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RIFLESSIONI E COMMENTI BIBLICI (Vol.1)

Ultimo Aggiornamento: 31/12/2010 09:55
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12/10/2010 11:54
 
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La mancanza di pudore ha tolto la dignità umana a milioni di persone.

Non c’è più pudore nella società, te ne accorgi seguendo il telegiornale, che sforna notizie indecenti e certo non per colpa dei giornalisti. Si vede chiaramente che l’onestà intellettuale è scomparsa un po’ ovunque, nella politica e nell’industria, nello spettacolo e nello sport. Praticamente, quelli che devono dare esempi di lealtà invece ci propinano scandali e tormenti.


La prova viene data dagli stessi personaggi famosi, uomini e donne, che rilasciano interviste scioccanti e non provano vergogna. Fino ad alcuni decenni fa si cercava in tutti i modi di non spiattellare pubblicamente i propri vizi, oggi al contrario, si fa a gara nel raccontare le proprie perversioni, e più sono volgari, più si ritengono soddisfatti ed appagati. Si tratta di una completa perdita del pudore


Immagiamo cosa prova chi rimane molte ore a seguire talk show e altri programmi di pettegolezzi; addirittura molti programmi sono imperniati su notizie scandalistiche, in cui primeggiano curiosità di persone che si fidanzano per un giorno, il tempo di trascorrere la notte insieme, altri che esaltano l’amore libero e addirittura l’amicizia erotica, in cui si diventa amanti quando vogliono accoppiarsi come gli animali. Questo ed altro ci dicono che  si è abbassato enormemente il livello di moralità, la dignità è sconosciuta a molti personaggi famosi.

La cosa tragica è l’imitazione da parte di molte brave casalinghe e donne che vanno in ufficio. Donne sconvolte nella loro serietà da insegnamenti trasgressivi in cui tutta l’immoralità  è permessa e questi insegnamenti vanno a collocarsi nell’inconscio, per rivelarsi gradualmente e spingere brave persone a trasformarsi in adultere e cattive maestre verso i propri figli.

Stesso comportamento avviene negli uomini, che forse sono ancora più astuti.

La mancanza della preghiera e delle virtù, rovinano innumerevoli persone.

Le virtù morali non sono conosciute da miliardi di persone, la riservatezza personale non si rispetta, la decenza nel vestire non esiste, dove sta andando questa generazione?

Gesù esclamò: "Quando tornerà il Figlio dell'uomo, troverà la Fede sulla terra?"

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13/10/2010 15:42
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 11,42-46


I farisei osservano scrupolosamente la legge nelle piccole cose e la calpestano nei comandamenti essenziali. Sono vanagloriosi. Esteriormente si presentano irreprensibili, ma interiormente sono ben lontani dall'osservanza della legge.

Gesù esige che la legge sia osservata per intero: "Queste cose bisogna curare senza trascurare le altre" (v. 43). Ma il precetto più importante è il comandamento dell'amore (cfr Lc 10,27). Chi ama compie tutta la legge (cfr Rm 13,10), anche quella sulle decime. Chi non ama non osserva nulla, anche se compie tutti gli atti di osservanza. L'osservanza dei comandamenti, se è senza amore, è non osservanza. Invece di amare Dio e il prossimo, il fariseo ama se stesso; si mette al centro di tutto, facendo del proprio io il suo Dio.

Nell'osservanza della legge il movente non dev'essere l'ambizione, ma la volontà del Padre: "Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli" (Mt 6,1).

I farisei cercano la loro salvezza nell'osservanza della legge. La loro salvezza sta in realtà nella parola di Dio, che giunge a loro tramite Gesù. La legge non serve a nulla, se il regno di Dio non nasce nell'uomo mediante la parola di Gesù.

I farisei erano scolari docili e fedeli dei dottori della legge. Essi realizzavano nella vita ciò che questi insegnavano. I rimproveri rivolti ai farisei colpiscono quindi anche i dottori della legge. Essi fanno della legge, che Dio ha dato per il bene e la salvezza degli uomini, un peso insopportabile con la loro dottrina e la loro interpretazione; però essi stessi sanno egregiamente sottrarsi dalla sua osservanza usando i loro cavilli. Se si sforzassero di osservare quanto dicono, forse si accorgerebbero del peso insopportabile del giogo che impongono agli altri.
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14/10/2010 15:03
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 11, 47-54


I farisei erano gli scolari docili e fedeli dei dottori della legge. Essi realizzavano nella vita ciò che questi insegnavano. I rimproveri rivolti ai farisei colpiscono dunque anche i dottori della legge. Essi si ponevano sullo stesso piano dei profeti ed esigevano di essere ascoltati come Mosè, come la legge stessa. Gesù aveva già detto: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno"(Mt 23,2-3).

Nel brano di oggi Gesù rivolge ai dottori della legge due rimproveri: 1) Essi costruiscono monumenti funebri ai profeti uccisi dai loro antenati perché annunciavano la parola di Dio; e intanto cercano di uccidere il più grande dei profeti, Gesù. 2) Si arrogano il diritto esclusivo di spiegare la Scrittura e di interpretare la volontà di Dio e, di conseguenza, si credono le uniche guide autorizzate che conducono alla conoscenza di Dio e alla vita eterna; e intanto rifiutano Gesù e impediscono che altri lo riconoscano e giungano tramite il suo vangelo e la sua opera, alla conoscenza di Dio e alla vita eterna. I rimproveri diretti contro i dottori della legge hanno il loro motivo più profondo nel rifiuto di Gesù. Egli è il profeta di Dio che riassume e supera la parola di tutti i profeti. Egli solo ha la chiave della conoscenza e dà la conoscenza: "Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Lc 10,22). La colpa più grave dei dottori della legge è questa: non solo non riconoscono Gesù, ma impediscono anche al popolo di riconoscerlo. Tutti i difetti e i delitti dei dottori della legge trovano la loro radice nel fatto che preferirono la loro sapienza umana alla sapienza di Dio, manifestata in Gesù.

I loro padri hanno ucciso i profeti per non convertirsi; i contemporanei di Gesù uccideranno la Parola stessa, il Cristo. La sapienza di Dio è sempre perseguitata e rifiutata, perché è la sapienza della croce, del bene che vince il male portandolo, sopportandolo e perdonandolo.

Ai contemporanei di Gesù verrà chiesto conto del sangue di tutti i giusti e di tutti i profeti, dall'inizio del mondo. Infatti il mistero dell'iniquità raggiunge il culmine nell'ora della sua passione (cfr Lc 22-23). Ma nella passione di Gesù raggiunge il culmine anche il mistero della bontà di Dio. Questo "ahimè per voi" che Gesù rivolge ai dottori della legge è la sua stessa croce, dove porta su di sé la maledizione della legge e paga il conto di ogni nostro delitto. Se il sangue di Abele, il primo giusto ucciso, grida dalla terra a Dio (Gen 4,10), quello di Gesù la lava da ogni macchia. Zaccaria, l'ultimo profeta ucciso, muore dicendo: "Il Signore ve ne chieda conto" (2Cr 24,20ss), Gesù crocifisso dirà: "Padre, perdona loro" (Lc 23,24). La giustizia della legge infatti denuncia e fa vedere il peccato davanti a Dio; la sapienza del vangelo, invece, lo perdona e se ne fa carico.

I dottori della legge tolgono la chiave della conoscenza di Dio, perché danno l'immagine di un Dio senza misericordia. Stanno lontani loro e tengono lontani anche gli altri. Ma la sapienza di Dio si servirà della loro insipienza: la croce che essi leveranno sarà l'unica, vera chiave per entrare nella conoscenza di Dio.
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16/10/2010 14:29
 
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Commento di Padre Giulio Maria Scozzaro

Gesù ammonì degli scribi e farisei ipocriti, i falsi devoti del Tempio. Ricorda a tutti loro che le generazioni passate avevano ucciso i Profeti inviati da Dio.

Come potevano pensare bene di se stessi quando trasgredivano il Comandamento di non uccidere? È la perversa coscienza umana, capace di trovare per sé le giustificazioni migliori ed addormentare la propria mente. L’amore lo calpestavano eppure riuscivano a trovare cavilli per attaccare Gesù. I cavilli diventeranno pretesti per chiedere alla fine la morte di Gesù.

Vedete come è cattivo il cuore dell’uomo che non prega?

Tra coloro che non pregano ci sono molte brave persone, ma non puoi fidarti pienamente, perché non hanno una legge da osservare, non credono in un Dio che vede tutto e che a tutti farà un Giudizio. E oggi è diventato ancora più difficile trovare vere amicizie, in quanto l’altruismo è stato sostituito dall’egoismo, l’interesse personale viene collocato al primo posto.

Così facevano gli scribi. Gesù aveva sistemato i farisei, poi è passato ad ammonire i dottori della Legge, presuntuosi e corrotti. Nei loro insegnamenti si ergevano a maestri della Parola di Dio ed affermavano che solo loro erano in grado di spiegarla, ma in realtà essi ingannavano perché manipolavano la Scrittura secondo la personale convenienza.

Possiamo chiamarli modernisti del tempo di Gesù.

Gli scribi predicavano contro Gesù, insinuavano falsità e costruivano accuse totalmente inventate contro il Signore. Per questo, Egli li sistema non appena ne ha l’occasione, espone la vera accusa contro essi ed è gravissima: voi non pensate a salvarvi l’anima ed impedite agli altri di salvarsi.

Questi scribi sono gli antenati di molti teologi di oggi!

“Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza”, in pratica hanno manomesso la verità delle Scritture per non essere scoperti dai cittadini ed uccisi, come erano stati uccisi gli antichi Profeti. Ma questi però obbedivano a Dio.

Questi scribi vogliono ripetere con Gesù lo stesso trattamento, fino a riuscire ad imporre la falsa accusa che porterà alla condanna di Gesù. Così si ripete lo stesso trattamento verso i discepoli fedeli al Vangelo, nessuno è amato perché porta impresso nell’anima il segno di Dio.

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19/10/2010 19:20
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Siate pronti!

Prima di addormentarci nel sonno della morte, rischiamo di cadere nel torpore della vita; ciò ci accade quando ci lasciamo coinvolgere dagli eventi, sedurre dal tempo e acquietare dalle cose che circondano, incapaci di guardare oltre per aver perso lo scopo ultimo della nostra vita. Diventiamo come viandanti che hanno smarrito la strada il cui incedere diventa vago e immotivato. "Siate pronti" ci risuono perciò come una sveglia dal torpore e dall'immobilismo, ci ricorda di essere dei viandanti che continuamente debbono cercare la strada e fare il giusto rifornimento per non restare privi di indispensabili energie. Solo così la vita acquista il suo vero significato: siamo in marcia verso una meta, sempre desti e pronti, camminiamo insieme, abbiamo la certezza che Qualcuno ci precede e ci indica la via. L'attesa e la fatica non sono vane perché il Signore ci attende per farci sedere al banchetto del cielo insieme ai suoi santi. Ci percorre il pensiero di tante giovani vite, prive di meta e di ideali, che soffocate dal nulla e dalla nausea, ricorrono ai falsi dei, fino a procurarsi la morte, prima dell'anima e del corpo. Forse non si è giunti in tempo a destarli dal torpore e innamorarli della vita!
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20/10/2010 14:45
 
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Commento di Padre Giulio Maria Scozzaro

Chi non riflette sul futuro e non pensa alla vita eterna, vive in modo dissoluto, non teme Dio né si dispiace per il male che compie. Vive con i paraocchi, guarda solo nella direzione che conviene, accoglie quello che gratifica e anestetizza la coscienza.

Quel servo della parabola è l’uomo di oggi che ha dimenticato Gesù, non Lo considera Dio e Creatore, anzi non crede nell’Essere Divino. È un impegno che intralcia la libertà spesso audace e disinvolta, si preferisce non avere alcun legame con il Divino per non sentirsi obbligati.

Le conseguenze per chi ha scelto di non seguire Gesù sono sotto gli occhi di tutti, si vede in giro e si ascoltano fatti incredibili compiuti da questa generazione e che coinvolgono anche moltissimi genitori. Si sta affermando come regola non scritta ma adorata, la dissolutezza morale, la depravazione in tanti settori della vita sociale. Persone che di giorno mostrano comportamenti ineccepibili, la notte si prostituiscono o scambiano i partner o partecipano a festini di droga o cambiano amanti frequentemente.

Liberi di fare quelle scelte, dovranno accettare anche le conseguenze.

Il punto da discutere è che Gesù ha dato una missione ad ognuno di noi. L’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio, porta in sé l’impronta di Dio, lo Spirito Divino. L’intelligenza dell’uomo deve essere usata per il suo bene, per realizzare la volontà del Creatore, non per tradire Dio e volgersi verso il male.

Il Vangelo ci presenta due servi con due comportamenti diversi. Uno è vigilante ed osserva con docilità gli ordini del padrone, mentre l’altro non ha accolto gli ordini del padrone e vive in modo spregiudicato, non si sente impegnato con Dio.

Quando il padrone ritorna, trova uno osservante e l’altro indipendente, scatenato nel compiere ogni forma di perversione. Ne consegue che uno amministra bene le sue responsabilità davanti a Dio, valorizza se stesso e si trova nella condizione di ricevere la ricompensa. Al contrario, quello indipendente pur conoscendo la volontà del padrone, si rifiuta di osservarla, e ne porterà delle conseguenze, perché non riesce ad amministrare con responsabilità la sua vita e quella della sua famiglia.

L’atteggiamento della vigilanza è proprio dei figli di Dio, quanti considerano la loro vita come un dono di Dio e a cui bisogna dare gloria. La vigilanza è l’impegno sincero del cristiano che non vuole sciupare la sua vita, non vuole sperperare i doni di Dio.

Dobbiamo collaborare al progetto che Dio ha su ognuno di noi.

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21/10/2010 11:32
 
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padre Lino Pedron
 Commento su Luca 12, 49-53

Gesù presenta la sua azione rinnovatrice nell'immagine del fuoco. Si tratta del fuoco del giudizio finale (cfr Lc 3,9) e del fuoco della Pentecoste (cfr At 2,3), perché il giudizio definitivo di Dio sul mondo è il dono dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l'amore di Dio per l'uomo, che sgorga dalla morte stessa del Figlio.

Gesù continua a parlare della sua missione, in particolare del traguardo che lo attende e che egli chiama "battesimo". Il battesimo che egli prevede e desidera è l'immersione nel proprio sangue, nella propria morte. La morte non è un momento facile nella vita di Gesù; essa tiene angustiato tutto il suo animo, come rivelerà nel Getsemani e sulla croce. Il suo desiderio è di arrivarvi quanto prima e così porre fine al suo tormento, ai contrasti e ai conflitti che si alternano nella sua coscienza.

Le proposte di Gesù sono incendiarie, non lasciano indisturbati, provocano una rivoluzione in chi le accoglie, ma anche una violenta reazione in chi le rifiuta. Sono proposte radicali che chiedono risposte radicali. Gesù è il salvatore e il liberatore dell'uomo da ogni sua precedente oppressione, per questo deve provocare divisioni e rivolgimenti nelle strutture sociali e familiari. La scelta di Cristo e del suo vangelo produce reazioni anche violente da parte delle persone a cui il cristiano è legato. Senza esitazione occorre preferire Cristo agli amici e ai familiari. La profezia di Simeone che ha presentato Gesù come "segno di contraddizione" (Lc 2,34) trova anche qui la sua attuazione.

La proposta che il vangelo rivolge agli uomini di tutti i tempi è quella di una scelta radicale pro o contro Cristo. E non c'è spazio per i compromessi. Il cristiano urta non solo le situazioni familiari, ma spesso anche le strutture sociali e coloro che le reggono e le dominano a proprio vantaggio. La lotta contro di essi è inevitabile quando ci si trova schierati dalla parte di Cristo e del vangelo.

L'appartenenza a Cristo esige da noi una vita pasquale di morte e risurrezione con strappi e lacerazioni. Sono i costi della libertà e della vita nuova.
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23/10/2010 12:36
 
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a cura dei Carmelitani

Dal Vangelo secondo Luca 13,1-9
  Riflessione

  Il vangelo di oggi ci dà informazioni che ci sono solo nel vangelo di Luca e non hanno passaggi paralleli negli altri vangeli. Stiamo meditando il lungo cammino dalla Galilea fino a Gerusalemme che occupa quasi la metà del vangelo di Luca, dal capitolo 9 fino al capitolo 19 (Lc 9,51 a 19,28). In questa parte Luca colloca la maggior parte delle informazioni che ottiene sulla vita e l'insegnamento di Gesù (Lc 1,1-4).
Luca 13,1: L'avvenimento che richiede una spiegazione. "In quel tempo, si presentarono a Gesù alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici". Quando leggiamo i giornali o quando assistiamo alle notizie in TV, riceviamo molte informazioni, ma non sempre capiamo tutto il loro significato. Ascoltiamo tutto, ma non sappiamo bene cosa fare con tante informazioni e con tante notizie. Notizie terribili come lo tsunami, il terrorismo, le guerre, la fame, la violenza, il crimine, gli attentati, ecc.. Così giunse a Gesù la notizia dell'orribile massacro che Pilato, governatore romano, aveva fatto con alcuni pellegrini samaritani. Notizie così ci scombussolano. Ed uno si chiede: "Cosa posso fare?" per calmare la coscienza, molti si difendono e dicono: "E' colpa loro! Non lavorano! E' gente pigra!" Al tempo di Gesù, la gente si difendeva dicendo: "E' un castigo di Dio per i peccati!" (Gv 9,2-3). Da secoli si insegnava: "I samaritani non dicono il vero. Hanno una religione sbagliata!" (2Rs 17,24-41)!
Luca 13,2-3: La risposta di Gesù. Gesù ha un'opinione diversa. "Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali cadde la torre di Siloe che li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo". Gesù aiuta le persone a leggere i fatti con uno sguardo diverso ed a trarne una conclusione per la loro vita. Dice che non è stato un castigo di Dio. Al contrario. "Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo". Cerca di invitare alla conversione ed al cambiamento.
Luca 13,4-5: Gesù commenta un altro fatto. O quei diciotto, sopra i quali cadde la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? Deve essere stato un disastro di cui si parlò molto in città. Un temporale fece cadere la torre di Siloe uccidendo diciotto persone che si stavano riparando sotto di essa. Il commento normale era: "Castigo di Dio!" Gesù ripete: "No vi dico, ma se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo". Loro non si convertirono, non cambiarono, e quaranta anni dopo Gerusalemme fu distrutta e molta gente morì uccisa nel Tempio come i samaritani e molta più gente morì sotto le macerie delle mura della città. Gesù cerco di prevenire, ma la richiesta di pace non fu ascoltata: "Gerusalemme, Gerusalemme!" (Lc 13,34). Gesù insegna a scoprire le chiamate negli avvenimenti della vita di ogni giorno.
  Luca 13,6-9: Una parabola per fare in modo che la gente pensi e scopra il progetto di Dio. "Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai". Molte volte, la vigna è usata per indicare l'affetto che Dio ha verso il suo popolo, o per indicare la mancanza di corrispondenza da parte della gente all'amore di Dio (Is 5,1-7; 27,2-5; Jr 2,21; 8,13; Ez 19,10-14; Os 10,1-8; Mq 7,1; Gv 15,1-6). Nella parabola, il padrone della vigna è Dio Padre. L'agricoltore che intercede per la vigna è Gesù. Insiste con il Padre di allargare lo spazio della conversazione.


4) Per un confronto personale

? il popolo di Dio, la vigna di Dio. Io sono un pezzo di questa vigna. Mi applico la parabola. Quali conclusioni ne traggo?
? Cosa ne faccio delle notizie che ricevo? Cerco di avere un'opinione critica, o continuo ad avere l'opinione della maggioranza e dei mezzi di comunicazione?


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24/10/2010 08:37
 
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don Maurizio Prandi
 Una buona relazione

La Liturgia della Parola di questa domenica ci aiuta, con una nuova riflessione sulla preghiera a scendere in profondità in noi per capire la verità, la sincerità dei gesti che poniamo e delle scelte che facciamo. A questo mi richiamano il vangelo, con la nota parabola del fariseo e del pubblicano e la prima lettura. Entrambi mettono in luce il nesso, il rapporto profondo che c'è tra preghiera e autenticità.

La prima lettura credo ci dica una verità importante mettendo in evidenza quali sono i tratti costitutivi dell'autenticità: per essere veri è necessario essere umili e poveri; il brano di vangelo, percorrendo lo stesso sentiero ci invita a riconoscere da che cosa siamo abitati, se da un "io smisurato", delirante, o dalla consapevolezza della nostra fragilità, debolezza; se da un desiderio di sentirci comunque giustificati grazie ai nostri "piccoli adempimenti", o da un anelito di conversione, cambiamento, per poter camminare e accogliere la misericordia di quel Dio che sempre avrà pietà di noi, in ogni momento della nostra vita.
Sento il vangelo di oggi di una importanza fondamentale, per me e per le mie comunità. Parto da una intuizione di Enzo Bianchi che riflette sulla vicinanza-lontananza del fariseo e del pubblicano. La preghiera dovrebbe unire, ma questi due, separati fisicamente credo da pochi metri, vivono una distanza abissale. La domanda che Gesù ci pone oggi raccontando questa parabola è: cosa significa pregare insieme? Semplicemente stare fianco a fianco, l'uno accanto all'altro in uno stesso luogo, in una stessa liturgia? E' possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone, dal disprezzo… l'autenticità della preghiera, dell'offerta fatta al Signore nel culto, passa attraverso la qualità buona delle relazioni con i fratelli che pregano con me e con me formano il corpo di Cristo (E. Bianchi). E' proprio quanto don Michele (il mio nuovo compagno di cammino nella missione di Cuba), diceva oggi durante un breve momento di condivisione quando ci siamo proposti l'obbiettivo di andare all'idea più semplice, più essenziale della preghiera: è un buon rapporto con Dio ed è un buon rapporto con i fratelli.
In questo senso, non è preghiera quella del fariseo, perché né desidera la relazione con Dio, né rispetta i fratelli, si può dire che nemmeno conosce Dio, perché conosce soltanto se stesso e la "bontà" delle cose che è convinto di fare per Dio. Ci può aiutare la traduzione letterale del primo versetto del vangelo ascoltato: per alcuni che in sè confidano in quanto giusti… Già qui capiamo quanto è facile togliere Dio, metterlo da parte. Dio, per quest'uomo, ha un unico ruolo: essere testimone della sua giustizia, della sua bontà, delle sue virtù, della sua capacità di compiere la legge. Disprezzando, ringrazia! Non ha capito niente! Dalle parole che dice tra sé (parla tra sé e quindi non è un uomo aperto, rivolto, ma profondamente chiuso e solo) capiamo che non è lui che deve ringraziare Dio, ma è Dio che "deve mettere un voto alto sulla sua pagella" per le tante cose belle che fa. Disprezzando, (non sono come gli altri), dimostra anche di non conoscere la Scrittura e in particolare la prima lettura di oggi, che in modo chiaro ci ha detto che Dio non fa differenze, preferenze di persone. Disprezzando rifiuta di accogliere la visita di Dio prima negli altri uomini e poi in chi sta pregando con lui (non sono come gli altri uomini… non sono come questo pubblicano…).
Che differenza rispetto al pubblicano, che è capace di mettere Dio al centro e quindi possiamo dire che veramente prega, riconosce che soltanto Dio può salvare la sua vita e si mette nelle sue mani. Non dobbiamo dimenticare che il cammino che da tre domeniche a questa parte abbiamo cominciato pone la fede al centro della nostra riflessione e la preghiera è uno dei modi nei quali diciamo la qualità della nostra fede. Ricordate la domanda con la quale si concludeva il vangelo domenica scorsa? Ma il Figlio dell'uomo, quando tornerà troverà questa fede sulla terra? La fede dei piccoli… essere piccoli come un granellino di senapa per poter aver fede, la fede della vedova, oggi la fede del fariseo e la fede del pubblicano… la fede come atto nel quale scegliamo in chi credere, se in noi stessi, come se al mondo ci fossimo soltanto noi, o in Dio e nella sua misericordia che ci aiuta a conoscere la nostra verità, la nostra fragilità, la nostra debolezza, accettandole senza rimanerne schiacciati.

La solitudine del fariseo, scelta e voluta, che lo porta a cancellare Dio dalla sua vita, ci permette di accostarci ad un'altra solitudine che porta a tutt'altro risultato, a tutt'altra meta. E' la solitudine di Paolo, che nella seconda lettura scrive: Nella mia prima difesa in Tribunale nessuno mi ha assistito, tutti mi hanno abbandonato… il Signore però mi è stato vicino, mi ha dato la forza… L'abbandono, la solitudine non ha chiuso la vita di Paolo, anzi! La sua vicenda ci dice che è possibile, anche nelle difficoltà (un processo), sperimentare la presenza di Dio ed annunciare il vangelo, che proprio perché è stato occasione di apertura nella nostra vita, apre squarci di bene e spazi di ascolto nella vita degli altri.
Il confidare nella bontà di Dio del pubblicano invece, ci aiuta ad interpretare il v.8 della seconda lettura, quando s.Paolo scrive della corona che il giusto giudice consegnerà a coloro che attendono con amore la sua manifestazione. Anche qui si parla di relazione con Dio una relazione fondata sulla certezza dell'incontro non con un poliziotto. Non c'è paura per la manifestazione di Dio ci dice Paolo, al termine di una vita davvero spesa, donata. Ha imparato ad attendere quel momento lui e tutti coloro i quali quella manifestazione hanno accolto, giorno dopo giorno, vivendo semplicemente e umilmente la vita.
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25/10/2010 14:54
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 13, 10-17


In questa donna è rappresentata la situazione dell'umanità prima della venuta di Gesù: è sotto il dominio dello spirito maligno, ammalata, rattrappita, tutta piegata verso terra, impossibilitata a rizzarsi e a guardare verso l'alto. Gesù la guarda con compassione, la chiama a sé, le parla, le impone le mani.

Il capo della sinagoga è uno che non sa riconoscere i segni del tempo della salvezza. La sua interpretazione della legge, il suo testardo attaccamento alla tradizione umana, la mancanza di comprensione per l'amore e la misericordia verso una creatura umana ammalata, non gli danno la capacità di comprendere i segni del tempo della salvezza. La sorte di quest'uomo e di tutti gli avversari di Gesù è la vergogna (v.17) davanti al popolo e al tribunale di Dio.

Gesù dà un nuovo significato al sabato, o meglio gli ridà il suo significato originale. La legge del sabato è al servizio dell'uomo, e Dio è glorificato da chiunque usi misericordia verso gli uomini. E in questo brano l'uomo riceve nuovamente da Gesù la sua dignità e la sua giusta considerazione: non può essere considerato meno di un bue o di un asino!

Gesù infrange il dominio di satana che si manifesta nel peccato, nella malattia e nella morte, e libera l'uomo dal peso opprimente della legge. Il sabato diventa il giorno della gioia per tutti. La creazione trova nell'opera salvifica di Gesù la sua perfezione. L'uomo che si apre all'amore di Dio non incontra il giudizio, ma la salvezza e la liberazione definitiva.

L'infermità, secondo la mentalità dell'uomo della Bibbia, non è solo disfunzione del corpo, ma l'invasione di uno spirito malvagio che logora e arresta il corso delle forze della natura. Gesù stende le mani sull'ammalata: è un atteggiamento con il quale trasfonde su di lei il suo Spirito che scaccia lo spirito del male.

Il miracolo non lascia indisturbati i presenti. La donna guarita glorifica Dio perché riconosce nell'opera compiuta da Gesù una manifestazione della sua onnipotenza e della sua bontà. Il capo della sinagoga è indignato e scandalizzato per il trambusto avvenuto nel luogo sacro e soprattutto perché proprio nel luogo dove si celebra il sabato viene trasgredito il comandamento del sabato. L'entusiasmo della folla può avere creato qualche inconveniente. Ma ben vengano, e tutti i giorni, inconvenienti come questo!.

Per il capo della sinagoga il miracolo è relegato tra le opere servili che non sono consentite in giorno di sabato: "Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato" (v.14).

Per rispondere a della gente così ignorante Gesù non ricorre a un'argomentazione teologico-biblica, ma fa un esempio pratico come il condurre all'abbeveratoio l'asino o il bue anche di sabato.

L'ostilità dei giudei contro Gesù è dunque preconcetta, infondata, ingiusta. Non sono le opere in sé che irritano il capo della sinagoga e tutta la classe dirigente ebraica, ma la risonanza che esse producono. Gesù guadagna terreno presso il popolo e, di conseguenza, essi lo perdono. E' sempre una questione di potere e di quanto dal potere ne consegue.

Nella finale del brano appaiono in scena da una parte gli avversari di Gesù e dall'altra la moltitudine della gente. I primi sono irritati e svergognati, la folla invece è entusiasta e convinta. I primi condannano, disapprovano, rigettano l'opera di Gesù; gli altri la esaltano fino a risalire alla sua sorgente, Dio da cui proviene e a cui sale la gloria causata dalle opere di Cristo. Lo stesso fatto suscita indignazione e vergogna, oppure gloria e gioia. La luce di Dio, che rallegra l'occhio buono, offende quello cattivo. Ma anche questo disagio dei cattivi è in vista della loro conversione.
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26/10/2010 09:23
 
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Paolo Curtaz
Commento Luca 13,18-21

Il Regno di Dio, quindi, è realtà piccola, nascosta, fragile, ma piena di una straordinaria capacità di far crescere la pasta, capace di accogliere ed ospitare gli uccelli del cielo. Talvolta, però, siamo tentati di guardare alle cose di Dio con sguardo mondano, a lasciarci tentare dalle seduzioni della statistica, dal peso dei numeri. Quando mi ritrovo a qualche convegno con altri preti, dopo aver descritto le comunità di cui sono responsabile, subito, mi si pone da domanda: "Quanti frequentano la Messa?" Non lo so, neppure mi importa molto, mi interessa quanti escono cambiati dall'incontro col Risorto! Attenti, amici, a non contarci troppo: il re Davide venne punito quando volle fare un censimento del suo popolo! Altra è la logica di Dio, la logica dell'unicità, non della massa, del cuore non del peso dei numeri. Anzi, nella logica di questo mondo sembra davvero che la Chiesa abbia preso la china di un inesorabile declino, ma agli occhi di Dio sono altre le cose che contano: non preoccupiamoci troppo delle percentuali delle frequenza, né – come, ahimé, alle volte accade - non entusiasmiamoci troppo delle masse oceaniche. Animo, amici, guardiamo negli occhi i fratelli che con noi condividono una speranza, più attenti al fatto che il sale non perda il proprio sapore piuttosto che accantonare tonnellate di sacchi di sale. Gesù è attento alla logica del Regno, che avanza anche se non ce ne occupiamo: il mondo è già salvo, non lo dobbiamo salvare noi. E' salvo, ma non lo sa. Ecco che noi discepoli siamo chiamati a vivere la salvezza nel quotidiano, a testimoniarla nelle nostre opere. Amico che ascolti, che inizi con me la giornata: sii fecondo, sii lievito, con un sorriso, con una battuta, con un pizzico di pazienza, con una preghiera silenziosa tra una pratica e l'altra. Feconda, lascia lievitare, basta poco, credimi: è opera di Dio diffondere il Regno, è preoccupazione sua l'evangelizzazione. A noi il compito i essere collaboratori, di non ostacolare troppo l'opera di Dio, di essere trasparenza. Smettiamola di contarci, allora, e cantiamo, piuttosto, la misericordia di Dio: davanti ai suoi occhi davvero contiamo...

Rendici lievito, Signore, donaci fiducia, facci inciampare nella tua Parola quando il nostro sguardo diventa superbo e mondano, quando badiamo alla quantità e ai risultati piuttosto che affidarci come un bambino nelle braccia di sua madre...

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27/10/2010 22:31
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 13, 22-30

Questo brano parla della lotta per entrare nella salvezza. La porta è Gesù: attraverso di lui tutti gli uomini sono salvati. Unico biglietto d'ingresso è il bisogno; unico impedimento, la falsa sicurezza e la presunta giustizia.

Per entrarvi basta riconoscersi peccatori e accettare il perdono di Dio. Nessuno si salva per i propri meriti, ma tutti sono salvati dalla misericordia di Dio.

La porta è dichiarata stretta perché l'io e le sue presunzioni non vi passano: devono morire fuori. La Bibbia ci insegna che l'uomo non può salvarsi con le sue forze (Lc 18,26-27), ma tutti siamo salvati dall'amore gratuito del Padre.

Quindi la porta della salvezza è strettissima perché nessuno si salva, ma è larghissima perché tutti veniamo salvati. "Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati" (1Tm 2,4).

La salvezza è un dono. Costa solo la fatica di aprire il cuore e la mano per accoglierla. Ma è una grande lotta, perché il cuore è duro e la mano rattrappita (Lc 6,6ss). Il dono non toglie l'iniziativa: è un pegno che impegna. Bisogna fare come se tutto dipendesse da noi, sapendo che tutto dipende da Dio. Solo in questo modo si eliminano la pusillanimità e l'ansietà, la superbia e la presunzione.

La salvezza ha come porta l'umiltà. Convertirsi è accettare di vivere della misericordia di Dio. E' la morte dell'io per vivere di Dio.

Il giusto più si accanisce ad accrescere il suo bagaglio di giustizia, più è impedito ad entrare attraverso la porta della salvezza, che è dono e grazia.

L'interlocutore anonimo aveva chiesto se erano pochi quelli che si salvano. Gesù risponde di stare attenti a non rimanere fuori dalla sala del Regno. Il tempo per decidersi ad entrare è poco. Da un momento all'altro il padrone chiuderà per sempre la porta.

Gli esclusi non sono i tradizionali nemici della salvezza, come siamo abituati a pensare, ma gli ascoltatori di Gesù. Il motivo della condanna non è la loro ignoranza di Cristo, ma l'inadempienza dei propri doveri morali. La fede non è, prima di tutto, conoscenza di Cristo, teoria o teologia, ma vita vissuta in consonanza con i comportamenti di Gesù.

Di fronte all'indifferenza degli ascoltatori Gesù, e l'evangelista con lui, ha creduto opportuno far ricorso alle minacce. La prospettiva di un castigo irreparabile può risvegliare dall'incoscienza e dalla superficialità.

Nel v.28 viene descritta la sorte opposta di chi sta dentro e di chi sta fuori dal Regno. I patriarchi e i lontani saranno nel Regno perché hanno avuto fede e si sono convertiti al dono di Dio.

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28/10/2010 16:48
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 6, 12-16

Gesù ha compiuto la sua prima manifestazione, ha avuto il suo primo incontro con il popolo e le autorità religiose del paese; ora ha bisogno di una lunga notte di riflessione, di preghiera e di contatto con il Padre.

L'opera che ha avviato è destinata a sopravvivere nel tempo, per questo egli deve scegliere degli uomini che condividano la sua causa e la portino avanti nei secoli. Secondo il vangelo di Luca, la Chiesa e la sua organizzazione essenziale provengono direttamente da Cristo.

Gesù sale sul monte per trovare nell'incontro con il Padre la chiarezza necessaria per scegliere i dodici apostoli. Il numero dodici richiama quello dei patriarchi dell'Antico Testamento. Si delinea così la nascita del nuovo popolo di Dio.

La preghiera sta all'origine di ogni scelta e azione apostolica di Gesù e della Chiesa. Il giorno della Chiesa spunta dalla notte di Gesù passata in comunione col Padre. Ciò non vuole assolutamente dire che le scelte che il Padre e il Figlio fanno, chiamando i dodici e gli altri dopo di loro lungo i secoli, saranno le migliori secondo la nostra logica umana. La struttura portante della Chiesa è zoppicante fin dall'inizio, sempre aperta al tradimento e al rifiuto del Signore. Pietro e Giuda ne sono le figure emblematiche. E tutto questo non è uno spiacevole imprevisto, ma è una realtà che fa parte del progetto di salvezza.

Il motivo che spinge la gente verso Gesù è il bisogno di ascoltare la parola di Dio e di essere guarita. Come la parola del serpente portò il male e la morte (cfr Gen 3), così la parola di Dio guarisce dal male e dà la vita. C'è infatti una stretta connessione tra l'ascolto della parola di Dio e la guarigione, come tra la disobbedienza alla parola di Dio e la morte (cfr Dt 11,26-32). " Il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte" (Rm 5,12) perché l'uomo ha ascoltato il serpente. L'uomo diventa ciò che ascolta. Se ascolta Dio diventa figlio di Dio, se ascolta il diavolo diventa figlio del diavolo.

Come la gente di allora, anche noi possiamo toccare e sperimentare la potenza di Gesù se ascoltiamo la sua parola. La parola di Dio infatti "è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede" (Rm 1,16). Infatti "è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione" (1Cor 1,21).

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30/10/2010 08:27
 
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Dalla Parola del giorno
Per me vivere è Cristo e morire un guadagno.

Come vivere questa Parola?
Non ha detto Gesù: "Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza"? Non è Lui che, avendo affermato di essere la Via e la Verità, ha anche aggiunto che è Lui la Vita?
San Paolo ha fatto solo una cosa: ha preso sul serio quanto Gesù ha affermato di sé: per questo ha potuto dire e vivere la Parola di oggi.
Prima della sua conversione Paolo era stato l'uomo irreprensibile nei riguardi della Legge mosaica. Viveva il fuoco dello zelo nella difesa di questa Legge: Ma quando si lasciò afferrare da Cristo, gli si aprirono gli occhi del cuore, così che per lui pregare, lavorare, fare dell'apostolato, tessere relazioni di paternità spirituale e di amicizia: tutto, proprio tutto trovava in Cristo Gesù il suo centro vitale e propulsore che lo univa al Padre nello Spirito Santo facendogli compiere le opere della Legge, ma per amore. Così è stato per tutti i santi: dai più lontani nel tempo, come S. Carlo Borromeo, Giorgio La Pira, Teresa di Lisieux, Magdaleine Debrêl, Magdaleine di Gesù e tanti, tantissimi altri.
Oggi, in un momento contemplativo, chiederò con forza a Gesù: strappami dal mio falso centro che è il mio "ego" e radicami in Te, sii tu davvero la Vita della mia vita.
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01/11/2010 17:04
 
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1-2 novembre 2010

Vocazione del cristiano, la santità

di Mons.Riboldi

Questo mese, per la Festa di tutti i Santi e la Commemorazione dei defunti, ci offre la necessaria riflessione sul fine ultimo della nostra vita: dalla morte alla Vita.

Così scrive S. Giovanni apostolo: "Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre, di essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto Lui. Carissimi, fin d'ora noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo così come Egli è. Chiunque ha questa speranza in Lui, purifica se stesso come Egli è puro". (I Gv. 3,1-2)

E, sempre Giovanni, nell'Apocalisse dice: 'Dopo ciò apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. E tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani e gridavano a gran voce: "La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello". (Ap. 9, 10)

Questa visione di una 'moltitudine immensa', che passa sotto i nostri occhi, a prima vista può sembrarci esagerata, se consideriamo con superficialità, secondo il nostro povero punto di vista, quanto ci sembrino pochi coloro che hanno a cuore una vita vissuta con la dignità di quella moltitudine. Facile anche solo vedere un'umanità per lo più indifferente a quello che l'attende dopo la morte!

Entrando nei cimiteri, in questi giorni, si ha come l'impressione, per molti, di una fugace visita, che vuole certamente essere ricordo di chi era tra noi, ha vissuto e condiviso tutto con noi; e, per chi ha vissuto gomito a gomito con amore, la morte appare un assurdo, incomprensibile distacco da chi ora non c'è più... ma, per gli uni e per gli altri, vi è la consapevolezza, che tutto ciò deve essere ...per un momento, poi... la vita continua!

Dovremmo sapere tutti che la vita non è un dono qualsiasi, ma è il Dono di Dio per eccellenza, che ha sicuramente un futuro nell'eternità. Vivere dovrebbe essere, nella coscienza di tutti, camminare verso quel giorno quando finirà la nostra esperienza terrena, ma inizierà quella con Dio e la 'moltitudine' di cui parla Giovanni.

Se c'è una stoltezza inammissibile in tanti è quella di 'vivere' senza pensare a ciò che ci attende.

Mentre per il credente la saggezza è vivere preparandosi per trasferirsi alla sua vera Casa, il Cielo: l'esistenza terrena può essere più o meno lunga, ma alla fine si sa di tornare a Casa, dove il Padre ci attende.

È dunque giusto e sapiente, in questa Solennità dei Santi e nella Commemorazione dei nostri defunti, quando, chinandoci sopra le tombe dei nostri cari, contempliamo il severo Mistero della morte, che è di tutti, interrogarci su ciò che ci attende dopo...

Non è possibile che tutto di noi finisca li, sotterrato sotto una manciata di terra. Come non è possibile possa finire nel mesto ricordo di un momento, il vincolo di amore che ci ha uniti in vita con chi ora non è più tra noi. Non ha senso costruire 'qui' un amore, che non abbia dimensioni di eternità, anche se c'è chi considera la vita solo come 'un diario' da affidare a chi resta e non come il prologo della vita eterna.

La ricerca del 'senso' della vita è un percorso a volte lungo e accidentato, ma soprattutto assolutamente personale, che chiama in causa ogni singolo uomo, che non deve però essere mai lasciato solo in questo cammino: la preghiera, l'amicizia sincera lo possono sempre sostenere...

La vita - credo tutti dovremmo.'avvertirlo' nell'esperienza quotidiana - è una seria responsabilità. Pensiamo alla fatica di chi cerca di crescere bene, secondo i disegni di Dio: la fatica quotidiana di una mamma in casa; la fatica di un padre di famiglia, per essere sostegno morale e materiale per i suoi cari; la fatica della 'ricerca' nei giovani e degli educatori che li affiancano; la fatica di un missionario, di un prete, di una suora che si sono consacrati per intero a Dio; la fatica dei malati nell'accettazione della sofferenza.

È l'esperienza del 'sentirsi' pellegrini sulla terra, in mezzo a tante difficoltà e incognite, puntando diritti là dove Dio vuole si arrivi: la santità, che domani darà il diritto di partecipare alla `moltitudine', descritta da Giovanni, 'avvolti in candide vesti, portando palme nelle mani e gridando a gran voce', ciò in cui sempre si è creduto: 'La salvezza appartiene al nostro Dio e all'Agnello'.

Forse alcuni provano un certo disagio di fronte alla parola 'SANTITÀ', ma i nostri fratelli nella fede si definivano `santi', solo perché erano consapevoli di appartenere a Chi è la Santità: Dio. “Tutti i fedeli - afferma il Concilio - di Qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità... I coniugi e genitori cristiani, seguendo la propria via, devono con costante amore sostenersi a vicenda nella grazia per tutta la vita e istruire nella dottrina cristiana e nelle virtù evangeliche la prole che amorosamente hanno accettato da Dio. Così infatti offrono a tutti l'esempio di un amore instancabile e generoso, edificando il fraterno consorzio della santità" (L.G. 41).

Credo che tutti noi, in questi giorni in particolare, andremo a trovare i nostri cari che sono tornati a Dio. Troveremo coloro che hanno condiviso con noi la vita, troveremo tanti, ma tanti, amici, con cui abbiamo cercato di dare il vero 'senso' alla nostra esistenza. Non sono ricordi che solo per un momento riallacciano rapporti: i nostri cari, i nostri amici non sono perduti... hanno solo cambiato dimora! E ora, che sono in Cielo - a Dio volendo - continuano ad 'esserci presenti' e ci offrono un amorevole consiglio, che non mentisce più: 'SIATE SANTI!'.

Cosi don Tonino Bello pregava Maria SS.ma, pensando alla morte:

"Quando giungerà anche per noi l'ultima ora,
e il sole si spegnerà sui barlumi del crepuscolo,
mettiti accanto a noi perché possiamo affrontare la morte.
E un'esperienza che hai fatto con Gesù,
quando il sole si eclissò e si fece gran buio sulla terra.
Questa esperienza ripetila con noi.
Piantati sotto la nostra croce, sorvegliaci nell'ora delle tenebre,
Infondici nell'anima affaticata la dolcezza del sonno.
Se tu ci darai una mano, non avremo più paura di lei...
Anzi l'ultimo istante della nostra vita
lo sperimenteremo come l'ingresso nella cattedrale della luce
al termine di un lungo pellegrinaggio, con la fiaccola accesa.
Giunti sul sagrato, dopo averla spenta, deporremo la fiaccola.
Non avremo più bisogno della luce della fede, che ha illuminato il cammino. Oramai saranno gli splendori del tempio
ad allargare di felicità le nostre pupille".

E vorrei ancora aggiungere una breve riflessione di Paolo VI sui defunti:
"Vi invitiamo oggi ad uscire con la memoria dal mondo dei vivi ed a fare, come è costume in questo mese, una visita al mondo dei nostri cari defunti, a tutta l'umanità trapassata dalla scena del tempo a quella dell'esistenza fuori del tempo. Visitando i cimiteri ci fa riflettere alla inesorabile caducità della vita presente; ed è questa una formidabile lezione anche se l'effetto pratico può essere ambiguo, stimolando in chi non riflette un'ansia maggiore di vivere la vita presente, ma crescendo invece nei credenti la sapienza per il buon uso di ogni valore, del tempo durante la nostra effimera attuale giornata terrena. É una scuola di alta filosofia questa sosta sui sepolcri umani.

Anche per due altre ragioni: per compiere un dovere di memoria e di riconoscenza verso chi ci ha lasciato un'eredità, quella della vita specialmente, e poi tante altre, dell'amicizia, della cultura, del sacrificio forse. Dimenticare non è umano, non è saggio.

L'altra ragione perché la memoria dei defunti non è soltanto una rimembranza, è una celebrazione della loro sopravvivenza, dell'immortalità della loro anima, anche se tanto velata di mistero; è un contatto con una comunione viva e commovente con coloro i quali 'ci hanno preceduti con il segno della fede e dormono il sonno della pace'.

In Cristo poi li possiamo in qualche modo raggiungere, i nostri morti, che in Lui sono vivi. In Cristo continua la CIRCOLAZIONE DELL'AMORE. La nostra vita 'ecco, io vi dico un mistero' (S. Paolo ai Corinti) riprenderà. Ora si trova in una fase di dissociazione che disintegra il corpo, e lascia superstite l'anima, ma questa è priva dello strumento naturale per le sue facoltà normali. Un giorno, se qui siamo inseriti in Cristo, il nostro corpo risorgerà, ricomposto, perfetto e felice.
Non è vano pensare così: è vero, è pio, è consolante. Lo sguardo del passato si volge al futuro, verso l'aurora del ritorno di Cristo. Per questo riflettiamo e preghiamo per i nostri defunti e, ricordando ciò che ci attende, preghiamo per noi vivi".

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03/11/2010 08:41
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 14, 25-33

La parabola della grande cena aveva dimostrato che un gran numero di invitati erano mancati all'appuntamento per ragioni di interessi personali: non avevano saputo sacrificare qualcosa di proprio per fare spazio all'invito ricevuto. Gesù vuole risparmiare alla gente il ripetersi di un simile errore e di un'altra delusione. Egli è in cammino verso Gerusalemme dove l'attende la passione, la morte e la glorificazione. La molta gente che lo segue sa dove sta andando?, e conosce quali sono le condizioni per seguirlo? Chi segue Gesù deve mettere in second'ordine ogni altra persona e cosa. La parola "odiare" va intesa nel senso di amare meno, posporre, mettere al secondo posto. Matteo presenta queste stesse parole di Gesù in una forma molto più comprensibile per noi: "Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me" (Mt 10,37).

Nessuno deve illudersi che la salvezza sia a buon mercato. Come è stata cara per lui (1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,18-19), così lo sarà anche per chi lo segue. Per seguire Gesù occorre sacrificare qualsiasi legame, anche quello familiare, ed essere pronti anche a morire. Dopo l'esperienza di Gesù, la croce era diventata il simbolo delle sofferenze sopportate per il regno di Dio. Umanamente parlando, la croce non è un bene, non piace né a Dio né agli uomini, ma è un mezzo indispensabile per non dispiacere a Dio e per piacere agli uomini.

Le due parabole della costruzione di una torre e della partenza di un re per la guerra sono la spiegazione di ciò che precede. Esse ci insegnano che prima di prendere delle decisioni bisogna riflettere, perché è meglio non intraprendere un'impresa, piuttosto che affrontarla con mezzi inadeguati e fallire lo scopo. Farsi discepolo di Gesù è una scelta seria che coinvolge tutta la vita.

Con questa presa di posizione Gesù voleva anche impedire che si unissero a lui degli esaltati, che di fronte a delle scelte di fede e di amore, subito si stancano e rimettono continuamente in discussione ciò che non è discutibile, come leggiamo nel vangelo di Giovanni: "Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: 'Questo linguaggio è duro: chi può intenderlo?'. Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: 'Questo vi scandalizza?... Gesù infatti sapeva fin dall'inizio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che l'avrebbe tradito'... Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6, 60-66).

Il discepolo di Gesù deve mettere in second'ordine le persone care, la propria vita, il proprio onore: a maggior ragione le cose che possiede! I beni terreni tiranneggiano l'uomo e assediano i suoi pensieri e la sua vita. Gesù ha detto: "Non potete servire Dio e mammona" (Lc 16,13). E' la sintesi del discorso. L'unica ricchezza del discepolo è la sua povertà. L'unica sua forza è la sua debolezza (2Cor 12,10). La povertà è il volto concreto dell'amore: chi ama dà tutto se stesso.

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04/11/2010 08:56
 
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Paolo Curtaz


Un Dio che ci viene a cercare, che fa festa se ritrova la sua pecora perduta, un Dio che non rimprovera, né giudica ma gioisce con delicatezza. Noi, invece, sempre attenti a dirci "a posto" a pensarci come persone "per bene", guardiamo a noi con indulgenza, pronti magari a trovare le ragioni di una nostra debolezza e spietati nel giudicare il fratello. Se solo capissimo! Se capissimo che Dio non è il nostro commercialista, che l'incontro con Dio non è la dichiarazione dei redditi, per cui meno dichiaro e meno pago! L'amore mette le ali, la passione brucia, l'incontro con Dio sconvolge i nostri schemi. Finché resteremo all'immagine di un Dio che rispecchia le nostre piccinerie resteremo fragili e piccoli come le nostre paure. Ci pensi, fratello, Dio fa festa per te! Ti viene a cercare là dove la vita ti ha disperso. E la chiesa – ah se lo imparassimo, finalmente! – non è il club dei bravi ragazzi ma delle pecore ritrovate. Allora all'insegna della tenerezza sia questa giornata, siamo testimoni e figli di questo Dio che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, che conosce e ama ciascuno di noi.

Tu ci cerchi, Signore, Là dove siamo. Delicatamente, in silenzio, ci vieni incontro fino là dove la vita ci ha condotti, amico degli uomini, nostro pastore...

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05/11/2010 17:33
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 16, 1- 8

L'evangelista presenta la condotta di un cattivo amministratore non per insegnarci ad essere ladri, ma per indicarci un comportamento pronto, diligente, astuto nel lavorare per il regno di Dio. L'amministratore è disonesto, ma la sua tattica, la sua destrezza, il suo coraggio di rischiare sono esemplari per coloro che vogliono collaborare al piano di Dio. Questo amministratore non bada ad altro che a mettere in salvo la propria esistenza futura. Egli non esita: è rapido nel pensare e nell'agire, perché il tempo a sua disposizione è poco.

Il padrone non è un proprietario di questo mondo, che non è mai disposto a rimetterci del suo e tanto meno a lodare l'accortezza di un amministratore disonesto che lo imbroglia: il padrone è Dio.

Fuori parabola, viene lodato il discepolo che ricorda che il suo Signore lo chiamerà alla resa dei conti, che non vivacchia alla giornata ma opera con determinazione e coraggio per mantenersi fedele fino alla fine, che perdona e condona tutto ai suoi simili per assicurarsi il diritto alla patria eterna. Allo stesso tempo vengono biasimati i discepoli, i figli di Dio che si mostrano indecisi e fiacchi nell'agire quando si tratta di occuparsi del loro stupendo destino eterno.

Ogni uomo è un amministratore disonesto e sperperone perché si è fatto padrone di ciò che non è suo e lo sciupa scriteriatamente. A questo punto del vangelo Gesù ci parla dell'uso corretto dei beni di questo mondo, dell'amministrazione concreta della nostra vita: i beni, la vita sono un dono di Dio da condividere con i fratelli.

La chiamata al rendiconto è la morte. La presa di coscienza della propria morte porta a vivere il presente come momento di conversione. Si tratta di capire che cosa fare alla luce del rendiconto finale. L'amministratore ladro fa dipendere la sua vita da ciò che ha, quello fedele e saggio da ciò che dà. La morte ci fa passare dall'amministrazione dei beni di Dio alla partecipazione alla sua vita. Il paradiso è la casa dove abitano i debitori ai quali abbiamo condonato. La misericordia donata in terra ci verrà ricambiata in cielo.

Solo il Padre dona tutto e condona il cento per cento. Noi condoniamo il cinquanta e talvolta solo il venti per cento (vv.7-8). Il Signore non loda l'amministratore disonesto perché ha rubato, ma perché dona i beni del suo padrone, secondo l'insegnamento ricevuto nelle pagine precedenti del vangelo: "Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro" (Lc 6,35-36).

L'importante è utilizzare la vita presente per arricchire davanti a Dio con l'elemosina, invece di accumulare tesori per sé (Lc 12,21). L'unica maniera per riscattare l'ingiusta ricchezza è quella di regalarla ai bisognosi e conquistarsi così la loro benevolenza e amicizia "perché ci accolgano nelle dimore eterne" (v.9).

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06/11/2010 22:04
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 16, 9-15

Il brano precedente ha parlato dell'amministrazione dei beni materiali. Ma non ci sono solo i beni materiali; ci sono altre ricchezze, altri beni, quelli dello spirito, che richiedono maggiore diligenza, coerenza e lealtà. Le ricchezze terrene non sono il dono supremo che Dio ci affida. Anzi, sono il "più piccolo" (v.10). Il dono "più grande" sono le realtà future, la partecipazione al regno di Dio, la vita eterna. Dio dona i futuri beni celesti soltanto a colui che sa amministrare fedelmente, secondo la volontà del Padre, i beni terreni. L'infedeltà nell'amministrazione o nell'uso dei beni materiali porta ad essere infedeli anche nell'amministrare i beni dello spirito, i beni della propria salvezza.

Sembra che i ricchi con i loro averi e i loro denari siano liberi; in realtà sono sottoposti ad un tiranno esoso e spietato, mammona, che significa "ciò che si possiede". La loro condizione è quella degli schiavi. Chi cade sotto il dominio di mammona, perde l'amicizia con Dio. L'opposizione tra Dio e mammona è irriducibile. Il nemico più grande del "capitale", quando va a profitto solo di alcuni e lascia gli altri nella miseria, è Dio stesso. Egli vuole una comunità di uomini uguali, amici, fratelli.

Dio esige di essere amato con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la forza e con tutta la mente (cfr Lc 10,27). Ma, come l'esperienza insegna, anche mammona, che è la sete sfrenata del possesso, s'impadronisce completamente dell'uomo e diventa il suo Dio.

Le parole di Gesù fanno riflettere, destano una sana inquietudine interiore e ci tolgono ogni possibilità di accettare la beatitudine fatua delle ricchezze. Nel desiderio delle ricchezze si nasconde il pericolo che esse tolgano all'uomo la libertà di seguire la voce di Dio che lo chiama: "I semi caduti in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione" (Lc 8,14).

Ciò che Gesù insegna in questo brano di vangelo trova eco nella prima lettera a Timoteo: "Quelli che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell'inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L'avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti... A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell'instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza, perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera" (1Tm 6, 9-10.17-18).

I farisei di tutti i tempi, che sono attaccati al denaro, ascoltando queste cose, deridono Gesù. Le sue parole sono stolte e pazze, parole di uno che è fuori dal mondo. A questo riso beffardo di autosufficienza risponde Gesù con il suo lamento: "Ahimè per voi, che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete (Lc 6,25). E gli fanno eco le parole di san Giacomo: "E ora a voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite" (Gc 5,1-2).

Ciò che conta per gli uomini, e per i farisei in particolare, è l'avere, il potere e l'apparire sempre di più. Questo è l'idolo che occupa il posto di Dio. Questa è l'ipocrisia. E sembra che l'ipocrisia sia in proporzione diretta con la posizione di prestigio che uno riesce ad acquistarsi "davanti agli uomini" (v.15). Più l'uomo si sente in alto e più accumula beni e più ricorre alla menzogna. Questo è un principio generale che ha le sue lodevoli eccezioni! Non c'è in tutto il vangelo una valutazione più pessimistica nei confronti delle gerarchie religiose e politiche, nei confronti di ciò che è esaltato fra gli uomini, perché "ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio" (v.15). L'essere posti in alto può diventare un idolo, un tentativo di sovrapporsi o di sostituirsi a Dio. Ogni autoesaltazione indebita è un tentativo idolatrico di mettersi al posto di Dio. L'orgoglio e l'idolatria sono praticamente la stessa cosa. E come Dio condanna gli idolatri, con la stessa forza respinge gli orgogliosi.

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07/11/2010 15:25
 
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a cura dei Carmelitani Gesù risponde ai Sadducei che ironizzavano la fede nella risurrezione

Orazione iniziale

O mistero infinito di Vita.
Noi siamo nulla,
eppure possiamo lodarti
con la voce stessa del Tuo Verbo
fatto voce di tutta la nostra umanità.
O mia Trinità, io sono un nulla in Te,
ma Tu sei tutto in me
e allora il mio nulla è Vita... è vita eterna.
Maria Evangelista della SS. Trinità, O.Carm.

1. Lectio
Gli si avvicinarono poi alcuni sadducei, i quali negano che vi sia la risurrezione, e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se a qualcuno muore un fratello che ha moglie, ma senza figli, suo fratello si prenda la vedova e dia una discendenza al proprio fratello. C'erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli. Da ultimo anche la donna morì. Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l'hanno avuta in moglie». Gesù rispose: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui». Dissero allora alcuni scribi: «Maestro, hai parlato bene». 40E non osavano più fargli alcuna domanda.

2. Meditatio

a) Chiave di Lettura:

● Contesto


Possiamo dire che il brano propostoci per la nostra riflessione forma una parte centrale del testo che va da Luca 20:20-22:4 che tratta delle discussioni con i capi del popolo. Già all'inizio del capitolo 20, Luca ci presenta con alcuni conflitti sorti tra Gesù, i sacerdoti e gli scribi (vv. 1-19). Qui Gesù si trova in conflitto con la scuola filosofica dei Sadducei, che prendono nome da Zadok, il sacerdote di Davide (2 Sam 8: 17). Questi accettavano come rivelazione solo gli scritti di Mosè (v. 28) negando lo sviluppo graduale della rivelazione biblica. In questo senso si capisce di più il "Mosè ci ha prescritto" pronunciato dai Sadducei in questo dibattito malizioso pensato come tranello per incastrare Gesù e "coglierlo nel fallo" (vedi: 20: 2; 20: 20). Questa scuola filosofica scompare con la distruzione del tempio.

● La legge del levirato

I Sadducei, negano, appunto, la risurrezione dei morti perché, secondo loro, questo oggetto di fede non faceva parte della rivelazione tramandata a loro da Mosè. Lo stesso si deve dire a riguardo della fede nell'esistenza degli angeli. In Israele, la fede nella risurrezione dei morti compare per nel libro di Daniele scritto nel 605-530 a.c. (Dan 12: 2-3). La troviamo anche in 2 Macc 7: 9, 11, 14, 23. Per ridicolizzare la fede nella risurrezione dei morti, i Sadducei citano la prescrizione legale di Mosè sull'levirato (Dt 25, 5), cioè riguardo all'antica usanza dei popoli semitici (inclusi gli ebrei), secondo la quale, il fratello o un parente prossimo di un uomo sposato deceduto senza figli, doveva sposare la vedova, per assicurare (a) al defunto una discendenza (i figli sarebbero stati considerati legalmente figli del defunto), e (b) un marito alla donna, in quanto le donne dipendevano dal marito per il loro sostentamento. Casi come questi sono ricordati nell' Antico Testamento nel libro della Genesi e in quello di Rut.

Nel libro della Genesi (38:6-26) si racconta come "Giuda prese una moglie per il suo primogenito Er, la quale si chiamava Tamar. Ma Er, primogenito di Giuda, si rese odioso al Signore e il Signore lo fece morire. Allora Giuda disse a Onan: Unisciti alla moglie del fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità per il fratello." (Gen 38: 6-8). Ma anche Onan viene punito da Dio con la morte (Gen 38: 10) perché sapendo, Onan "che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità al fratello" (Gen 38: 9). Vedendo questo, Giuda manda alla casa del padre Tamar, per non darle il terzogenito Sela in marito (Gen 38: 10-11). Tamar allora, travestendosi da prostituta, si unì con lo stesso Giuda, e ne concepì due gemelli. Giuda, scoperta la verità, diede ragione a Tamar riconosce che "Essa è più giusta di me" (Gen 38: 26).

Nel libro di Rut si racconta la storia della medesima donna, Rut la moabita, rimasta vedova dopo aver sposato uno dei figli di Elimèlech. Insieme alla suocera Noemi, fu costretta per sopravvivere a chiedere l'elemosina e a raccogliere nei campi le spighe scartate dai mietitori, fino a quando si sposa con Boaz, parente del suo defunto marito.

Il caso proposto a Gesù dai Sadducei ci ricorda però la storia di Tobia figlio di Tobit che si sposa con Sara figlia di Raguel, vedova di sette mariti, tutti uccisi da Asmodeo, il demone della lussuria, nel momento che essi si univano a lei. Tobia ha il diritto di sposarla perché era del suo tribù (Tobia 7-9).

Gesù fa notare ai Sadducei che il matrimonio provvede alla procreazione, e quindi è necessario per il futuro della specie umana, in quanto nessuno dei "figli di questo mondo" (v. 34) è eterno. Ma "quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo" (v. 35) non prendono né marito né mogli in quanto non "possono più morire" (v.35-36), vivono in Dio: "sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" (v. 36). Sia nell'Antico, che nel Nuovo Testamento, gli angeli sono chiamati figli di Dio (vedi per esempio, Gen 6: 2; Sal 29, 1; Lc 10, 6; 16, 8). Questa frase di Gesù ci ricorda anche la lettera di Paolo ai Romani, dove sta scritto che Gesù è Figlio di Dio in quanto alla sua risurrezione, lui il primogenito dei morti è per eccellenza il figlio della risurrezione (Rom 1, 4). Qui possiamo anche citare i testi di san Paolo sulla risurrezione dei morti come evento salvifico di natura spirituale (1 Cor 15: 35-50).

● Io Sono: Il Dio dei viventi

Gesù passa a confermare la realtà della risurrezione citando un' altro brano tratto dall'Esodo, questa volta dal racconto della rivelazione di Dio a Mosè nel roveto ardente. I Sadducei evidenziano il loro punto di vista citando Mosè. Gesù, allo stesso modo confuta il loro argomento citando anche lui, Mosè: "Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe" (v. 37). Nell'Esodo troviamo che il Signore si rivela a Mosè con queste parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe" (Es 3: 6). Il Signore poi prosegue a rivelare a Mosè il nome divino: "Io-Sono" (Es 3: 14). La parola ebraica ehjeh, dalla radice Hei-Yod-Hei, usata per il nome divino in Es 3: 14, significa Io sono colui che è; Io sono l'esistente. La radice può significare anche vita, esistenza. Per questo Gesù può concludere: "Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi" (v. 38). Nel medesimo versetto Gesù specifica che "tutti vivono per lui [Dio]". Questa si può rendere anche "tutti vivono in lui". Riflettendo sulla morte di Gesù, nella lettera ai Romani, Paolo scrive: "Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù" (Rom 6:10).

Possiamo dire che Gesù, per un'altra volta, fa vedere ai Sadducei che la fedeltà di Dio sia per il suo popolo, sia per il singolo, non si basa né sull'esistenza o meno di un regno politico (nel caso della fedeltà di Dio al popolo), e neanche sull'avere o meno prosperità e discendenza in questa vita. La speranza del vero credente non risiede in queste cose del mondo, ma nel Dio vivente. Per questo i discepoli di Gesù sono chiamati a vivere come figli della risurrezione, cioè, figli della vita in Dio, come il loro Maestro e Signore, "essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna" (1 Pt 1: 23).

b) Domande per aiutare la riflessione:

● Che cosa ti ha colpito nel Vangelo? Qualche parola? Qualche atteggiamento particolare?
● Cerca di rileggere il testo del Vangelo nel contesto degli altri testi biblici citati nella chiave di lettura. Trovane anche tu degli altri.
● Come interpreti il conflitto che emerge tra i capi del popolo e i Sadducei con Gesù?
● Soffermati su come Gesù confronta il conflitto. Cosa impari dal suo comportamento?
● Quale pensi sia il nocciolo della questione nella discussione?
● Che cosa significa per te la risurrezione dei morti?
● Ti senti figlio/a della risurrezione?
● Cosa significa per te vivere la risurrezione già dal momento presente?

3. Oratio

Dal Salmo 16


Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto.

Accogli, Signore, la causa del giusto,
sii attento al mio grido.
Porgi l'orecchio alla mia preghiera:
sulle mie labbra non c'è inganno.

Sulle tue vie tieni saldi i miei passi
e i miei piedi non vacilleranno.
Io t'invoco, mio Dio: dammi risposta;
porgi l'orecchio, ascolta la mia voce.

Proteggimi all'ombra delle tue ali;
io per la giustizia contemplerò il tuo volto,
al risveglio mi sazierò della tua presenza.
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08/11/2010 08:23
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 17, 1-6

La misericordia è l'anima della comunità cristiana nei suoi rapporti interni ed esterni. Essa non è composta da impeccabili, e quindi tutti possono essere motivo di scandalo verso tutti. Il cristiano deve stare attento a non dare scandalo a nessuno. La dura condanna di Gesù verso coloro che danno scandalo ci fa pensare che gli scandali possono essere frequenti e anche gravi sia all'interno che all'esterno della comunità cristiana. L'invito a scomparire nel profondo del mare manifesta con forza l'amarezza e l'indignazione con cui Gesù si scaglia contro coloro che scandalizzano i piccoli. Lo scandalo travolge sempre una determinata categoria di persone: i piccoli, cioè i deboli, coloro che non hanno una sufficiente maturità spirituale. E gli scandali sono più deleteri quando provengono da persone più influenti e altolocate.

Per eliminare gli scandali Dio dovrebbe togliere la libertà agli uomini. L'inevitabilità dello scandalo corrisponde alla necessità della croce, con cui chi ama porta su di sé il male dell'amato. Il cristiano non è un perfetto e la salvezza è un esercizio costante di misericordia. La comunità cristiana non è un luogo dove non si pecca, ma dove si perdona.

Quando un fratello smarrisce la retta via non lo si può abbandonare a se stesso: ognuno deve sentirsi in dovere di intervenire e di soccorrerlo. Il peccatore è un ammalato spirituale che ha bisogno di cure urgenti e tutti gliele devono somministrare. Non si può rimanere indifferenti verso il fratello che pecca, perché si tratta della sua salvezza. La prima cosa che bisogna fare è questa: "Rimproveralo" (v.3). Chi lo lascia fare e non si cura del suo peccato, si rende colpevole: "Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per causa sua" (Lv 19,17). Il rimprovero non è disapprovazione del fratello (cfr Lc 6,37-38), ma del male che è in lui. Esso suppone l'accettazione incondizionata di chi pecca (cfr Lc 15). Prima di spalancare la bocca per sgridare, bisogna aprire il cuore per accogliere e perdonare. La correzione fraterna è il più alto grado di misericordia, non lo sfogo peggiore della nostra cattiveria e del nostro rancore.

La correzione fraterna è in gesto scomodo da cui ognuno vorrebbe essere dispensato, ma il vero bene del fratello deve far passare in second'ordine il proprio disagio per liberare chi è in pericolo.

La comunità dei discepoli sarà veramente cristiana se un fratello perdona all'altro, se perdona sempre, nonostante le ricadute. Se il cristiano perdona al fratello, il Padre perdona a lui i suoi peccati (cfr Lc 11,4). Il popolo di Dio diventa santo con la sollecitudine di tutti per la salvezza di ciascuno e col perdono di ogni offesa personale e di ogni dispiacere ricevuto.

Il perdono dev'essere radicale, totale, senza riserve e senza limiti. Bisogna sempre venire incontro a chi cerca comprensione e aiuto. Il perdono deve accordare nuovamente al fratello la nostra fiducia, la simpatia e l'amicizia. Perdonare significa lasciar cadere ogni risentimento, malanimo, rivendicazione, diritto. Bisogna condonare, non addebitare, non esigere nulla. Spesso siamo magnanimi nel perdonare il male fatto agli altri, quasi mai nel perdonare quello fatto a noi.

Il perdono è reso possibile dalla forza della fede: per mezzo di essa possiamo superare anche le più grandi difficoltà. Un minimo di fede in Dio è sufficiente per operare i più grandi prodigi, perché la fede, anche quando è poca, è sempre una comunione con Dio, quindi una partecipazione alla sua onnipotenza. Con la fede si ottiene tutto (cfr Mc 11,23-24). Tutto è possibile a chi crede (cfr Mc 9,23). Nulla è impossibile a Dio (cfr Lc 1,37; 18,37). Credere è smettere di confidare in se stessi e lasciare che Dio agisca in oi.

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09/11/2010 13:38
 
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padre Gian Franco Scarpitta
Il tempio e la Chiesa

Dio è in ogni luogo e lo si può riconoscere in tutta la realtà che ci circonda. Come afferma la Prima Lettura di oggi, Egli è onnipresente e "neppure i cieli e i cieli al di sopra dei cieli possono contenerlo". Ciò vuol dire che a Lui si può rendere il dovuto culto presso qualsiasi luogo e in tutte le circostanze, essendo Egli fra l'altro partecipe di ogni vicissitudine della nostra vita.
E la liturgia di oggi sottolinea in aggiunta che il vero luogo di culto è costituito da nostro Signore Gesù Cristo, presso il quale è possibile adorare l'unico Dio in spirito e verità: è lui infatti il tempio della nuova economia salvfica in quanto è attraverso la sua immolazione cruenta sulla croce che si riscontra il luogo in cui si realizzano definitivamente tutti sacrifici rituali di espiazione e di propiziazione che nell'Antico Testamento era necessario avvenissero in un edificio marmoreo ben costituito. Come afferma la Lettera agli Ebrei, Cristo è entrato una volta per tutte nel santuario del cielo con il proprio sangue allo scopo di ottenerci la redenzione e la salvezza (Eb 9, 8-14). Nello stesso istante in cui Gesù moriva sulla croce avvenne del resto che "il velo del tempio si squarciò nel mezzo" (Lc 23, 45); e ciò lascia intendere che, se nell'Antico Testamento si rivelava necessario che l'uomo incontrasse Dio in un tempio predisposto, adesso, con la morte di Cristo, tutta l'umanità può accedere all'Onnipotente senza bisogno di strutture costruite da mani di uomo. E' Cristo dunque il nuovo tempio. Egli è altresì la pietra fondamentale sulla quale poggia l'intera compagine dei fedeli, anch'essi pietre vive, che in armoniosa simbiosi fra di loro e con Lui vengono a formare l'intero edificio, cioè la Chiesa (1 Pt 2, 4-10).
Ne deriva allora che la vita cristiana non attribuirà estrema importanza alla struttura architettonica e ai relativi calcestruzzi e intonaci che la compongono per poter vivere adeguatamente la propria esperienza di fede, ma si qualificherà come comunità viva innestata al suo Signore per vivere con Lui l'edificazione continua del vero tempio. In parole povere: non è un insieme di mattoni compaginati dalla calce ciò che fonda la vera entità della Chiesa, bensì la Comunità dei battezzati, quando si impegna a vivere la mutua comunione fra i membri e fra questi e il Signore Gesù Cristo.
Le prime comunità cristiane non disponevano di luoghi specifici presso cui raccogliersi e usavano ritrovarsi nelle case di privati per poter ascoltare la Parola, pregare e spezzare il pane. Fu solo in tempi successivi che i credenti poterono disporre di luoghi di culto, fino a quando con l'editto di Costantino nel 313 riscontrando la libertà di espressione della loro fede, ebbero anche l'opportunità di disporre di chiese ottenute con la concessione del monarca: le Basiliche (greco Bsasilea=re). Ciò dimostra come presso le loro concezioni mentali non fosse quella dell'edificio materiale la primaria preoccupazione, bensì la vita fraterna in se stessa.

Ma se abbiamo insistito sul carattere spirituale del tempio cristiano, non si vuole asserire con questo che da parte nostra non si attribuisca importanza alcuna nei confronti degli edifici sacri quali luogo di culto e di incontro della vita cristiana.
Se è vero infatti da una parte che Cristo è il vero tempio, dall'altra è altrettanto fondata la necessità di luoghi privilegiati per il Signore e per la comunità ecclesiale.
Il fatto stesso che il tempio di cui alla Prima Lettura viene ugualmente edificato nonostante la convinzione che Dio abita al di sopra dei cieli, lascia intendere che nell'uomo vi è innata la necessità di dedicare degli spazi materiali esclusivamente a Dio, i quali non mancano di tornare a suo vantaggio: nel costruire il tempio l'uomo infatti edifica un posto esclusivamente riservato al Signore, presso il quale tuttavia ha la certezza di incontrare il Medesimo nel raccoglimento e nella solitudine che i vari luoghi del mondo non garantiscono. In più esso è pur sempre un'occasione collettiva per abbandonare le varie attività quotidiane ed incontrare Dio nei fratelli durante la celebrazione del culto. Disporre di un luogo interamente dedicato a Dio e nel quale poter vivere la relazione intima con Lui attraverso il raccoglimento e la preghiera silenziosa è cosa molto conveniente, specialmente nella vita dei nostri giorni in cui la frenesia delle occupazioni ci immerge sotto continue distrazioni, e venendo a mancare siffatti luoghi di intimità spirituale ci si accorge maggiormente della loro necessità; ed è per questo che è necessario interrogarci su quanta e quale sia la debita riverenza e l'interesse che noi nutriamo nei confronti delle nostre chiese.

La festa della Dedicazione della Basilica Lateranense è per noi occasione per riflettere sull'importanza del tempio nel contesto della vita ecclesiale.
Ciò soprattutto perché l'esperienza insegna che non in tutti i luoghi il popolo di Dio può usufruire di un luogo esclusivamente dedicato al culto e destinato a raccogliere i fedeli per le funzioni domenicali: nelle mie frequenti predicazioni itineranti ho avuto modo di notare come i fedeli di alcune parrocchie e perfino di interi centri abitati, causa le ristrettezze economiche della parrocchia e della Diocesi, siano costretti ad improvvisare presso altre strutture il tempio nel quale si celebra la Messa domenicale o si provvede alle varie altre funzioni liturgiche; a volte si usufruisce di qualche locale concesso dal Comune o da altri Enti, il cui utilizzo è tuttavia abbastanza limitato e condizionato.
In questi casi tutti si sperimenta lo stato di carenza e di disorientamento nel constatare l'assenza di un luogo costante di raccoglimento spirituale, nel quale potersi ritrovare individualmente nell'intimità con il Signore e collettivamente in occasione dell'ascolto della Parola e della ricezione del Sacramento. Da aggiungersi poi che taluni luoghi di missione vengono svolti dai sacerdoti presso villaggi nei quali non vi sono orari determinati per i servizi religiosi: il sacerdote, che ha già percorso altri luoghi di ministero, arriva sul posto (ammesso che abbia il tempo di arrivarvi) e improvvisa la celebrazione dell'Eucarestia nel primo luogo che più gli sembra adatto.
Tutto questo ci farà considerare importante e privilegiata la funzionalità delle chiese di cui disponiamo e di conseguenza non può non incuterci la premura a valorizzarle secondo quello che ad esse conviene.

LA PAROLA SI FA VITA
Spunti per la riflessione


-- Tutte le volte che partecipo all'Eucarestia sento di vivere la comunione con gli altri?

-- Quali impressioni provo tutte le volte che mi capita di entrare in una chiesa, mentre non si
Svolgono funzioni religiose?

--Sono capace di intrattenermi a lungo di fronte al Santissimo? Come reagisco quando mi assalgono le normali distrazioni durante la mia preghiera silenziosa?

--Sono convinto che la chiesa è "la casa del Signore"? Mi attengo alla dovuta disciplina nel vestire, nel comportamento, ecc?

-- Pulire la chiesa, riassettare le tovaglie degli altari... Se questo tocca a me, lo faccio con disinvoltura ed entusiasmo? Se già "lo fanno altri", sarei disposto a dedicare un po' del mio tempo a tale servizio?

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13/11/2010 08:21
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 18, 1-8

Pregare non è facoltativo, ma obbligatorio: è necessario pregare sempre, senza stancarsi (v.1). Il pericolo di perdersi d'animo è quasi inevitabile nella preghiera, perché l'interlocutore è invisibile e incontrollabile e non si può mai essere sicuri del suo ascolto e della sua risposta. A meno che non si creda fermamente che Dio ci ama, nel qual caso tutti i dubbi e i problemi scompaiono.

Si può pregare sempre perché la preghiera non si sovrappone alle nostre azioni, ma le illumina e le indirizza al loro fine. Il cuore può e deve essere sempre intento in Dio, perché è fatto per lui e perché lo esige il più grande dei comandamenti: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente" (Lc 10,27). La preghiera è importante perché è desiderio di Dio. E Dio-Amore non desidera altro che di essere desiderato e amato.

Il nostro peccato, che è lontananza da Dio, si evidenzia soprattutto nella preghiera. La preghiera può essere il momento della noia o della gioia, del disgusto o dell'appagamento della nostra fame e sete di Dio. Tutto dipende dal fatto se amiamo o non amiamo Dio. Per pregare è soprattutto necessario essere umili e sentirsi poveri e bisognosi: "Dio ascolta proprio la preghiera dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare? Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza, la sua preghiera giungerà fino alle nubi. La preghiera dell'umile penetra le nubi, finché non sia arrivata, non si contenta; non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto, rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l'equità" (Sir 35,13-18).

Se un uomo così perverso, come il giudice della parabola, è capace di esaudire le richieste insistenti della vedova, Dio, che è giusto e misericordioso, non esaudirà prontamente le preghiere dei suoi eletti che gridano a lui giorno e notte, ossia "sempre, senza stancarsi" (v.1)? Certamente! Anzi, l'intervento di Dio, a differenza di quello del giudice, è repentino ed efficace.

Questo brano del vangelo è un invito alla fiducia, all'ottimismo. Dio non ci esaudisce per togliersi dai piedi degli scocciatori, ma perché ci ama.

L'interrogativo con cui si chiude il vangelo di oggi ci chiede una sempre rinnovata presa di posizione nei confronti di Dio. L'apostolo Paolo attendeva con fiducia la morte e il giudizio, perché aveva conservato la fede (cfr 2Tim 4,7). Questo è anche l'augurio chi facciamo a noi e a tutti.

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14/11/2010 15:30
 
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padre Romeo Ballan L'annuncio missionario di un Re finito in croce

Riflessioni
Ci sono le "Sette Parole di Gesù in croce". Ma anche le "sette parole dette a Gesù in croce". Le prime sono tema di abbondanti predicazioni e scritti spirituali. Ma anche le seconde si prestano per commenti e riflessioni feconde. Nel Vangelo lucano di oggi troviamo quattro parole pronunciate verso Gesù: dai capi (v. 35), dai soldati (v. 36-37) e dai due malfattori crocifissi accanto a Gesù (v. 39-42). Queste quattro parole hanno in comune, sia pur con sfumature diverse, la sfida rivolta a Gesù: "dimostra chi sei (il Cristo, il re...), salva te stesso, scendi dalla croce... Le parole dei capi, dei soldati e di uno dei malfattori sono ingiuriose, sprezzanti, senza pietà. Il cliché si ripete secondo una logica umana di totale incomprensione e stravolgimento della identità del Cristo.

La scritta sopra il capo di Gesù parla da sola: "Questi è il re dei Giudei" (v. 38). Dice tutto di quella condanna. Ma come decifrarla, chi la capisce nella sua verità? Per i capi religiosi e politici sono parole da burla; ma per Dio e per il cristiano dal cuore sincero sono parole vere, che centrano in pieno l'identità di quello strano condannato! Quella lapide è una sfida che attraversa i secoli: o la si accetta o la si rifiuta. Con alterne conseguenze! "Il popolo stava a vedere" (v. 35): muto e perplesso, fra curiosità e impotenza, non capisce cosa sta succedendo, non sa cosa fare... Poco dopo, però, quando lo spettacolo si concluse in orrenda tragedia, quelle folle "se ne tornavano percuotendosi il petto" (v. 48).

È possibile cogliere il significato di quella morte dalle parole del secondo dei malfattori, il famoso 'buon ladrone', l'unico che riconosce il senso di quella scritta e l'identità di Gesù. Non gli chiede una clamorosa liberazione, ma solo di stare accanto a lui nell'ultima fase della vita: "Ricordati di me..." (v. 42). Richiesta subito esaudita: "Oggi sarai con me nel paradiso" (v. 43). Gesù ha solo parole di salvezza piena: oggi, in paradiso! Il silenzio di Gesù, il suo gesto di perdono, le poche parole (con il Padre, la madre, gli amici...) svelano il mistero di un re splendido e potente, ma che finisce su una croce. La sua è una regalità strana: ha mandato in tilt Erode, Pilato, Tiberio, i capi, il popolo... Una regalità difficile da comprendere e ancor più da accettare. Una regalità spesso incompresa e travisata! Ma per chi l'accetta, è una regalità vera, capace di dar senso pieno alla vita. (*)

La chiave del mistero di quella morte sta nella risposta alle domande 'logiche' di tutti: "Perché non scendi dalla croce? Perché non chiarisci tutto facendo il miracolo? Ne hai fatti tanti di strepitosi, per gli altri... Se tu scendessi dalla croce, tutti ti crederebbero". Ma in che cosa crederebbero? "Nel Dio forte e potente, nel Dio che sconfigge e umilia i nemici, che risponde colpo su colpo alle provocazioni degli empi, che incute timore e rispetto, che non scherza... Questo non è il Dio di Gesù. Se scendesse dalla croce, svuoterebbe il suo messaggio anteriore, tradirebbe la sua missione: avallerebbe l'idea falsa di Dio che le guide spirituali del popolo hanno in mente. Confermerebbe che il vero Dio è quello che i potenti di questo mondo hanno sempre adorato perché è simile a loro: forte, arrogante, oppressore, vendicativo, umano. Questo Dio forte è incompatibile con quello che ci è rivelato da Gesù in croce: il Dio che ama tutti, anche chi lo combatte, che perdona sempre, che salva, che si lascia sconfiggere per amore" (F. Armellini).

Tale riflessione ha ricadute immediate sul terreno della missione: Quale Dio annunciamo? Quale volto di Dio rivela la missione che portiamo avanti: un Dio dalla povertà e debolezza o un Dio alla ricerca di riconoscimenti e di potere? Sarebbe in sintonia con la logica umana e con i re di questo mondo. Nel modo di far missione, a volte ci sono concessioni, c'è timore nell'annunciare, con le parole e con i fatti, un Dio che perde, che perdona, soffre, è sconfitto... E quindi non si favorisce la crescita di una Chiesa povera, umile, disposta a perdere... L'abbondanza di mezzi umani rischia di togliere trasparenza all'annuncio. È più evangelica una missione che si realizza con mezzi deboli, che annuncia Dio dalla povertà, dall'umiltà, espulsione, persecuzione, distruzione... Perché è nella logica del Re che vince e regna dalla croce! Un re così disturba i nostri piani, perché esige un cambio di vita, capacità di perdono, accoglienza di chiunque, tempi più lunghi, prospettive scomode... Le condizioni sono esigenti, ma con Lui l'esito della missione è assicurato!
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16/11/2010 08:35
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 19, 1-10

L'incontro di Gesù con Zaccheo ripropone uno dei temi fondamentali del vangelo: la preferenza di Dio per i peccatori. Quest'uomo altolocato e benestante è insoddisfatto di sé. In apparenza ha tutto, in realtà gli manca tutto. In quanto pubblicano è escluso dalla salvezza secondo la legge, in quanto ricco è escluso dalla salvezza secondo il vangelo (cfr Lc 18,24ss). E' un peccatore della peggior specie, è un caso impossibile.

Anche in questo caso, come nel brano precedente, la moltitudine dei discepoli nasconde agli occhi di Zaccheo il Gesù che cercava di vedere. La comunità è il luogo dell'incontro con Dio, ma qualche volta impedisce di vederlo. La folla non aiuta Zaccheo a trovare Gesù e criticherà Gesù quando deciderà di andare nella sua casa.

Il pubblicano viene chiamato per nome: "Zaccheo". Questo nome significa "Dio ricorda". Dio si ricorda di lui e gli usa misericordia, come aveva cantato il suo omonimo, Zaccaria: "Ha soccorso il suo servo, ricordandosi della sua misericordia"(cfr Lc 1,54). In Zaccheo si compie la volontà di salvezza del Padre, che Gesù ha la missione di attuare in questo mondo. E tutto deve avvenire "subito" e "in fretta" (vv.5-6). E' l'urgenza della salvezza. Ci ricorda Maria che corre a portare il Salvatore a chi l'attende (cfr Lc 1,39). Ma questa volontà di Dio che desidera salvare tutti e subito suscita incomprensione e mormorazione nei benpensanti di allora come in quelli di tutti i tempi.

L'ansia e la tensione di Zaccheo si trasformano in esultanza, che è la partecipazione alla felicità di Dio. L'angelo Gabriele ha invitato Maria a rallegrarsi, ora tale allegrezza passa a un peccatore convertito. L'incontro con Gesù libera l'uomo dalle sue colpe, dalle sue perplessità e angosce e lo riempie di pace e di gioia.

La folla critica il comportamento di Gesù perché non lo capisce. Egli è venuto a portare agli uomini il perdono di Dio, e non deve fare meraviglia che lo conceda a coloro che ne hanno più bisogno. Dio non è come l'hanno presentato gli scribi e i farisei di tutti i tempi. E' diverso. Non ha nemici, non è contro nessuno, non fa distinzioni tra giudei e pagani, tra giusti e peccatori. Tutti sono uguali davanti a lui, tutti bisognosi di grazia, di perdono e di aiuto.

Luca si compiace di presentare Gesù che si trova a suo agio in casa di un peccatore. La salvezza è per tutti, e prima di tutto per i peccatori che si pentono. E il pentimento si manifesta nel riordinare la propria condotta, riparando i torti commessi. E poiché le ingiustizie sociali pesano in definitiva sempre sui poveri, Zaccheo darà loro la metà dei suoi beni. E nei casi specifici di truffa', restituirà secondo la legge: quattro volte tanto (cfr Es 21,37; 2Sam 12,6). La giustizia sociale è il primo frutto della conversione.

Gesù non è venuto per condannare, ma per salvare. La sua missione si compie dando accoglienza ai peccatori. San Paolo ha scritto: "Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna" (1Tm 1,15-16).

Zaccheo cercava Gesù, ma alla fine di questo episodio evangelico scopriamo che, ancor più e ancor prima, era Gesù che cercava Zaccheo che si era perduto (v.10). La lezione di questo brano di vangelo ha bisogno di essere sempre ricordata nella Chiesa. C'è sempre qualcuno nella comunità cristiana che ha paura di avvicinare i peccatori, gli scomunicati e i nemici della religione e della fede. Il vangelo ci spinge ad essere vicini a tutti, a stabilire buoni rapporti con tutti, perché tutti hanno bisogno di salvezza, e tocca proprio a noi portarla a loro.

"Il Figlio dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto" (v.10). E' la chiave di lettura di tutta la storia di Gesù.

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18/11/2010 15:30
 
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Paolo Curtaz


Gesù piange su Gerusalemme, oggi come allora. E' un mistero di sangue e di iniquità questa città costruita sui monti brulli della Giudea, come un faro che risplende nella notte, che racchiude in pochi chilometri le ansie e le speranze di tre religioni che coinvolgono oltre due miliardi di persone. Mistero di incomprensione in cui si gioca tutto il bene e l'orrore dell'uomo, tutto il vero e lo stolto, tutta la luce e la tenebra. Gerusalemme città santa e lacerata, divisa dagli uomini e amata da Dio. Amiamo Gerusalemme amici, soffriamo per lei, preghiamo intensamente per la pace tra i fratelli ebrei e i fratelli palestinesi, facciamo sentire forte la nostra amicizia e la nostra solidarietà agli oltre 70mila cattolici del Patriarcato latino, fratelli che abitano quella terra dai tempi di Gesù, al più arabi di etnia, israeliani di nazionalità e cattolici di religione, schiacciati tra incudine e martello, esasperati da una guerra non loro, sconvolti da una situazione economica disastrosa. Mi diceva un caro amico parroco a Gerusalemme, l'anno scorso: le nostre comunità sono qui da duemila anni per accogliere i pellegrini, noi siamo qui per custodire i luoghi storici della vita di Gesù, ora i pellegrini non vengono più, hanno paura, che ci stiamo a fare qui? Propongo, amici, a tutti i discepoli di fare qualcosa, di smuovere le acque: sarà un orribile Natale quello passato dai nostri fratelli, perché non attivarsi? Perché non iniziare una corrispondenza con una delle Parrocchie cattoliche? Perché magari non farsi spedire un container di ricordini della Terra Santa invenduti per venderli qui da noi davanti alle Chiese? Perché non invitare qualche ragazzo palestinese cattolico nelle nostre Parrocchie, proporre uno scambio, invitare qualche ragazzo israeliano che ama la pace per costruire il dialogo? Non basta piangere su Gerusalemme, né liquidare con qualche battuta la situazione come se non ci riguardasse: abbiamo fratelli cristiani laggiù che si sentono abbandonati, attiviamoci sul serio per dar loro la certezza di essere nel cuore di ogni cristiano.

Tu piangi su Gerusalemme, Signore, che, allora come oggi, non ha capito il tuo messaggio di pace...

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19/11/2010 11:52
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 19, 45-48

Il viaggio di Gesù a Gerusalemme si conclude nel tempio. Egli entra nei cortili del tempio non tanto per pregare, quanto per compiere un rito di purificazione della casa del Padre. Scaccia tutti i commercianti e pronuncia contro di loro severe parole di biasimo e di condanna. La casa di Dio non deve essere adibita a luogo di mercato e la religione non può essere pretesto e paravento di operazioni commerciali.

A differenza dei suoi sacerdoti, Dio non vende i suoi favori a chi cerca di conquistarselo con prestazioni religiose o addirittura con il denaro. Il peccato più grave contro di lui è quello di voler comperare il suo amore: è come trattarlo da prostituta. Egli è il Padre pieno di grazia e di misericordia. La salvezza è suo dono gratuito al quale rispondiamo con un amore filiale gratuito. Questo è il vero culto spirituale, gradito a Dio (cfr Rm 12,1). La cattiva immagine di Dio è l'origine di tutti i mali dell'uomo.

Il culto di mammona cerca sempre di sostituirsi a quello del vero Dio. Ma Gesù ci ha detto senza mezzi termini che non possiamo servire a due signori (cfr Lc 16,13). Infatti Dio e mammona sono inconciliabili tra loro, come il dono e il possesso, la vita e la morte, l'amore e l'egoismo.

Il profeta Zaccaria aveva preannunciato la venuta del Messia con queste parole: "In quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa di Dio" (14,21). Permane sempre anche per la Chiesa il pericolo di diventare una spelonca di ladri alla ricerca del turpe guadagno (1Pt 5,2). La povertà e la gratuità sono le due condizioni indispensabili che Gesù ha posto per l'annuncio del vangelo (cfr Lc 9,1ss; 10,1ss). Esse manifestano l'essenza di Dio che è amore. E l'amore dà gratuitamente tutto ciò che è e ha.

Con la predicazione nel tempio Gesù si inimica i capi del giudaismo, i quali decidono subito di farlo morire. Ma il popolo si schiera dalla sua parte e ascolta le sue parole. Da queste persone usciranno i primi elementi per edificare il nuovo popolo di Dio che è la Chiesa.

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22/11/2010 12:32
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 21, 1-4

Questa povera vedova ci dà la lezione fondamentale del vangelo: nelle due monete che getta nel tesoro del tempio rende a Dio ciò che è di Dio, cioè tutta la sua vita.

Nel giudizio di Gesù la povera vedova ha dato più dei ricchi, perché ha dato tutto ciò che possedeva. Ella affida a Dio la propria vita senza angustiarsi e preoccuparsi. Mette in pratica alla lettera l'insegnamento di Gesù: "Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete... Non cercate ciò che mangerete e berrete, e non state con l'animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta" (Lc 12,22-31).

A Dio non si deve dare né tanto né poco né nulla, ma tutto ciò che siamo e abbiamo, perché "noi siamo suoi" (Sal 100,3). L'unica cosa da fare è corrispondere liberamente al suo amore totale (cfr Lc 10,27).

Questa donna è immagine della Chiesa. La Chiesa è la comunità dei piccoli, dei poveri e dei disprezzati, i quali però sono grandi davanti a Dio perché donano tutto ciò che hanno con umiltà e semplicità e pongono la loro fiducia in lui. Nella Chiesa non contano i potenti e i sapienti: la vera storia è fatta dagli umili che, come questa vedova, vivono l'amore concreto nello Spirito del Signore. Gesù prima di morire ce li addita come maestri.

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23/11/2010 07:57
 
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padre Lino Pedron
Commento su Luca 21, 5-11

Il tempio di Gerusalemme era considerato una delle sette meraviglie del mondo. Ed ecco che ad alcuni che ammirano e magnificano il tempio, Gesù dà una predizione di sventura: il tempio sarà distrutto. Dio non bada alla bellezza dei marmi e alla preziosità dei doni, ma vuole un popolo dalla cui vita traspaia che Dio abita in mezzo ad esso. Il profeta Michea aveva predetto: "Udite dunque, o principi della casa di Giacobbe, o giudici della casa d'Israele, che avete in orrore la giustizia e pervertite ogni diritto, che edificate Sion con il sangue e Gerusalemme con l'iniquità!... Per colpa vostra, Sion sarà arata come un campo, Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine e il monte del tempio un'altura boscosa" (3,9-12).

Gesù viene interrogato qui unicamente circa la fine del tempio. La distruzione di Gerusalemme non fa parte degli avvenimenti della fine del mondo. Essa è già avvenuta quando Luca scrive il suo vangelo.

L'intento primo dell'evangelista è mostrare che non stiamo andando verso "la fine", ma verso "il fine". Il dissolversi del mondo vecchio è contemporaneamente la nascita del mondo nuovo. Gesù non risponde alla nostra curiosità circa il futuro, ma vuole toglierci le ansie e gli allarmismi sulla fine del mondo, che non servono a nulla e producono unicamente del danno. Alla paura della fine del mondo e della morte Gesù offre l'alternativa di una vita che si lascia guidare dalla fiducia nel Padre, in un atteggiamento d'amore che ha già vinto la morte. Il Figlio di Dio diventato uomo ci ha già rivelato il destino dell'uomo e del mondo: il suo mistero di morte e risurrezione è la verità del presente e del futuro.

Per gli ascoltatori di Gesù la distruzione del tempio significava la fine del mondo e il ritorno del Figlio dell'uomo (cfr Mt 24,3). In realtà significa la fine di un mondo vecchio e l'inizio di un mondo nuovo.

Il credente in Cristo non deve dare ascolto a voci false e fuorvianti. Anche san Paolo ha dovuto avvertire i cristiani di Tessalonica, scrivendo loro: "Vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro ricongiungimento con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare né da pretese ispirazioni né da parole né da qualche lettera fatta passare per nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! (2Ts 2,1-3).

Verranno molti e usurperanno il nome stesso di Cristo e la predizione della sua manifestazione al mondo, dicendo: "Io sono". Con queste parole, che sono la traduzione del nome di Dio, ognuno di essi si presenterà come il salvatore mandato definitivamente da Dio per portare a compimento la storia del mondo. Gesù smaschera questi "salvatori" chiamandoli seduttori. San Paolo presenta così il seduttore: "Verrà l'apostasia e si rivelerà l'uomo dell'iniquità, l'avversario, colui che si innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio" (2Ts 2,3-4).

La mancanza di umiltà è il primo segno della menzogna. Uno solo è il Salvatore e il Signore: colui che si è fatto ultimo di tutti e servo di tutti. Tutti i seduttori sono mossi dall'orgoglio, dall'interesse, dall'invidia, dalla cupidigia. Usano Dio, la sua parola e i suoi doni per affermare il proprio io. Nei confronti di questi figuri Gesù ci dà un avvertimento grave: "Non lasciatevi ingannare!... Non seguiteli"(v.8).

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26/11/2010 13:34
 
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padre Lino Pedron Commento su Luca 21, 29-33

Quando il Signore tornerà alla fine dei tempi non ci sarà bisogno di messaggeri che annuncino l'approssimarsi del regno di Dio, perché ognuno se ne accorgerà da sé per i fatti che potrà osservare. Nessun uomo, che abbia senno, ha bisogno di essere aiutato a capire che l'estate è vicina quando germogliano gli alberi.

Il regno di Dio verrà a noi con la stessa certezza con cui a suo tempo viene l'estate. Gesù non ci comunica una scadenza esatta perché "nessuno conosce il giorno e l'ora, se non il Padre" (Mt 24,36; Mc 13,32).

"La parola di Dio dura sempre" (Is 40,8). Dobbiamo fondare su di essa la nostra vita. Questa parola ci dà la certezza che il Signore viene. Viene come è venuto allora; e allo stesso modo verrà alla fine. "Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre. Non lasciatevi sviare da dottrine varie e a voi estranee" (Eb 13,8-9).
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