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LA VERGINITA' (di s.Gregorio di Nissa)

Ultimo Aggiornamento: 15/06/2014 18:22
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15/06/2014 18:18
 
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IX. E’ in genere difficile cambiare le proprie abitudini

Generalmente, contro l’abitudine non si può combattere: essa possiede in effetti una grande forza capace di attirare a sé l'anima umana e di presentarle una sembianza di bellezza alla quale l'anima stessa finisce con l'affezionarsi ed assuefarsi; nulla è per natura così repellente da non essere ritenuto desiderabile e preferibile in seguito all'assuefazione. La verità di ciò che dico è dimostrata dalla vita umana: fra tanti popoli, nessuno esercita le stesse occupazioni; al contrario, le cose belle ed onorate sono diverse da popolo a popolo, in quanto in ciascun popolo è proprio l'abitudine a fare di una cosa l'oggetto di un'occupazione e di un desiderio. Non solo presso i popoli si può constatare questa mutata disposizione nei confronti delle stesse occupazioni che sono da alcuni ammirate, e da altri vilipese: anche in una stessa città ed in una stessa famiglia si possono osservare grandi differenze tra i singoli componenti, dovute all'abitudine. I fratelli nati da un unico parto si differenziano per lo più nella vita per le loro occupazioni; ciò non deve destare meraviglia, giacché la stessa cosa non è giudicata allo stesso modo da tutti gli uomini: ciascuno fa dipendere i propri giudizi dalla propria disposizione d'animo determinata dalle abitudini. Per non parlare di cose troppo lontane dall'argomento del mio discorso, dirò che conosciamo molte persone che sembrano particolarmente amanti della temperanza nella loro prima giovinezza e che poi cominciano a condurre una vita corrotta quando si convincono che il godimento dei piaceri è legittimo e consentito. Per restare nel paragone da noi fatto del corso d'acqua, una volta che hanno provato i piaceri fanno volgere verso di essi tutta la loro facoltà concupiscibile: spostato l'impulso della loro intelligenza dalle cose più divine a quelle più vili e materiali, lasciano aperto un grande varco alle passioni, sulle quali si riversano tutti i loro desideri, mentre ogni spinta verso l'alto si esaurisce e s'inaridisce.
Per questo pensiamo che le persone più deboli facciano bene a rifugiarsi nella verginità come in una cittadella sicura, senza attirare su di sé le tentazioni scendendo nell'ingranaggio della vita e senza cadere prigionieri di coloro che, servendosi delle passioni carnali, «combattono la legge della nostra intelligenza»: in tal modo, si metteranno a pensare non ai confini dei terreni o alla perdita delle ricchezze o a qualcun'altra delle cose che vengono cercate in questa vita, ma a quella speranza che viene prima di tutto il resto. Chi rivolge il proprio pensiero a questo mondo, chi si preoccupa delle cose di quaggiù, chi passa il proprio tempo a piacere agli uomini, non può obbedire al primo e più grande comandamento del Signore, che prescrive di amare Dio con tutto il cuore e con tutta la forza. Come può infatti costui amare Dio con tutto il cuore, se divide il proprio cuore tra Dio ed il mondo, sottraendogli in un certo senso e lasciando consumare dalle passioni umane l'amore che solo a Lui è dovuto? «L'uomo non sposato si preoccupa infatti delle cose del Signore, l'uomo sposato di quelle del mondo». Se la battaglia contro i piaceri sembra dura, ci si faccia coraggio; va ricordato a tal proposito che l'abitudine non è di piccolo aiuto nel produrre mediante la perseveranza un nuovo piacere anche in quelli che sembrano i frangenti più difficili: si tratta del piacere più bello e più puro, di cui può degnamente cingersi l'uomo assennato, piuttosto che immeschinirsi nelle cose vili e perdere quei beni che sono veramente i più grandi e che «superano ogni intelligenza».

X. Qual è l'oggetto che si deve desiderare veramente

Quale discorso potrebbe mai descrivere il danno rappresentato dalla perdita della vera bellezza? A quali straordinari pensieri si dovrebbe far ricorso? Come si potrebbe far vedere e delineare ciò che è ineffabile per qualsiasi discorso ed incomprensibile per qualsiasi pensiero? Se l'occhio della mente si purificasse al punto da poter vedere in qualche modo ciò che il Signore annunzia nelle beatitudini, si giungerebbe a disconoscere ogni voce umana, come assolutamente incapace di presentare quest'oggetto di pensiero. Se invece ci si trova ancora in mezzo alle passioni materiali e se la disposizione passionale chiude come una cispa la facoltà visiva dell'anima, neanche in questo caso la potenza del discorso può servire; per chi è insensibile, è indifferente che il discorso diminuisca o esalti le meraviglie, così come nel caso del raggio solare colui che fin dalla nascita non è in grado di vedere la luce ritiene ozioso ed inutile qualsiasi discorso che tenti di spiegarla: non è possibile far brillare attraverso l'udito lo splendore del raggio. Analogamente, anche per quanto riguarda la luce intelligibile e vera, ciascuno ha bisogno dei propri occhi per poter contemplare questa bellezza: chi l'ha vista per effetto di una grazia ed ispirazione divina conserva nell'intimo della propria coscienza uno stupore inesprimibile; chi invece non l'ha vista, non può neppure rendersi conto del danno rappresentato da questa privazione. Come gli si potrebbe infatti presentare il bene che gli è sfuggito? Come gli si potrebbe porre sotto gli occhi l'inesprimibile? Non conosciamo parole capaci di esprimere questa bellezza, e fra gli esseri non esiste nessun esempio che possa dare un'idea di ciò che si cerca; parimenti impossibile è mostrarlo con un paragone. Chi potrebbe paragonare il sole ad una piccola scintilla o mettere una piccola goccia di fronte all'immensità degli abissi marini? Il rapporto che c'è tra la piccola goccia e gli abissi o tra la piccola scintilla e la grande luce del sole esiste anche tra tutte le cose che gli uomini ammirano come belle e quella bellezza che si contempla attorno al primo bene ed a ciò che è al di là di ogni bene.
Quale accorgimento potrebbe mostrare la gravità della perdita a chi la subisce? Mi sembra che il grande David abbia fatto capire bene quest'impossibilità: quando una volta il suo pensiero venne sollevato dalla potenza dello spirito ed egli, uscito come fuori di sé, vide nell'estasi beata quella bellezza straordinaria ed inconcepibile; quando, abbandonati i velami della carne e raggiunta con il solo pensiero la contemplazione delle realtà incorporee ed intelligibili, fu in grado di vedere quello che un uomo riesce a vedere; quando provò il desiderio di dire qualcosa che fosse degno della visione, allora profferì quella frase che tutti cantano: «Ogni uomo è un mentitore». Secondo me, essa significa che ogni uomo che voglia affidare alla voce la spiegazione di quella luce ineffabile è veramente un mentitore, non per odio della verità, ma per l'inefficacia del suo racconto. Ad ammirare, a percepire e a rendere note tutte le bellezze sensibili presenti nella nostra vita, appaiano esse con i loro bei colori o nella materia inanimata o nei corpi animati, basta la forza delle nostre facoltà sensitive: grazie alla descrizione fatta dalle parole, tale bellezza è riprodotta nel discorso come in un'immagine. Ma se il modello sfugge al pensiero, come può il discorso farlo vedere, non trovando alcun mezzo per descriverlo? Non può ricorrere a nessun colore, a nessuna forma, a nessuna grandezza, a nessuna simmetria di parti, e per dirla in breve a nessuna di queste vuote parole. Ciò che è assolutamente privo di forma e di aspetto e che si trova lontano, al di fuori di ogni quantità e di ciò che si contempla nei corpi e che ricade nel dominio dei sensi come può essere conosciuto tramite ciò che si percepisce soltanto con le sensazioni? Non bisogna però ripudiare questo desiderio solo perché il suo soddisfacimento sembra superiore alla nostra comprensione: al contrario, quanto più il nostro discorso mostra la grandezza dell’oggetto ambito, tanto più dobbiamo elevare il pensiero ed innalzarlo fino alla sublimità di ciò che cerchiamo, in modo da non essere esclusi del tutto dalla partecipazione al bene. Data la sua eccessiva altezza ed ineffabilità, è assai facile scivolare al di fuori della sua contemplazione, senza avere modo di appoggiare il pensiero a qualcuna delle cose conosciute.
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