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Ultimo Aggiornamento: 14/02/2021 18:46
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28/12/2018 12:29
 
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Il Sessantotto ha distrutto la società:
se a dirlo è l’Espresso
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fallimento sessantottoSessantotto e società. Il settimanale l’Espresso e una riflessione dello storico Giovani Orsina sul fallimento sociale della rivoluzione sessantottina, ridottasi ad azione violenta e narcisismo individualista.

 

Se lo dice perfino l’Espresso, settimanale della sinistra radical & anticlerical, allora chi può smentirlo? Il Sessantotto ha distrutto la società, generando la crisi dei valori che viviamo oggi. A scriverlo sulle pagine della rivista “rossa” è lo storico Giovanni Orsina, ordinario di storia contemporanea alla LUISS Guido Carli di Roma.

Il ’68 compie mezzo secolo quest’anno e le riflessioni su quel periodo si moltiplicano. Orsina traccia un bilancio politico ma anche morale. «Vogliamo tutto!», era il motto dei giovani ribelli sessantottini, imbevuti della menzogna che la libertà equivalesse ad emancipazione, allo sradicamento dei legami e delle autorità e al far ciò che pare e piace. Le aspettative erano enormi, le bocche piene di cambiamento e azione non-violenta, poi -commenta implacabile lo storico- il tutto «si disperde in mille rivoli ideologici l’un contro l’altro armati; o si riduce a perseguire l’azione per l’azione, magari violenta; oppure finisce riassorbita nei partiti della sinistra tradizionale».

Il fallimento trasforma così gli obiettivi della contestazione: «non più la soddisfazione del desiderio individuale come strumento di rivoluzione politica, ma la soddisfazione del desiderio individuale punto e basta». Il benemerito desiderio di una “liberazione” scartò, deridendola, la proposta cristiana(forse a volte formulata effettivamente in modo troppo moralistico e poco entusiasmante) e, tuttavia, non trovò alcuna risposta soddisfacente né nella politica, né nella stessa rivoluzione.

I Sessantottini cancellarono il passato e fallirono pure anche solo nel proporre una valida alternativa per il futuro. Scrive lo storico dell’Espresso: «Al di là e al di qua dell’Atlantico studiosi e intellettuali denunciano l’involuzione dell’“individuo desiderante” in un “narcisista” incapace di distinguere fra se stesso e la realtà; disconnesso da un passato e incapace d’immaginare un futuro; sovreccitato, autoreferenziale, e in definitiva profondamente infelice».

Così, la depressa infelicità dei padri si è riversata sui figli. Come ha dichiarato il celebre filosofo francese Remì Brague, professore emerito presso l’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne: «i figli del baby boom diventati sessantottini», i giovanotti della sua stessa generazione, «si sono mostrati di un egoismo scoraggiante nei confronti della generazione seguente, che hanno voluto d’altra parte poco numerosa», considerando il tracollo demografico europeo. «Le hanno lasciato un ambiente inquinato, un debito pubblico sempre crescente e, nell’ambito morale, degli esempi di comportamento devianti e mortiferi. Mi auguro che la presente generazione ci getti il prima possibile nell’immondezzaio della storia».

Un esempio paradigmatico di tutto ciò è quanto ha raccontato il figlio di una delle icone principali del Sessantotto: John Lennon. «Un cattivo padre. Ed io non riesco a diventarlo per colpa sua», ha detto Julian, il figlio maggiore del leader dei Beatles. «Mio padre cantava d’amore, parlava d’amore, ma non ne ha mai dato, almeno a me che ero suo figlio».

fonte UCCR


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