più grande di me. Prima di tutto, il Padre è, secondo l’affermazione di Gesù, una Persona e non un essere astratto ed impalpabile e da Lui proviene il Figlio, il Logos, per generazione eterna, motivo per cui Il Figlio è co-eterno e consustanziale col Padre. In secondo luogo, il Figlio ha ricevuto dal Padre una missione ed è l’Inviato del Padre, il Mediatore tra l’ineffabile essenza divina del Padre e la carnale realtà terrena dell’uomo; in terzo luogo, il Figlio ha ricevuto dal Padre la natura umana e si è incarnato in Gesù, figlio di una ragazza della borgata galilea di Nazareth. Su questi tre punti hanno riflettuto a lungo i Padri della Chiesa, per rispondere in modo “ragionevole” alle provocazioni degli eretici e dei non cristiani. L’esegesi ortodossa seguiva due vie.
Tertulliano, Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo spiegavano l’affermazione di Gesù in senso inter-trinitario. In sé, rispetto all’essenza divina, il Padre ed il Figlio sono uguali, ma relativamente alla relazione delle persone il Padre è “più grande” del Figlio, in quanto il Figlio procede dal Padre e non viceversa
Cirillo d’Alessandria d’Egitto ed Agostino fondavano il diverso grado di grandezza del Padre e del Figlio sul concetto di incarnazione e di kénosis del Figlio di Dio, il quale, divenendo uomo, si è spogliato della propria dignità divina, ma non della natura divina. Pur rimanendo Dio, il Figlio è diventato uomo, ossia creatura di Dio e subordinato al Padre.
Il pensiero dell’evangelista Giovanni è assai lontano dalle opinioni di Ario, un prete egiziano del IV secolo d.C., secondo cui Gesù era una creatura del Padre, certamente il migliore degli uomini ma, altrettanto certamente, da non collocare sullo stesso piano di Dio. Secondo Ario e diversi altri eretici antichi e moderni, Gesù sarebbe una specie di dio minore, in tutto e per tutto subordinato al Padre, unico Dio creatore dell’universo, che si sarebbe “servito” di Gesù per far passare un sorta di messaggio di universale irenismo, “adottandolo” come figlio prediletto in virtù della sua perfetta obbedienza alla suprema volontà divina. In questo modo, la morte redentrice di Cristo non avrebbe assolutamente alcun valore, se non in senso puramente morale e la sua resurrezione ed assunzione in cielo avrebbe il significato di un “premio”, cui tutti possono ambire se si mantengono fedeli a Dio sull’esempio di Gesù. Per l’evangelista, invece, la volontaria subordinazione del Figlio al Padre ha un significato propriamente dialettico, poiché il Figlio ha la stessa pienezza di vita del Padre (5,26), ne condivide la stessa essenza divina (1,1) e la gloria (17,5) e, come il Padre, esercita il suo potere e svolge le sue funzioni in modo assolutamente sovrano ed autonomo (cf. 1,51; 4,12; 5,20; 8,53; 10,29; 13,16). Il Padre, allora, è più grande del Figlio nel senso che tutto quanto avviene proviene da Lui e da Lui viene condotto al giusto fine, compresi l’invio del Figlio e la sua glorificazione. Il Padre è anche la meta finale di quanti sono stati da Lui affidati al Figlio ed alla sua morte redentrice e si dimostra “più grande del Figlio” proprio nel momento in cui lo glorifica con la resurrezione dai morti, evento che acquista agli occhi dei discepoli il significato di un pieno compimento delle parole pronunciate da Gesù al riguardo (cf. 16,7). Uguale al Padre (10,30; 8,24), il Figlio ha la sua gloria, che per ora è velata (1,14), ma il suo ritorno al Padre la manifesterà di nuovo (17,5; cf. Fil 2,6-9; Eb 1,3).
In definitiva, le spiegazioni che i Padri della Chiesa hanno voluto fornire sul significato e sulla portata teologica dell’affermazione di Gesù che il Padre è più grande del Figlio, appellandosi alla dottrina delle due nature, umana e divina, presenti in Cristo, sono intrise di concetti filosofici estranei al pensiero dell’evangelista Giovanni, colpito piuttosto dallo sconcertante paradosso del Lògos divino che è divenuto visibile e, in certo qual modo, contestabile dall’angusta razionalità umana per aver assunto e condiviso, in tutto e per tutto, la fragile natura degli uomini. Da una parte, Gesù proclama la propria intima unità col Padre (10,30) e la sua immanenza reciproca con Lui, mentre, dall’altra, egli si pone come l’Inviato che riceve tutto dal Padre, parole ed opere, insegnamenti ed ordini. Questi due aspetti della presentazione giovannea non sono in opposizione, bensì raffigurabili come il dritto ed il rovescio di una stessa medaglia; essendo inviato da Dio, è ovvio che Gesù non possa essere più grande (cf. 13,16) di Colui che l’ha mandato in missione, ma in forza della propria origine (1,1) il Figlio non è da meno del Padre, possedendo entrambi la medesima natura divina. C’è da chiedersi, allora, per quale motivo Gesù abbia voluto sottolineare la priorità del Padre rispetto al Figlio; la menzione del Padre, che “è più grande di me”, funge da elemento catalizzatore di tutto il discorso d’addio di Gesù e, di riflesso, di tutta la sua esperienza umana su questa terra, poiché lo scopo ultimo dell’incarnazione del Logos è quello di far incontrare gli uomini con Dio, da cui tutto ha avuto origine e verso cui tutto deve ritornare. Il ritorno di Gesù al Padre è, in definitiva, la premessa necessaria per il ritorno dell’intera umanità verso Colui che l’ha creata e redenta per mezzo del Figlio suo. Il frutto definitivo della “discesa” del Logos divino nella realtà storica dell’uomo è la sospirata “ascesa” dell’uomo verso Dio; all’umanizzazione di Dio consegue la divinizzazione dell’uomo.

29 Ve l’ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate. 30 Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; egli non ha nessun potere su di me, 31 ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato. Alzatevi, andiamo via di qui”.
Gesù sa molto bene che lo scandalo della croce sconvolgerà profondamente i suoi amati discepoli, inferendo un durissimo colpo alla loro fede nel Maestro, sicché li prepara al tragico evento della sua passione e morte seguendo i sacri canoni della profezia verace, ispirata da Dio e non le regole di quella profezia di bassa lega, che è frutto della fallace presunzione umana. La profezia è vera quando infallibilmente si realizza ciò che essa annuncia e non per mero calcolo delle probabilità (Dt 18,22; Ger 28,9), ma essa è vera anche, se non soprattutto, quando il profeta rimane fedele al Dio unico senza piegarsi di fronte all’ostilità degli uomini (Dt 13,2-6). Se i discepoli non fossero stati ammaestrati e rassicurati dalle parole di Gesù, ricordate a tempo debito e correttamente interpretate con l’aiuto del Paraclito, avrebbero potuto comprendere in modo distorto l’evento della croce; la resurrezione del crocifisso li aiuterà invece, da un lato, a riconoscere in Lui il Vivente, che è uno col Padre e fonte di vita per i suoi (19,35) e, dall’altro, li spingerà a diffondere tra gli uomini la fede nel Cristo risorto anche a prezzo della propria vita. La missione di Gesù sta volgendo al termine e sta giungendo il momento dell’effimera gloria del “principe del mondo”, che si serve di Giuda Iscariota (Mc 14,42; Gv 18,3; cf. Gv 13,37), uno dei Dodici, per portare a termine la propria missione di odio e di distruzione della fonte stessa della vita. Secondo l’evangelista, infatti, la passione di Cristo è il risultato dello scontro tra il Figlio di Dio e questa misteriosa e losca figura in cui si concentra il radicale rifiuto dell’amore. La sconfitta per mano di questo oscuro personaggio, tiene a precisare Gesù, è solo apparente perché il principe del male “non ha alcun potere” su di lui, per almeno tre buoni motivi: il principe del mondo non può agire contro Gesù senza il permesso del Padre (19,11), Gesù è inattaccabile perchè è senza peccato (8,46) e perché non è di questo mondo (8,23; 17,16). In effetti, l’evangelista narra i fatti della passione di Gesù facendo risaltare l’atteggiamento sovrano di Cristo, che liberamente depone la propria vita per poi riprendersela altrettanto liberamente, come emerge dalla parabola del Buon Pastore (10,17-18) o dall’episodio della lavanda dei piedi (13,4.12). Volontariamente Gesù si consegna al nemico (18,4ss) per adempiere il mandato del Padre (10,18); poiché egli esteriormente lascia campo libero al principe del mondo, prendendo la morte su di sé, il mondo non potrà che riconoscere il suo amore per il Padre, per il semplice motivo che Gesù esegue fedelmente ciò che il Padre gli ha comandato di compiere per la salvezza del mondo stesso. Anzi, se Gesù si sottopone alla sfida dell’Avversario, l’antico nemico di Dio, è proprio per manifestare al mondo il proprio legame col Padre e chi sa discernere questo legame esistenziale tra il Padre ed il Figlio è già sulla buona strada per conseguire la vita eterna. Il mondo è un termine ambiguo nel linguaggio giovanneo, poiché indica sia la realtà ostile a Dio (v. 30) e sia quella aperta all’incontro con Dio (v. 31); allo stesso modo, gli stessi giudei, individuati dall’evangelista come i nemici giurati di Gesù, sono anche coloro che riconosceranno la sovranità di Cristo nel momento della sua “esaltazione” sulla croce (8,28) e con occhi diversi volgeranno lo sguardo verso il trafitto (Zc 12,10; Gv 19,37), riconoscendo in lui il Messia predetto dai profeti e volontariamente immolatosi per il bene di tutti gli uomini. Nell’attesa che si compia la sua “ora” e che il “mondo” prenda posizione nei suoi confronti, Gesù considera conclusa la parte didattica della sua missione pubblica e con un ordine perentorio (“Alzatevi, andiamo via di qui!”) pone fine al discorso di addio. Salta subito all’occhio la somiglianza di questo comando con quello pronunciato da Gesù nell’orto del Getsèmani prima di affrontare la turba delle guardie venuta ad arrestarlo (Mc 14,42). Secondo alcuni autori, l’ordine rivolto ai discepoli da Gesù racchiude un invito a prepararsi alla lotta (agonia) spirituale contro il nemico di ogni tempo, quel tentatore (satàn) che già aveva ingannato coi suoi trucchi dialettici il primo uomo (adàm) e che aveva attirato nella sua rete malefica proprio uno dei Dodici (Giuda) per opporsi al disegno salvifico di Dio. Questo losco personaggio, che non è il frutto della fantasia popolare e di cui “i sapienti di questo mondo” (Mt 11,25) cercano di negare l’esistenza, non essendo loro concesso di penetrare i segreti di Dio (1Cor 1,26-29), insidia l’uomo fino alla fine del tempo per allontanarlo dal suo Signore e Dio ed è sempre all’opera perché “è stato omicida fin da principio” ed è “padre della menzogna” (9,44). Ciò che segue (cc. 15-17) è, molto probabilmente, il frutto di un’interpolazione redazionale maldestra, ma non tutti i commentatori sono d’accordo su questo punto. Questi capitoli, infatti, potrebbero essere spiegati come una sorta di vademecum per guidare i credenti proprio in questa lotta spirituale contro il “il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra” (Ap 12,9) e di cui Gesù ci consiglia caldamente di diffidare, rimanendo invece saldamente ancorati a Lui, vera vite e, tramite Lui, in piena comunione d’amore col Padre. L’amore e l’obbedienza di Gesù nei confronti del Padre sono finalizzati alla piena trasformazione del mondo, che se da un lato è esposto agli attacchi del “principe del mondo”, dall’altro è amato profondamente da Dio (3,16). Per sottrarre il mondo dal giogo oppressore del maligno, Gesù deve passare attraverso i dolori della passione, così come i suoi discepoli (alzatevi, andiamo…), chiamati a dare il proprio contributo alla lotta del Maestro contro la personificazione stessa del male e della morte. Il “discorso d’addio” di Gesù lascia intuire i tratti caratteristici del vero discepolo di Cristo. Il credente non è semplicemente colui che “segue” Gesù, ma un alter Christus:
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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