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L'islam: moderato o violento? Problema mai risolto

Ultimo Aggiornamento: 08/12/2015 12:59
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17/10/2014 10:35
 
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Stato islamico, jihad, califfato, islam. Tutto quel che c’è da sapere (senza reticenze)





 





Vademecum per capire cosa sta succedendo in Iraq e Siria. Le differenze tra Al Qaeda e Is, i silenzi dei musulmani moderati, le persecuzioni dei cristiani. «In Iraq è in atto un genocidio»



Articolo tratto da Oasis – “Lo Stato Islamico spiegato a mio figlio”. L’Islam, la violenza, la guerra santa e il califfato: una conversazione a tre voci per rispondere alle domande più frequenti che la cronaca degli ultimi mesi suscita in modo incalzante. Dialogo con Martino Diez e Michele Brignone, a cura di Maria Laura Conte. Il grafico che vedete qui sotto è stato pubblicato il 27 agosto sulle pagine del Corriere della Sera.



Che cosa sta succedendo in Iraq?
MD: In Iraq è in atto un genocidio, da parte delle milizie sunnite dello Stato islamico, ai danni delle minoranze religiose e di chiunque non si riconosca nella loro versione di Islam. La causa immediata di questo genocidio è la guerra in Siria che è cominciata nel 2011 per rovesciare Assad. Nelle file dell’opposizione siriana infatti hanno prevalso i gruppi più fondamentalisti, appoggiati anche da molti combattenti stranieri. Ma la guerra è potuta transitare dalla Siria all’Iraq con grande facilità perché questo Paese non si è mai veramente stabilizzato dopo il rovesciamento di Saddam Hussein da parte degli americani. Più in profondità, esiste nella regione una secolare rivalità tra sunniti e sciiti, due tipi diversi di Islam, che in Iraq sono numericamente quasi alla pari. E qui entrano in gioco anche gli interessi dei Paesi vicini, in particolare dell’Iran sciita e dei sunniti wahhabiti dell’Arabia Saudita, che cercano di sfruttare questa rivalità per fini politici. L’ideologia wahhabita-saudita, dal XVIII secolo in avanti, è un grave fattore di destabilizzazione, perché insegna un Islam duro e puro che si proclama come l’unico autentico.

stato-islamico-corriereAll’inizio si definiva sui media Isil (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), poi Isis (Stato Islamico dell’Iraq e Siria), ora IS cioè Stato Islamico: cos’è questo califfato?
MB: Il califfato è un’istituzione classica dell’Islam. Letteralmente il termine califfo (khalîfa) indica colui che succede a Maometto nella guida della comunità islamica per “salvaguardare la religione e gestire gli affari terreni”. Dopo i primi califfi, definiti i “ben guidati”, il califfato ha assunto – prima con la dinastia omayyade (661-750), e soprattutto con quella abbaside (750- 1258) – i caratteri di un impero multietnico e multi-religioso a vocazione universale. In epoca moderna, dopo l’abolizione del califfato ottomano nel 1924, califfato è diventato sinonimo di “Stato islamico”. L’organizzazione dello Stato islamico incarna nel modo più radicale il mito della costruzione di un’entità politica fondata su un’interpretazione rigorista della Legge islamica, un’entità che probabilmente non è mai esistita nei termini in cui è proposta oggi.

Che rapporto c’è tra IS e al-Qaida di Bin Laden? Quali sono le principali differenze?
MB: Lo Stato Islamico non è mai stato un affiliato di Al-Qaida anche se al momento della sua costituzione in Iraq (2006) al-Qaida ne ha sostenuto le attività. È stata la guerra in Siria a spezzare la loro alleanza, tanto che oggi sono due soggetti concorrenti. Lo Stato Islamico punta all’istituzione immediata di un’entità politica in cui si applichi la sharî’a e vengano eliminate tutte le forme di Islam che divergano dalla sua visione rigorista. I sostenitori di Al-Qaida pensano invece a un’istituzione più graduale del califfato. Inoltre, mentre Al-Qaida ha agito e agisce soprattutto a livello globale con operazioni terroristiche spettacolari anche in Occidente (tra tutte la distruzione delle torri gemelle) e la creazione di molti fronti locali, lo Stato Islamico punta invece a concentrare gli sforzi sull’istituzione di uno Stato dotato di una propria capacità di espansione.

Come si presenta IS?
MB: Lo Stato Islamico copre un territorio a cavallo tra Siria e Iraq che conta circa 4 milioni di abitanti, è sicuramente dotato di molti mezzi tecnologici ed economici, impossibili senza ingenti finanziamenti esterni. Lo dimostrano le sue capacità propagandistiche e mediatiche e le sue dotazioni militari, al momento superiori sia a quelle delle forze governative irachene che a quelle dei combattenti curdi (peshmerga). Per fare solo un esempio, ha appena conquistato una base militare siriana grazia anche all’uso di droni. L’ambizione dello Stato islamico è sicuramente la creazione di un’entità statuale territoriale stabile in grado di pesare politicamente sulla scena mediorientale e di agire sull’immaginario dei militanti jihadisti di tutto il mondo.

Chi lo ha accolto con favore e chi invece lo contesta?
MB: Lo Stato Islamico è sostenuto da una giovane generazione di jihadisti di varia provenienza. Tra i suoi detrattori vi sono invece gli ideologi jihadisti della vecchia generazione, che fanno riferimento ad Al-Qaida, gli ideologi musulmani riconducibili all’esperienza dei Fratelli Musulmani (al momento molto più concentrati sulla questione palestinese) e i musulmani che non si riconoscono in un’interpretazione radicale e violenta dell’Islam. Ma, nonostante le tante opposizioni che lo Stato islamico incontra nello stesso mondo islamico (non mancano infatti singole prese di distanza), soprattutto le autorità religiose musulmane non riescono a pronunciarsi in modo unitario.

siria-jihad-occidentaliSi richiama all’Islam, ma i suoi detrattori dicono che fa un uso strumentale dell’Islam, che non sono veri musulmani gli jihadisti che si uniscono alla lotta del Califfo. Sono o non sono musulmani?
MD: È un fatto che questi militanti si dichiarano musulmani, così si vede già nell’aggettivo “islamico” usato per definire il loro Stato. Molti altri musulmani ritengono che il loro comportamento sia un tradimento dell’autentica fede islamica. Ma le autorità religiose non possono limitarsi a dire “quelli non sono veri musulmani”: è troppo poco. Devono dissociarsi chiaramente da questi comportamenti, contrastarli e soprattutto mostrare dove e perché i miliziani di IS sbagliano. Molti in Europa si lamentano della difficoltà a orientarsi tra i vari interlocutori islamici. Un modo molto semplice per farlo è vedere che cosa dicono o non dicono sulla vicenda irachena.

Dalle notizie di cronaca si deduce che IS è fondato sull’uso sistematico della violenza in nome del vero Islam. Ma numerosi imam e fedeli musulmani in Occidente parlano dell’Islam come pace. Chi ha ragione?
MD: L’Islam non chiama alla violenza indiscriminata, ma non insegna neppure la non-violenza. È una predicazione militante, in cui il credente è chiamato a un impegno personale per attuare la volontà di Dio sulla terra, con il rischio però di sostituirsi a Lui. Sorgono infatti due questioni: la prima è se la volontà di Dio si lascia conoscere con certezza fino ai dettagli dell’organizzazione politica di uno Stato. La seconda è sul metodo: che fare con chi si oppone a questo progetto? Tutta la questione del jihad si può ricondurre all’ampiezza dell’autorizzazione all’uso della violenza: è ammessa solo per la legittima difesa o anche per attacchi offensivi? È incoraggiante che molti fedeli musulmani in Occidente parlino dell’Islam come di una religione pacifica, ma occorre riconoscere che la questione non è risolta a livello delle fonti. Basta andare su un sito jihadista per rendersene conto.

Molti jihadisti giungono dall’estero: come si spiega questo richiamo esercitato da IS?
MB: Da molti anni ormai il jihadismo esercita un macabro fascino globale. Il combattente jihadista gode in certi ambienti di un grande prestigio, sia quando cade come “martire”, sia nella versione del reduce del jihad, che per alcuni rappresenta una forma di iniziazione all’Islam più autentico. In questo momento il prestigio di IS supera quello di altri movimenti jihadisti e sembra aver scalzato anche quello di Al-Qaida, che dopo la morte di Bin Laden si è ristrutturata su molti fronti locali ma ha perso molta incisività dal punto di vista mediatico. Naturalmente il jihad recluta più facilmente tra persone che vivono situazioni di disorientamento o disagio, non solo economico, ma anche identitario o psicologico. Tuttavia è difficile ridurre la militanza jihadista a pure categorie sociologiche. Resta la zona d’ombra del richiamo che può esercitare la violenza in sé anche sui più insospettabili, in questo caso assumendo la forma della guerra santa.

isis-foleyLa violenza all’opera nel conflitto siro-iracheno si manifesta in forme nuove?
MD: Sì, c’è all’opera un elemento nuovo: l’assassinio esibito sui media, pensiamo al video della decapitazione del giornalista americano James Foley. La violenza è un virus molto contagioso: all’inizio si traveste di obiettivi politici (“creare uno Stato islamico”), ma più cresce, più sfugge al controllo di chi la pratica e diventa un fine in sé stesso (“uccidere per il gusto di uccidere”). L’esibizione mediatica accelera questo contagio con il pericolo di un’escalation ulteriore della violenza.

C’è chi ritiene che si tratti di un conflitto religioso e di civiltà e chi invece è convinto che la religione non abbia nulla a che vedere con questi fatti, dovuti invece a questioni geostrategiche, economiche e sociali. Dove sta la ragione?
MD: Certamente ci sono molti motivi politici ed economici che spiegano la guerra attuale in Iraq e Siria. Ma questo non deve portare a sottovalutare l’elemento religioso. Molti dicono che le guerre hanno sempre ragioni economiche, travestite da motivazioni religiose o ideologiche. Non è vero. Le motivazioni religiose sono una forza primaria, tanto quanto i fattori economici o strategici. Inoltre insistere solo sulle cause politico-sociali può portare a sottovalutare o cancellare la responsabilità morale del singolo.

IS sta perseguitando violentemente i cristiani e le altre comunità religiose: come intervenire per frenare questa violenza?
MB: Naturalmente più IS avanza più sarà difficile fermarlo. Da un lato è necessaria un’azione politica immediata che contempli anche l’uso della forza. Più il fronte internazionale a protezione delle vittime di IS sarà ampio e multilaterale, più avrà possibilità di successo non solo dal punto di vista militare ma anche della legittimità giuridica. Lo Stato Islamico segna il punto più alto della minaccia jihadista, che dispone ora di una base territoriale e di una dimensione politica effettiva. Ma allo stesso tempo potrebbe rappresentarne la crisi, perché molti musulmani ora lo contestano e ne subiscono direttamente la violenza. Sconfiggerlo sarebbe un segno di speranza per gli stessi musulmani, ma l’impresa ha una dimensione culturale ed educativa ben più importante di quella strategica e militare.

Che lezione sta impartendo la vicenda IS all’Europa e all’Occidente in generale?
MD: La vicenda dello Stato islamico insegna per l’ennesima volta agli occidentali, ma anche ad alcune potenze mediorientali, che non è possibile usare i fondamentalisti islamici per ottenere risultati politici. Gli americani ci hanno provato in Afghanistan e Libia e sono stati a un passo dal rifarlo un anno fa in Siria. Ma i fondamentalisti religiosi obbediscono a logiche proprie: l’alleanza con loro è sempre a tempo e alla lunga controproducente.

Si parla di centinaia di migliaia di profughi mediorientali che cercano di scappare dai loro Paesi ed entrare in quelli europei: come gestire questo problema? È realistico pensare che possano un giorno tornare a casa o hanno un futuro solo all’estero?
MB: Se si guarda alla storia dell’emigrazione dal Medio Oriente, è difficile pensare a un ritorno dei profughi nei territori d’origine. Perché ciò avvenga probabilmente non basterà ristabilire delle condizioni minime di sicurezza, impresa già di per sé difficile, ma occorrerà un ripensamento radicale delle istituzioni politiche ed economiche su cui si sono retti molti Paesi del Medio Oriente.

I vescovi e patriarchi orientali chiedono da tempo aiuto e interventi ai Paesi occidentali. Come stanno rispondendo? Perché la titubanza o la lentezza?
MB: Il cristiano, diceva il teologo Balthasar, si distingue anche perché è “inerme”. I cristiani sono una componente sociale e culturale fondamentale del Medio Oriente, ma non dispongono di un peso politico autonomo e sono rimasti schiacciati dalla complessa, e spietata, situazione politica della regione. Inoltre l’Europa è incastrata in una crisi che non è solo economica e sembra renderla incapace di agire. Gli Stati Uniti di Obama non brillano per le scelte di politica estera, anche se una certa titubanza è comprensibile dopo gli anni dell’ “esportiamo la democrazia”.

Stanno definitivamente sparendo i cristiani dal Medio Oriente? O si può ancora arrestare questo processo?
MD: Siamo all’ “ultima chiamata” per tutta la cristianità irachena. I cristiani sono un fattore di pluralismo in Medio Oriente. Se scompaiono, il Medio Oriente sarà più povero. E la maggiore omogeneità non ridurrà il conflitto perché, cacciati i non-musulmani e i musulmani “eretici” o tiepidi, ci sarà sempre qualcuno “più fondamentalista di me”. È una rincorsa senza fine, che rischia di annegare l’intera regione nel sangue. Papa Francesco nei suoi interventi pubblici continua a richiamare l’attenzione su questa ferita. Già adesso chiunque può lascia il Medio Oriente perché in molte regioni sta diventando impossibile vivere, anche per i musulmani.

I fatti del Medio Oriente stanno influenzando anche il modo nostro di considerare i musulmani che vivono tra noi. Come porsi per conoscerli nel modo più corretto? Trattare con un marocchino, un tunisino, un bengalese, un egiziano è la stessa cosa?
MB: I musulmani che vivono tra noi si distinguono per tanti ragioni, come l’etnia o l’origine nazionale: per esempio l’Islam vissuto in Marocco è diverso da quello asiatico o da quello mediorientale. Ma molti musulmani hanno ormai perso il legame con l’Islam del Paese o della cultura di provenienza dando vita a un “Islam globale”, secondo l’espressione dello studioso francese Olivier Roy. È difficile perciò offrire ricette per affrontare il fenomeno islamico in generale. Da un lato è sempre più necessario crescere in una conoscenza approfondita dell’Islam e delle sue molteplici forme, che fanno ormai parte, volenti o nolenti, delle nostre società; dall’altro vale per i musulmani ciò che vale per ogni uomo: la conoscenza non può prescindere dall’incontro con un’esistenza concreta.

I musulmani che vivono nelle democrazie occidentali chiedono un maggior riconoscimento della loro presenza e dei loro bisogni, come ad esempio quello di luoghi di culto adeguati (moschea, ecc.). La risposta a questa presenza va da quella più aperta (“viva il multiculturalismo, siamo diversi, ma in fondo uguali”) a quella più chiusa (“sono i musulmani che si devono adeguare, integrare e assumere i nostri costumi”). Quale la via per costruire una città accogliente ma rispettosa di tutte le sue componenti?
MB: Occorre lasciarsi provocare dalle loro richieste, che mettono in discussione modalità di gestione della sfera pubblica ormai inadeguate e quindi costringono a mettersi tutti in gioco per rigenerare la nostra vita sociale. Ma per garantire la convivenza pacifica e costruttiva tra persone diverse è necessario che tutti riconoscano che vivere insieme è di per sé un bene.



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12/08/2015 12:34
 
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Problema Islam

di RICCARDO CASCIOLI

Ha il coraggio di dire quello che molti pensano e sanno, ma tacciono per viltà o timore.
L'Islam sbarca in Italia. E avanza con l'immigrazione. Il cardinale Biffi avvertiva:
in pericolo non è solo la fede, ma l'identità di un popolo. Il nostro.

Lo hanno chiamato razzista e intollerante, un vescovo che istigava all'odio. Insomma, il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, deve aver colpito nel segno ancora una volta.
Sotto accusa è l'affermazione del cardinale contenuta nella lettera pastorale del 12 settembre alla diocesi di Bologna secondo cui, in materia di immigrazione, lo Stato italiano dovrebbe privilegiare l'ingresso di persone provenienti dai Paesi cattolici rispetto agli islamici.
Non soddisfatto della prima bordata di reazioni, pochi giorni dopo, il 30 settembre, il cardinale è tornato sull'argomento intervenendo a un seminario della Fondazione "Migrantes". E qui è finita sotto accusa la richiesta di trattare gli islamici in Italia come i non-islamici vengono trattati nei loro Paesi. Apriti cielo: su tutti i principali mezzi di comunicazione sono apparsi commenti scandalizzati.
Personalmente, ho letto attentamente entrambi i documenti e ne ho ricavato l'impressione di interventi "profetici", non nel senso comune di predizione del futuro, ma di giudizio di Dio sul presente. E perciò estremamente realistici. Cerchiamo perciò anzitutto di stabilire alcuni punti fermi contenuti nel doppio intervento:

1. Il fenomeno dell'immigrazione ha colto di sorpresa sia lo Stato italiano sia la Chiesa cattolica che ognuna per ciò che le compete non sono ancora in grado di dare una risposta organica e credibile.

2. Lo Stato dovrebbe disciplinare il massiccio arrivo di stranieri (che il cardinale non giudicava assolutamente un fatto negativo) puntando a progetti di "inserimento che mirino al vero bene di tutti, sia dei nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni".

3. è qui che si pone la questione delle "preferenze". L'Italia ha infatti una storia precisa, una cultura e delle tradizioni che nella religione cattolica affondano le loro radici (Biffi parla di "religione storica" della nazione italiana). Sembra perciò logico e "laico" sostenere che l'inserimento sarà molto facilitato a chi proviene da Paesi che quelle radici condividono (latino-americani, filippini, eritrei, alcuni Paesi est europei) e, in secondo luogo, a chi dimostra di sapersi (e volersi) integrare "con buona facilità", come cinesi e coreani. Del resto, aggiungiamo noi, tutti i governi a forte immigrazione si sono sempre preoccupati di attuare criteri di questo genere: di legami coloniali (Francia, Gran Bretagna e, in modo diverso. Stati Uniti) o culturali (Germania).

4. E veniamo al "caso islam".
Diceva Biffi: "Gli islamici nella stragrande maggioranza e con qualche eccezione vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra 'umanità', individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più prezioso, di più 'laicamente irrinunciabile': (...) essi vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente 'diversi', in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro".
C'è qualcuno che, dati alla mano, può smentire questa affermazione?
Bisognerebbe guardare a cosa sta accadendo nel mondo per rendersi conto di quanto realistiche siano state le parole dell'arcivescovo di Bologna. Ad esempio, alcuni anni fa una serie di incidenti nelle periferie parigine dove gli immigrati islamici sono praticamente i padroni aveva fatto emergere con chiarezza il sentimento di quella comunità: "Non siamo islamici francesi, ma islamici in Francia", ripetevano con chiarezza i leader. Vale a dire: non abbiamo alcuna intenzione di integrarci, ma vogliamo che le leggi cambino a nostra misura.
Giustamente il cardinale Biffi fa notare che con questa impostazione ci si troverà ben presto davanti a laceranti battaglie (il giorno festivo, il diritto di famiglia, la concezione dello Stato e della giustizia).

E chi pensa che una pacifica convivenza possa essere possibile una volta che gli islamici raggiungano un numero significativo, dovrebbe guardare a ciò che sta avvenendo nelle Isole Molucche: la causa principale del massacro che va avanti da anni è il tentativo di islamizzazione di un arcipelago che a causa del passato coloniale fino a pochi anni fa era a maggioranza cristiana; è giusto ritenere che, anche in questo caso, molti dei musulmani arrivati nelle Molucche siano persone pacifiche alla sola ricerca di un terreno da coltivare, ma non si può ignorare che chi ha favorito tale migrazione aveva anche altro in mente.
Così quelli che nel gennaio '99 sono iniziati come scontri interetnici, si sono trasformati con l'arrivo dei volontari per la "guerra santa" in una vera e propria "pulizia etnica" a danno dei cristiani, costretti a fuggire e disperdersi in altre isole dell'Indonesia.
Un esempio troppo lontano? E allora guardiamo a cosa è successo in due Paesi più vicini, esempi di pacifica convivenza interreligiosa: in Libano la guerra è scoppiata a metà degli anni '70 come conseguenza dell'arrivo massiccio di profughi palestinesi (musulmani in stragrande maggioranza). Certamente c'erano motivi politici e militari per questo improvviso afflusso e per la successiva guerra civile, ma è un fatto che alla fine della guerra i cattolici che prima erano maggioranza si sono ritrovati in minoranza in un Paese che da indipendente è passato sotto tutela siriana.
Qualcosa di analogo è accaduto in Bosnia: anche se la comunità internazionale si è giustamente commossa per i musulmani brutalizzati dai serbi, anche qui è un fatto che alla fine della guerra la composizione etnica della Bosnia è cambiata a tutto danno dei cattolici, anche perchè i musulmani hanno potuto contare sull'aiuto economico e militare dei Paesi islamici (Arabia Saudita in testa).
E a proposito di Arabia Saudita non si può non accennare alla questione della reciprocità: come non ricordare che questo Paese ha finanziato pesantemente la costruzione della moschea di Roma mentre sul suo territorio non è permessa neanche una cappella cristiana o un segno di croce? L'Arabia Saudita è considerata luogo sacro dell'islam, si replica. Forse che Roma non è la capitale della cattolicità?
Non si vuole con questo promuovere crociate o creare discriminazioni. Ma uno Stato "laico" non può non porsi il problema di come garantire una pacifica convivenza per il per il bene di tutti e come evitare che il diritto di una miinoranza sia esercitato a danno della maggioranza.
5. Ma un ultimo punto va bene fissato, perchè è stato trascurato da tutti quanti hanno commentato gli interventi di Biffi: il compito dei cattolici. Di fronte agli immigrati, dice il cardinale, il primo compito è evangelizzare e riguarda ciascun cattolico. L'azione di assistenza sociale può coadiuvare questo compito, ma non lo può sostituire. Come cattolici siamo chiamati a testimoniare Cristo, non a fare gli assistenti sociali. Consentire perciò l' uso delle chiese per la preghiera islamica, tanto per fare un esempio, è un grave errore. Ecco perciò a cosa ci deve stimolare il doppio intervento del cardinale Biffi: a vivere maggiormente la fede e a testimoniarla a tutti. Altro che razzismo e intolleranza: una fede cattolica forte è antidoto a ogni futura violenza.
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08/12/2015 12:59
 
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Islam moderato?
Meglio parlare di tanti musulmani di buona volontà

Siamo stati contattati da un missionario cristiano che da anni vive nel Medio Oriente con il quale abbiamo avuto una piacevole conversazione. Lui stesso svolge la sua opera a stretto contatto con molti musulmani, che lo aiutano, lo sostengono e lo difendono. Tuttavia, ha rispettosamente avanzato dei dubbi sul fatto che esista, al di fuori del linguaggio giornalistico, un vero “Islam moderato” convincendoci del fatto che è giusto sforzarci per evitare ingiuste generalizzazioni ma sarebbe meglio parlare di tantissimi musulmani di buona volontà, che vivono intensamente la loro umanità e il loro senso religioso. Sono quelli che condannano apertamente gli attentati, quelli che difendono i cristiani, che li aiutano. Ma l’Islam in quanto religione ha effettivamente un problema strutturalecon il fondamentalismo e questo è dovuto ai contenuti stessi delle fonti su cui si basa, alle contraddizioni tra loro di queste fonti e alla mancanza di un’autorità unica e di una “successione apostolica” a garanzia della verità (anche di interpretazione).

Il missionario con cui abbiamo dialogato ha concordato con le parole usate dal Pontefice nella Lettera ai cristiani del Medio Oriente del 21 dicembre 2014, quando Francesco ha spronato i cristiani ad «aiutare i vostri concittadini musulmani a presentare con discernimento una più autentica immagine dell’Islam, come vogliono tanti di loro, i quali ripetono che l’Islam è una religione di pace e può accordarsi con il rispetto dei diritti umani e favorire la convivenza di tutti. Sarà un bene per loro e per l’intera società». Francesco ha giustamente preso atto che i musulmani vogliono definire l’Islam una religione di pace, invitandoli però a dimostrarlo nei fatti.

Ma qual è il rapporto tra Corano, rivelazioni di Maometto e l’Isis? Lo ha spiegato in modo chiarissimo Samīr Khalīl Samīr, gesuita egiziano, grande esperto di Islam nonché professore all’Université Saint Joseph di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale di Roma: «E’ una menzogna dire che l’Isis non c’entra niente con l’islam. Io posso capire chi dice così, perché intende dire che non si riconosce in quell’atteggiamento. Questo è vero, molti musulmani sostengono che quello non è il vero islam, che invece dovrebbe essere pacifico. Però, quando lo sento dire da qualche imam, la cosa diventa grave. Ciò che fa il cosiddetto Stato islamico, infatti, è sempre appoggiato in modo chiaro da un un giurista musulmano che afferma come il determinato atto sia conforme a un precetto dell’islam. E’ necessario, prima di tutto, domandarsi quali siano le fonti su cui si basano i musulmani, miliziani dell’Isis compresi. La prima di queste è il Corano, la seconda è la tradizione, che comprende i fatti della vita di Maometto e i suoi detti. Di raccolte di questo tipo ne esistono a migliaia e tra esse (compilate nei secoli IX e X) ve ne sono nove considerate autentiche. In queste raccoltetroviamo tutto ciò che è stato commesso dallo Stato islamico: o nel Corano o nella tradizione orale o nella vita di Maometto». Il grande problema è la contraddizione di queste fonti tra loro, cosicché «questi jihadisti fanatici hanno sempre al loro fianco un religioso, un imam o un dotto, che trova la giustificazione dei loro atti. a è vero e cosa è falso. Pure il Corano riconosce che vi sono contraddizioni».

Ma chi decide cosa è vero o cosa è falso?  Il Corano è diviso in versetti rivelati da Maometto alla Mecca (610-622) o a Medina (622-632) e quando vi è contraddizione tra i versetti si sceglie come valido quello più recente, cioè il “medinese”. I versetti della Mecca, «rivelati per primi, essendo Maometto di fronte a una forte opposizione al punto da fuggire ed emigrare, sono più “pacifici”. Alla Mecca doveva essere gentile e paziente, perché era all’inizio della predicazione. A Medina, invece, si era nel periodo guerriero. E’ qui che ha compiuto una sessantina di attacchi e razzie. E lo dice la tradizione islamica più autentica. I versetti più duri, quindi, sono quelli di Medina che abrogano i precedenti. Per un autentico musulmano, insomma, sono i versetti più violenti che hanno la meglio su quelli più pacifici. Questi sono i fatti ed è qui che nascono i problemi».

Una spiegazione che coincide con quella di Abdullahi Ahmed An-Na’im, docente di diritto negli Stati Uniti e studioso della religione islamica:«l’essenza della questione ruota attorno al fatto che i vertici dell’ISIS e i suoi sostenitori possono appoggiarsi, e non mancano certo di farlo, su unamoltitudine di fonti tratte dalle scritture e dalla storia per giustificare le proprie azioni»ha scritto«Le interpretazioni tradizionali della sharia, la legge islamica, appoggiano il jihad offensivo che mira a diffondere l’islam. Essi autorizzano l’esecuzione di prigionieri e la resa in schiavitù dei bambini e delle donne del campo avverso; gesti che Daesh non ha mancato di far subire agli Yazidi in Siria. Sono un musulmano, studioso e specialista di sharia, e affermo che la proclamazione di legittimità islamica di cui si ammanta Daesh non può essere contrastata, se non usando unainterpretazione alternativa della stessa legge islamica. Bisogna sapere che nessuna autorità può – qualunque sia il soggetto e il tema – stabilire o modificare la dottrina della sharia per gli altri musulmani. In questo campo non esiste nulla di vagamente simile al Vaticano, né all’infallibilità pontificia». 

Così «nessun musulmano può essere responsabile delle opinioni e delle azioni degli altri. Una conseguenza positiva di questa assenza di autorità religiosa consiste nel fatto di poter rimettere al centro e reinterpretare in modo diverso i principi della sharia. Al tempo stesso, vi è un rovescio della medaglia: qualunque musulmano può affermare qualcosa a proposito di sharia, nel caso in cui egli ottenga il consenso di una massa critica di fedeli». Anche Ahmed An-Na’im ha confermato la spiegazione del gesuita Samīr: «L’interpretazione retrograda e brutale che fa Daesh della shariatrova fondamento sul Corano di Medina, che insiste sul fatto che i musulmani devono sostenersi l’un l’altro e distinguersi dai non musulmani». Occorre dunque far prevalere come autentici i versetti pacifici rispetto a quelli violenti, senza ignorare «le alternative» nel Corano stesso «che potrebbero permettere di condannare lo SI come non islamico».

Seppur non simpatizziamo particolarmente per Magdi Allam, riteniamo vere le sue parole«Sulla base della mia esperienza di musulmano moderato per 56 anni, vi dico che il musulmano può essere moderato solo se antepone la ragione e il cuore ad Allah e Maometto. Ma tutti i musulmani che ottemperano letteralmente e integralmente a quanto Allah ha prescritto nel Corano e a quanto ha detto e ha fatto Maometto non possono essere moderati». Corrispondono all’esperienza di Ali Ahmad Sa’id, tra i maggiori poeti viventi siriani: «Nell’Islam esiste soltanto l’ortodossia dei sunniti che accettano soltanto una lettura letterale del Corano. Senza interpretazioni metaforiche o simboliche. Per questo non c’è spazio per arte e poesia tra gli ortodossi, c’è soltanto la giurisprudenza. La cultura del potere e della sua conservazione, a qualunque costo. L’Islam nasce proprio come religione di conquista. E, nelle conquiste, la violenza è inevitabile»«Non si può comprendere questo fenomeno se non si fa lo sforzo di ripensare la nascita dell’islam»ha spiegato in un’altra occasione. «La violenza è intrinsecamente legata alla nascita dell’islam, che sorge appunto come potere. Questa violenza ha accompagnato la fondazione del primo califfato e attinge a certi versetti coranici e ai primi commenti al Testo. Questa violenza è stata istituzionalizzata, ormai fa parte della forma statuale. Si aggiunga che i musulmani hanno agito fin dall’inizio da conquistatori. Il secolo che seguì alla morte di Maometto fu molto sanguinoso e la guerra arabo-araba, o la guerra musulmano-musulmana, non è mai finita. Basta leggere le opere sulla storia degli arabi».

La questione è complessa dunque e di non facile soluzione. Ci viene in mente però una delle tante differenze tra il cristianesimo e l’islam: mentre quest’ultimo per essere “accettabile” ha bisogno di un adattamento continuo al contesto del momento, facendo prevalere come autentici i versetti più adatti ai tempi, il messaggio evangelico e la figura di Cristo non soltanto sono sempre risultati misteriosamente attuali per qualunque epoca storica ma hanno letteralmente fondato i valori morali della civiltà umana, corrispondendo alle attese del cuore di ogni essere vivente, di qualunque religione. Tanto che gli stessi musulmani e gli esperti islamici, come quelli citati sopra, invitano l’Islam a “cristianizzarsi”, cioè a far prevalere il suo lato più umano. Questo mette alla prova l’autenticità divina delle due religioni: per usare le parole di Anthony Flew, l’ateo più famoso del mondo convertitosi al teismo nel 2005, «certamente la figura carismatica di Gesù è così speciale che è sensato prendere in seria considerazione l’annuncio che lo riguarda. Se Dio si è davvero rivelato è plausibile che lo abbia fatto con quel volto».


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