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Risposte a DOMANDE di FEDE

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18/05/2019 19:16
 
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Nel racconto della Passione, in tutti i Vangeli (seppure con particolari diversi) si dice che a Gesù venne offerto aceto da bere. Non ho mai capito bene il motivo: era un gesto di derisione, oppure come ho sentito dire da alcuni commentatori, era l’usanza dell’epoca usare l’aceto per dissetare e lenire il dolore?

 G. Bruni


Risponde don Stefano Tarocchi, docente di Sacra Scrittura alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale.


In tutti i quattro i Vangeli si fa riferimento all’episodio accennato dal lettore. Probabilmente si tratta di un soldato, fra quelli presenti ai piedi della croce, a dare l’aceto a Gesù. Accade così nel racconto di Luca: «anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,36-37). Tuttavia, le parole che il vangelo di Marco mette sulla bocca di chi offre l’aceto a Gesù sulla croce, come vedremo più avanti, si adattano soltanto a un giudeo, l’unico che può scambiare l’invocazione a Dio con il profeta Elia.


Così leggiamo: «alle tre, Gesù gridò a gran voce: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere»» (Mc 15,34-36).


Anche il vangelo di Giovanni racconta il medesimo elemento «dopo questo [l’affidamento della madre al discepolo prediletto, e di questi alla madre], Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete»». vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,28-30).


Così invece leggiamo in Matteo: «Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!»» (Mt 27,47-49).





Il gesto di dare l’aceto ad un condannato a morte sulla croce, infatti, non era un atto di misericordia: potrebbe essere così descritto ciò che accade – ma nel solo vangelo di Marco – nel momento precedente la crocifissione, dove si fa riferimento ad un’altra bevanda: «condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese» (Mc 15,22-23). Quest’ultima era invece una bevanda inebriante, fatta per mitigare il dolore: ma Gesù la rifiuta del tutto.


L’aceto, che gli viene dato nel punto estremo della sua permanenza sulla croce avanti la morte, doveva servire solo a prolungare l’agonia di Gesù: era quindi l’estrema offesa di quanti anche sotto la croce rifiutavano il Cristo. Il racconto del vangelo di Marco muove dall’improbabile fraintendimento del grido di Gesù (il Salmo 21: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?») con un’invocazione al profeta Elia. Così Mc 15,36: «vediamo se viene Elia a farlo scendere»); e Mt 27,47.49: «Costui chiama Elia»; «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». Così questo estremo momento drammatico della vita di Gesù si lega al gesto di offrire il vino «acuto» (è il significato letterale del termine usato), che noi non a caso chiamiamo «aceto».


Sembra che colui che offre aceto a Gesù voglia attendere la venuta di Elia e – dal suo punto di vista – l’eclatante miracolo della discesa dalla croce, che avrebbe vanificato il senso dell’intera passione.


Di fatto, il grido di Gesù che muore – quasi certamente simbolico, dato che il condannato alla crocifissione moriva soffocato – non si articola in parole, come invece la precedente drammatica invocazione del Salmo 21: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».


Di fronte a quanti partecipano alla passione con i loro rituali estranianti solo il centurione può dire «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la professione di fede, che il rappresentante della dominatrice potenza romana, svela la pienezza del connubio tra l’umanità e la divinità del Cristo.


Qui l’articolo originale pubblicato su “Toscana Oggi”




 

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