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Vita di Mosè (di Gregorio Nisseno)

Ultimo Aggiornamento: 07/04/2014 19:15
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07/04/2014 18:58
 
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NASCITA SPIRITUALE


Possiamo imitare la nascita di Mosè

Dato che Mosè venne alla luce quando una legge dispotica imponeva l’uccisione di ogni neonato ma­schio, vediamo in che senso anche noi, con le libe­re scelte della nostra volontà, possiamo imitare quel­la sua fortunosa nascita.
Subito qualcuno obietterà vivacemente che è una pretesa assurda volerci rendere somiglianti a lui an­che nel modo di nascere. Ma non abbiamo difficol­tà a prendere le mosse delle nostre riflessioni da questo aspetto alquanto difficile della imitazione di Mosè.

La libera volontà è il principio di questa nascita

Nessuno ignora che ogni essere soggetto per na­tura a mutamenti, non rimane mai identico a sé stesso, ma passa continuamente da una condizione all’altra, divenendo migliore o peggiore in conse­guenza di tali cambiamenti. È questa una costata­zione fondamentale per le nostre riflessioni. Se in­fatti il tiranno egiziano lascia in vita le femmine, ciò fa perché il sesso femminile gli torna gradito, in­carnando esso un’attrattiva fisica capace di destare passioni violente, alle quali la natura umana cede con facilità. Invece il sesso maschile, dalle caratte­ristiche più austere e affini con la virtù, viene trat­tato dal tiranno come nemico, per il sospetto che possa un giorno insidiare il suo potere.
Ogni cosa soggetta a mutamenti deve in certo modo essere generata di continuo. Nelle sostanze mutevoli nulla può restare identico a sé stesso. Ma il particolare tipo di generazione al quale noi ci ri­feriamo, non ha origine da cause esterne, come ca­pita nella generazione corporale di una nuova crea­tura. Il suo frutto proviene invece da un atto li­bero della volontà. Noi siamo perciò in certo senso padri di noi stessi, potendoci generare quali ci vo­gliamo e darci liberamente il volto che desideriamo o di maschio o di femmina, secondo che ci siamo lasciati guidare dalla virtù o dal vizio.
È certamente possibile anche a noi, contro il volere e con dispiacere del nostro tiranno, giunge­re a nascere spiritualmente e ottenere che i genitori di così bella creatura (essi sono i buoni movimenti dell’animo) possano ammirarla e mantenerla in vi­ta, nonostante l’opposizione del tiranno.
Affinché ognuno, prendendo le mosse dai fatti della storia, ne possa cogliere meglio il significato recondito, vogliamo dire quale insegnamento ci dà qui la Scrittura. Essa ci dice che l’inizio della no­stra vita spirituale coincide con una nascita che re­ca dolore al nostro nemico. Questa nascita è porta­ta a buon fine dalla nostra volontà. Ma se uno non mostrasse sopra di sé i segni visibili della vittoria sull’avversario, come potrebbe riuscire a rattri­stano?
È compito esclusivo della libertà generare quel­la forte creatura che è la virtù, nutrirla con alimen­ti adatti e provvedere che venga salvata dalle acque senza che abbia a subire danni10.
Coloro che consegnano i loro figli al tiranno, li espongono nudi e senza protezione alla corrente del fiume. Chiamo fiume la vita che è agitata dalle on­de incessanti delle passioni; esse sommergono e tra­volgono chiunque venga immerso nelle sue acque.


I vantaggi di una solida formazione

Ma le provvide e sagge disposizioni dell’animo, che sono padri di creature, virili, mettono al sicuro i loro figli dentro un cesto, allorché le necessità del­la vita le costringono ad abbandonarli alle onde. Otterranno così che, nonostante la furia delle ac­que, i loro figli non finiscano affogati. Il cesto che è formato dall’intreccio di molti giunchi rappresen­ta l’opera educativa, costituita da varie discipline e capace di tenere a galla sopra le onde chiunque a essa si affida.
La nuova creatura di cui siamo i padri, una vol­ta messa al sicuro nel canestro di una solida forma­zione, non verrà trascinata per molto tempo alla ventura in balia di onde impetuose, ma sotto la lo­ro stessa spinta, sarà automaticamente sbalzata dal pelago della vita sopra il terreno solido del litorale.
L’esperienza ci insegna che le persone capaci di non lasciarsi sommergere dalle umane illusioni, rie­scono a tenersi lontane dalle vicende tumultuose della vita, come se queste, nel loro incessante mo­vimento, trattino come peso inutile quelli che a es­se si oppongono con la loro virtù.


I limiti della cultura profana

La figlia del Faraone, che era sterile e senza figli (in lei vedo simboleggiata la cultura pagana) fa cre­dere che il ragazzo sia suo per poter essere chiama­ta madre11. Egli acconsente che duri quel fittizio legame fin quando non abbia superato l’età della fanciullezza.
Una volta arrivato all’età adulta, sappiamo che Mosè considera una vergogna essere chiamato figlio di una donna sterile. Veramente la cultura profana è sterile, perché quando ha concepito, non porta a compimento il parto. Quali sono i frutti derivati dalle dottrine che la filosofia pagana ha concepito in gran numero e a prezzo di tante fatiche?
Anche se tali dottrine non sempre sono del tutto vane e informi, succede che abortiscano prima di giungere alla luce della conoscenza di Dio. Potrebbero divenire creature virili, ma nascoste come sono nel grembo di una sterile saggezza, esse finiscono per morire.
Mosè dunque ritorna vicino alla vera sua madre, dopo aver trascorso presso la regina degli Egiziani un periodo di tempo sufficiente a mostrare che era stato educato in mezzo a splendori regali. In realtà non restò mai del tutto separato dalla madre nep­pure quando rimase presso la regina, perché fu pro­prio sua madre che lo allattò.

Non trascurare il cibo della fede

A mio parere qui ci viene insegnato che non dobbiamo lasciare il latte della Chiesa, nostra ma­dre, quando nel periodo della formazione fossimo costretti a familiarizzare con dottrine estranee alla fede12.
Le leggi e gli usi della Chiesa rappresentano il latte che nutre le nostre anime e le irrobustisce, fa­vorendone la crescita.
Mosè ci viene presentato in seguito dal testo bi­blico in mezzo a due nemici, che simboleggiano l’u­no il complesso delle dottrine profane, l’altro l’inse­gnamento tradizionale.
C’è realmente un contrasto tra la religione ebrai­ca e quella delle altre popolazioni, ed esse si batto­no per avere la preminenza. Certe persone superficiali, lasciandosi persuade­re, abbandonano la fede per allearsi con i suoi ne­mici e tradire così la dottrina dei loro padri13.
Ma chi possiede un animo grande e coraggioso come l’aveva Mosè, procura la morte a quanti si op­pongono alla dottrina della fede.

Il dissidio interiore dell’uomo

Altri danno una diversa spiegazione di questo passo, dicendo che tale lotta tra nemici si svolge dentro di noi. L’uomo infatti si trova in mezzo a due conten­denti, a uno dei quali può procurare la vittoria sul­l’avversario, se egli si mette dalla sua parte. Ido­latria e vera religione, intemperanza e modera­zione, giustizia e ingiustizia e ogni altra realtà mo­rale in reciproca opposizione, riproducono in noi la lite tra l’egiziano e l’ebreo.
Mosè ci insegna con il suo esempio a farci allea­ti della virtù, sopprimendo chiunque a essa si op­ponga. In realtà la vittoria della vera religione si­gnifica morte e distruzione dell’idolatria. Parimen­ti l’ingiustizia viene eliminata dalla giustizia e la su­perbia uccisa dall’umiltà.

Contrasto tra dottrina ortodossa ed eresia

In noi si ripete anche la lite tra i due connazio­nali ebrei. L’eresia infatti non troverebbe modo di affermarsi, se non si svolgesse dentro di noi una lotta serrata tra le vere e le false dottrine.
Quando, per il malefico influsso della cattiva condotta sui principi della verità, noi ci sentissimo deboli di fronte al dovere di difendere la sana dot­trina, converrà che cerchiamo rifugio nell’adesione ai più alti misteri della fede, come ci viene indicato dall’esempio di Mosè.

Piena adesione alla fede

Che se per necessità fossimo costretti a ritorna­re in mezzo agli stranieri, cioè a trattare con perso­ne i cui principi sono contrari alla fede, questo pos­siamo farlo, purché anche noi allontaniamo i catti­vi pastori dall’uso illegittimo dei pozzi. In altre pa­role, noi dobbiamo confutare i maestri del male, che cercano di sfruttare la loro missione di inse­gnamento.
Vivremo allora in disparte14, non più occupati a fare da pacieri tra persone litigiose, ma in mezzo a gente pacifica, che si trova in pieno accordo con i nostri pastori.
Ne conseguirà che anche i moti dell’anima reste­ranno sottomessi, come docili pecorelle, ai coman­di dello spirito che li presiede15.
Mentre godiamo tale sosta di pace e di tranquil­lità, risplenderà su noi il sole della verità, che illu­mina con i suoi raggi gli occhi delle nostre anime.
Questa verità è Dio, manifestatosi a Mosè nella soprannaturale e ineffabile rivelazione, di cui ab­biamo parlato.

La virtù è la condizione per la conoscenza del Dio incarnato

Non dobbiamo trascurare, in relazione all’ogget­to della nostra ricerca, il fatto che l’anima del Pro­feta venga rischiarata dalla luce proveniente da un cespuglio.
Se Dio è verità e la verità è luce, termini questi che il Vangelo applica al Dio incarnato (Gv 1,2), so­lo la strada della virtù ci conduce alla conoscenza di quella luce divina che si è manifestata in una na­tura umana. Essa non brilla a noi da un astro del cielo, per farci credere che emana da una materia celeste, ma da un cespuglio della terra, con una for­za d’irradiazione superiore a quella degli astri del cielo.
In questa luce emanante dal cespuglio, noi scor­giamo il mistero della Vergine, dal cui parto sorse sul mondo la luce di Dio. Questa lasciò intatto il cespuglio da cui proveniva, così che il parto non ina­ridì il fiore della verginità di lei.


La conoscenza del vero Essere

La luce del cespuglio ci insegna che anche noi dobbiamo restare esposti ai raggi della vera luce.
Sulla cima ove splende la luce della verità, non si può salire con l’anima avvolta da quelle pelli di animali morti di cui fu rivestita all’inizio la nostra natura, quando ci trovammo denudati per aver di­sobbedito al comando divino16.
Solo se avremo tolto questi indumenti, fatti di cose morte, la verità ci si svelerà e ci rischiarerà. Conoscere l’Essere significa liberarsi da tutte le co­gnizioni che hanno riferimento a ciò che non è. La falsità è l’idea di una cosa che non esiste, ma si suppone esistente, mentre la verità è conoscenza certa di ciò che realmente esiste.
Dopo aver riflettuto a lungo e con tranquillità su problemi così ardui, nessuno riuscirà facilmente a comprendere che cosa realmente è l’Essere, che ha come prima sua proprietà quella di esistere e che cosa invece è il non essere il quale, possedendo una natura contingente, si riduce a una parvenza di es­sere.
Mosè nella divina visione, venne a sapere e rico­noscere che nessuna delle nostre conoscenze sensi­bili e nessuna delle idee della nostra mente ha una reale esistenza. Questa è posseduta invece in modo esclusivo da quella sostanza a tutte superiore che è causa del tutto e dalla quale tutto dipende.
Se fissiamo il nostro pensiero sugli altri esseri esistenti, in nessuno di loro noi possiamo scoprire quella emancipazione da legami con altri esseri che renda loro possibile esistere senza possedere l’esse­re per partecipazione.
Quale sarà allora l’Essere per essenza? Esso sa­rà l’Essere sempre identico a se stesso, quello che non cresce e non diminuisce, non cambia in peggio o in meglio (infatti non contiene nessun male e non c’è un altro bene che possa superano), non abbiso­gna di nessun altro.
Sarà questo l’Essere unicamente desidèrabile, dal quale ogni cosa prende esistenza, ma che non si col­loca al livello degli altri esseri, che hanno una esi­stenza partecipata. Conoscere questo Essere equivale a conoscere la verità.
Mosè si avvicinò a lui. Anche chi vuole imitarne l’esempio deve prima liberarsi dal peso delle cose terrene e mirare poi alla luce che esce dal roveto, simbolo questo della carne che manda su noi i suoi raggi quale luce di verità, come dice il Vangelo (Gv 1, 9).
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