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CASUALITA' O CAUSALITA' ?

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2018 11:42
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14/09/2012 23:41
 
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A sostegno di una nuova teoria dell’evoluzione

di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica

 

Quando si tenta di fare critica scientifica al neo-darwinismo è difficile, se non impossibile, evitare l’accusa di sostenere tout court il creazionismo (in forma più o meno camuffata) e quindi di porsi al di fuori del discorso scientifico. Nel migliore dei casi, può capitare di sentirsi dire qualcosa del genere: “Va bene la critica, ma se ci si limita a quella e non si propone un’alternativa valida… la critica rimane scientificamente lettera morta e l’alternativa alla teoria neo-darwiniana coincide, di fatto, con il creazionismo”. In realtà, questo tipo di osservazione (quando è espressa in buona fede) ha senso, se si pensa a come la critica al neo-darwinismo sia effettivamente usata da certe organizzazioni per sostenere posizioni religiose fondamentaliste, decisamente anti-scientifiche. Sennonché, alle volte ci si dimentica – o si finge di dimenticare – che non tutti i dissidenti dal neo-darwinismo sono pastori protestanti della Bible belt statunitense.

Prima di proseguire nel discorso, conviene fermarci brevemente per richiamare alcuni concetti. Innanzitutto, è chiaro che l’evoluzione (intesa come cambiamento nel tempo della struttura e della composizione della biosfera terrestre) è un fatto scientificoinnegabile, suffragato da innumerevoli prove. Di norma, si usa distinguere tramacro‑evoluzione e micro‑evoluzione. Con il termine macro‑evoluzione si indica la comparsa nella biosfera di nuove funzioni, organi e gruppi tassonomici;  la micro‑evoluzione si identifica invece di solito con la variabilità intra-specie (che include l’apparizione di nuove varietà o sotto-specie), ma più in generale comprende tutti i fenomeni che implicano la specializzazione o la perdita di funzioni attraverso piccole variazioni ereditabili. Per esempio, l’evoluzione dell’occhio e la comparsa dei cordati, dei tetrapodi (i vertebrati terrestri) e degli euteri (i mammiferi placentati) costituiscono tutti casi di macro‑evoluzione. D’altro canto, la separazione del cane (Canis lupus familiaris) dal lupo (Canis lupus lupus) è una faccenda puramente micro‑evolutiva.

Per quanto riguarda le evidenze scientifiche dell’evoluzione, quelle della macro-evoluzione sono esclusivamente paleontologiche; per la micro‑evoluzione, invece, esistono moltissime osservazioni “in vitro”, oltre a quelle classiche “in vivo” (come il famoso caso della Biston betularia).  Tra le prove di laboratorio va ricordato, in particolare, lo storico esperimento sui batteri di Lenski, che è una splendida dimostrazione di adattamento micro-evolutivo (dovuto, nello specifico, alla perdita di una particolare funzione enzimatica). Senza entrare nel dettaglio, ricordiamo che il neo-darwinismo (per meglio dire, la “Sintesi Moderna dell’evoluzione”) è quella particolare interpretazione scientifica dei fenomeni evolutivi per cui la macro‑evoluzione non differisce sostanzialmente dalla micro‑evoluzione. In altri termini, secondo la teoria neo-darwiniana dell’evoluzione gli eventi macro-evolutivi sono dovuti al lento accumularsi – nel corso di ere geologiche – di una lunga serie di cambiamenti micro-evolutivi. Niente di più, niente di meno.

Ora, il punto è questo: la Sintesi Moderna (figlia, come è noto, della teoria originaria della selezione naturale di Darwin e della genetica, sviluppata intorno alla metà del XX secolo) è in grado di spiegare in modo pienamente soddisfacente la micro‑evoluzione. Per fare ciò, non richiede di andare oltre la semplice interpretazione dei fenomeni biologici fornita dalla fisica e dalla chimica della fine del XIX secolo, di impianto tipicamente riduzionistico. Purtroppo, però, la spiegazione della macro‑evoluzione non si può affatto considerare una conseguenza immediata di tale teoria: è richiesto, per così dire, un supplemento interpretativo, un fondamento filosofico che assicuri che l’approccio riduzionistico sia davvero in grado di giustificare ogni aspetto della realtà scientificamente esplorabile. Tale fondamento (totalmente filosofico, perché non suffragato da nessuna prova scientifica) è perfettamente stigmatizzato nell’opera più nota di Jacques Monod, “Il Caso e la Necessità”.

Caso (o politica, o chissà cos’altro) volle che nel corso del XX secolo il neo-darwinismo – vale a dire la rappresentazione monodiana dell’evoluzione – diventasse dominante tra gli specialisti del campo, assurgendo al rango di dogma indiscutibile. Questo nonostante le sempre più schiaccianti evidenze del fatto che un’interpretazione riduzionistica non basti a render conto di tutti gli aspetti della realtà materiale: evidenze provenienti dalla meccanica quantistica e dalla fisica dei sistemi complessi, ma anche dalla stessa biologia. È ormai assodato, per esempio, che la relazione tra genotipo e fenotipo di un organismo (vale a dire, tra l’informazione genetica e la sua espressione nel vivente) è di carattere altamente non lineare: le piccole variazioni fenotipiche caratteristiche della micro‑evoluzione coinvolgono di norma aree del genoma distanti eppure fortemente interdipendenti, mentre le mutazioni genotipiche puntiformi risultano neutre dal punto di vista macro-evolutivo o hanno effetti distruttivi sull’individuo. Secondo il premio NobelBarbara McClintock il genoma è un organello reattivo che può essere spinto alla riorganizzazione da qualche “shock”, portando alla comparsa di nuovi gruppi tassonomici: dunque, il DNA non andrebbe più considerato come il semplice portatore passivo di informazione del dogma monodiano – lentamente mutante nel tempo per effetto di piccole variazioni casuali – ma come un sistema complesso, capace di reagire in modo non lineare a sollecitazioni esterne. Inoltre, è ormai dimostrato che uno dei motori più importanti nei fenomeni evolutivi non è la mutazione genetica casuale, ma il trasferimento orizzontale di geni tra individui di una data popolazione. Tutto ciò è difficile da spiegare nella prospettiva strettamente riduzionistica del neo-darwinismo di stampo monodiano; ed è per questo che sono esistiti ed esistono scienziati che, pur essendo lontanissimi da idee creazioniste, lo hanno giudicato errato: Goldschmidt,SchindewolfDe VriesLøvtrupCroizatLima-de-Faria (per citarne solo alcuni).

Insomma, non sempre la critica al neo-darwinismo è da intendersi come strumentale a qualche sconsiderata teologia fondamentalista (così come il neo-darwinismo stesso, in quanto teoria scientifica, non dovrebbe essere strumentale a qualche altrettanto sconsiderata, e altrettanto fondamentalista, ateologia). D’altra parte, fin dalle origini il darwinismo si è cautelato da ogni tentativo di falsificazione scientifica. Il suo fondatore ebbe infatti a dichiarare: «Se si potesse dimostrare che esista un qualsiasi organo complesso, che non possa essere stato prodotto in alcun modo mediante molte piccole modificazioni successive, la mia teoria sarebbe completamente rovesciata. Ma io non riesco a trovare nessun caso del genere» (tratto dal capitolo VI de “L’origine delle specie”). In pratica, Darwin stabilì che per confermare la validità della sua teoria nella spiegazione di una data problematica evolutiva, sarebbe bastato escogitare una plausibile storia di adattamento e selezione naturale – non importa quanto improbabile, non importa se non verificabile. Pertanto, nonostante le pressioni provenienti da ogni area della scienza, è perfettamente possibile continuare ad avere fede nella Sintesi Moderna, a patto di riuscire a trovare una spiegazione riduzionistica, una narrazione selezionista darwiniana – una just-so story, insomma – che dia conto dello specifico fenomeno biologico esaminato. Il fatto è che questo è sempre possibile: considerata l’universalità del codice genetico nella biosfera terrestre, si può sempre immaginare che si sia verificata, a un certo punto nel remoto passato, un’opportuna mutazione genetica, seguita da una determinata successione di selezioni e adattamenti micro-evolutivi che hanno prodotto l’effetto osservato!

C’è un piccolo particolare, però: ogni nuova just-so story introduce un elemento sempre più pesante di fortuna nella narrazione della storia della vita. In altre parole, nella prospettiva darwiniana le cose sarebbero andate “proprio così” nel corso dell’evoluzione, non perché fosse inevitabile che lo facessero, ma perché qualche imponderabile fattore contingente avrebbe tutte le volte impostato, per un puro accidente fortuito, il corso degli eventi in un certo modo. Guarda caso, questo risultava sempre essere il modo più appropriato affinché, in un lontano futuro, potessero comparire organismi di capacità cognitive e complessità crescenti. Quest’ultima riflessione appariva particolarmente evidente a Stephen Jay Gould, che dedicò l’ultimo capitolo del libro “La vita meravigliosa”all’elencazione di una serie (parziale) delle “felici circostanze” che hanno portato alla comparsa della vita intelligente sulla Terra. Secondo l’analisi di Gould, se anche uno solo degli scenari descritti si fosse svolto in maniera differente, con ogni probabilità oggi il nostro pianeta non sarebbe abitato da una specie in grado di sviluppare scienza e tecnologia affidabili.

D’altra parte, il dogma monodiano non lascia via di scampo: nell’ambito di tale schema, ogni innovazione evolutiva dipende esclusivamente da particolarissimi eventi contingenti e da concomitanti mutazioni genetiche casuali, ognuna con una probabilità di verificarsi inesprimibilmente piccola

Nel precedente articolo abbiamo cominciato ad affrontare il problema dell’eventuale superamento scientifico della Sintesi Moderna, e più esattamente del riduzionismo monodiano quale paradigma esplicativo di ogni cambiamento evolutivo.

Per comprendere esattamente cosa comporti inquadrare l’evoluzione nello schema neo‑darwinista, andiamo ad analizzare uno degli esempi di “onnipotenza della contingenza” esaminati da Stephen Jay Gould nell’ultimo capitolo deLa vita meravigliosa, riguardante l’origine dei vertebrati terrestri (i tetrapodi).

Circa 370 milioni di anni fa, nel Devoniano, i pesci dominavano i mari. Si ritiene che i vertebrati terrestri moderni discendano da un piccolo gruppo di questi, l’ordine degli osteolepiformi dei pesci sarcopterigi (“dalle pinne carnose”). La maggior parte dei pesci sfoggiava, e sfoggia tuttora, pinne costituite da una serie di raggi sottili irradiantisi dall’asse dorsale. Senza nessun motivo, invece, un oscuro antenato dei sarcopterigisviluppò una struttura della pinna molto diversa, fissata a un robusto asse aggiuntivo perpendicolare al corpo. Questa soluzione si sarebbe rivelata indispensabile per la conquista della terraferma… ma non aveva nessun tipo di vantaggio evolutivo evidente in ambiente subacqueo. Una recente ricerca condotta da Stephanie Pierce, Jennifer Clack e John Hutchinson ha in effetti evidenziato che ittiostega – a lungo ritenuto una forma di transizione tra pesci e anfibi, interamente acquatica ma capace di comode “passeggiate all’asciutto” – fosse in realtà del tutto impossibilitato a compiere i movimenti necessari per camminare. Un semplice pesce dalle pinne carnose, insomma, dotato per combinazione di alcune delle caratteristiche necessarie all’uscita dall’acqua. Come si afferma nell’articolo: «I primi tetrapodi, e i pesci che hanno dato loro origine, furono inizialmente interpretati come animali adatti all’ambiente terrestre con pinne o arti capaci di sopportare pesi. Fin dai primi anni ‘90, tuttavia, nuove scoperte fossili e interpretazioni anatomiche hanno dimostrato che i primi vertebrati dotati di arti avevano abitudini primariamente acquatiche e che gli arti si sono evoluti prima dell’abilità di “camminare” sulla terraferma”. La comparsa della caratteristica indispensabile per la futura evoluzione dei tetrapodi non sarebbe stata, dunque, nient’altro che un puro e semplice “colpo di fortuna”.

Ora, la domanda che Gould pone è la seguente: sarebbe possibile immaginare, in una Terra in cui ciò non fosse avvenuto – in un pianeta abitato cioè solo da invertebrati e vertebrati marini privi di forti arti – l’esistenza di scienziati capaci di porsi le nostre stesse domande sull’origine della vita intelligente? Secondo Gould no: gli insetti, gli unici animali forniti di buone capacità di manipolazione fine viventi in ambiente terrestre, non hanno mai mostrato una tendenza all’evoluzione di doti cognitive di alto livello, pur essendo comparsi molto prima dei mammiferi. Si badi bene: qui non si nega la possibilità di spiegare il successo evolutivo dei discendenti del primo ignoto sarcopterigio con qualche scenario neo-darwinista di “selezione del più adatto” (ne esistono diversi di plausibili), o magari di giustificare l’origine stessa del passaggio al tetrapodismo (“evidentemente si è trattato di un evento di exaptation da strutture organiche preesistenti”, si dice); piuttosto, si sottolinea la casualità di importanti “innovazioni” macro-evolutive, che si sarebbero rivelate adatte alla bisogna solo molto tempo dopo la loro comparsa. In realtà,basta pensare a quanto sia improbabile la fissazione nel genoma dell’informazione relativa a una singola proteina utile – mediante i soli meccanismi riduzionistici di mescolamento e mutazione puntiforme del DNA – per capire quanto poco convincentesia ognuno dei suddetti scenari evolutivi: anche il fenomeno dell’exaptation, in fondo, conta sul riadattamento di un numero finito di strutture organiche già funzionanti, sebbene per scopi diversi.

In definitiva, bisogna rendersi conto che l’intera storia della vita sulla Terra è costellata di “coincidenze fortunate” di questo genere; e sebbene sia sempre possibile una spiegazione riduzionistica conforme allo schema “mutazione genetica casuale ‑ selezione naturale”, capace di spiegare a posteriori ognuno di tali eventi, questa soluzione non si può ritenere soddisfacente dal punto di vista scientifico. Come abbiamo più volte osservato, infatti, l’assunto riduzionistico che l’evoluzione non sia in definitiva altro che una lunghissima successione di “eventi fortunati” – ognuno, tra l’altro, con una probabilità bassissima di verificarsi, data la relazione non lineare tra genotipo e fenotipo – conduce a una sola possibile conclusione logica: deve esistere una quantità infinita dirisorse probabilistiche (casi possibili e tempo a disposizione) utilizzabili dal processo evolutivo. In altre parole, il dogma monodiano porta alla credenza nel multiverso. Un’idea, questa, che non è affatto sostenuta dalla scienza e che entra in conflitto, più in generale, anche con la logica (vedere per esempio quiqui e qui).

Se, dunque, l’interpretazione della realtà fatta a partire da certe premesse assiomaticheporta a conclusioni poco sostenibili dal punto di vista logico e scientifico, che cosa ne dobbiamo dedurre? Indubbiamente che ci deve essere qualche errore – di carattere scientifico o logico – nelle premesse, oppure nelle varie ipotesi assunte nel corso dell’interpretazione successiva.
A me sembra che il dilemma si possa ricondurre a due alternative:

  1. O è sbagliato l’approccio riduzionistico al problema dell’evoluzione biologica;
  2. O è sbagliata l’idea di un’evoluzione guidata solo dal caso.

Si capisce che nessuna delle due alternative è in contrasto con una visione teistica, mentre solo la seconda lo è decisamente con quella ateistica (salvo che non si voglia ammettere, con Richard Dawkins e lo scrittore di fantascienza David Brin la possibilità di un ID alieno). Da un punto di vista strettamente scientifico, sanamente agnostico, la prima alternativa sembrerebbe dunque essere l’unica possibile. Certamente, l’abbandono di un paradigma così profondamente consolidato quale quello riduzionistico potrà sembrare a tanti un salto nell’ignoto; tanto più che molti intravedono in questa operazione il “rischio” di giungere a una forma di conoscenza della realtà materiale comunque “sporcata” da tentazioni teleologiche o neo-platoniche, che trovano francamente intollerabili. Ma tant’è: se la scienza vorrà mantenere il suo carattere galileiano originario, dovranno essere le interpretazioni filosofiche a piegarsi all’evidenza empirica, e non viceversa.

Potrebbe dunque valere la pena di costruire una teoria evolutiva che emerga finalmente dalle sabbie mobili della Sintesi Moderna? Secondo il famoso microbiologo Carl Woese, certamente sì. Si tratterebbe, in realtà, di mirare alla fondazione di una vera e propria“Fisica dei Sistemi Viventi” (definita così in analogia con la Fisica dei Sistemi Complessi). Insomma, si dovrebbe tentare di sottrarre la teoria dell’evoluzione dalle grinfie del Casomonodiano, allo scopo di riportarla nell’alveo della Necessità scientifica e riconciliarla così con l’evidenza empirica.
A me pare che la strada verso la costruzione di una Fisica dei Sistemi Viventi dovrà necessariamente procedere attraverso i seguenti passi:

  1. demolizione (parziale) del vecchio edificio dogmatico, attraverso argomenti epistemologici e osservazioni scientifiche (“pars destruens”);
  2. costruzione di una possibile “impalcatura” per la futura erezione del nuovo edificio, soprattutto attraverso considerazioni epistemologiche non limitate dal paradigma riduzionista, e
  3. graduale inserimento di vecchi e nuovi dati scientifici come “mattoni” per la costruzione del nuovo edificio (“pars construens”).

Come sappiamo, molti scienziati e filosofi hanno lavorato e stanno lavorando al punto 1dell’elenco precedente; pochi ai punti 2 o 3Eva Jablonka e Marion Lamb, per esempio,hanno proposto una teoria dell’evoluzione “a quattro dimensioni”  in cui si rigettal’immagine dell’”Albero della Vita” di darwiniana memoria (più correttamente, alla luce di quanto si sa oggi grazie alla paleontologia, del “Cespuglio della Vita”) e si adotta invece quella di una “rete” di strette relazioni che si estendono sia nello spazio (attraverso la condivisione orizzontale dei genomi) che nel tempo (attraverso l’ereditarietà: genetica, epigenetica, comportamentale e simbolica). D’altra parte, la teoria di Jablonka e Lamb, pur rifiutando il principale caposaldo del neo-darwinismo (il gradualismo) – e giungendo perfino ad ammettere la possibilità di trasmissione ereditaria di tipo lamarckiano – non sembra ancora capace di distaccarsi da un quadro interpretativo riduzionistico: non viene infatti prospettato alcuno schema di livello superiore (una Fisica dei Sistemi Viventi, insomma) che spieghi in qualche modo i meccanismi di interazione che creano e tengono insieme la “Rete della Vita”. Un’altra just-so story, dunque, solo di dimensioni gigantesche.

Eppure, nell’evoluzione a quattro dimensioni fanno capolino due importanti elementi nuovi: l’ereditarietà comportamentale e simbolica. Ora, il comportamento e i simboli sono oggetti di studio tanto scientifico quanto filosofico, che fanno parte di quel mondo “mentale” che tende a sfuggire, come sappiamo, ad un’analisi riduzionistica (vedere qui equi). Insomma, si intravede nella teoria di Jablonka e Lamb un “punto cieco” che lascia probabilmente spazio a una rilettura delle scienze evolutive finalmente affrancata dal dogma monodiano.

Credo, in conclusione, che si debba e si possa fare molto di più dal punto di vistainterpretativo, rispetto a questi – pur importantissimi – tentativi di rifondazione di un paradigma scientifico ormai sclerotizzato, quale è il neo-darwinismo. È evidente, infatti, che un’impresa del genere richieda, oltre a una quantità di prove sperimentali, dosi massicce di “interpretazione filosofica”. In quest’ultimo senso, ogni contributo (per quanto piccolo) può essere importante. Penso, perciò, sia proprio arrivato il momento in cui chiunque abbia fiducia nella scienza galileiana e creda nella capacità della ragione umana di leggere la Realtà (ma soprattutto non tema di incappare in tentazioni teleologiche), cominci seriamente a darsi da fare per la realizzazione della tanto attesa “pars construens” di una nuova teoria dell’evoluzione, per la costruzione di una vera Fisica dei Sistemi Viventi.

Un interessante tentativo sta per essere avviato sul sito web di Enzo Pennetta, www.criticascientifica.it, come viene spiegato in questa pagina.

[Modificato da Credente 15/09/2012 17:10]
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