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VITA E MORTE SECONDO CHI CREDE E CHI NON CREDE

Ultimo Aggiornamento: 10/12/2019 21:54
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02/02/2019 18:33
 
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Un commento al “senso della morte” di chi non crede



significato morireSenso della morte. Un commento alle parole del filosofo non credente Salvatore Natoli, per il quale il senso della morte degli atei è lasciare se stessi in eredità a chi resta. Un rispettabile pensiero che però non ha la forza di reggere ad uno sguardo più attento.


 


Da questa avventura che è la vita, nessuno di noi ne uscirà vivo. La morte è ciò che nega tuttoquanto si è affannosamente costruito, è ciò che nega il senso, è l’assenza. Quale senso può avere questo enorme limite, se non una profonda ingiustizia che sminuisce ogni azione umana, resa inutile dalla ghigliottina di una data di scadenza che, prima o poi, la cancellerà?


 


“Il senso della morte è lasciare traccia di sé”, dice il filosofo ateo. Ma non basta.


E’ interessante leggere l’opinione del filosofo Salvatore Natoli, ordinario dell’Università Milano-Bicocca, un non credente “pensante”, come direbbe il card. Carlo Maria Martini. All’avvio di un tour di incontri e letture sul tema “Il morire e la morte”, ha spiegato che «il senso della morte è un darsi in eredità a chi è stato importante per noi nella vita, è fondamentale non morire soli, sapendo che la propria vita verrà ceduta, passerà, ad un altro, o ad altri, con cui si è stabilita una vera relazione durante la vita».


E’ con profondo rispetto che ci accostiamo a queste parole, un tentativo onesto di sfidare l’insensatezza dell’esistenza. Eppure un pensiero emerge spontaneo: sapere di lasciare traccia di sé in chi rimane, forse può essere significativo per un importante filosofo come il prof. Natoli ma non a tantissimi suoi lettori che, come altre miliardi di persone, moriranno soli, senza figli, senza legami importanti, senza qualcuno che si ricordi veramente di loro. Il laico “senso della morte” risulta così poco convincente per l’uomo comune, non ha la forza di reggere, non ha ragioni valide adeguate alla realtà.


Ma anche per i pochi “eletti” che riusciranno a lasciare se stessi in eredità a qualche persona per qualche tempo dopo la loro scomparsa, davvero le gioie, le speranze, i dolori, le fatiche, le lotte quotidiane, la sofferenza dell’esistenza possono riempirsi di un significato solo alla luce della speranza che, forse, saranno ricordate e apprezzate da qualcuno? Davvero la vita dei nostri predecessori, dei nostri nonni o genitori scomparsi, ha avuto un senso solo perché qualcosa di loro è rimasta nella nostra memoria? Almeno per un breve periodo, fino a quando il tempo non sbiadirà il ricordo.


Molta stima per il filosofo e per chiunque si sofferma su queste riflessioni, ma il senso della vita e della morte in una prospettiva totalmente immanente è destinato a rimanere un no-senso. E’ più crudelmente realista Jean-Paul Sartre quando definisce l’esistenza una parentesi tra due nulla, una effimera scintilla tra il non c’ero e il non ci sarò, una collocazione accidentale di atomi fonda «le salde fondamenta di un’inesorabile disperazione», secondo Bertrand Russell (A Free Man’s Worship, Portland 1923).


 


Fede e ragione, così la realtà diventa segno tangibile del Mistero.


Se dall’immanenza si passa invece alla trascendenza, le cose cambiano in modo radicale. Il dono della fede è innanzitutto un dono alla ragione, perché ne potenzia la capacità di intercettare l’eternità che già vive nella realtà: il suo essere voluta da Qualcuno, il suo essere creata e perciò amata. La percezione che tutto è dato per me e non c’è nulla a cui io sono estraneo.


E’ anch’essa un’illusione? No, perché la verità è che la verità cambia o, per meglio dire diversamente: è vero/reale solo ciò che cambia. Nessuna illusione riempie il cuore umano, rende felice l’esistenza, collima con il bisogno di significato che ci abita da sempre, abbandona alla serenità e alla positività, diviene ragionevole certezza su cui costruire il proprio cammino. Di un’illusione non si può fare esperienza tangibile e innegabile come invece i cristiani fanno, quando non riducono la fede ad uno sforzo mentale ma incontrano il Mistero nei volti di coloro che Dio ha chiamato come testimoni. La fede non è illusione perché non è il prodotto dalle nostre esperienze interiori ma è un evento che ci viene incontro dal di fuori, e fa sperimentare ogni giorno che la realtà è segno che rimanda ad un Altro.


Solo vivendo consapevolmente la compagnia cristiana si fa esperienza, qui e ora, della presenza fisica di Dio, solo attraverso lo sguardo e il comportamento che Egli suscita in coloro che ci sono stati messi accanto nel cammino che si conosce chi è Cristo. «Dio è il presupposto fondamentale di ogni realismo», scriveva Ratzinger (Introduzione al cristianesimo, p.12) ed il teologo belga Ignace de la Potterie insegnava che quella cristiana non è affatto una fede cieca, ma un’intelligenza dei segni che sa comprendere la verità profonda dei fatti che accadono e sa conoscere la verità tramite i testimoni credibili. Così, «è naturale per l’uomo scoprire la verità intellegibile a partire da fenomeni sensibili» (Tommaso D’Aquino).


 


La vita e la morte hanno un significato convincente solo in una prospettiva trascendente.


Sull’esperienza tangibile di una Presenza nell’oggi l’esistenza acquista un significato eterno, che oltrepassa l’ostacolo della morte. Questa non sarà più l’ultima parola, ogni episodio accadutoci vive già una prospettiva di eternità, ogni relazione ed ogni fatica umana si appoggia sulla certezza del senso, non del dubbio o dell'”inesorabile disperazione”. E, sopratutto, è alla portata di chiunque, anche di chi muore solo, dimenticato e sconosciuto, senza nessuno a cui “lasciare in eredità se stessi”, secondo le parole citate inizialmente del filosofo Salvatore Natoli. Anche questo individuo, dimenticato da tutti già quando è in vita, vive una morte colma di senso perché abbracciata dall’Eterno.


Dalla risposta alla domanda sulla realtà di Dio dipende l’intera vita umana, se rispondiamo positivamente il “senso del mondo” (e della morte) potrà dirsi fondato, ma andrà cercato fuori da esso. Se non rispondiamo, l’incertezza ci dominerà e il dubbio sarà l’unica compagnia. Se invece rispondiamo negativamente, si sarà costretti a precostituirsi un alibi per giustificare la nostra presenza nel cosmo. «E a questo scopo non sarà certo sufficiente il puro caso, che può forse risultare una spiegazione accettata dalla scienza, ma mai una ragione per vivere e morire serenamente» (R. Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio, Marietti 2005, p. 20).

fonte : UCCR


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