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Della risurrezione dai morti (di Atenagora)

Ultimo Aggiornamento: 08/04/2014 15:26
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08/04/2014 15:26
 
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CAPO XXIV

Resta da esaminare l’argomento desunto dal fine. Come ogni essere, anche l’uomo deve avere un fine corrispondente alla sua natura, che non può essere né l’esenzione dal dolore né il godimento corporeo.

1. Esaminati come che sia gli argomenti proposti, resterebbe a studiare quello che si desume dal fine. Veramente esso già appare dalle cose dette, ma occorrerà prenderlo in esame aggiungendo solo quanto é necessario perché non sembri che abbiam trascurato di ricordare qualche punto di quelli enumerati poco innanzi, con pregiudizio della materia presa a trattare o della divisione posta da principio.



2. Per questa ragione dunque e per prevenire le altre obiezioni che si potrebbero fare, sarà bene aggiungere soltanto questa osservazione: che cioè e le cose risultanti da natura e quelle prodotte dall’arte debbono avere ciascuna un fine proprio. Ce l’insegna il senso comune di tutti, ce l’attesta quanto avviene sotto i nostri occhi.

3. Non vediamo infatti che altro è il fine che si propongono gli agricoltori, altro i medici; così pure, altro il fine dei viventi che nascono dalla terra, altro il fine degli animali che su di essa crescono e hanno origine per una serie naturale di generazioni ?

4. Che se ciò è evidente, e se alle forze della natura o dell’arte e alle rispettive operazioni deve di necessità corrispondere il fine ad esse connaturale, ne consegue assolutamente che anche il fine degli uomini, in quanto fine d’una natura propria e singolare, deve distinguersi dal fine comune degli altri esseri. Certo non sarebbe giusto assegnare il medesimo fine agli esseri privi del giudizio di ragione e a quelli che operano secondo una legge e una ragione innata in loro e son capaci di prudenza e di giustizia.

5. Fine proprio dell’uomo non può dunque essere l’esenzione dal dolore, ché questa gli sarebbe comune anche con gli esseri privi affatto di senso; e neppure il godimento di ciò che alimenta o diletta il corpo e l’abbondanza dei piaceri; se così fosse, alla vita delle bestie spetterebbe necessariamente il primato e la vita virtuosa non raggiungerebbe il suo fine. Questo è fine proprio, io penso, di greggi e di armenti, non di uomini dotati d’anima immortale e di discernimento ragionevole.

CAPO XXV

Nemmeno può essere fine ne dell’uomo la felicità dell’anima separata dal corpo, dovendo il fine riguardare tutto l’uomo. Il che esige la risurrezione, senza la quale non può ricostituirsi l’unità del composto umano interrotta dalla morte; solo tosi l’uomo può raggiungere il proprio fine, che è godere per sempre della contemplazione di Dio e dei suoi decreti.


1. Neppur è fine dell’uomo la felicità dell’anima separata dal corpo: ché, come si diceva, noi consideriamo la vita o il fine della vita non nell’una o nell’altra di queste parti di cui consta l’uomo, ma nel composto che risulta da entrambe; tale infatti è ogni uomo che ha sortito questa vita, e questa vita deve avere un fine suo proprio.

2. Che se il fine è del composto, e non pub aver luogo mentre le due parti dell’uomo vivono in questa vita, per le ragioni già dette più volte, né nella condizione dell’anima separata (poiché, quando il corpo sia disciolto o anche del tutto disperso, più non sussiste l’uomo come tale, sebbene l’anima continui ad esistere in se stessa), necessariamente il fine dell’uomo dovrà ravvisarsi in qualche altro stato del composto e del medesimo vivente.

3. Ammessa questa necessaria conseguenza, deve assolutamente esservi una resurrezione dei corpi morti o anche andati in pieno sfacelo e debbono ricomporsi i medesimi uomini; poiché il fine non è stabilito indeterminatamente né la legge di natura è fatta per gli uomini presi in astratto, ma proprio per quelli stessi che vissero nella vita precedente. Tl ricomporsi poi dei medesimi uomini è impossibile, se non vengono restituiti i medesimi corpi alle medesime anime; d’altra parte è impossibile che il medesimo corpo riceva di nuovo la medesima anima se non mediante la risurrezione; avvenuta questa, si raggiunge pure il fine corrispondente alla natura dell’uomo.

4. Fine poi d’una vita capace di prudenza e di discernimento razionale si potrà giustamente definire il rimanere in eterno indissolubilmente unito a ciò a cui la ragione naturale s’accorda come suo primo e supremo oggetto, l’esultare cioè incessantemente nella contemplazione del Datore e dei suoi decreti; sebbene i più degli uomini, per l’attaccamento troppo forte e passionale alle cose di quaggiù, non raggiungano questo fine.

5. Poiché non vale la moltitudine di coloro che falliscono il fine loro conveniente a rendere vano il destino comune: ciascun uomo sarà esaminato a questo riguardo e a ciascuno sarà commisurato il premio o la pena meritata con la vita buona o cattiva.
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