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L’esperienza del Trascendente alla luce della psicoterapia

Ultimo Aggiornamento: 01/07/2018 22:05
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16/09/2013 22:36
 
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Cos’è la Neuroetica?
Come è stato recentemente spiegato, seppur brevemente, nell’editoriale della rivista Studia Bioethica (vol. 5, n. 3, 2012): «L’applicazione sempre più rapida ed immediata all’uomo delle scoperte neuroscientifiche, frutto dell’abbondante ricerca che mira a decifrare i misteri del cervello e della mente umana, ha fatto sorgere nell’opinione pubblica sentimenti spessoantitetici. In quasi tutti i contesti socio-culturali, il suffisso “neuro” sta trovando largo impiego e successo per le finalità più svariate: dal vendere al convincere. Si parla già di neuro-mania, neuro-fobia e di neuro-filia. Le immagini di risonanza magnetica fanno già parte della cultura d’ogni giorno: termini come PET (tomografia ad emissione di positroni) o risonanza magnetica funzionale (fRMN) sono parte integrante della nostra memoria, li abbiamo uditi ed ascoltati ripetutamente per radio, in televisione, li abbiamo letti su Internet nelle circostanze più disparate. In questo contesto è sorta la pseudo-disciplina denominata neuroetica o neurobioetica che ha “festeggiato” in quest’anno 2012, il suo decimo anniversario dalla “nascita”…  Nonostante il concetto neuroetica fosse già ventilato in diversi ambiti del sapere, la “paternità” del neologismo viene attribuita storicamente alla prima definizione “canonica” risalente al maggio 2002. In questa data, a San Francisco (USA), si tenne il primo congresso mondiale di esperti intitolato: “Neuroethics: mapping the field”. In tale contesto, William Safire, politologo del New York Times recentemente scomparso, suggerì la seguente definizione contemporanea di neuroetica definendola: quella parte della bioetica che si interessa di stabilire ciò che è lecito, cioè, ciò che si può fare, rispetto alla terapia e al miglioramento delle funzioni cerebrali, così come si interessa di valutare le diverse forme di interventi e manipolazioni, spesso preoccupanti, compiuti sul cervello umano» (A. Carrara, 2013).

 

I dati della ricerca neuroscientifica sull’esperienza religiosa e mistica
Sulla scia dell’interessante e ben documentato libro del neuroscienziato spagnolo Rubia del 2003 intitolato: La conexión divina. La experiencia mística y la neurobiología (La connessione divina. L’esperienza mistica e la neurobiologia; F. J. Rubia, 2003), non dovrebbe destare clamore il recente articolo uscito sul quotidiano italiano Repubblica del 26 giugno scorso, firmato da due autorevoli professionisti: Giorgio Vallortigara e Vittorio Girotto, nel quale si afferma: «L’ipotesi che si è fatta strada in questi anni tra scienziati cognitivi e neuroscienziati è che l’architettura naturale della mente umana farebbe sì che nell’usuale ambiente in cui cresce un bambino, la credenza in un Dio creatore sia destinata a emergere in modo del tutto spontaneo, anche se le forme attraverso cui si manifesta possono variare con le circostanze socio-culturali. Gli esperimenti condotti dagli scienziati cognitivi suggeriscono che i bambini trovano del tutto naturale, indipendentemente dall’opinione degli adulti che stanno loro intorno, l’idea di un creatore non-umano del mondo, un creatore che possiederebbe super-poteri, super-conoscenza, super-percezione (Barrett, 2004). Le credenze religiose e nel sovrannaturale poggerebbero perciò su caratteristiche naturali della mente umana (Bering, 2011)» (G. Vallortigara, V. Girotto, 2013). Tutta l’argomentazione dell’articolo si basa su studi di psicologia cognitiva di una ben specifica tendenza. Si parla di “architettura cognitiva” senza specificare le aree o circuiti cerebrali sottostanti; si utilizzano termini abbastanza ambigui come “rappresentazione neurologicamente distinta”, etc., vengono omesse le più recenti acquisizioni di pscicologia e psicoterapia relative al “Trascendente”.

Gli studi sulla neurobiologia dell’esperienza religiosa e mistica partono da un presupposto antropologico e neuroscientifico abbastanza evidente per chi sostenga una posizione unitaria e unitiva (dal punto di vista ontologico-sostanziale) dell’essere umano e cioè: l’esperienza religiosa è supportata dal cervello, come tutte le esperienze umane («Religious experience is brain-based, like all human experience») (L. Saver, J. Rabin, 1997). “Supportata da” o più letteralmente “basata su” o “fondata su”, espressioni tutte che traducono l’inglese “brain-based”, non significano assolutamente un riduzionismo “stretto” come vorrebbero alcuni. Le evidenze del gruppo di ricerca del UCLA-Reed Neurologic Research Center (USA), ad esempio, riportarono, già sin dal 1997, un dato importante: dagli studi addotti, pare che le regioni temporo-limbiche costituiscano probabili sostrati neurali (neural substrates) dell’esperienza religiosa-numinosa (per intendersi, quella che Rudolf Otto definisce: l’esperienza del numinoso, del “tremendum et fascinans”); infatti, il sistema temporo-limbico è coinvolto nell’integrazione di stimoli tanto esterni, come interni, oltre che essere coinvolto nei cambiamenti dell’umore e, in sostanza, nell’attività emozionale (emotiva) umana (L. Saver, J. Rabin, 1997).

Nulla di strano, allora, se durante un’intensa preghiera o meditazione, che ovviamente coinvolge tutta la persona umana e, perciò, anche e, soprattutto, la sua emotività, le zone cerebrali limbiche si attivano e vengono coinvolte in modo preponderante. Ciò non significa, nel modo più categorico, che queste aree cerebrali siano la causa o siano le responsabilidell’insorgere dell’esperienza stessa. A gettare acqua sul fuoco sugli stessi studi neuroscientifici sull’esperienza mistica poc’anzi menzionati, fu Kozart che, in una lettera pubblicata su un volume successivo dello stesso Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neuroscience titolava:«L’esperienza religiosa non è stata correttamente definita» (M. Kozart, 1998).

 

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