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23/05/2010 22:06 | |
Considerazioni sull’interpretazione materialistica del fenomeno delle NDE Il perfezionarsi delle tecniche di rianimazione, permette oggi di riportare in vita un numero via via crescente di pazienti considerati “clinicamente morti”. Tale stato è caratterizzato, com’è noto, da una assenza delle funzioni cerebrali superiori, segnalata da un encefalogramma piatto, a cui, secondo le teorie neuroscientifiche attuali, non dovrebbe corrispondere alcuno stato cosciente. I racconti di molte persone rianimate da una condizione di coma più o meno profondo ci parlano invece di esperienze molto vive, che vengono generalmente indicate con la sigla NDE (Near Death Experiences). Si tratta di esperienze del tutto insolite, come il trovarsi a fluttuare al di sopra del proprio corpo immobile, guardandolo dall’alto, o lo spostarsi in locali attigui, percependo nitidamente cose, persone, suoni e voci da questa nuova prospettiva. La medicina ufficiale ha già dato da tempo una spiegazione per questo fenomeno, attribuendolo a uno stato di particolare sofferenza cerebrale, caratterizzato da carenza di ossigeno e di sostanze nutritive. Si tratterebbe quindi di mere allucinazioni, senza alcun rapporto con la realtà esterna. Questa di spiegazione, soprattutto alla luce della varietà e alla ricchezza delle esperienze riferite dai soggetti, è perlomeno semplicistica. In primo luogo, essa è costretto a ignorare tutti quegli aspetti che non si accordano con la concezione dominante, che considera la mente una mera manifestazione dei processi nervosi del cervello. In secondo luogo, anche in seguito a questa arbitraria riduzione, rimangono questioni altamente problematiche, la principale delle quali è la possibilità di vivere esperienze molto coinvolgenti in totale assenza di attività cerebrale rilevabile. Per dare un’idea della superficialità e dell’approssimazione con cui alcuni affrontano il fenomeno delle NDE, credo sia utile riportare l’esempio di un articolo pubblicato recentemente dalla rivista “Mente & cervello”. Nell’articolo in questione, l’autore, Detlef Linke (1), sostiene che il fenomeno delle NDE si spiegherebbe con la profonda consapevolezza della fine imminente, che darebbe origine ad immagini “giustificatorie” e “consolatorie”. L’autore ammette la possibilità dell’intervento di altri fattori, come l’azione di sostanze simili alle endorfine prodotte dal cervello in condizioni critiche, carenza di ossigeno, ecc., ma, a suo parere, affinché abbia luogo il fenomeno, un modello che si basi esclusivamente su fattori fisiologici è insufficiente, «poiché è necessario che i soggetti abbiano anche la coscienza di vivere la propria morte» (2). Tale concetto viene ossessivamente riproposto per ben sette volte nel corso del breve articolo, come si può vedere nei passi di seguito riportati: [1] “il cervello si trova in una situazione estrema, caratterizzata da un'acuta consapevolezza della caducità dell'esperienza”. (3) [2] “Quando a questo apparato "veggente" [il cervello] si presenta la più radicale delle assurdità, fa la sua comparsa il pensiero ‘ora sto morendo’”. [pag. 4] www.ildiogene.it [3] “A un tratto, il futuro si sgonfia come un palloncino per ridursi alla consapevolezza che non c'è più una prosecuzione...”. (5) [4] “Per il diretto interessato la situazione è dominata dal pensiero ‘sto morendo ora’”. (6) [5] “Ci interessa in modo particolare il ruolo della consapevolezza "sto morendo ora" come elemento scatenante di una EPM”. (7) [6] “Decisivo è dunque il pensiero ‘sto morendo ora’”. (8) [7] “Il pensiero ‘sto morendo ora’ attiverebbe a cascata una serie di questi processi”. (9) Nei passi citati, Linke si limita a ripetere lo stesso concetto, in termini molto simili, senza curarsi di approfondirne gli aspetti e le implicazioni. Ciò tuttavia, non è sufficiente ad accrescerne la plausibilità. Anzi, spesso, la ripetizione di un concetto, in mancanza di ulteriori argomentazioni, è un chiaro indice della debolezza delle ragioni che lo sostengono. In tutto l’articolo, l’autore, che è un neurologo, non solo evita accuratamente di affrontare la questione di come possano aversi delle esperienze coscienti in assenza di attività cerebrale (almeno per quanto ne sappiamo oggi), ma arriva ad affermare che le NDE non possono aver luogo senza “una coscienza di vivere la propria morte”. Questo insistere sulla consapevolezza, in corrispondenza di condizioni in cui, secondo la scienza, dovrebbe subentrare uno stato di totale incoscienza, la dice lunga sulla solidità di certe conclusioni e sulle motivazioni, tutt’altro che razionali, che le sostengono. E’ possibile che si dia per scontato che le NDE costituiscano un fenomeno allucinatorio, senza avvertire il minimo bisogno di verificare se esista una qualche corrispondenza tra le esperienze riferite dai pazienti e aspetti reali dell’ambiente? E, in caso di riscontri positivi, sarebbe così difficile stabilire se gli oggetti e i fatti di cui il soggetto ci parla potevano essere colti dalla specifica posizione in cui si trovava il suo corpo? Si tratta di domande che lasciano intravedere scenari talmente dirompenti per le attuali concezioni della mente, che si preferisce ignorarle, ritenendole del tutto assurde, e comunque indegne per chi opera all’interno della scienza. Questa certezza a priori, che ritiene di poter sapere come stiano effettivamente le cose, ancor prima di averle osservate concretamente, si trova in netta antitesi a un autentico spirito scientifico, che dovrebbe considerare con curiosità e attenzione tutto ciò che si allontana dalle acquisizioni consolidate. Purtroppo la storia della scienza ci offre un gran numero di esempi sul conservatorismo degli scienziati, cioè sulla loro tendenza ad aggrapparsi alle loro idee, combattendo con ogni mezzo coloro che le mettono in discussione, piuttosto che essere aperti alla critica e a nuove possibilità. E’ ciò che faceva osservare sconsolatamente a Max Planck: «Una nuova idea scientifica non trionfa perché i suoi oppositori si convincono e vedono la luce, quanto piuttosto perché alla fine muoiono, e nasce una nuova generazione in cui i nuovi concetti diventano familiari». (10) NOTE (1) Detlef B. Linke, “Oltre la soglia”, in Mente & cervello, n. 7 (2004), pagg. 66-72. |