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IL LIBERO ARBITRIO : al di là della materialità

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2022 10:37
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22/05/2015 18:44
 
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 la scienza e il libero arbitrio




Libero arbitrioLa libertà umana è uno degli scogli più resistenti contro cui si infrange il naturalismo filosofico. Come è possibile giustificare e spiegare l’esistenza di un abitante della Terra che non è determinato dai suoi antecedenti genetici e biologici e prescinde la sua stessa natura grazie alla libertà?


E’ evidente che questa capacità unicamente umana non può essere un prodotto “naturale”: come potrebbe l’evoluzione biologica, infatti, produrre la facoltà di estromettersi dall’istinto biologico-naturale? Per questo l’unica soluzione del naturalismo è sforzarsi di negare questa capacità di decisione libera del nostro destino attraverso la strumentalizzazione delle neuroscienze. Lo hanno fatto i vari nemici del cristianesimo, da Spinoza a Huxley, da Voltaire ad alcuni scienziati e filosofi moderni.


Ben vengano allora continue confutazioni di questi tentativi, l’ultimo in ordine cronologico è il libroFree: Why Science Hasn’t Disproved Free Will (Oxford University Press 2015) del prof. Alfred R. Mele, docente di filosofia presso la Florida State University. Si occupa di libero arbitrio dagli anni ’90 ed è uno dei più esperti nel settore. E’ stato recensito dal filosofo tomista Edward Feser il quale ha sintetizzato l’esposizione del prof. Mele sul perché, come dice il titolo del suo volume, la scienza non hai smentito il libero arbitrio.


«La vera illusione non è la libertà di scelta», ha spiegato Feser, «ma la presunzione di aver smentito la libertà. Mele dimostra che le prove scientifiche non arrivano da nessuna parte, tanto meno vicino a minare il libero arbitrio, e il ragionamento che porta alcuni scienziati a sostenere il contrario è incredibilmente sciatto». La prova più nota sulla quale si appoggiano questi scienziati è ovviamente il test del neurobiologo Benjamin Libet: i soggetti erano invitati a flettere il polso quando avevano voglia di farlo e poi dovevano riferire il momento in cui erano divenuti consapevoli del bisogno di fletterlo. I loro cervelli nel frattempo venivano monitorati in modo da rilevare l’attività nella corteccia motoria responsabile della flessione del polso. E’ emerso che la volontà cosciente arriverebbe una media di 500 millisecondi dopo la flessione del polso. Alcuni hanno concluso quindi che sarebbe l’attività neurale ad avviare la flessione del polso e non la volontà cosciente. L’autore dello studio, Libet, smentì sempre queste conclusioni tratte dal suo lavoro interpretandolo in modo differente e salvaguardando il libero arbitrio.


Il prof. Mele ha comunque mostrato che queste interpretazioni sono state ampiamente rivedute, sopratutto contestando l’adeguatezza metodologica del test utilizzato da Libet. Infatti, «sono stati rilevati solo i casi in cui l’attività neurale è stata effettivamente seguita dalla flessione del polso mentre non sono stati controllati i casi in cui si è verificata l’attività neurale senza la conseguente flessione. Quindi non abbiamo alcuna prova che quel tipo specifico di attività neurale sia davvero sufficiente per la flessione del polso. E’ anche possibile che l’attività neurale abbia portato (o non) alla flessione del polso a seconda se era congiunta con la libera e consapevole scelta di flettere il polso». E’ stata anche contestata la poca oggettività del test allorquando viene basato sulla sensazione del soggetto testato di quando ha percepito il bisogno di flettere il polso. Inoltre, e questa è l’argomentazione dello stesso Libet, c’è la possibilità che la mente cosciente ponga (o meno) un veto inibendo l’avvio dell’esecuzione dell’azione. La libertà dunque sarebbe salvaguardata nel fatto di tradurre o meno in azione l’input neuronale.


Ma tra le obiezioni metodologiche la più importante, avanzata anche dal prof. Mele, è che il test di Libet (e anche i successivi, come quello di J.D. Haynes) non rappresenta affatto il tipo di scelte che compiamo durante la nostra vita: «esse infatti coinvolgono una deliberazione attiva, una pesatura di considerazioni a favore e contro diversi possibili linee d’azione. Non c’è da stupirsi che la deliberazione cosciente abbia avuto poca influenza in una situazione sperimentale in cui la deliberazione è stata esplicitamente esclusa. Ed è sbagliato estendere conclusioni derivate da queste situazioni artificiali ad ogni azione umana, compresi i casi che fanno coinvolgere deliberazione attiva». Decidere di prendere un aereo, programmare una vacanza per l’estate successiva, scegliere la data del matrimonio…queste sono scelte lunghe e ragionate, ben differenti dal flettere o meno un polso. Inoltre, come ha spiegato la filosofa Roberta De Monticelli, sapevamo già «che la coscienza è a volte preceduta da reazioni istintive: come inchiodare l’auto prima di investire la vecchietta o rispondere bene al servizio dell’avversario, giocando a tennis» (R. De Monticelli in Siamo davvero liberi?, Codice edizioni 2010, p. 115). Per l’appunto si chiamano azioni istintive, mentre le scelte morali non sono affatto istintive.


Infine, il filosofo americano ha anche spiegato che «l’idea che una libera azione comporti essenzialmente una serie di atti coscienti di volontà, ciascuno seguito da un movimento del corpo, è uno straw man e non corrisponde a ciò che il senso comune (o, anche filosofi come Wittgenstein o d’Aquino) hanno in mente quando si parla di azione gratuita». Come ha concluso il prof. Filippo Tempia, ordinario di Fisiologia presso l’Università di Torino, «non esiste a tutt’oggi un esperimento conclusivo che dimostri l’inefficacia causale della mente nelle decisioni umane. Durante le decisioni coscienti non è solo il cervello a essere attivo, ma è presenteun’attività correlata mente-cervello. Allo stato attuale delle conoscenze non si può scientificamente negare il libero arbitrio nell’uomo» (F. Tempia in Siamo davvero liberi?, Codice edizioni 2010, p. 108).



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23/05/2015 16:04
 
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Sam Harris difende il libero arbitrio 




Il filosofo Sam Harris, uno dei quattro cavalieri dell’ateismo internazionali e autore del libro“La fine della fede” (2004), ha da qualche tempo iniziato gli studi sulle neuroscienze con l’intento dichiarato di sconfiggere scientificamente la religione. Iniziativa bizzarra, d’altra parte anche gli stessi atei lo ritengono letteralmente un fanatico.


In questi giorni, sul suo sito web, è avvenuto qualcosa di insolito: il filosofo ha in qualche modo difeso il concetto di “libero arbitrio” e questo ha sconcertato i suoi devoti lettori, i quali hanno pensato bene di insultarlo e definirlo “malato di mente”, chiedendo la definitiva rimozione dalla mailing list. Un fatto simile era già successo, in proporzioni decisamente maggiori, anche al suo amico Richard Dawkins, il quale si era permesso di moderare i suoi fans, eccessivamente scatenati negli insulti contro i credenti. Tuttavia come risposta si è trovato travolto lui stesso dal polverone delle ingiurie e molti dei suoi lettori hanno dichiarato di aver perso completamente la stima verso di lui .


Sintetizzando enormemente, lo scenario attuale sul libero arbitrio (dopo i noti esperimenti di Libet e John-Dylan Haynes) vede due posizioni: il compatibilismo, cioè coloro che sostengono che il libero arbitrio sia compatibile con il determinismo (e quindi le nostre azioni arrivano casualmente dalla nostra volontà, anche se questa è totalmente determinata), e l’incompatibilismo, cioè coloro che sostengono che il libero arbitrio non sia compatibile con il determinismo e quindi: il libero arbitrio è un’illusione mentre il determinismo è vero (detta anche “concezione dell’illusionismo“), oppure: il determinismo è falso e gli esseri umani godono del libero arbitrio (detta anche “concezione del libertarismo“).


Harris sembra proprio tendere verso il compatibilismo rifiutando «la prigione del determinismo» (quindi rifiutando la “concezione dell’illusionismo”).  Certo, non lo fa apertamente, sa benissimo infatti, come scrive nel primo articolo, che «la credenza verso il libero arbitrio sottoscrive la nozione religiosa di “peccato”», e questo lui non può accettarlo. E’ anche cosciente del fatto che negando il libero arbitrio si solleva automaticamente il problema della responsabilità morale e dell’impossibilità a condannare i comportamenti sbagliati, mandando in tilt l’ordine sociale.  L’articolo solleva un polverone ed Harris è costretto a scriverne un secondo, informando appunto di essere stato attaccato ed insultato dai suoi stessi fans. Sfrutta così l’occasione per chiarire ulteriormente il suo pensiero, dicendo che le nostre libere scelte, gli sforzi, le intenzioni, il ragionamento e gli altri processi mentali influenzano senz’altro il nostro comportamento. Ma essi, sostiene il filosofo, sono parte di un flusso di cause precedenti e su cui non abbiamo alcun controllo finale. La formula che usa è questa: io sono libero di scegliere, ma non posso scegliere quello che scelgo.Ma gli animi dei suoi lettori non sembrano tranquillizzarsi e così Harris deve scrivere un terzo articolo in cui, formalizzando le accuse che gli vengono fatte, tenta di rispondervi direttamente. In realtà non sembra saperlo fare molto bene e le sue risposte non sono affatto esaustive e sostanzialmente conferma che la sua accusa al libero arbitrio (o, almeno, al concetto di libero arbitrio condiviso dalla popolazione umana) non richiede il materialismo filosofico.


Sam Harris dunque non crede al comune concetto di libero arbitrio, tuttavia considerando che personaggi come lui arrivano dritti dal materialismo e positivismo illuminista, la sua mezza apertura appare interessante. Lo è ancora di più quando arriva proprio a prendere totalmente le distanze dal determinismo, «per il quale il libero arbitrio è un’illusione». Ora la parte più difficile è riuscire a convincere i propri fans.



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23/05/2015 16:10
 
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L’uomo, la discontinuità biologica
e il libero arbitrio

 di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Recentemente UCCR ha pubblicato un articolo dello scienziato Tito Arecchi sul rapporto mente-corpo a seguito dell’ultimo sofisma di Edoardo Boncinelli apparso sul Corriere della Sera.

Uso i termini in senso tecnico e non a scopi adulatori o denigratori, come potrebbe sembrare a un lettore malizioso. Arecchi è uno scienziato a tutto tondo, noto per gli studi in fisica, neuroscienze ed epistemologia. Boncinelli invece, dopo una carriera dedicata alla biologia, si è ritirato nella sofistica, che è una scuola di filosofia con il privilegio di asserire A un dì e non-A l’altro dì; e perfino A e non-A nella stessa proposizione B, che pertanto è priva di senso.Arecchi fa scienzaBoncinelli si è acconciato a raccontarla secondo l’estro del giorno. Per giunta, un sofista non avverte mai il dubbio che ci sia qualcosa d’errato nel suo approccio epistemico, poiché per lui come per i suoi antichi maestri greci il ragionamento non ha lo scopo di avvicinare alla verità (che non esiste), ma solo di aver successo in piazza. Boncinelli può così proclamare in un libro che “l’anima è una ciliegina sulla torta” del cervello – cioè una leccornia reale, talché ai matrimoni io mangio solo le ciliegine disinteressandomi delle torte –, e in un altro che “l’anima è un’illusione” e non esiste, senza neanche accorgersi dell’incoerenza:un’illusione di “chi”In-ludo vuol dire “gioco contro” la realtà, ma quando le anime dei dubbiosi giocano contro la propria esistenza, non la dimostrano con l’atto di giocarci? L’intervistatrice del Corriere poi, anziché interloquire col maestro almeno da studentessa (essendo forse troppo attendersi da lei la parte di Socrate con Gorgia), ne ha subìto l’aura e gli si è inginocchiata a raccogliere la sequela di antinomie, giudicate l’ultima scoperta di come “la scienza supera il dualismo tra la mente e il corpo”. Ma quel dualismo platonico non l’aveva già falsificato Tommaso d’Aquino otto secoli fa?

Lasciamo la cultura della grande stampa (dove al nichilismo aporetico di oggi succederà domani l’astrologia dei meteoriti panspermici o dei pianeti gemelli e dopodomani l’alchimia del gene della felicità o della pillola della bontà) e passiamo al campo della scienza moderna, quella tosta che cerca di adeguare il discorso alla realtà, incrociando galileianamente le teorie con le misure in laboratorio. Un’opera fresca di stampa fa il punto della ricerca scientifica sulle facoltà superiori dell’anima umana che chiamiamocoscienzamente, ecc. Si tratta di “… e la coscienza? Fenomenologia, psicopatologia, neuroscienze”, a cura di A. Ales Bello e P. Manganaro (Laterza, Bari 2012, € 50). Vi è raccolto, tra gli altri, un contributo di Arecchi intitolato “Fenomenologia della coscienza: dall’apprensione al giudizio”, che vado a riassumere per i lettori.

Per prima cosa, per i non esperti in teoria delle probabilità, devo accennare al teorema di Bayes (dal rev. Thomas Bayes, 1702-1761, che l’ha scoperto). Il teorema permette di calcolare la probabilità che sia accaduto un evento, quando si conosce qualcosa di attinente. Prima di tirare un dado, ho 1:6 probabilità di fare un 6. Qui Bayes non serve. Ma se il dado è già stato tratto e sappiamo che è uscito un numero pari, la probabilità “bayesiana” che sia uscito il 6 è ora 1:3, il doppio di prima. Beh, direte, tutto qua? ci possiamo arrivare da soli, anche senza Bayes! È vero, però i problemi potrebbero essere più complicati. Prendiamo quest’altro. Si sa che in una popolazione i fumatori sono il 35% e che il 20% dei fumatori e il 6% dei non fumatori hanno l’asma: qual è la probabilità che un affetto d’asma sia fumatore? La risposta di Bayes è 64%, ma non vi accecherò con lo splendore barocco della sua formula! Insomma, l’algoritmo di Bayes permette di dedurre da un insieme di dati, relati in un modello a diversi eventi, la probabilità di ognuno di essere accaduto. È la matematizzazione del metodo investigativo di Sherlock Holmes: sulla base delle informazioni disponibili il detective associava una probabilità di colpevolezza ad ogni indiziato d’un delitto, stringendo gradualmente il cerchio man mano che nuovi dati erano raccolti.

Entriamo ora nel vivo e parliamo della fondamentale distinzione tra apprensione e giudizio, che Arecchi supporta per via sperimentale e teoretica. Che cos’è l’apprensione? È la percezione d’un oggetto, realizzata dal lavoro combinato di milioni di neuroni nel cervello (di uomo o animale), in seguito ad uno stimolo colto dai sensi e giunto, attraverso un iter trasformistico inimmaginabile, a quei neuroni. Io ho un’apprensione proprio ora: mentre scrivo queste note, percepisco il rumore d’un aereo di passaggio. Le onde sonore colpiscono i miei timpani e di qui, con una serie di reazioni chimiche nel mio corpo, il segnale cambia cento volte forma fisica e dall’anatomia degli orecchi giunge in ½ secondo ad un esercito di cellule nel cervello, le quali infine in sincronismo perfetto, in un altro ½ secondo, usano un algoritmo di Bayes tra i tanti ivi iscritti e mi procurano la percezione del rumore associandola ad un aereo. Un’apprensione è anche quella di un gatto quando raccoglie nel naso o sugli occhi i segnali inviati da un topo e, attraverso gli organi del fiuto o della vista prima di tutto e col cervello infine, prende consapevolezza della presenza della preda. Anche i neuroni di cervello felino usano la formula del rev. Bayes per fornire al gatto un’immagine del topo. Quando i suoi neuroni selezionano l’algoritmo sbagliato, il gatto prende lanterne per lucciole.

Un’apprensione dura da pochi decimi a 3 secondi, in media 1 secondo: è il tempo che passa dall’arrivo del segnale ai sensi fino alla sua elaborazione sincronizzata nei neuroni della corteccia cerebrale, che produce nel soggetto la percezione coerente dell’oggetto esterno. Per la visione, Arecchi dettaglia come le miriadi di raggi di luce (diversi per colore, intensità, direzione, distanza, ecc.) riflessi dall’oggetto attraversino nel primo ¼ di secondo le cellule degli organi dell’occhio (cornea, cristallino, retina, ecc.: la retina ha opportunamente circa 100 milioni di cellule, tra bastoncelli e coni, per fare la scannerizzazione); e poi come, in un altro ¼, ogni organo nell’esercizio della sua funzione e in coordinamento con gli altri codifichi chimicamente l’elemento di segnale nel suo linguaggio (per es., per ogni fotone sono milioni al secondo gli ioni di sodio che si mobilitano in correnti elettriche nei bastoncelli), per trasferirlo all’organo successivo via via fino al nervo ottico, alla corteccia visiva e alla corteccia prefrontale. Ancora Arecchi mostra come in questa, in ½ secondo, la folla neuronica – reciprocamente eccitata da somi, assoni, dendriti e sinapsi e obbediente alle leggi del caos quantistico – collabori a ricostruire, attraverso algoritmi di Bayes innati o pre-adattati con l’esperienza, un’immagine dell’oggetto. A questo punto, il soggetto ha una percezione coerente, dopo cui può reagire con impulsi trasmessi alle aree motorie. Arecchi illustra anche gli strumenti (sonde, elettroencefalogrammi, risonanze magnetiche nucleari, ecc.) usati dalle neuroscienze per scoprire come nell’uomo e negli animali accada il processo elementare dell’apprensione che, ci crediate o no, io ho sintetizzato soltanto per sommi capi.

Le fasi dell’apprensione, compresa l’ultima di sincronizzazione neuronale, non sono differenti tra uomini e animali superiori, come scimmie e gatti. Tutti gli agenti cognitivi, animali e umani, condividono anche la capacità di richiamare dalla memoria i ricordi delle apprensioni, da usare per le decisioni motorie. Mentre però negli animali le apprensioni passate sono separatamente conservate nelle aree di memoria, ciascuna nel suo specifico codice e solo ai fini delle decisioni motorie future, negli esseri umani – e qui veniamo alla prima importante distinzione – le informazioni memorizzate nei loro pacchetti linguistici possono essere tradotte in unsuper-codice comune, così da essere confrontate ai fini del giudizio e delle altre attività specificatamente umane, come le arti e le scienze. Il giudizio non ha gli automatismi dell’apprensione. Esso consiste nel raffronto tra due o più apprensioni memorizzate, si prolunga su tempi oltre i 3 secondi ed è esclusivo dell’intelletto umano. L’eseguibilità del giudizio postula un soggetto cognitivo conscio della propria unità persistente nell’esplorazione diacronica dei pacchetti linguistici disponibili: così, mentre il susseguirsi di apprensioni, proprio anche della vita animale, si risolve in una successione di mere consapevolezze percettive, il giudizio meditato tra apprensioni passate postula quella facoltà propriamente umana che è l’auto-coscienza.

L’esecuzione di un giudizio avviene nell’auto-coscienza con la creazione di un nuovo modello su cui applicare formule di Bayes (inverse) create ex novo. Per es., quando ad un concerto ci soffermiamo su due brani distinti, la mente crea nuovi modelli ed algoritmi appropriati (due operazioni non algoritmiche) per confrontare ed armonizzare in un uno stesso giudizio le apprensioni provocate dall’ascolto dei brani. Anche gli animali (e i sistemi esperti in informatica) possono autonomamente applicare variazioni ad un algoritmo di Bayes pre-esistente, secondo una procedura adattativa. Ciò avviene però con un repertorio linguistico limitato e sempre apportando piccole variazioni così da evitare catastrofi, preservare la stabilità della struttura ed anche permettere ritirate tattiche con la variazione opposta. Invece la super-codifica simbolica nel giudizio di diverse apprensioni in memoria, codificate nei diversi linguaggi (letterario, musicale, plastico, ecc.), ripropone al soggetto umano ogni evento da vari punti di osservazione, causati da “salti” non algoritmici e potenzialmente infiniti. Arecchi chiama “creatività questa caratteristica umana.

Se intendiamo il termine “coscienza” come consapevolezza di un’apprensione specifica, magari seguita da una reazione motoria, la consapevolezza può manifestarsi – come ha mostrato Benjamin Libet nei suoi famosi esperimenti – in ritardo rispetto alla registrazione dei potenziali che stimolano i muscoli. Ma ciò non nega la libera volontà, perché negli uomini come negli animali la reazione motoria è in questi casi l’esito automatico d’un algoritmo bayesiano inscritto. Se invece “coscienza”, o meglio “auto-coscienza”, sta per la consapevolezza perdurante di un soggetto di essere l’agente di un giudizio tra più apprensioni passate dal cui confronto predire scenari futuri, allora il libero arbitrio dell’uomo è salvo perché il giudizio è prodotto da un salto tra un vecchio algoritmo ed uno creato ex novo. In particolare, una decisione etica richiede un tempo ben più lungo dell’apprensione e pertanto sfugge all’inversione dei tempi di Libet.

In conclusione, dopo “l’abisso cognitivo tra noi e le scimmie […], accaduto in un unico evento e non gradualmente”, ammesso dall’antropologo Ian Tattersall in un recente recente intervento; dopo le dichiarazioni del computer scientist Federico Faggin(creatore del primo microchip, 4004 Intel) per cui “il cervello umano è un grosso mistero […], qualcosa di magico. Tutta la nostra information technology è una stupidaggine in confronto” e l’auto-coscienza umana è “l’«elefante nella stanza», come si dice in inglese, cioè qualcosa che è impossibile non notare, ma che nessuno vuole riconoscere”, ora anche le neuroscienze confermano lospecifico antropico. È rimarchevole che antropologia, computer science e neuroscienze all’unisono identifichino nel linguaggio simbolico umano il punto di discontinuità biologica.

La scoperta scientifica della specificità antropica del simbolo conferma una lezione di Pavel Florenskij, in cui l’eroico sacerdote e scienziato (fucilato 75 anni fa in un gulag sovietico) negava il dualismo cartesiano e allo stesso tempo invitava a dare il giusto peso allo spirito e alla carne: “La dissoluzione del simbolo si verifica nell’idealismo come nel naturalismo: se dal simbolo si elimina l’involucro sensibile, si dissolve anche il suo contenuto spirituale ed il simbolo perde visibilità; al contrario, se si condensa l’involucro in un ordine sensibile al punto che quello spirituale diventi invisibile, l’involucro è impenetrabile allo spirito” (da “La concezione cristiana del mondo”. Lezioni all’Accademia Teologica di Mosca, 1921).


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23/05/2015 16:20
 
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Il biologo Rupert Sheldrake:
«chi nega la coscienza si contraddice»

L'illusione della scienzaA difendere l’irriducibilità dell’uomo e la teleologia dell’evoluzione biologica dalle pretese dell’idelogia scientista e materialista, in voga dall’Illuminismo in avanti, si sono aggiunti negli anni numerosi ricercatori mossi, non tanto da ideali metafisici, ma semplicemente dalla stanchezza di dover sopportare i dogmatismi che tengono in scacco la ricerca.

Recentemente ci ha pensato Thomas Nagel, docente di filosofia presso la New York University, con il suo libro Mente  e cosmo: Perché la concezione materialistica Neo-Darwiniana della natura è quasi certamente falsa” (Oxford University Press 2012) con il quale ha condannato il riduzionismo fisico-chimico in biologia e l’evidente inadeguatezza del «racconto materialista di come noi e gli altri organismi esistiamo, inclusa la versione standard di come funzionino i processi evolutivi».

In questi giorni è uscito (in Italia) un secondo volume, questa volta scritto dal biologo britannico, Rupert Sheldrake, celebre per gli studi sull’invecchiamento cellulare e la teoria dei «campi morfici», intitolato “Le illusioni della scienza. 10 dogmi della scienza moderna posti sotto esame” (Urra 2013).  Il quotidiano La Stampa lo ha intervistato per l’occasione, presentandolo come uno degli evoluzionisti più brillanti della sua generazione, autore di 80 «papers» e vincitore del prestigioso «University Botany Prize» .

Sheldrake sostiene che la scienza del XXI secolo è diventata una cattedrale del dogmatismo, sempre meno adatta a indagare l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, il dogma materialista (e dunque filosoficamente ateista) è una prigione per gli scienziati: «Penso che di talloni d’Achille il materialismo ne abbia proprio 10! Non uno solo. Ma il più ovvio è il fallimento nel capire la coscienza. L’assunto-base è che la materia sia l’unica realtà. Perciò la coscienza dev’essere un suo prodotto o un suo aspetto. Significa che la mente non è altro che l’attività del cervello. I filosofi della mente del XX secolo hanno fatto sforzi enormi per provare che la coscienza non esiste e che è un’illusione o un epifenomeno. Ma sono approcci poco convincenti», ha spiegato.

Con un fine ragionamento ha mostrato la contraddizione di chi sostiene che la coscienza sia un epifenomeno del cervello, proprio come aveva già fatto il prof. Giorgio Masiero su questo sito web qualche tempo fa. Risponde Sheldrake: «Definire la coscienza come un’illusione non la spiega, ma la presuppone, dato che l’illusione è una forma della coscienza stessa. E sostenere che sia nient’altro che il risultato di cause fisiche e chimiche, insieme con eventi casuali, fa del sistema di pensiero dei materialisti il prodotto della loro stessa attività cerebrale, su cui non hanno controllo cosciente. In altre parole devono credere nel materialismo, visto che il cervello li obbliga a farlo. Ecco perché un simile sistema di pensiero è auto-contradditorio: chiunque ci creda deve anche credere che la sua convinzione sia l’inevitabile conseguenza dell’attività del cervello e non una questione di scelta».

Il prestigioso biologo ha poi citato proprio il libro di Thomas Nagel di cui abbiamo parlato sopra, spiegando che esso «dimostra che la concezione materialistica è incompatibile con l’esistenza di una mente consapevole e che conduce a una comprensione distorta dell’evoluzione. Invoca quindi il ritorno alla teleologia nel pensiero scientifico, in particolare l’accettazione del ruolo del fine e dello scopo, tutti elementi che sono stati banditi dalla ricerca già a partire dal XVII secolo. Considero questo saggio complementare al mio libro, che discute non solo concetti filosofici, ma anche i passi concreti e gli esperimenti che potrebbero condurre le scienze verso nuove direzioni».

Questa posizione di apertura è molto difficile da mantenere nel contesto scientifico attuale perché molti suoi colleghi, conclude,«sono prigionieri delle pressioni sociali e dell’inerzia istituzionale. In pubblico, per loro, è difficile esprimere idee non convenzionali. In privato, però, sono spesso più aperti. Ecco perché ho rapporti di amicizia con molti scienziati, i quali dimostrano un interesse crescente per le mie idee. Ma considerano più sicuro parlarne in privato piuttosto che in pubblico».


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23/05/2015 16:31
 
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Perché mente e coscienza non sono un epifenomeno




 di Giorgio Masiero*


*fisico


 È quasi impossibile trovare oggi in un articolo di biologia termini come “mente” o“coscienza”, al cui posto leggeremo: neuroni, proteine, sinapsi e così via…, donde d’improvviso – con un salto dalla prosa scientifica alla poesia immaginifica – la mente è spiegata come “ciliegina sulla torta” (E. Boncinelli) o “fischio della locomotiva” (A.G. Cairn-Smith). Il termine ufficiale usato dal conformismo riduzionista è “epifenomeno” (un’invenzione del “mastino di Darwin”, T.H. Huxley), che significa “fenomeno derivante da un altro”: siccome però nel mondo tutti i fenomeni derivano da altri (proprio nello studio delle loro concatenazioni causali consistono le scienze) e “poiché là dove mancano i concetti, s’offre, al momento giusto, una parola” (J.W. von Goethe, “Faust”), il termine serve solo, secondo il diavolo, a celare la mancanza d’ogni concetto a riguardo di cosa sia la mente.

La paroletta di Huxley non è tanto un’ovvietà, ma uno sproposito, perché la mente non è un fenomeno. Fenomeno (dal greco“fàinomai” = mostrarsi) è tutto ciò che ci appare davanti, manifestamente: l’alternarsi del giorno e della notte, le fasi della luna, l’evaporare dell’acqua all’aria e l’abbronzarsi della pelle al sole, lo sbocciare dei fiori a primavera e la caduta delle foglie in autunno, ecc. È un fatto però, che di nessuno la mente ci appare. La mente piuttosto è il tribunale recondito davanti a cui tutti i fenomeni compaiono: i fenomeni sono gli oggetti delle apparizioni, la mente è il soggetto invisibile che li vede e giudica. Tanto è potente e allo stesso tempo misteriosa la caratteristica dell’uomo da far dire ad Euripide“La mente in ciascuno di noi è un dio”.


La coscienza pure non è un fenomeno, ma consiste nel flusso degli stati vissuti da un Io. Neanche nell’intimità dell’amore appare all’amante la coscienza dell’amata– che cosa le frulli per la testa, le passi nel cuore o ella provi nei sensi –, e l’uno si deve accontentare (dei fenomeni esteriori) delle parole e dei gesti dell’altro. Nello stato detto “autocoscienza” la coscienza appare a sé, non come oggetto esterno, ma ancora come un particolare stato vissuto dall’Io. C’è dell’altro che questi super-semplificatori mostrano d’ignorare. Per loro, le neuroscienze spiegano la mente come un fenomeno della struttura biologica e dell’organizzazione fisiologica del sistema nervoso centrale; i livelli biologici e fisiologici si spiegheranno, “molto presto” annunciano da cent’anni, con reazioni chimiche; e queste, si sa, si spiegano già in fisica con le interazioni delle cortecce elettroniche degli atomi.


La fisica però non si ferma agli atomi e ai quark, ma tira in ballo anche i campi quantistici e l’osservatore. Ogni sistema atomico, infatti, vi è descritto con una distribuzione (questo è un campo) di tutti i valori delle grandezze fisiche e solo l’esecuzione di una prova ne determina i valori attuali – l’autostato, che è relato alla coscienza (collettivamente elaborata) del team controllante l’apparato sperimentale –. Un evento fisico è inseparabile dal campo quantistico in cui è immerso e dall’interferenza dell’osservatore intelligente che, approntandone la preparazione ed osservandone l’evoluzione, lo fa iniziare in un autostato e precipitare infine in un altro. “Non è possibile una formulazione coerente della meccanica quantistica che non faccia riferimento alla coscienza” (E. Wigner, Nobel 1963 per la fisica). Così la mente, declassata dal semplicismo riduzionista a fenomeno secondario delle attività cerebrali, è promossa dalla scienza fondamentale a statuto primario di tutti i fenomeni. Il loro tribunale, appunto. Come avanziamo, allora, nello studio della mente se non con un’introspezione di come l’Io di ognuno appare a Sé?


Che cos’è il mio Io? Qual è il mio nocciolo duro, se c’è, al netto del mio corpo? Sfoglio un album di vecchie foto in bianco e nero e mi vedo a 6 anni nella bottega di papà, che ora non c’è più, in uno scatto fatto da Callisto, il postino di paese; a 7 anni, con la mia bellissima mamma, sul cui viso oggi è scolpito il disincanto: posiamo sorridenti lungo un viale alberato per la gioia di Fai, un eccentrico personaggio locale; ecc., ecc. Non conosco parole per descrivere il flusso nostalgico di tenerissimi ricordi che mi avvolge, stringendomi il cuore, arrossandomi il viso ed inumidendomi gli occhi. Riconosco a fatica vaghi lineamenti di me in quelle foto ingiallite e mi chiedo ancora: in che cosa consiste la sostanza dell’Io, che permea ogni fibra del mio corpo? Essa certo non coincide con i 10^27 atomi di turno che lo compongono: al mio corpo sono affezionato anche nei difetti perché è comunque parte di me, ma non posso identificare una parte di me col mio Io intero. So bene che l’Io dipende in tutto dal corpo, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Però, se un organo non vitale mi venisse a mancare, o uno vitale diverso dal cervello mi fosse trapiantato da un donatore, non per ciò ammetterei che non sono più io, anche se non mi riconoscerei identico a prima.


E il cervello? in che rapporto sta con l’Io? Il confronto tra un uomo ed un computer forse mi aiuterà a procedere. Tutto il mio corpo è hardware, compreso il cervello che svolge i due ruoli che nel calcolatore hanno il disco per la conservazione dei dati ed il processore per la loro elaborazione. E cosa corrisponde in me al software, senza cui un computer è più inutile di un ferro vecchio? Il software è una sequenza di operazioni matematiche (infine, un numero), che indica al processore come elaborare i dati salvati nel disco o inseriti dall’esterno. Esso è memorizzato nel disco, o nel cloud che è comunque un server da qualche parte. D’acchito mi verrebbe d’identificare la componente volitiva dell’Io con un software, perché è l’Io che ordina al cervello come elaborare le informazioni conservate nella memoria o che gli stanno provenendo dai sensi. Proseguendo nell’analogia dovrei riconoscere che, come il software d’un pc sta in un disco, così la mia Volontà è basata nell’encefalo. Ma il paragone è miserrimo, perché ogni software è un puro numero: non vive, né sa di essere; non pensa; è stato scritto dall’Io d’un programmatore umano e nelle stesse circostanze ripete le operazioni che gli sono inscritte. Il mio Io, invece, respira la vita; pensa; pensa di pensare; non è stato programmato (da alcun super-Io) e sa di godere di arbitrio libero, pur se condizionato dal corpo e dall’ambiente. L’Io è vivente, cogitante, autocosciente e dotato di una volontà che avverte l’imperativo morale altro da Sé, mentre nessun software è l’ombra di ciò! La parola che si usa da sempre per denotare l’insieme di quelle facoltà è: anima (dal sanscrito “atman” = soffio vitale). Ecco il nucleo del mio Io dal concepimento: è l’unità indissolubile di un corpo e di un’anima.


Nei primi anni di vita la Volontà della mia anima era scandita esclusivamente dall’istinto alla soddisfazione dei bisogni del corpo, ma col tempo l’interscambio tra il suo mondo interno ed il mondo esterno (il latte materno, l’educazione familiare, il contesto sociale, ecc.) l’ha forgiata in scelte, fatte inizialmente su valori e sensi parziali, che con gli anni sono cresciuti ad una matura, integrale Weltanschauung. Il mio Io è cresciuto sulla spinta di questa Volontà ed oggi gli appartengono la memoria delle cose apprese e delle esperienze fatte ed il bene e il male derivati anche per mia responsabilità alle persone che ho influenzato. Le mie decisioni hanno concorso a costruire l’Universo attuale al posto d’infiniti altri universi potenziali: chi può sapere che cosa di buono il mondo ha perso per i miei errori ed omissioni, e perdonarmi per essi? Ora, durante questa mia auto-analisi, pensiamo che un neuroscienziato abbia osservato con un sistema di sonde tutti i campi e le reazioni chimico-fisiche del mio corpo e dalle loro misure abbia calcolato con un modello matematico i pensieri della mia anima. Ammessa l’omologia della teoria impiegata – ma se ogni traduzione da una lingua all’altra è infedele in significato e stilemi; se la descrizione data dal mio stesso racconto è stata carente, può un numero, qual è la risposta d’un apparato osservativo, rappresentare isomorficamente una catena di pensieri ed emozioni? –, in ogni caso la fisica misurata sul mio corpo non è la stessa cosa dei pensieri vissuti dalla mia anima: ciò che ho vissuto pensando quei pensieri appartiene al mio Io interno ed è altro ontologicamente dalle grandezze fisiche osservate dall’Io (a me esterno) del neurologo.


L’alterità tra stati psichici e grandezze fisiche vale nei due versi e, come vieta il cortocircuito del riduzionismo materialistico, così nega quello inverso del riduzionismo idealistico contemporaneo – della filosofia analitica e del neopositivismo, per intenderci – secondo cui gli oggetti fisici “hanno lo stesso fondamento degli dèi di Omero” (W.V. Quine, filosofo ad Harvard), essendo solo i costrutti mentali delle percezioni dimostratisi più utili in ogni epoca, al punto che “noi sappiamo, per dimostrazione, che la Luna non è più là quando non la osserviamo” (N.D. Mermin, fisico alla Cornell). Resta la terza via del buon senso, un realismo che prende atto dell’esistenza sia di oggetti fisici che di stati dell’anima, e della loro alterità irriducibile fatta salva la loro coesistenza nell’essere umano. Io so anche che il mio Soggetto interno è intravisto come oggetto esterno dagli altri Io (quelli delle persone con cui entro in relazione), e viceversa: la coesistenza e l’ambiguità ontologica falsificano il dualismo cartesiano, secondo cui l’alterità implica una radicale separazione (che infine, per il ruolo guida assegnato alla “res cogitans” sulla “res extensa”, si traduce in monismo spiritualistico). Come potrebbe la mia Volontà ordinare al deltoide di sollevare il braccio, se l’anima ed il muscolo appartenessero a mondi disgiunti? Forse inserendo un ponte tra i due, cioè con un terzo mondo, e così via all’infinito?! “Il corpo non è unito in modo accidentale all’anima, perché il più profondo essere dell’anima è lo stesso essere del corpo, e dunque un essere comune ad entrambi” (Tommaso d’Aquino, “Quaestio disputata de anima”). Insomma la realtà di questo mondo è una, una sola, ma è molto diversa da come ce la raccontano i riduzionisti delle due scuole; e la sua trama è molto, molto più complessa di quanto speculino oggi anche i fisici più creativi.


Chi prima delle equazioni di Maxwell (1861) e degli esperimenti di Hertz (1886) avrebbe immaginato la realtà dei campi, quando per i materialisti di allora tutto era solo atomi e moto? Chi prima della sintesi di Einstein (1915), quando spazio e tempo erano universalmente considerati contenitori inerti dei fenomeni (due “forme a priori” della mente, per gli idealisti di allora), avrebbe pensato lo spazio-tempo come una struttura dinamica reale, che ordina alla materia come muoversi ed è da essa ordinata come incurvarsi? Quando ho scritto che l’auto-interazione del campo di Higgs crea il bosone omonimo, un lettore mi ha obiettato: “Ma di che è fatto il campo, se non delle medesime particelle? […] è come se Lei ci dicesse che un oceano interagendo con se stesso determina le molecole di cui è costituito”, testimoniando la persistenza anche in ambienti colti (e religiosi) di un pregiudizio materialistico e meccanicistico, di cui la fisica s’è liberata 150 anni fa. Quando si prenderà atto che l’evidenza dell’esistenza di un oggetto non è data in fisica dalla sua osservabilità (qualcuno ha mai “visto” un quark top?), ma coincide con l’efficacia delle sue proprietà matematiche a predire regolarità di Natura altrimenti giudicate accidentali?


A sciogliere il problema del sinolo dell’Io, di questa unità tanto oggettivamente materiale se vista da fuori quanto soggettivamente mentale se vissuta da dentro, non saranno né la biologia molecolarené le neuroscienzee neanche la fisica ultima dell’altisonante “Teoria del Tutto”…, che poi è la geometria delle stringhe e del multiverso, ovvero una cinematica di cordicelle e tamburini vibranti in uno spazio (“bulk”) a 10-11 dimensioni: questo esercizio è condannato fin dall’inizio a fallire il bersaglio, perché carica la complessità dell’essere non sulla struttura matematica degli oggetti (ipoteticamente fondanti il “Tutto” comprensivo della mente), bensì sulla topologia super-dimensionale del bulk che ne ospita i giochi. No, per tentare la scalata alla montagna dell’Io – alla sua parete fenomenica, almeno – ci occorrerà una scoperta altrettanto eversiva di quelle del campo elettromagnetico e della relatività, e più probabilmente un cambio del paradigma epistemologico che superi la “vecchia”, a ciò visibilmente impotente, rivoluzione scientifica.



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23/05/2015 16:35
 
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Il mistero della coscienza:
non è nel cervello e non arriva dall’evoluzione

«La maggior parte degli atei sembrano essere certi che la coscienza dipende interamente (e sia riducibile al) dal funzionamento del cervello. Nell’ultimo capitolo del mio libro, sostengo brevemente che questa certezza è ingiustificata. La verità è che gli scienziati non sanno ancora quale sia il rapporto tra coscienza e materia» (The End of Faith, Norton & Company 2004)Questa frase appartiene sorprendentemente al filosofo Sam Harris, conosciuto per essere uno dei leader internazionali dell’ateismo scientifico (si, farà anche sorridere, ma c’è ancora gente che ci crede).

Curiosi personaggi che fino a ieri proclamavano l’infallibilità scientifica come dogma universale, mentre oggi -dopo due secoli di ubriacatura illuminista- reintroducono la parola “mistero” al culmine delle grandi questioni umane. Certo ancora ci sono in giro soggetti superstiziosi, devoti alla “dea scienza”, come Paolo Flores D’Arcais, come Danilo Mainardiche parla apertamente di «culto della ragione» alla stregua dei rivoluzionari francesi, come Piergiorgio Odifreddi che parla della scienza in chiave mistica (da “Il Vangelo secondo la Scienza”): «concentrazione, meditazione, illuminazione. Essa può adeguatamente fornire le basi per una religione completamente decostruita, punto di arrivo finale del percorso di dissoluzione del teismo nell’ateismo». Anche nel mondo anglosassone c’è ancora qualche esemplare di positivismo, la maggioranza di essi diligentemente al seguito del gran sacerdote Richard Dawkins. Ad esempio il chimico Peter Atkins, secondo cui «in futuro, la scienza sarà in grado di stabilire che cosa si intende per coscienza […] in altre parole tutto quel genere di cose che classifichiamo come ‘spiritualità umana’. Credo anche che la scienza, quasi inevitabilmente, riuscirà a costruire macchine in grado di simulare la coscienza in modo così completo da non consentirci di distinguere la loro coscienza dalla sua o dalla mia» (da “La scienza e i miracoli”, Tea 2006). Non è una citazione del 1800, ma di pochi anni fa.

Mettendo da parte questo genere di odifreddure, interessante andare a leggere la recente opinione, ad esempio, di Robert Lanza, responsabile scientifico presso l’Advanced Cell Technology e docente presso la Wake Forest University School of Medicine, il quale scrive: «nonostante i superconduttori che contengono una quantità sufficiente di filo di niobium-titanium per fare il giro della terra sedici volte, non abbiamo una maggiore comprensione del perché esistiamo rispetto ai primi pensatori della civiltà […] Quanto più scrutiamo lo spazio, tanto più ci rendiamo conto che il segreto della vita e dell’esistenza non può essere trovato controllando le galassie a spirale o visionando lontane supernovae . Si trova più in profondità. Si tratta di noi stessi […]. Siamo molto di più di quanto ci è stato insegnato nelle ore di  biologia a scuola. Non siamo solo una collezione di atomi […] c’è di più per noi che la somma delle nostre funzioni biochimiche. La scienza non è riuscita a riconoscere le proprietà della vita che lo rendono fondamentale per la nostra esistenza». Ed infine: «La risposta alla vita e all’universo non può essere trovata guardando attraverso un telescopio o esaminando i fringuelli delle Galapagos. Si trova molto più in profondità. E’ per questo che esiste la nostra coscienza».

La “coscienza” è il filo conduttore di questo articolo, partendo da Harris e passando per Atkins. Tre mesi fa anche il filosofo Colin McGinn, docente presso l’Università di Miami, ha affrontato la tematica«Più guardiamo il cervello, tanto meno sembra un dispositivo per la creazione della coscienza. Forse i filosofi non saranno mai in grado di risolvere il mistero». Ecco dunque, come si diceva, che la parola “mistero” torna a fare capolino. Parlando della filosofia della mente, ha delineato le 5 posizioni correnti sulla coscienza:  eliminativistacioè non esiste la coscienza, è solo una nostra illusione, essa si riduce solo a stati cerebrali, posizione sostenuta da Atkins (e da molti ateologi), come abbiamo visto, ma definita da McGinn «assurda, una forma di pazzia». C’è poi la concezione dualistala realtà si divide in due sfere giganti: il cervello fisico da un lato, e la mente cosciente dall’altro, ma risulta essere una posizione contraddittoria e inefficace a spiegare i molti dubbi che emergono. La posizione idealistaanch’essa assurda, afferma che non esiste nulla se non la mente,  la materia è pura illusione tutto è un’allucinazione del cervello. La concezione panpsichista tenta invece di risolvere il “mistero” della coscienza affermando che essa è diffusa in tutto il mondo pre-materiale, era già presente nel Big Bang ma -spiega il filosofo- non offre alcuna prova a suo sostegno. Infine, rimane la posizione detta “mysterian”, a cui McGinn appartiene, ovvero la concezione per cui la risposta è al di là dell’apparato concettuale delle risorse umane. Più le neuroscienze studiano il cervello, afferma, e più si capisce che esso non può aver prodotto la coscienza.  «Ultimamente», conclude, «mi sono accorto che il mistero è abbastanza diffuso, anche nella più difficile delle scienze».

Concludendo, se -come afferma il dott. Lanza-, la coscienza non è un prodotto dell’evoluzione, se -come afferma il filosofo McGinn- la coscienza non è un prodotto del cervello e non è un’illusione, allora da dove essa arriva? Se non si vuole entrare in campo teologico, l’unica risposta valida è introdurre la parola “mistero”. Lo ha spiegato in modo poetico il premio Nobel per la fisica, Richard Feynman«La stessa emozione, la stessa meraviglia e lo stesso mistero, nascono continuamente ogni volta che guardiamo a un problema in modo sufficientemente profondo. A una maggiore conoscenza si accompagna un più insondabile e meraviglioso mistero, che spinge a penetrare ancora di più in profondità» (“The Value of Science”, Basic Book 1958)


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10/12/2015 15:27
 
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Premessa 1: L’ateismo ha come unica diretta conseguenza il materialismo (naturalismo), o meglio, cause materialistiche, quindi non personali


Premessa 2: Il materialismo porta inevitabilmente al determinismo/indeterminismo


Premessa 3: Il determinismo/indeterminismo è contraddittorio 


Conclusione: L’ateismo è contraddittorio


 


 Cos’è il determinismo


Secondo la visione materialistica, ogni fatto o evento può solamente avere una natura fisica e governata da leggi naturali, e ogni evento è la conseguenza di cause fisiche precedenti, le quali lo hanno reso inevitabile. In un universo puramente materiale, infatti, non esistono elementi immateriali, e tutto, compresa la mente umana, agisce secondo meccanismi fisici.


La stretta relazione tra causa e effetto del mondo fisico deve essere necessariamente applicata al nostro cervello, in quanto anche esso appartiene al mondo materiale: infatti, secondo la visione deterministica, ogni nostra “apparente” libera decisione non sarebbe nient’altro che la conseguenza di un’attività cerebrale causata da impulsi elettrici tra le sinapsi, causati a loro volta da precedenti eventi fisici, come tessere di un domino che, cadendo, fanno cadere anche le altre.


I deterministi devono credere che il libero arbitrio sia un’illusione: il libero arbitrio, infatti, porta per definizione un soggetto a poter scegliere tra due o più opzioni, liberamente e non in base a meccanismi predeterminati. Possiamo quindi dire che il determinismo e il libero arbitrio siano concetti opposti.


Deterministi come Daniel Wegner e Sam Harris, sono convinti che la loro teoria sia supportata scientificamente dal fatto che ci sia una netta correlazione tra l’attivazione di una certa area cerebrale e una decisione successiva, ragion per cui gli eventi cerebrali anticiperebbero sempre la decisione del paziente testato. In tal modo, credono di poter provare l’inesistenza del libero arbitrio. Peraltro, se tale teoria si dimostrasse vera, non ci sarebbe più la possibilità di punire il responsabile di un reato, quale omicidio, furto o stupro. Le azioni criminali, infatti, non sarebbero altro che la conseguenza di una serie lunghissima di cause e conseguenze governate da leggi della fisica. Una volta accettato ciò, non potremmo più considerare un’azione umana come giusta o sbagliata, né più né meno che qualsiasi altro evento non-intenzionale o non-personale del mondo fisico.


Risulta allora evidente che, per la teoria deterministica, anche le nostre azioni future sono predeterminate: infatti per i deterministi gli essere umani non sono altro che entità puramente fisiche soggette alle leggi che governano in modo inderogabile ogni realtà fisica, creando una inflessibile sequenza. Il determinista crede che noi, come il movimento di un ramo spinto dalla corrente, agiamo soltanto per cause esterne non guidate da nessuna intenzionalità.


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10/12/2015 15:32
 
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Le conseguenze del determinismo

Come spiegheremo più avanti, l’ateismo si associa necessariamente al naturalismo, ovvero alla credenza che esista solamente il mondo materiale e che nulla vada oltre la materia. Il naturalismo porta ad accettare per forza il determinismo, poiché in un mondo fatto soltanto di materia non può esistere il libero arbitrio. Colui invece che accetta l’esistenza nell’uomo di una componente immateriale, come il teista, non ha alcun problema a spiegare l’esistenza del libero arbitrio.



Le principali conseguenze del determinismo sono le seguenti:

1) Viene negata ogni forma di intelligenza umana ed in generale animale, perché processi involontari chimici governati dalle leggi della natura non sono in grado di spiegare l’esistenza, tra l’altro, dell’intelligenza e del ragionamento. Infatti l’intelligenza, il ragionamento, la comprensione, l’analisi, l’intenzionalità e la capacità decisionale si basano sul libero arbitrio. Per rendere l’idea, secondo questo approccio, però, non si spiegherebbe perché una persona avrebbe più capacità intellettive di un sasso: entrambi infatti subiscono passivamente le leggi della fisica senza alcuna forma di intenzionalità.

L’ateo quindi, per essere coerente con il suo naturalismo, non può che credere di non essere in grado di ragionare, anche se la credenza stessa di non poter ragionare è frutto di un ragionamento. Ciò a cui porta l’ateismo è l’impossibilità di raggiungere la verità con il ragionamento, poiché per l’ateo esso semplicemente non esiste.

Tale corrente di pensiero, che sostiene le proprie ragioni dicendo al contempo che ragionare è impossibile, è intrinsecamente contraddittoria, quindi sbagliata, quindi da rigettare.



2) Viene annullata ogni forma di finalità in ogni azione umana. Infatti i processi deterministici, che siano ripetitivi o casuali, non sono in grado di raggiungere un fine, come per esempio rispondere logicamente ad uno stimolo subito. In altre parole, intavolare un discorso tra due persone, in cui entrambi i soggetti rispondono a ciò che si dicono vicendevolmente, è illogico in un mondo in cui le azioni umane sono determinate, quindi necessarie e predeterminate (o, come vedremo nella risposta successivamente, indeterminate e totalmente casuali).

Un’azione determinata dai contatti elettrici cerebrali, che agiscono secondo leggi fisiche e chimiche ineludibili, non può corrispondere a criteri di finalità, a meno che tali leggi non siano progettate per raggiungere uno specifico fine, come ad esempio quello di creare un’opera d’arte o di costruire una macchina. Ma se questo fosse il caso, l’intervento di una volontà superiore ordinatrice sarebbe ancora più plateale!

Le conseguenze del determinismo, rigorosamente applicate, ci danno da sole la dimostrazione che il determinismo è falso. Una teoria che elimina a priori intelligenza e finalità, dal momento che realmente esistono non può che essere falsa. Sostenere l’opposto (che appunto sia vera) porta a dover credere che non esistano né intelligenza né finalità e pertanto porta ad un risultato contraddittorio, in quanto chiunque usi questo argomento viene ad utilizzare intelligenza e finalità al fine di confutare quest’ultime!

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10/12/2015 15:33
 
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Alcune obiezioni

Può il naturalismo (ateismo) spiegare la nostra esperienza di libero arbitrio e la nostra innata inclinazione a colpevolizzare o premiare persone e comportamenti?



La nostra definizione di libero arbitrio è sbagliata?

Alcuni atei, come ad esempio Harry Frankfurt, provano a spiegare senza Dio il libero arbitrio ridefinendo quest’ultimo.

Frankfurt, ad esempio, sostiene l‘esistenza di una gerarchia delle decisioni e dei desideri. Egli suddivide i desideri in primari e secondari. I desideri primari sono quelli che lui chiama basici, e sono assolutamente determinati dai processi celebrali, ovvero i processi che spingono a mangiare, leggere, parlare, correre ecc. I desideri secondari invece consistono nell’approvazione o nella soppressione volontaria del desiderio basico. Inevitabilmente però Frankfurt ammette che il desiderio secondario utilizza il libero arbitrio, sposta il problema al livello superiore, ma senza risolverlo.



Il libero arbitrio è semplicemente “comparso” nella nostra realtà?

Quando una caratteristica nuova appare spontaneamente e inaspettatamente in un sistema, in modo non prevedibile dalle leggi che governano le parti individuali di quel sistema, si dice che è semplicemente “comparsa”. Alcuni filosofi e scienziati credono che il libero arbitrio sia semplicemente “emerso” dall’universo deterministico in cui viviamo. Il problema ovviamente sta nel capire come ciò possa avvenire; dal momento che non c’è alcuna evidenza che supporti questa misteriosa teoria, i neuro-scienziati l’hanno rifiutata. La teoria che sostiene la “comparsa” del libero arbitrio ammette la natura dualistica di cervello e mente (che altri chiamano anima), però cerca di spiegarla come una conseguenza delle leggi della fisica e della chimica del nostro universo materiale. Questo è logicamente impossibile poiché niente di immateriale può derivare dal materiale (per approfondimento: Werner Gitt “Without excuse”); e perché realtà immateriali non sono accettabili a meno che non si ammetta un universo che non sia materialistico (mentre secondo l’impostazione materialistica viene negata ogni forma di esistenza non materiale).



Possiamo attribuire il libero arbitrio alla fisica quantistica?

A livelli subatomici (livelli quantici) le particelle non agiscono in modo prevedibile. In qualche senso le particelle quantiche appaiono essere “indeterminate”. Se queste particelle sono i più piccoli e basici mattoncini dell’universo, è possibile che la loro natura indeterminata possa spiegare come mai sperimentiamo personalmente il libero arbitrio? No. Le teorie quantistiche sono varie e numerose, e data l’evidenza che abbiamo ora, gli scienziati non sono ancora sicuri che non ci sia uno strato di determinismo che sottostà alla meccanica quantistica. Ma anche ammettendo che la fisica al livello quantistico sia totalmente indeterminata questo comunque non spiegherebbe come noi sperimentiamo personalmente la nostra libertà. Se gli eventi nel nostro cervello sono indeterminati e casuali al loro livello più basilare e profondo, come potremmo mai fidarci dei nostri pensieri? Come potremmo sapere se la fonte dei nostri pensieri siamo noi o se semplicemente sono spuntati nei nostri cervelli come eventi quantistici indeterminati?

Anche in questo caso, i due motivi sopracitati per il quale il determinismo è falso, ovvero le due conseguenze incongruenti che il determinismo comporta, valgono anche per l’indeterminismo: l’incapacità di intendere e la mancanza di finalità.

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10/12/2015 15:34
 
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Dovremmo rigettare l’esistenza, la necessità, e l’importanza del libero arbitrio?

Alcuni deterministi come Sam Harris rifiutano completamente il libero arbitrio e lo descrivono come un’illusione. Questa logica è totalmente coerente con la visione deterministica del mondo, ma è in totale contraddizione con l’evidenzia della nostra esperienza personale. Se deterministi come Sam Harris vogliono convincerci che il libero arbitrio sia solo un’illusione, hanno bisogno di un minimo di evidenza e non possono basarsi solo sulle loro presupposizioni (tratteremo nella prossima sezione la loro “evidenza neuro-scientifica”). Questi sforzi di spiegare il libero arbitrio in un mondo naturalistico (ridefinendo il concetto di libero arbitrio, considerandolo come semplicemente “emerso”, attribuendolo alla fisica quantica o semplicemente dicendo che non esiste) falliscono nel spiegare la libertà che noi sperimentiamo ogni giorno come umani consapevoli e pensanti. Se non vi sono spiegazioni puramente naturalistiche per il libero arbitrio forse sarebbe l’ora di considerare spiegazioni che vanno oltre la materia.



Perché la causa del libero arbitrio non potrebbe essere un qualcosa che va oltre alla materia (determinata o indeterminata che sia)?

La credenza che rigide leggi della fisica creino predeterminate azioni è falsa, la soluzione deve quindi essere cercata in una risposta fuori dalla concezione naturalistica. La soluzione di tutti i filosofi che accettano il dualismo consiste nel accettare la realtà del principio di rigida causalità nel mondo fisico (determinismo e/o il supposto indeterminismo) integrandola con l’autodeterminismo.

L’autodetermismo permette che le persone siano agenti e capaci di agire come cause prime senza essere vincolate da un processo vincolante di causa-effetto. Secondo questo principio, quando pensiamo e vogliamo noi non siamo quindi soggetti alla causalità delle leggi della fisica, e men che meno alle forze casuali indeterminate. Ognuno dunque è la propria causa prima di tutte le sue azioni.

Ci sono molti motivi per accettare questa interpretazione dei fatti: il primo motivo è che la nostra esperienza personale ci dice che effettivamente siamo liberi e abbiamo la possibilità di decidere, ognuno di noi si rende conto e percepisce ciò che succede intorno a lui: se non avesse il libero arbitrio (e fosse come un robot o un sasso) non avrebbe la consapevolezza di tali cose. Inoltre la nostra abilità di prendere una decisione prendendo in considerazione diverse opzioni implica la nostra possibilità di decidere. Se un lettore sta leggendo volontariamente questo articolo non fa altro che rafforzare la propria visione auto-evidente del libero arbitrio. Per concludere siamo anche inclinati a premiare o punire e colpevolizzare le persone per le proprie azioni.

Questa nostra innata inclinazione si basa sul fatto che ognuno di noi può prendere decisioni senza vincoli della fisica cerebrale. Per questo motivo l’esistenza del libero arbitrio spiega il nostro desiderio di assegnare responsabilità personali.

Ma gli esperimenti neurologici usati da Wegner e Sam Harris confutano il libero arbitrio? No. Questi esperimenti portano diverse conclusioni in base alla propria interpretazione. Infatti il fatto che l’attivazione neurologica in un’area del cervello preceda l’azione della persona non implica che fosse stata l’attivazione stessa la causa dell’agire. Infatti potrebbe benissimo essere che con il libero arbitrio un’azione venga mediata da un’attivazione cerebrale. Un’altra possibile interpretazione di questi esperimenti (di Haynes e Libet) è che queste attivazioni neuronali stiano semplicemente registrando il processo di pianificazione del processo di pensiero, ovvero ciò che avviene prima di prendere una decisione; l’attivazione neuronale quindi non è essa stessa la decisione, questo infatti spiegherebbe come mai negli esperimenti di John-Dylan Haynes e Libet passano dai circa 7-10 secondi dall’attivazione neuronale alla decisione stessa.

Una bilanciata visione del libero arbitrio è quella adottata da qualsiasi corte penale odierna, la quale considera ognuno moralmente responsabile per le sue azioni. Il fatto che i tribunali possano giudicare persone con lesioni cerebrali come incapaci di intendere e volere non fa altro che confermare che la nostra parte immateriale (l’unica) in grado di spiegare il nostro libero arbitrio, utilizza il cervello come mezzo per esprimere una decisione e non dipende dalla causalità del mondo fisico; un paragone può essere quello del muratore (che rappresenta la mente) che utilizza il suo martello (il cervello) per lavorare: se il martello è danneggiato, il lavoro (la decisione) risulterà alterato.
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10/12/2015 15:36
 
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Perché un ateo se coerente deve essere naturalista? Perché un naturalista deve essere determinista (e/o indeterminista)? E perché il libero arbitrio, può essere accettato solo da colui che ammette un essere superiore?

Adesso che sappiamo che il libero arbitrio non è frutto della materia ci chiediamo perché questo confuti l’ateismo.

Un ateo deve essere materialista in quanto se ammettesse l’esistenza di un mondo immateriale non sarebbe in grado di spiegarlo. E’ uno dei principi filosofici più solidi che ogni cosa debba avere una spiegazione per la sua esistenza o in se stessa o in qualcos’altro (Principle of sufficient reason. Per una approfondita difesa del P.S.R. leggere “The Blackwell Companion to Natural Theology” di Craig e Moreland). Dato che l’anima e il libero arbitrio sono contingenti (una cosa è contingente dal momento che potrebbe non esistere), queste due entità devono avere una spiegazione esterna alla loro stessa natura per esistere. L’unica spiegazione razionale per l’esistenza del libero arbitrio è che il libero arbitrio sia un prodotto di un Agente dotato di libero arbitrio (quindi immateriale) che volontariamente (liberamente) infonde il libero arbitrio in ognuno di noi, che trascende l’uomo (condizione necessaria per infondere il libero arbitrio su tutti); questo agente per fare tutto ciò deve anche essere intelligente.

Quindi se un ateo accettasse il libero arbitrio dovrebbe necessariamente accettare la causa di esso (come detto prima, una causa immateriale intelligente che noi chiamiamo Dio): per non cadere in aperta contraddizione deve quindi cercare per forza di negare l’esistenza del libero arbitrio che trascende la materia. Diventando materialista non può che essere determinista o indeterminista.

Un’altra motivo per credere che il libero arbitrio necessiti di Dio è quello che elabora il filosofo e apologeta J.P. Moreland. La sua argomentazione si può trovare nella forma deduttiva del suo “argument from counciousness”, infatti le sue premesse 5,6,7, 8 e conclusione sono valide anche per questa prova. Ecco le premesse da noi riadattate per questa prova:

La spiegazione del libero arbitrio è o personale o naturale/scientifica
La spiegazione non è naturale/scientifica
Quindi la spiegazione è personale
Se la spiegazione è personale allora è teistica
Conclusione: Quindi la spiegazione è teistica

Detto questo, abbiamo visto che cause irrazionali non creano razionalità (libertà) e ne deriva quindi che l’ateismo è irrazionale e contraddittorio, in quanto anche solo per provare a negare il libero arbitrio deve dare per presupposto che un soggetto sia libero di negarlo.



Conclusione

Una visione del mondo che utilizza intelligenza e finalità per giungere a sostenere che le stesse non esistano, è un’ideologia ridicola prima ancora che contraddittoria.

Ripresentiamo lo schema per riepilogare il tutto:

Premessa 1: L’ateismo ha come unica diretta conseguenza il materialismo (naturalismo), o meglio, cause materialistiche, quindi non personali.

Premessa 2: Il materialismo porta inevitabilmente al determinismo/indeterminismo.

Premessa 3: Il determinismo/indeterminismo è contraddittorio quindi falso.

Conclusione: L’ateismo è contraddittorio quindi falso



Amedeo Da Pra ed Edoardo Da Pra
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21/03/2017 21:12
 
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Libero arbitrio, se le neuroscienze tornano a sostenerlo



Facendo leva sugli esperimenti pionieristici dello scienziato americano Benjamin Libet, già negli anni ’80, si è diffusa la convinzione che le neuroscienze avessero decretato l’illusione della consapevolezza umana, della volontà cosciente e del libero arbitrio.


Infatti, dopo aver chiesto a soggetti normali di eseguire semplici movimenti con un dito e di giudicare retrospettivamente il momento esatto in cui ne diventavano consapevoli, si scoprì sorprendentemente che il momento della consapevolezza precedeva l’inizio effettivo del movimento di 50-80 millisecondi. Ovvero, il nostro cervello prenderebbe decisioni prima che noi diventiamo consapevoli di volerle coscientemente fare, ricostruendo post hoc la decisione consapevole. Conferme arrivarono da Haggard e Eimer (1999) e da John-Dylan Haynes del Max Planck Institute di Berlino.


I neo-positivisti hanno presto esultato scrivendo articoli e libri sulla morte della libertà dell’uomo -quindi di Dio-, mossi da spinte teologiche (o, meglio, a-teologiche). Il filosofo neo-ateo Daniel Dennett è il più noto di questi esponenti, seguito dallo psicologo americano Daniel Wegner che ha scritto: «Ciascuno di noi sembra possedere la volontà cosciente, di avere dei sé. Di avere menti. Di essere agenti. Di causare ciò che facciamo. Ma è in definitiva corretto chiamare tutto ciò un’illusione. La nostra sensazione di essere un agente cosciente, che fa cose, sorge al costo di essere sempre tecnicamente in errore. La sensazione di fare è qualcosa che sembra e non qualcosa che è» (D. Wegner, in Siamo davvero liberi?, Codice edizioni 2010, p. 49).


Ovviamente altrettanti ricercatori e studiosi si sono opposti a questa interpretazione fin troppo ingenua, chi negando che le neuroscienze possano e potranno mai esprimersi su questo (De Caro, Rigoni e Brass), chi facendo notare che gli esperimenti non sono indicativi poiché le azioni umane risultano molto più complesse e stratificate di quelle che si possono studiare in laboratorio: programmare un viaggio è ben diverso dal decidere di muovere un dito e le scelte morali non sono istintive (si veda A.L. Roskies). C’è chi ha messo in dubbio direttamente la validità degli esperimenti (Tempia), chi ha fatto nuove scoperte modificando l’interpretazione classica degli esperimenti di Libet e chi, come la filosofa Roberta De Monticelli, ha fatto notare che tutto questo non dice nulla del nostro volere ma solo dei suoi presupposti.


Inoltre, molti hanno argomentato a favore della possibilità della coscienza di porre un “veto” all’azione: ad esempio, Anna Maria Berti, ordinario di Psicologia presso l’Università di Padova, dopo aver fatto notare che «l’aspetto non consapevole che caratterizzerebbe l’inizio dell’azione si riferisce alla produzione di un semplice movimento della mano, ultimo atto di un contesto decisionale più complesso, insito nel setting sperimentale, rispetto al quale il soggetto ha concordato di aderire a priori», ha ricordato che lo stesso Libet (che rimase sempre favorevole al libero arbitrio), «aveva condotto degli esperimenti sul cosiddetto “veto cosciente”, scoprendo che, anche se la coscienza intenzionale seguiva, anziché precedere, l’attività dei potenziali di preparazione, il soggetto era però in grado, all’interno di una breve finestra temporale, di porre il veto a che l’azione si compisse e l’attività di veto interveniva sul potenziale di preparazione appiattendolo. Libet concludeva che, anche se il libero arbitrio non dà inizio alle nostre azioni volontarie, può però controllarne l’esecuzione e il compimento» (A.E. Berti, Neuropsicologia della coscienza, Bollati Boringhieri 2010, p. 148).


Recentemente, e questa è la notizia, le cose si sono ancora modificate. Uno studio tedesco pubblicato l’anno scorso sugli Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti d’America ha infatti suggerito che esistono prove che vanno nella direzione opposta a quella degli esperimenti di Libet. Adottando un approccio diverso dal passato, i neuroscienziati tedeschi, guidati dallo stesso John-Dylan Haynes, hanno ampliato ancora di più poteri del “veto cosciente”: «Le decisioni di una persona non sono in balia dell’inconscio e delle onde cerebrali»ha dichiarato il noto scienziato. «Siamo in grado di intervenire attivamente nel processo decisionale e interrompere un movimento. In precedenza sono stati utilizzati i segnali preparatori del cervello per argomentare contro il libero arbitrio, ma il nostro studio dimostra che la libertà è molto meno limitata di quanto si pensasse».


D’altra parte, che tutto sarebbe stato rimesso in discussione lo disse nel 2014 il neuroscienziato di Princeton, Aaron Schurger, secondo il quale i moderni studi neuroscientifici offrono un quadro molto più in sintonia con il senso intuitivo del nostro libero arbitrio (ma questo lo ricordava lo stesso Libet: «Sembra che ci siano più difficoltà con l’opzione deterministica che con quella non deterministica»). La decisione specifica di agire, spiegano oggi i neuroscienziati tedeschi, alimenta certamente un flusso dell’attività neurale ma si verifica soltanto quando essa supera una soglia chiave, ovvero quando diventiamo soggettivamente coscienti e abbiamo la sensazione di poter decidere: «Tutto questo lascia la nostra immagine tradizionale del libero arbitrio in gran parte intatta».


Una piccola rivincita sulle pretese della tecnoscienza, che avrebbe fatto sicuramente piacere al compianto matematico de La Sapienza di Roma, Giorgio Israel, morto poco più di un anno fa. Non accettò mai, infatti, i tentativi di «dissolvere la questione antropologica naturalizzando la sfera umana, riducendo l’uomo a un complesso biofisico contingente e modificabile nel genoma e nel cervello, a processi materiali, dove la mente è cervello e null’altro; l’essere è genoma e null’altro; la vita e la morte sono l’accensione e lo spegnimento di una macchina; la questione morale una questione di conformazioni neuronali e la religione viene dissolta nella neuroteologia. Penso che il libero arbitrio sia ciò che rappresenta il fattore distintivo (e nobile) dell’uomo, ma la pressione del riduzionismo scientista è tale che termini come “libertà”, “persona” e “dignità della persona” sono visti come relitti di un passato oscurantista. Eppure la fragilità di queste costruzioni pseudoscientifiche non giustifica alcuna soggezione nei loro confronti e tanto meno l’accettare che tutta la conoscenza venga assoggettata al prefisso “neuro-”». Sopratutto oggi, aggiungiamo, che i dati sembrano suggerire esattamente l’opposto.



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19/03/2019 20:43
 
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Illusione di essere liberi?
Le neuroscienze dicono il contrario

neurocienze libero arbitrioNeuroscienze e libertà. Esce il libro del chimico spagnolo Javier Pérez Castells, intitolato “Neuroni e libero arbitrio”. Una descrizione dell’attuale panorama scientifico sul tema del libero arbitrio e una conclusione: “Nessun esperimento ha mai fatto sparire la volontà e la paternità cosciente delle nostre decisioni”.

 

Insegna Chimica organica all’Università San Pablo di Madrid e il suo ultimo libro si intitola Neuroni e libero arbitrio (Digital Reasons 2019). Si chiama Javier Pérez Castells e attraverso il suo lavoro ha voluto spiegare anche alle persone meno competenti perché è falso affermare che le neuroscienzestiano minacciando il concetto popolare di libertà.

 

Decisioni semplici ed il “veto cosciente”.

Nessun esperimento ha mai fatto sparire la volontà e la paternità cosciente delle nostre decisioni, soprattutto quelle più importanti ovvero quellecomplesse, prese in anticipo e strutturate all’interno di una programmazione. Anche gli esperimenti di cui si sente parlare spesso, che indaganodecisioni semplici ed istantanee (come quelli di Benjamin Libet), possono avere interpretazioni differenti da quelle abitualmente date, notoriamente limitanti all’esercizio del libero arbitrio.

Ad esempio uno studio pubblicato sugli Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti d’America ha ampliato ancora di più poteri del cosiddetto “veto cosciente”, ovvero la nostra capacità di intervenire sul potenziale di preparazione di un’azione. «Le decisioni di una persona non sono in balia dell’inconscio e delle onde cerebrali»si legge«Siamo in grado di intervenire attivamente nel processo decisionale ed interrompere un movimento. In precedenza sono stati utilizzati i segnali preparatori del cervello per argomentare contro il libero arbitrio, ma il nostro studio dimostra che la libertà è molto meno limitata di quanto si pensasse».

 

Il libero arbitrio è condizionato, ma impossibile che sia un’illusione.

Il grande errore, ha spiegato il chimico spagnolo, è partire dal fatto che «tutti i nostri processi mentali, i nostri sentimenti, i nostri ricordi e i nostri pensieri, hanno una base fisica, e una buona parte dell’attività cerebrale è inconscia» e, preso atto di questo, concludere che allora «non c’è nulla oltre la meccanica delle sinapsi e che ogni decisione è sempre un processo automatico, derivato da una serie di fattori condizionanti. Avremmo così solo un’illusione di libertà».

Questa affermazione è la vera illusione. Certamente le componenti bio-personali e bio-sociali influenzano il nostro comportamento, affermare il libero arbitrio non significa sostenere che non sia in qualche modo condizionato. Parlare di “libertà assoluta” è controverso, tutte le nostre decisioni sono condizionate dalla genetica, dall’ambiente, da chi ci circonda, dall’ambiente, dal nostro stato mentale, dalla nostra educazione. Ma condizionamento non significa non essere padroni delle nostre decisioni.

Infatti, ha proseguito il prof. Pérez Castells, «vi sono segni molto chiari che supportano l’esistenza di un forte libero arbitrio. Il semplice fatto che ci sia questa “presunta illusione” che tutti noi abbiamo è uno di loro. Perché dovremmo sviluppare un meccanismo, così costoso dal punto di vista evolutivo, che ci fa illudere che siamo liberi, se non fosse reale?». Quale scopo ha, evolutivamente parlando, un meccanismo che ci illude a tal punto da farci decidere, ad esempio, di non far proseguire la nostra specie oppure di toglierci l’esistenza. Sarebbe controproducente. La migliore spiegazione è che tale libertà sia autentica.

 

“Il nostro senso intuitivo sul libero arbitrio è in sintonia con le neuroscienze”.

Il divulgatore scientifico Christian Jarrett ha spiegato che sempre più specialisti, oggi, sostengono che ciò che il panorama scientifico che proviene dalle neuroscienze «è molto più in sintonia con il nostro senso intuitivo del libero arbitrio. Tutto ciò lascia la nostra immagine di libertà in gran parte intatta».

fonte UCCR


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17/10/2020 17:05
 
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Negare coscienza e libero arbitrio e accorgersi che è una tesi inaccettabile



Robot uomoLa filosofia materialista sta progressivamente abbandonando la strumentalizzazione dell’evoluzione biologica, preferendo concentrarsi sulle neuroscienze. Secondo gli esponenti del riduzionismo convincersi e convincere che gli esseri umani sono solamente delle macchine complesse, determinate unicamente da forze materiali, è una strada più efficace per ridurre l’eccezionalità dell’essere umano.


L’irriducibilità dell’uomo è infatti un fattore molto scomodo per chi vorrebbe negare il Creatore, per questo da decenni è in corso un tentativo di screditare la coscienza, l’anima e il libero arbitrio attraverso la strumentalizzazione delle scienze neurologiche. Senza coinvolgere la creazione da parte di un Essere personale è molto difficile parlare dell’uomo come agente morale capace di compiere scelte responsabili. Meglio teorizzare macchine prive di libertà, condizionate unicamente dagli antecedenti biologici. E’ evidente che l’anti-fattualità è uno degli ostacoli, certamente uno dei principali, a queste tesi: nessuno arriverà mai a concepirsi davvero così perché questa descrizione dell’essere umano è contraria all’esperienza che abbiamo di noi stessi e delle persone che ci stanno attorno.


Sopratutto, non regge alla prova dell’esperienza nemmeno nei loro sostenitori. Un esempio particolarmente chiaro è il filosofo Galen Strawson che ha affermato spavaldamente che «l’impossibilità della libera volontà e della responsabilità morale possono essere dimostrate con assoluta certezza». Salvo poi riconoscere che «ad essere onesti non posso davvero accettare me stesso in questo modo, e non perché sono un filosofo. Come filosofo affermo l’impossibilità del libero arbitrio ma non posso convivere con questo. Per quanto riguarda gli scienziati, essi possono affermare le stesse cose nei loro camici bianchi, ma sono sicuro che, proprio come il resto di noi, quando sono nel mondo, sono convinti della radicale realtà del libero arbitrio». La realtà corre da una parte mentre le teorie che vorrebbero spiegarla dicono tutt’altro. Ma quale affidabilità hanno queste spiegazioni? Non rivelano semplicemente l’ostinazione dei filosofi materialisti nel cercare di teorizzare una visione del mondo che non si adatta al mondo reale?


Un altro esempio è il prof. Edward Slingerland che nel libro What Science Offers the Humanities si è identificato come un imperturbabile materialista riduzionista, sostenendo che il materialismo darwiniano porta logicamente alla conclusione che gli esseri umani sono dei robot illusi di avere una volontà autonoma o coscienza. Tuttavia, anche lui ha ammesso che è impossibile credervi, «nessuno agirebbe più se ad un certo punto avesse la sensazione di non essere libero. Noi siamo costituzionalmente incapaci di sperimentare noi stessi e gli altri come dei robot». Saremmo dunque dei robot progettati, non si sa da chi, come o perché, «per non credere che siamo robot». La soluzione esposta da Slingerland è quella di continuare a mentire a noi stessi: «abbiamo bisogno del trucco del vivere con una coscienza duale, coltivando la possibilità di identificare gli esseri umani simultaneamente in due descrizioni: come sistemi fisici e come persone». La soluzione è vivere una dicotomia mentale. Slingerland parla della propria figlia, scrivendo: «In un importante e inestirpabile livello di me stesso, l’idea di mia figlia come una semplice e complessa robot che trasporta i miei geni alla generazione successiva è sia bizzarra che ripugnante» (p. 307). Una tale visione riduzionista «ispira in noi una sorta di resistenza emotiva e persino repulsione», tanto che quando ascoltiamo qualcuno che afferma queste cose lo «etichettiamo come “psicopatico” e giustamente cerchiamo di identificarlo e nasconderlo per proteggere il resto di noi».


Come è stato fatto notare, si tratta di ciò che George Orwell definì “bipensiero”: quando una visione del mondo non riesce a spiegare tutta la realtà, i teorici cosa fanno? Solitamente lo riconoscono e ritirano le loro convinzioni. Eppure ci sono persone che non si arrendono così facilmente e preferiscono sopprimere le cose che la loro visione del mondo non riesce a spiegare. O, per facilitare le cose, aderiscono al motto degli ideologi: “Se i fatti contraddicono le teorie, tanto peggio per i fatti. Cosa possiamo altrimenti dire quando qualcuno ci spinge ad adottare una visione che egli stesso ammette essere bizzarra e ripugnante?


Un altro esempio è il prof. Marvin Minsky del MIT, secondo cui il cervello umano “non è altro che” (parola chiave del materialismo scientista) «un computer di tre chili circondato da carne». Ovviamente, i computer non hanno il potere di scelta e dunque nemmeno gli esseri umani. Sorprendentemente, però, Minsky chiede: «Questo significa che dobbiamo abbracciare la moderna visione scientifica e mettere da parte l’antico mito della scelta volontaria? No. Non possiamo farlo. Non importa se il mondo fisico non fornisce spazio per la volontà libera, non possiamo rinunciarvi. Siamo praticamente costretti a mantenere questa convinzione, anche se sappiamo che è falsa». Falsa, ovviamente, secondo la visione materialista del mondo. Questo è un incredibile caso di bipensiero orwelliano: Minsky dice che le persone sarebbero “costrette a mantenere” la convinzione del libero arbitrio, anche quando la loro visione del mondo dice loro che “è falsa”. Ancora una volta: il filosofo riduzionista fa un’esperienza di se stesso che è oggettivamente contraria alla sua tesi precostituita, perciò sostiene di sapere che tale esperienza è falsa (vivremmo dunque una indignitosa vita basata sul costante autoinganno di noi stessi) ma è costretto da se stesso a reputarla veritiera (“tanto peggio per i fatti”, dicevamo).


Infine l’ultimo esempio è Rodney Brooks, anch’egli professore emerito al MIT. Un essere umano, ha scritto nel libro Roboticist (Pantheon Books 2002), non è altro che un «grande sacco di pelle pieno di biomolecole». E’ difficile considerare così le persone, eppure -ha scritto- «quando guardo i miei figli mi costringo a guardar loro come delle macchine». Anche se, ovviamente, «non li tratto in questo modo ma interagisco con loro ad un livello completamente diverso. Hanno il mio amore incondizionato, il più lontano possibile da ciò che si conclude da un’analisi razionale». Brooks considera dunque “razionale” una visione del mondo in cui gli esseri umani sono “sacchi di pelle piene di biomolecole” e considera “irrazionale” l’amore ai propri figli. Come è possibile conciliare una tale e straziante dissonanza cognitiva? «Io sostengo due insiemi di credenze incoerenti», ha concluso, rinunciando alla speranza di raggiungere un’unica e coerente visione de mondo pur di non abbandonare le sue tesi.


Tutto ciò che il paradigma riduzionista e materialista non riesce a spiegare viene gettato via, compresi gli ideali su cui è fondata la società umana: la libertà morale, la dignità umana, l’amore verso i figli. In realtà le loro tesi sono completamente reversibili: non siamo noi che facciamo un’esperienza falsa costretti a ritenerla vera, ma è il loro “io” più profondo che ha repulsione per queste teorie perché sa benissimo essere false. Ma è meglio convivere con questa incoerente dicotomia piuttosto che ammettere ciò che la realtà ci mostra: siamo esseri liberi e morali. Chi vuole studiare il mistero dell’uomo dev’essere coerente, altrimenti non potrà evitare queste contraddizioni.

fonte UCCR


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22/05/2022 12:05
 
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L’attacco fallace di Sam Harris al libero arbitrio



Il nuovo pamphlet di Sam Harris, il noto filosofo rappresentante dei New Atheists, porta un titolo semplice e diretto: “Free will”. Memori dell’ultimo episodio che aveva visto Harris protagonista – di cui abbiamo dato conto nel nostro sito, ci aspettavamo una disamina sufficientemente equilibrata sul tema del libero arbitrio. In questo senso, siamo rimasti un po’ delusi.


Il filosofo statunitense pare essere riapprodato alle posizioni più radicali della corrente ideologica cui professa appartenenza. Il ritorno all’ovile appare totale, tanto più che le pagine del blog in cui pareva avesse manifestato opinioni non del tutto allineate con quelle ufficiali sono state oscurate, e sostituite dalla pubblicità del suo ultimo libro (si tratta degli articoli intitolati “Morality without free will”, “Free will: why you still don’t have it” e “You do not choose what you choose”). Della diatriba interna al New Atheism non rimarrebbe alcuna traccia, se non fosse per qualche fuggevole cenno in un thread di discussione sfuggito alle forbici dell’ipotetico censore.


Sebbene non ci interessi giudicare la coerenza delle opinioni altrui, ci sembra tuttavia che questa “ritirata” sia indicativa di un fatto: il tema del libero arbitrio costituisce ancora e sempre un nervo scoperto di ogni sistema di credenze ateo. Detto in altri termini, così come per un credente è dogma di fede l’idea che ognuno sia responsabile delle proprie azioni – fintantoché esse si possano considerare liberamente scelte – allo stesso modo per un New Atheist deve essere dogmatico che nessuno possa essere ritenuto, in ultima analisi, responsabile delle proprie azioni. Lascerei da parte, per il momento, ogni (pur doveroso) distinguo di carattere giuridico ed etico: del resto, lo stesso Harris fa notare che una concezione “minimale” di libero arbitrio deve obbligatoriamente permanere in ogni sistema legale moderno e futuro, al fine di consentire una civile convivenza tra i membri della società.


Tuttavia, mi sembra interessante chiedersi il motivo di tale categorica inflessibilità. La risposta è, secondo me, piuttosto semplice: anche una pur minima incrinatura nella concezione meccanicistica delle azioni umane mette a repentaglio i capisaldi della propaganda ateista. Questo è un passaggio logico di cui lo stesso Harris è evidentemente ben consapevole, ed è presto spiegato. Come è noto, una delle strategie di attacco alle religioni da parte dei New Atheists è il problema del male (“Perché il Creatore, che è infinitamente buono e tutto regge e governa, permette che ci sia tanto male nel mondo?”). A quanto pare, questo argomento risulta per molti un facile ed efficace confutatore della credenza in Dio. D’altro canto, basta un poco di riflessione – magari alla luce delle parole dei Padri della Chiesa – per individuare un contro‑confutatore, altrettanto efficace, nell’idea del libero arbitrio (“Dio ha creato il mondo libero in una certa misura, e l’Uomo in misura massima, in grado liberamente di scegliere tra bene e male”, qui un approfondimento). È logico, dunque, che ogni annuncio di “morte del libero arbitrio” – magari apocrifamente accreditato dalle ricerche neuroscientifiche – possa rappresentare una potente arma retorica a favore della causa ateista; ed è analogamente evidente che la confutazione (o perfino la ragionevole messa in dubbio) di tale annuncio tenderebbe a spuntare l’arma. Chiarito questo punto, possiamo passare ad analizzare il testo di Harris.


A mio parere, “Free will” vuole essere un’arma dialettica proprio del genere di cui ho appena detto, e la cosa salta subito all’occhio. Il filosofo, infatti, decide di affrontare il problema del libero arbitrio partendo dall’analisi di un delitto particolarmente efferato. Non ho alcuna intenzione di ammorbarvi con i dettagli della storia, che è piuttosto violenta; per proseguire la nostra discussione, basterà solo notare che a un certo punto Harris (a commento delle gesta di uno dei malviventi) afferma: «Se fossi stato davvero nei panni di Komisarjevsky il 23 luglio 2007 – cioè, se avessi avuto i suoi geni e la sua esperienza di vita e un identico cervello (o un’anima) in uno stato identico – avrei agito esattamente come ha fatto lui. Non c’è, semplicemente, alcuna posizione intellettualmente rispettabile in base alla quale si possa negare ciò. […] Come possiamo dare un senso alla nostra vita, e ritenere le persone responsabili delle proprie scelte, data l’origine inconscia delle nostre menti consce? Il libero arbitrio è un’illusione». Ohibò. Appena ho letto questa dichiarazione mi sono detto: possibile che questo sia tutto l’armamentario argomentativo che Harris riesce mettere in campo? Francamente, mi sembra un po’ poco, e anche scarsamente fondato, sia dal punto di vista logico che da quello più strettamente scientifico.


Per esempio: che cosa intende esattamente Harris quando dice «Se fossi stato in lui, avrei fatto lo stesso»? Secondo me, l’unica posizione intellettualmente rispettabile in base alla quale egli può fare tale affermazione è la seguente: «Se gli fosse possibile tornare indietro nel tempo, Komisarjevsky [non Harris!] agirebbe nello stesso modo». Qualsiasi altra interpretazione implicherebbe una specie di incubo meta-cognitivo, secondo il quale qualcosa come l’”essenza vitale” di Harris sarebbe in grado di fare un viaggio di andata e ritorno nel corpo di Komisarjevsky, e di osservarne le azioni pur non determinandole direttamente – perché esse dipenderebbero, in ultima analisi, solo dallo stato fisico del cervello-ospite… bah! Onestamente, non potrei accusare nessuno di credere sul serio a un garbuglio del genere. In realtà, dunque, penso che Harris stia banalmente dicendo che accetta il determinismo ontologico, e che fonderà la sua analisi successiva su questa assunzione fondamentale. Il fatto è che sarebbe stato più onesto – a mio parere – se avesse dichiarato subito la sua personale adesione a questa particolare concezione filosofica, piuttosto che cercare di spacciarla per l’unica intellettualmente rispettabile.


Infatti, il determinismo ontologico non è affatto il solo schema teorico in grado di spiegare il funzionamento della realtà fisica: tutt’altro. Non starò qui a ridire i motivi di questa affermazione: ne ho parlato ampiamente in un precedente articolo. Basti osservare che la meccanica quantistica tende fortemente a escludere tale punto di vista (i tentativi di far rientrare il determinismo nella fisica moderna – le cosiddette teorie “a variabili nascoste” – non risultano a tutt’oggi particolarmente soddisfacenti). Ancora, Harris dà per scontato che non vi sia alcuna azione causale della mente sul cervello, ed esprime ciò mediante la lapidaria affermazione:”Il libero arbitrio è un’illusione”. Posizione filosofica, questa, che coincide con il riduzionismo materialista, e che è del tutto lecita: ma che, di nuovo, non è l’unica intellettualmente rispettabile. Anche di questo ho diffusamente parlato altrove (qui e qui), quindi non mi ci dilungherò oltre. Ricorderò solo che i risultati scientifici riportati da Harris non sono affatto univocamente interpretabili nel senso suggerito dal suddetto enunciato (e per la verità, si tratta sempre delle solite ricerche neuroscientifiche, vale a dire quelle di cui riferivo negli articoli appena citati).


Da questo punto in poi, l’esposizione del filosofo americano non è altro che lo sviluppo dialogico della tesi di fondo: la presunta illusorietà del libero arbitrio. Si tratta di una dissertazione piuttosto prevedibile, che non porta contributi conclusivi sul piano scientifico – e neppure convincenti argomentazioni filosofiche – e che pertanto non aggiunge niente di nuovo alla discussione sul libero arbitrio. In definitiva, dunque, nulla su cui valga la pena di soffermarsi.

fonte UCCR


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22/05/2022 12:17
 
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L’uomo, la discontinuità biologica e
il libero arbitrio

 
 
 
Lasciamo la cultura della grande stampa (dove al nichilismo aporetico di oggi succederà domani l’astrologia dei meteoriti panspermici o dei pianeti gemelli e dopodomani l’alchimia del gene della felicità o della pillola della bontà) e passiamo al campo della scienza moderna, quella tosta che cerca di adeguare il discorso alla realtà, incrociando galileianamente le teorie con le misure in laboratorio. Un’opera fresca di stampa fa il punto della ricerca scientifica sulle facoltà superiori dell’anima umana che chiamiamo coscienzamente, ecc. Si tratta di “… e la coscienza? Fenomenologia, psicopatologia, neuroscienze”, a cura di A. Ales Bello e P. Manganaro (Laterza, Bari 2012, € 50). Vi è raccolto, tra gli altri, un contributo di Arecchi intitolato “Fenomenologia della coscienza: dall’apprensione al giudizio”, che vado a riassumere per i lettori.

Per prima cosa, per i non esperti in teoria delle probabilità, devo accennare al teorema di Bayes (dal rev. Thomas Bayes, 1702-1761, che l’ha scoperto). Il teorema permette di calcolare la probabilità che sia accaduto un evento, quando si conosce qualcosa di attinente. Prima di tirare un dado, ho 1:6 probabilità di fare un 6. Qui Bayes non serve. Ma se il dado è già stato tratto e sappiamo che è uscito un numero pari, la probabilità “bayesiana” che sia uscito il 6 è ora 1:3, il doppio di prima. Beh, direte, tutto qua? ci possiamo arrivare da soli, anche senza Bayes! È vero, però i problemi potrebbero essere più complicati. Prendiamo quest’altro. Si sa che in una popolazione i fumatori sono il 35% e che il 20% dei fumatori e il 6% dei non fumatori hanno l’asma: qual è la probabilità che un affetto d’asma sia fumatore? La risposta di Bayes è 64%, ma non vi accecherò con lo splendore barocco della sua formula! Insomma, l’algoritmo di Bayes permette di dedurre da un insieme di dati, relati in un modello a diversi eventi, la probabilità di ognuno di essere accaduto. È la matematizzazione del metodo investigativo di Sherlock Holmes: sulla base delle informazioni disponibili il detective associava una probabilità di colpevolezza ad ogni indiziato d’un delitto, stringendo gradualmente il cerchio man mano che nuovi dati erano raccolti.

Entriamo ora nel vivo e parliamo della fondamentale distinzione tra apprensione e giudizio, che Arecchi supporta per via sperimentale e teoretica. Che cos’è l’apprensione? È la percezione d’un oggetto, realizzata dal lavoro combinato di milioni di neuroni nel cervello (di uomo o animale), in seguito ad uno stimolo colto dai sensi e giunto, attraverso un iter trasformistico inimmaginabile, a quei neuroni. Io ho un’apprensione proprio ora: mentre scrivo queste note, percepisco il rumore d’un aereo di passaggio. Le onde sonore colpiscono i miei timpani e di qui, con una serie di reazioni chimiche nel mio corpo, il segnale cambia cento volte forma fisica e dall’anatomia degli orecchi giunge in ½ secondo ad un esercito di cellule nel cervello, le quali infine in sincronismo perfetto, in un altro ½ secondo, usano un algoritmo di Bayes tra i tanti ivi iscritti e mi procurano la percezione del rumore associandola ad un aereo. Un’apprensione è anche quella di un gatto quando raccoglie nel naso o sugli occhi i segnali inviati da un topo e, attraverso gli organi del fiuto o della vista prima di tutto e col cervello infine, prende consapevolezza della presenza della preda. Anche i neuroni di cervello felino usano la formula del rev. Bayes per fornire al gatto un’immagine del topo. Quando i suoi neuroni selezionano l’algoritmo sbagliato, il gatto prende lanterne per lucciole.

Un’apprensione dura da pochi decimi a 3 secondi, in media 1 secondo: è il tempo che passa dall’arrivo del segnale ai sensi fino alla sua elaborazione sincronizzata nei neuroni della corteccia cerebrale, che produce nel soggetto la percezione coerente dell’oggetto esterno. Per la visione, Arecchi dettaglia come le miriadi di raggi di luce (diversi per colore, intensità, direzione, distanza, ecc.) riflessi dall’oggetto attraversino nel primo ¼ di secondo le cellule degli organi dell’occhio (cornea, cristallino, retina, ecc.: la retina ha opportunamente circa 100 milioni di cellule, tra bastoncelli e coni, per fare la scannerizzazione); e poi come, in un altro ¼, ogni organo nell’esercizio della sua funzione e in coordinamento con gli altri codifichi chimicamente l’elemento di segnale nel suo linguaggio (per es., per ogni fotone sono milioni al secondo gli ioni di sodio che si mobilitano in correnti elettriche nei bastoncelli), per trasferirlo all’organo successivo via via fino al nervo ottico, alla corteccia visiva e alla corteccia prefrontale. Ancora Arecchi mostra come in questa, in ½ secondo, la folla neuronica – reciprocamente eccitata da somi, assoni, dendriti e sinapsi e obbediente alle leggi del caos quantistico – collabori a ricostruire, attraverso algoritmi di Bayes innati o pre-adattati con l’esperienza, un’immagine dell’oggetto. A questo punto, il soggetto ha una percezione coerente, dopo cui può reagire con impulsi trasmessi alle aree motorie. Arecchi illustra anche gli strumenti (sonde, elettroencefalogrammi, risonanze magnetiche nucleari, ecc.) usati dalle neuroscienze per scoprire come nell’uomo e negli animali accada il processo elementare dell’apprensione che, ci crediate o no, io ho sintetizzato soltanto per sommi capi.

Le fasi dell’apprensione, compresa l’ultima di sincronizzazione neuronale, non sono differenti tra uomini e animali superiori, come scimmie e gatti. Tutti gli agenti cognitivi, animali e umani, condividono anche la capacità di richiamare dalla memoria i ricordi delle apprensioni, da usare per le decisioni motorie. Mentre però negli animali le apprensioni passate sono separatamente conservate nelle aree di memoria, ciascuna nel suo specifico codice e solo ai fini delle decisioni motorie future, negli esseri umani – e qui veniamo alla prima importante distinzione – le informazioni memorizzate nei loro pacchetti linguistici possono essere tradotte in un super-codice comune, così da essere confrontate ai fini del giudizio e delle altre attività specificatamente umane, come le arti e le scienze. Il giudizio non ha gli automatismi dell’apprensione. Esso consiste nel raffronto tra due o più apprensioni memorizzate, si prolunga su tempi oltre i 3 secondi ed è esclusivo dell’intelletto umano. L’eseguibilità del giudizio postula un soggetto cognitivo conscio della propria unità persistente nell’esplorazione diacronica dei pacchetti linguistici disponibili: così, mentre il susseguirsi di apprensioni, proprio anche della vita animale, si risolve in una successione di mere consapevolezze percettive, il giudizio meditato tra apprensioni passate postula quella facoltà propriamente umana che è l’auto-coscienza.

L’esecuzione di un giudizio avviene nell’auto-coscienza con la creazione di un nuovo modello su cui applicare formule di Bayes (inverse) create ex novo. Per es., quando ad un concerto ci soffermiamo su due brani distinti, la mente crea nuovi modelli ed algoritmi appropriati (due operazioni non algoritmiche) per confrontare ed armonizzare in un uno stesso giudizio le apprensioni provocate dall’ascolto dei brani. Anche gli animali (e i sistemi esperti in informatica) possono autonomamente applicare variazioni ad un algoritmo di Bayes pre-esistente, secondo una procedura adattativa. Ciò avviene però con un repertorio linguistico limitato e sempre apportando piccole variazioni così da evitare catastrofi, preservare la stabilità della struttura ed anche permettere ritirate tattiche con la variazione opposta. Invece la super-codifica simbolica nel giudizio di diverse apprensioni in memoria, codificate nei diversi linguaggi (letterario, musicale, plastico, ecc.), ripropone al soggetto umano ogni evento da vari punti di osservazione, causati da “salti” non algoritmici e potenzialmente infiniti. Arecchi chiama “creatività questa caratteristica umana.

Se intendiamo il termine “coscienza” come consapevolezza di un’apprensione specifica, magari seguita da una reazione motoria, la consapevolezza può manifestarsi – come ha mostrato Benjamin Libet nei suoi famosi esperimenti – in ritardo rispetto alla registrazione dei potenziali che stimolano i muscoli. Ma ciò non nega la libera volontà, perché negli uomini come negli animali la reazione motoria è in questi casi l’esito automatico d’un algoritmo bayesiano inscritto. Se invece “coscienza”, o meglio “auto-coscienza”, sta per la consapevolezza perdurante di un soggetto di essere l’agente di un giudizio tra più apprensioni passate dal cui confronto predire scenari futuri, allora il libero arbitrio dell’uomo è salvo perché il giudizio è prodotto da un salto tra un vecchio algoritmo ed uno creato ex novo. In particolare, una decisione etica richiede un tempo ben più lungo dell’apprensione e pertanto sfugge all’inversione dei tempi di Libet.

In conclusione, dopo “l’abisso cognitivo tra noi e le scimmie […], accaduto in un unico evento e non gradualmente”, ammesso dall’antropologo Ian Tattersall in un recente recente intervento; dopo le dichiarazioni del computer scientist Federico Faggin (creatore del primo microchip, 4004 Intel) per cui “il cervello umano è un grosso mistero […], qualcosa di magico. Tutta la nostra information technology è una stupidaggine in confronto” e l’auto-coscienza umana è “l’«elefante nella stanza», come si dice in inglese, cioè qualcosa che è impossibile non notare, ma che nessuno vuole riconoscere”, ora anche le neuroscienze confermano lo specifico antropico. È rimarchevole che antropologia, computer science e neuroscienze all’unisono identifichino nel linguaggio simbolico umano il punto di discontinuità biologica.

La scoperta scientifica della specificità antropica del simbolo conferma una lezione di Pavel Florenskij, in cui l’eroico sacerdote e scienziato (fucilato 75 anni fa in un gulag sovietico) negava il dualismo cartesiano e allo stesso tempo invitava a dare il giusto peso allo spirito e alla carne: “La dissoluzione del simbolo si verifica nell’idealismo come nel naturalismo: se dal simbolo si elimina l’involucro sensibile, si dissolve anche il suo contenuto spirituale ed il simbolo perde visibilità; al contrario, se si condensa l’involucro in un ordine sensibile al punto che quello spirituale diventi invisibile, l’involucro è impenetrabile allo spirito” (da “La concezione cristiana del mondo”. Lezioni all’Accademia Teologica di Mosca, 1921).

fonte UCCR


[Modificato da Credente 22/05/2022 12:21]
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04/06/2022 10:37
 
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Libero arbitrio,
smentito il celebre esperimento di Libet

L’esperimento di Libet sul libero arbitrio è stato replicato e ha dato conclusioni diverse: la consapevolezza di intraprendere un’azione coincide (e non più segue) con il momento in cui il cervello si attiva per compierla. A dimostrarlo uno studio pioneristico del ricercatore Aaron Schurger. 

E se il famoso esperimento di Libet venisse replicato e le conclusioni fossero opposte, smentendo il più importante argomento usato contro il libero arbitrio?

Per decenni un celebre studio sul funzionamento del cervello ha alimentato la speculazione sul fatto che la nostra consapevolezza di voler intraprendere un’azione nasceva dopo che il cervello aveva già deciso di compierla.

Eppure, sembra che Libet -l’autore di questo studio- commise un errore fatale.

L’esperimento di Libet: prima il cervello poi la coscienza.

Innanzitutto, chiariamo le cose per chi non sa di cosa parliamo.

Benjamin Libet è stato un eminente neurofisiologo dell’University of California e nel 1977 ha studiato la correlazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione di compiere un’azione minima, ossia quella di flettere un dito della mano.

Dal 1965 sappiamo che nel cervello, prima di compiere un movimento spontaneo, si verifica un accumulo di fluttuazioni dell’attività neuronale che, una volta superata una certa soglia, influenzano l’inizio del movimento. Questo accumulo è stato soprannominato “potenziale d’azione” (PR) o potenziale di Bereitschaft.

Libet nel suo celebre esperimento osservò sorprendentemente che il potenziale d’azione antecedeva non solo il movimento stesso ma sembrava iniziare anche prima (circa 206 millisecondi) che i soggetti si dichiaravano consapevoli dell’intenzione di muovere un dito.

Si concluse così che l’intenzione cosciente di agire non era la causa dell’azione, ma era il cervello del soggetto a predisporsi al movimento prima che questi intendesse davvero compierlo.

L’esperimento di Libet usato in chiave anti-teologica.

Lo studio di Libet venne ben presto strumentalizzato in chiave filosofica e teologica, entusiasmando i riduzionisti secolarizzati.

Lo stesso Libet, tuttavia, fin da subito difese la realtà del libero arbitrio, affermando: «La volontà cosciente seleziona comunque quali iniziative possono procedere verso un’azione o verso quali porre il veto e interromperle, l’esistenza del libero arbitrio rimane comunque altrettanto buona e una migliore opzione scientifica rispetto alla sua negazione da parte della teoria deterministica».

Ma, inevitabilmente, il dibattito prese piede e vi fu chi soffiò sull’onda determinista e chi sottolineò i grandi limiti dell’esperimento (e di quelli successivi compiuti da John-Dylan Haynes).

In particolare, molti notarono la differenza enorme tra la semplice decisione di muovere un dito e l’ideare invece un’azione complessa e stratificata come la pianificazione di un viaggio o l’acquisto di un auto, mentre altri sostennero prove ed argomenti a favore della volontà cosciente.

Vi fu ovviamente chi usò gli studi di Libet come “prova” dell’inesistenza di Dio (vedi Coyne, Wegner, Harris ecc.) sulla base che se la creatura non è per nulla eccezionale (un nient’altro che, secondo il mantra riduzionista) allora non è necessario coinvolgere l’esistenza di un Creatore.

Altri studiosi risposero falsificando tale ragionamento, osservando che la negazione della libertà implica la sottomissione totale alle leggi della fisica, senza più alcuna forma di intenzionalità, capacità intellettive e di ragionamento (pro o contro Dio).

La comunità scientifica per la gran parte ha giudicato frettolosa la negazione della libertà rispetto alle poche prove a disposizione. Lo stesso Libet nel 2014 scrisse: «Dato che il problema è di fondamentale importanza per la nostra visione di chi siamo, un’affermazione secondo cui il nostro libero arbitrio è illusorio dovrebbe essere basata su prove abbastanza dirette. Tale prova non è disponibile».

Lo studio di Schurger: coscienza coincide con attivazione cervello.

Ed eccoci arrivati al punto.

Nel 2010 Aaron Schurger, ricercatore del National Institute of Health and Medical Research di Parigi, incominciò a studiare le fluttuazioni dell’attività neuronale, osservando che nell’esperimento di Libet i soggetti non ricevevano alcun indizio esterno per attuare il movimento, agivano semplicemente in base a momenti spontanei.

Così, il ricercatore ha ipotizzato che in tale situazione altamente specifica il potenziale d’azione (PR) intervenga salvandoci da un’indecisione senza fine, ed esso non sia affatto la “preparazione del cervello ad agire” come invece interpretato da Libet. Semmai, quanto registrato dal noto neurofisiologo corrispondeva all’inizio del potenziale d’azione, ovvero alle fluttuazioni sotto-soglia che sono solo una parte del “segnale” che darà avvio all’azione.

Studi successivi su animali hanno confermato l’ipotesi di Schurger.

Alcune scimmie dovevano decidere tra due opzioni uguali ed i ricercatori hanno rilevato che l’imminente scelta era correlata all’intrinseca attività cerebrale (potenziale Bereitschafts) prima ancora che alla scimmia fossero presentate le opzioni.

Nel 2015 Schurger ha vinto il BMI-Kaloy Prize per le neuroscienze per aver “ribaltato una vecchia interpretazione” sul funzionamento del potenziale d’azione.

Nel 2019, Schurger e due ricercatori dell’Università di Princeton hanno ripetuto l’esperimento di Libet, evitando però di registrare inavvertitamente il potenziale d’azione. La scoperta è stata che l’esperienza soggettiva dei soggetti riguardo ad una decisione -ciò che lo studio di Libet suggeriva fosse solo un’illusione- corrispondeva precisamente al momento in cui il loro cervello si attivava per prendere una decisione.

«Mi ha aperto la mente», ha confessato Patrick Haggard, neuroscienziato dell’University College di Londra e collaboratore di Libet.

Si tratta comunque di un lavoro pionieristico, tanto quanto lo era quello di Libet, la cui interpretazione sul “cervello che decide prima della coscienza del soggetto” è stata tuttavia smentita.

Nel 2020 uno studio del cognitivista Eoin Travers ha provato a mettere in dubbio la scoperta di Schurger, senza però convincere né la comunità scientifica, né i commentatori più scettici.

«Questa nuova prospettiva capovolge il modo in cui sono stati interpretati i risultati», ha affermato Adina Roskies, filosofa ed esperta di scienze cognitive al Dartmouth College. «La nuova interpretazione mina tutte le ragioni per pensare che il libero arbitrio sia messo in discussione».

Nel 2021 lo stesso Aaron Schurger è intervenuto nuovamente sul potenziale d’azione (PR), concludendo: «Non si può dedurre che ci manchi il libero arbitrio cosciente basandosi sul profilo temporale del PR. Se questi modelli sono corretti, possono avere implicazioni per la nostra comprensione del libero arbitrio ma l’RP non riesce a supportare la classica inferenza per l’inefficacia della volontà cosciente».

fonte UCCR


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