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Eunuchi per il regno dei cieli

Ultimo Aggiornamento: 06/02/2021 12:15
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07/06/2010 18:39
 
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I SACERDOTI SONO SCELTI TRA COLORO CHE SCELGONO IL CELIBATO

Non è una imposizione ma una scelta che alcuni fanno sentendosi chiamati ad una vita indivisa e senza distrazioni secondo quanto espresso da s. Paolo in 1Cor 7,32 ss. La Chiesa ha deliberato di scegliere tra loro, gli incaricati a svolgere il ministero sacerdotale per una totale dedizione alle comunità a cui sono assegnati.

Per la Chiesa il celibato esiste dai tempi apostolici

di Vittorio Messori

La vastità e la precisione della informazione di Sergio Romano, sui temi più vari, sono spesso ammirevoli, in ogni caso sempre meritevoli di lettura attenta. Tuttavia, come è logico, può capitare una svista, soprattutto nel campo intricato della storia ecclesiastica, dove inciampano anche studiosi cattolici. Così, nella risposta a un lettore sul Corriere del 2 giugno, Romano scrive che il celibato per i sacerdoti cattolici  sarebbe “diventato obbligatorio, quanto meno in teoria, col Concilio del 1139“.  In realtà, in quell’anno si tenne il secondo Concilio Lateranense, il quale stabilì che eventuali matrimoni contratti da sacerdoti o anche da laici consacrati con voto di castità, non erano solamente illeciti ma anche invalidi. Commenta il cardinal Alfons Stickler, storico di straordinaria erudizione, per una vita intera Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa e autore di un’opera considerata definitiva: “Questa disposizione conciliare ha creato un convincimento ancor oggi diffuso: e, cioè, che il celibato ecclesiastico sarebbe stato introdotto soltanto allora. In realtà si è reso invalido ciò che da sempre era illecito. Dunque, questa sanzione è piuttosto una ennesima conferma di un obbligo esistente ab immemorabili“. Stickler, defunto da pochi anni, inizia le sole settanta, ma fittissime, pagine del suo libro, (Il celibato ecclesiastico. Storia e fondamenti, Libreria Editrice Vaticana) precisando: “Siamo abituati a parlare di celibato, cioè di rinuncia al matrimonio da parte dei candidati al sacerdozio. In realtà, bisognerebbe usare il termine più ampio di continenza“. La continenza, cioè, da osservare non solo rinunciando al matrimonio, ma anche non usando di esso se già sposati. In effetti, nella Chiesa antica, la maggioranza del clero era composta di uomini maturi -i viri probati- che, col consenso della moglie, accedevano agli Ordini Sacri lasciando la famiglia, alle cui necessità materiali provvedeva la comunità dei credenti.

Ebbene, capita spesso di leggere, anche in autori seri, che l’obbligo di questo abbandono della consorte, con l’impegno conseguente della continenza perfetta, sarebbe stato deciso solo verso il 300 al Concilio, o meglio sinodo, di Elvira, in Spagna .

Altri, come Romano (lo abbiamo visto) datano quell’obbligo addirittura al 1139.

Ebbene, nel canone 33 degli atti di Elvira si legge: “I Padri sinodali sono d’accordo sul divieto completo, per tutti i chierici impegnati nel servizio dell’altare, di astenersi dalle loro mogli e non generare figli. Chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale“. Commenta Stickler: “Non si tratta, come si vede, di una disposizione nuova. E’, invece, la reazione contro l’inosservanza di un obbligo tradizionale ben noto e al quale si unisce ora anche la sanzione“.

Che ad Elvira si sia ribadita soltanto l’ininterrotta Tradizione e non imposta una novità di straordinario peso, lo dimostrano anche gli Atti di altre moltissime assemblee di vescovi. A esempio, il Concilio di Cartagine (anno  390), dove all’unanimità si ribadì l’obbligo del celibato o della continenza “per custodire“ è scritto “ciò che hanno insegnato gli Apostoli e che tutto il passato ha sempre conservato“. Alle decisioni conciliari è possibile aggiungere la testimonianza dei maggiori Padri della Chiesa, da Ambrogio a Girolamo, da Agostino a Gregorio Magno: tutti ribadiscono che la castità per i sacerdoti risale ai tempi apostolici, dunque agli inizi stessi del cristianesimo.

Ma, per passare ora alle Chiese orientali, soprattutto greco-slave, citiamo ancora il cardinal Stickler: “Di fronte a un atteggiamento ritenuto più liberale da parte di queste comunità, si è mosso il rimprovero alla Chiesa cattolica di essere divenuta troppo severa nella sua disciplina celibataria“. In effetti, tra gli ortodossi solo i vescovi debbono preservare la verginità se, come avviene assai spesso, vengono dai monasteri o debbono vivere la continenza assoluta se erano già sposati. I preti “semplici“, i pope parrocchiali, possono usare del matrimonio, purché sia il primo e l’unico e sia stato contratto prima dell’ordinazione. Ma in realtà, sino alla fine del VII secolo non fu affatto così e nella Chiesa indivisa valsero sia a Oriente che ad Occidente le stesse regole restrittive sul sesso, nella convinzione unanime che    derivassero dalla Tradizione apostolica. Il Concilio di Nicea, tra l’altro, nel 325 ribadì   il divieto per tutti i chierici di tenere in casa donne che non fossero madri e sorelle ed è un falso la protesta isolata  di un vescovo egiziano. Ma l’obbligo del celibato o della continenza esigeva un’autorità che esercitasse un controllo costante e rigoroso, cosa che all’Oriente spesso mancava. Di fronte, poi, al dilagare degli abusi, gli imperatori di Bisanzio, che si erano arrogata autorità nelle questioni ecclesiali, scelsero la via meno faticosa per il potere politico, tollerando e difendendo quegli abusi. Stickler: “Mentre almeno per i vescovi si riuscì a mantenere l’antica tradizione restrittiva, l’abuso  sempre più invalso del matrimonio tra il clero inferiore venne giudicato non più arrestabile“. Ci si arrese alla situazione di fatto nel secondo Concilio Trullano, convocato nel 691, non a caso nel palazzo imperiale di Costantinopoli. La Chiesa, impotente davanti al Basileus, scelse il male minore. Ma ancor oggi, in Oriente, non mancano autorevoli uomini di Chiesa che vorrebbero tornare indietro, alla situazione dei primi sette secoli e che la Catholica romana è riuscita a preservare. Tra l’altro, è infondata la convinzione che l’abolizione del celibato aumenterebbe i candidati al sacerdozio: il matrimonio non ha impedito l’inarrestabile crisi numerica di pope ortodossi, pastori protestanti, rabbini ebraici. Né una moglie anche per i preti cattolici contrasterebbe gli abusi sessuali sui minori: in America (ma la situazione è analoga in Europa) oltre l’ottanta per cento dei casi denunciati riguarda casi di  omosessualità. Non si vede a che potrebbe servire una sposa a un pederasta, seppur consacrato. 

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12/07/2013 14:14
 
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Già dai primi secoli cristiani molti hanno fatto tesoro delle seguenti indicazioni date da Cristo e da s.Paolo:

Mat 19,12 Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».
Luca 18,29 Ed egli rispose: «In verità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà»

1Cor 7,7 Vorrei che tutti fossero come me (celibe); ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro.
1Cor 7,32 Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; 33 chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, 34 e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
35 Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni.

[Modificato da Credente 12/07/2013 18:08]
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12/07/2013 19:29
 
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Il celibato venne introdotto nel rito latino,  lo dicono espressamente i documenti dell’epoca, per semplice opportunità, in una situazione assai difficile per la chiesa occidentale.
Il Concilio Vaticano II nella Presbyterorum Ordinis riafferma l’opportunità (nota, opportunità e non necessità) di conservare l’obbligo del celibato
I padri del Concilio Vaticano II , nella Presbyterorum Ordinis, hanno affrontato anche questo aspetto della missione sacerdotale. La parte del documento  è al numero 16 del suddetto documento.
 “La perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore (Cfr. Mt 19, 12), nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni volentieri abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale. È infatti segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, e fonte speciale di fecondità spirituale nel mondo (Lumen Gentium, n 42). Certamente essa non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente dalla prassi della chiesa primitiva (1 Tm 3, 2-5; Tit 1, 6) e dalla tradizione delle chiese orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia di osservare il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati: ma questo sacrosanto sinodo, nel raccomandare il celibato ecclesiastico, non intende tuttavia mutare quella disciplina diversa che è legittimamente in vigore nelle chiese orientali, anzi esorta amorevolmente tutti coloro che hanno ricevuto il presbiterato quando erano allo stato matrimoniale, a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato.”

Dal punto di vista storico,  nel tempo apostolico sia presbiteri che vescovi potevano essere scelti tra le persone sposate. La continenza non era  la norma per nessuno, anche se già Paolo la considera come utile nella prima lettera ai corinzi.
 Persone che seguissero invece Cristo nella professione spontanea.ei consigli evangelici di povertà castità e obbedienza iniziarono ad esserci già ai tempi di s.Gerolamo, che lodava molto lo stato di castità. Vi erano anche alcune donne, che pur condividendo in tutto la vita degli altri fedeli, facevano di fronte al vescovo voto di restare vergini a vita. 
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12/07/2013 19:34
 
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Alcuni muovono queste obiezioni:
Pietro era anch’egli sposato (Mt 8,14); i ministri della Chiesa primitiva erano sposati (1Tm 3,2-5). Durante i primi mille anni del cristianesimo i preti e i vescovi potevano sposarsi. Infatti Tertulliano ricevette il sacerdozio quando ancora già era sposato. Dedica due suoi scritti alla moglie (anni 200 circa). Il Concilio di Nicea (325) respinse la richiesta di interdire il matrimonio dei preti, e il papa che regnava in quel tempo, Silvestro I (314), ordinò che ogni prete avesse la propria moglie.

Fu Papa Gregorio VII (1073-1085) che decretò di scegliere i sacerdoti tra i non sposati. Paolo VI (24/06/1967) ha riconfermato tale imposizione, ma la reazione che ne è seguita è talmente imponente da far prevedere qualche addolcimento di tali posizioni. E’ stata molto forte la reazione dell’episcopato olandese che in un documento afferma doversi trovare una via d’uscita alla situazione attuale, tanto per il benessere personale di numerosi preti che per l’avvenire del sacerdozio nella Chiesa.

SI risponde:

L’argomento del celibato ecclesiastico è molto importante e ci sforzeremo di essere chiari e precisi.
Con decreto della S. Congregazione dei Sacramenti (27 dicembre 1930) ogni candidato al sacerdozio è tenuto con giuramento ad attestare per iscritto che si astringe agli obblighi del celibato ecclesiastico con piena consapevolezza.
Le ottime ragioni degli sforzi dei Papi perché il celibato si affermasse non sono quelle male intraviste dal Montesquien, quando affermava che “altrimenti la loro potenza non sarebbe mai salita così in alto e non sarebbe mai stata duratura, se ogni prete avesse avuto a cuore una famiglia” (Riflessioni e pensieri inediti, Torino 1943), ma quelle addotte dall’Apostolo Paolo.
Il sacerdote è costituito per gli uomini in ciò che si riferisce a Dio, al fine di offrire doni e sacrifici, e solo il celibato permette il perfetto e totale compimento di tali doveri. Dovendo proseguire l’opera del Redentore il ministro sacro ha bisogno di libertà da preoccupazioni d’indole familiare.
L’individuo, nel sacerdote deve scomparire di fronte ai bisogni materiali e spirituali di tutta la famiglia umana, altrimenti rischia di diventare un professionista qualsiasi.
Il ministero sacerdotale, e in particolare la direzione delle coscienze, esige illimitata fiducia verso chi l’esercita e questa difficilmente l’ottiene il sacerdote che vive in compagnia di una donna che partecipa delle sue confidenze.
Le obiezioni contro il celibato non provengono tanto dalla nobiltà del suo programma, quanto dalla supposta impossibilità del suo esercizio.
La castità,  e la pretesa di dominare l’istinto si dice che siano impossibili.  
Questo errore la Chiesa l’ha condannato nel Concilio di Trento (sess. XXIV, can 9). La custodia della castità è compito della Grazia e la Chiesa non ha mai preteso che la natura possa trionfare dei suoi istinti abbandonata alle sole sue forze. Se, per casi particolari, abitudini inveterate e tare ereditarie assegnano alla virtù compiti quasi sovrumani, si tratta di esseri anormali, per i quali il sacerdozio non è indicato. La tesi poi che vuol presentare la castità come nociva alle esigenze dell’igiene e causa di nevrastenia è stata nettamente esclusa da fisiologi eminenti, che hanno dimostrato la perfetta compatibilità dell’astinenza di soddisfazioni sessuali con le leggi fisiologiche e morali. Dove si da il caso di nevrosi questo effetto è prodotto solamente in tipi dall’istinto genesiaco anormale.

La libellistica comune ama insistere sul fatto: la vita privata del prete non è e non è stata mai casta e in disordini nascosti egli cerca ciò che gli è pubblicamente interdetto. Ma gli scandali presenti e passati non costituiscono il passato né il presente della Chiesa. La prospettiva di insieme è molto più luminosa e al di là delle zone d’ombra essa può mostrare la sua realtà formata da santi ed eroi.
Oltre al celibato ecclesiastico esiste nella Chiesa, ed è sempre esistito, il celibato scelto dai laici liberamente e direttamente “per il regno dei cieli” (Mt 19,12), cioè per il motivo superiore dell’amore verso Dio e dell’apostolato.
Questa pubblica professione di vita perfetta e generosamente votata agli interessi di Dio, diventò così frequente nella varie Chiese, che coloro che la praticavano cominciarono a comparire in mezzo alla società come una classe a parte.
La storia, poi, ha dimostrato con un’evidenza di giorno in giorno maggiore l’aiuto molteplice e efficace, che i laici celibi possono recare alla Chiesa e alle anime mediante l’esempio vivente e il contatto immediato di una vita perfettamente consacrata alla santificazione, attuandola nei casi in cui la vita religiosa canonica è impossibile o poco adatta, esercitando l’apostolato in molteplici maniere e compiendo funzioni che il luogo, il tempo, le circostanze proibiscono o rendono impraticabili ai sacerdoti e ai religiosi.
Oggi la Chiesa ha superato tutte le difficoltà e si è mossa a riconoscere (oltre ai singoli) gli Istituti secolari dei laici.
 

[Modificato da Credente 06/02/2021 12:15]
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12/07/2013 19:38
 
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Gesù invita al celibato chi desidera consacrarsi esclusivamente al regno dei cieli. E perciò morire celibi non è una disgrazia bensì un trionfo ed un onore, come diceS. Giovanni nell’Apocalisse: “Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l’Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l’Agnello” (14,4).
Diciamo pure che ci sono santi sposati e non sposati. Diciamo ancora che è vero che nel N.T. non c’è un ordine tassativo che imponga il celibato, per cui i primi vescovi e sacerdoti furono scelti anche tra gli sposati (ebrei e non) per la garanzia della fede e della probità, ma è anche vero che il desiderio di Gesù, ribadito da S. Paolo, è fin troppo chiaro. Infatti molti hanno aderito spontaneamente al desiderio del Divin Maestro: la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, ha accolto il desiderio di Cristo e di tante anime ed ha codificato il celibato. Quando noi parliamo di Chiesa, non si può prescindere da Gesù e dallo Spirito Santo: “…Io sarò con voi sino alla fine del mondo” (Mt 28,20); “…la Chiesa è colonna e sostegno della verità” (1 Tm 3,14-15); “…chi ascolta voi ascolta me…” (Lc 10,16); Gesù prega per gli Apostoli e “per quello che per la loro parola crederanno in me”; “…Padre, consacrali nella verità…” (Gv17,17); “…lo Spirito Santo vi guiderà alla verità tutta intera…” (Gv 16,12-15); vedi anche 14,16; 15,26); “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi…” (Gv 20,21).
Io, (parla fra Tommaso) personalmente, stimo una gran cosa che Gesù non ha voluto dare un’ordine tassativo: Egli voleva convincerci che “non tutti possono capire” ma solo quelli ai quali è dato di capire in quanto lo fanno esclusivamente per il regno dei cieli, ossia a maggior gloria di Dio e per il bene delle anime.
Basterà riflettere sulla natura del sacerdozio per convincersi della convenienza della codificazione del celibato da parte della Chiesa Occidentale.

chi reclama contro il celibato è semplicemente perché, non avendo coltivato la propria vocazione, logicamente e naturalmente, si è messo in grado di perderla in parte o del tutto. Ed una scusa troppo palese per chi dice che quando fu ordinato non si rendeva ben conto dell’impegno serio che prendeva; è, ripeto, semplicemente perché, a poco a poco, si è fatto trascinare o dall’eresia dell’azione o, più facilmente, dal contatto troppo frequente e poco controllato con donne…
E’ ben chiaro per tutti quelli di buona volontà che il celibato del sacerdote è per il regno dei cieli; è per amore di Gesù Cristo, a vantaggio dell’intera umanità. Il celibato, quando è vissuto con slancio apostolico e con fede “rende il cuore dell’uomo libero in modo singolare” (Decreto del Conc. Vat. II Perfectae Caritatis, 12). E tale libertà se è disponibilità per Dio è anche disponibilità per gli uomini (cf Decreto sul ministero e la vita dei Presbiteri, P.O. 16). Molti non comprendono che questo darsi agli altri scaturisce dal donarsi a Dio, e viceversa.
La vocazione alla paternità spirituale non è meno esigente ed esclusiva di quella alla paternità fisica. Esige fedeltà che è frutto di amore. Non si tratta di svalutare la sessualità, ma di oltrepassarla in una forma superiore di comunicazione della vita, nell’orizzonte della grazia.
I sacerdoti col loro celibato “danno testimonianza della futura risurrezione, (Decreto sulla formazione sacerdotale, O.T. 10, Vat. II). Essi diventano segno vivente di quel mondo futuro…nel quale i figli della Risurrezione non si uniscono in matrimonio… (Decr. Sul ministero e la vita dei Presbiteri, P.O., 16).
Sarà bene tener sottocchi i seguenti passi del N.T. ai quali si è già fatto e si continuerà a fare sull’argomento del celibato:
1) Mt 19,8-12: “…Rispose loro Gesù: per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato e ne sposa un’altra, commette adulterio”. Gli dissero i discepoli: se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi. Egli rispose loro: non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli. Chi può capire, capisca”. Ora il voler criticare a tutti i costi la Chiesa cattolica che impone il celibato ai preti, perché essendo madre (Chiesa) guida i figli per il bene, è incomprensibile! Molti protestanti criticano aspramente il celibato dei preti (ma anche molti cattolici), non mi spiego tanta avversità quando è risaputo che nella storia della Chiesa mai nessuno è stato obbligato a diventare prete (o suora) dalla Santa Madre Chiesa, ci sono state indubbiamente alcune vicende familiari (come accadeva soprattutto in passato) che hanno portato al sacerdozio o alla consacrazione alcuni preti e suore, ma sono stati i familiari a obbligare al sacerdozio o alla consacrazione i propri parenti, mai la Chiesa cattolica. Oggigiorno, mai, si sente dire o si legge di preti che con la forza spingono altri uomini al sacerdozio, chi sceglie di diventare sacerdote lo fa consapevole di quello che comporta diventarlo e consapevole che deve rinunciare al matrimonio, chi non si sente caratterialmente così forte e spiritualmente così elevato non sceglie il sacerdozio. Sceglierà magari il diaconato, oppure potrà dedicarsi alla carità in vari modi, ma sicuramente se non sente la vocazione interiore, se non ha la vocazione di rendersi eunuco per il regno dei cieli “se non gli è stato concesso di capirlo” è meglio che non scelga la via del sacerdozio."
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12/07/2013 19:44
 
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Chi decide di diventare ministro di Dio, non lo diventa dall’oggi al domani, ma attraversa un periodo di prova, di studio, durante il quale ha tutto il tempo di valutare i risvolti di quella scelta, se durante questo periodo di prova, il seminarista non se la sente più di arrivare fino in fondo, può benissimo rinunciare, senza che nessuno lo castighi oppure lo denunci, o lo percuota.
Alla luce di tali considerazioni  dove sta la forzatura ?
Qualche pastore fantasioso, addita la Chiesa cattolica come satanica in base ad una profezia di Paolo (Tm 4,1-3)  “Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, 2sedotti dall’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza. 3Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la verità. 4Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera…”;
Paolo avverte che ci sarà chi proibirà il matrimonio e vieterà alcuni cibi, volendo con ciò indicare che Paolo in realtà si riferisse alla Chiesa cattolica la quale in effetti proibisce il matrimonio.
 
La Chiesa cattolica non proibisce il matrimonio, anzi lo difende dagli attacchi della modernità, la Chiesa cattolica celebra ogni anno migliaia di matrimoni, quindi come si fa a dire che li proibisce, come si fa a riferire su di essa quella profezia ?
La Chiesa cattolica ritiene che il matrimonio sia uno dei sacramenti più importanti per il mondo, per la cristianità, per le famiglie.




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12/07/2013 19:45
 
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da Famiglia cristiana dell'1/09/02

 

di D.A.
SINGOLARE PROPOSTA DI DUE CONIUGI, CHE CANTANO 
"FUORI DEL CORO" 
MATRIMONIO E CELIBATO DEI PRETI 
Prima di dire che i preti non devono sposarsi, bisogna affermare che chi si sposa non può fare il prete. Anche il matrimonio – secondo i due coniugi – è incompatibile col sacerdozio.


Caro padre, c’è una questione che spesso ritorna sulle pagine di Famiglia Cristiana, ma che non è stata trattata esaurientemente. Ci riferiamo al celibato dei preti e al suo rapporto con gli sposi e la comunità. Infatti, quando si ipotizza la possibilità che il prete possa sposarsi, si invia anche un messaggio agli sposi. Per cui non possiamo non chiederci come e se il matrimonio cristiano si concili con il ministero sacerdotale. Non tanto per questioni pratiche, quanto piuttosto per il significato proprio di ciascuna vocazione che si è chiamati a incarnare.

Spesso, infatti, il discorso si esaurisce rapidamente dicendo che matrimonio e sacerdozio non sono affatto incompatibili, ma solo tenuti separati dalla tradizione della Chiesa. Che, da un certo periodo in poi, ha optato per questa scelta per ragioni di opportunità. Noi, invece, siamo convinti che matrimonio e sacerdozio incompatibili lo siano veramente. E lo diciamo alla luce di quegli studi che, negli ultimi trentacinque anni, hanno fatto molta luce sul significato e sulla spiritualità del matrimonio.

Non si sfugge, forse, a questa prospettiva storica quando sul celibato dei preti si continua ad attribuire la posizione della Chiesa cattolica a pura tradizione e opportunità? O al fatto che i tempi non sono ancora maturi per un passo così innovativo? Ora, non sarebbe invece il caso di riconoscere nuove motivazioni a una scelta, che è di valore? Il matrimonio cristiano è uno stato di vita che intende testimoniare, al massimo delle possibilità umane e con l’aiuto della Grazia, la fedeltà e l’amore totale e indiviso tra i coniugi. Che è poi segno dell’amore fedele e totale di Dio per l’uomo. E di Gesù per la Chiesa.

Se questo è il cuore della vocazione al matrimonio cristiano, non pensa padre che, almeno per la dimensione della "totalità", esso sia incompatibile con il sacerdozio? In esso l’uomo mette a disposizione i talenti, l’intelligenza, il tempo e il proprio corpo per testimoniare l’amore universale di Dio per l’umanità attraverso la predicazione e l’amministrazione dei Sacramenti. In particolare dell’Eucaristia e della Riconciliazione, dove è più evidente la consacrazione dell’uomo-sacerdote a un Dio che, tramite lui, raggiunge l’umanità.

Come può una persona consacrarsi contemporaneamente al coniuge e alla comunità? E come può rispondere alle esigenze di due vocazioni che chiedono entrambe totalità? Quando un sacerdote ha trascorso del tempo in confessionale non esce uguale a come ci è entrato: questa è sicuramente una parte di sé che non potrà essere "coniugalizzata". È per questo che crediamo che il celibato sia una condizione indispensabile per il ministero sacerdotale. E irrinunciabile per la dignità stessa del sacerdozio. E anche del matrimonio.

Comprendiamo la difficoltà – e talvolta il dramma – di sacerdoti che desiderano profondamente rimanere tali, ma che sentono anche forte il bisogno di incrociare la propria esistenza con quella di una donnaA loro vorremmo dire: non confondete il bisogno di relazione con la vocazione matrimoniale. La quale, per essere seguita seriamente, chiede il prezzo dell’abbandono dell’esercizio sacerdotale.

Spesso i nostri sacerdoti sono costretti a fare i burocrati dietro a carte e conti per la gestione della parrocchia. Sono più impiegati e manager che pastori: indaffaratissimi ma profondamente soli. Spesso in attrito con i confratelli, abituati fin dal seminario a bastare a sé stessi, col rischio di ritrovarsi con rapporti aridi anche dove dovrebbe esserci vera fraternità. In condizioni simili, anche la più forte vocazione vacilla sotto il peso di un’esistenza umanamente poco appagante. E la prima "tentazione" a svegliarsi è il bisogno di condividere la propria vita con un’altra persona.

Tutto ciò è comprensibile, ma la soluzione non può essere quella di consentire il matrimonio al sacerdote, quanto piuttosto creare delle relazioni significative che vincano la solitudine. Fin dagli anni del seminario.

Se poi, invece, si rende necessaria la scelta di imboccare la via del matrimonio, si ricorra alla dispensa. Ma non si preferisca mai l’ambiguità e la non chiarezza. Prima di tutto, per il rispetto dovuto al partner, a sé stessi e alla comunità. E poi, ma è nella precedenza, anche a Dio Padre, che accetta il nostro limite, ma che sempre ci chiede di amare nella verità.

Una coppia di sposi

segue la Risposta di Famiglia Cristiana

Ecco un proposta geniale e stupefacente intorno al problema, sempre dibattuto con passione, del celibato dei preti. Cantando "fuori del coro", i nostri due sposi non si schierano contro l’obbligo del celibato, ma neppure si impegnano più di tanto a dimostrarne la necessità per chi intende ricevere l’ordine sacro. Lo invocano, invece, con forza dalla sponda opposta: non è il ministero del prete a esigere la rinuncia al matrimonio, ma è la condizione sacramentale degli sposi a esigere la rinuncia al sacerdozioPrima di dire che i preti non devono sposarsi, bisogna affermare che chi si sposa non può fare il prete. Solo a un lettore superficiale potrà sembrare che sia la stessa cosa.

Il ragionamento è limpido: il sacramento del matrimonio e i carismi dello Spirito che animano la vita degli sposi li coinvolgono in una vocazione totalizzante. La consacrazione a Dio della propria esistenza assume nel matrimonio la sua forma concreta nella completa dedizione di sé al proprio sposo, alla propria sposa, alla propria famiglia. Se gli sposi vogliono vivere all’altezza di questa vocazione e di questa grazia, non possono far determinare la propria esistenza da un’altra vocazione ugualmente totalizzante.

Che il sacramento del matrimonio e la grazia che ne deriva coinvolgano l’uomo e la donna in una dimensione di totalità, nessuno potrebbe dubitare. Fra l’altro, la stessa esperienza della vita comune, al di là della visione di fede, ci dimostra quanto sia distruttiva dell’amore l’incapacità di scegliere fra la dedizione alla famiglia e l’inseguimento di altri ideali che impegnano l’animo nel profondo. Non sono rari i casi in cui non c’è salvezza se non in un taglio radicale: o l’amore sponsale occupa il primo posto nel cuore o è destinato a infrangersi.

L’esclusività dell’amore qui non è frutto di insensate gelosie o di deviazioni possessive, bensì del coinvolgimento delle persone nello strato più profondo del loro essere, per cui lo stesso rapporto con Dio ne resta indelebilmente segnato. Quella degli sposi non è un’amicizia: di amici ne posso avere quanti ne voglio. Non c’è adulterio nella pluralità delle amicizie. C’è adulterio – che è ferita e colpa profonda – contro l’amore sponsale.

E non si commette adulterio solo amando un’altra persona, ma anche amando la propria carriera, la ricerca del successo, il denaro, il proprio sport preferito o qualsiasi altra cosa in misura tale da mettere in secondo piano la persona che si ama. (Gesù dice (Lc 14, 26-27): «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria stessa vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me non può essere mio discepolo». )

Sarebbe allora un inaccettabile rivale dell’esclusività dell’amore coniugale anche il ministero pastorale, per la totalità di dedizione che anch’esso esige? Sì e no. Certamente lo sarebbe, qualora non fosse fondato sul previo e libero consenso a una dedizione che, comunque, dovrebbe essere condivisa. In senso assoluto è più difficile dirlo, perché si tratta pur sempre di dedizione all’altro e a Dio, non di una ricerca di sé, del proprio successo e del proprio piacere.

 (Senza nulla togliere alla volontà ed alla dedizione di molti Pastori Protestanti che invece rincorrono ad una propaganda per il matrimonio....ne deriva che un pastore sposato, non potrà trascurare di certo la moglie, tanto meno i figli e le loro necessità; e diventerebbe un problema educativo se tali pastori dovessero avere soltanto un figlio, potendo invece avere la possibilità di averne, o si scoprisse l'uso di anticoncezionali come purtroppo è accaduto!)

È vero che fare il prete chiede una dedizione assoluta: la Chiesa infatti, nella sua tradizione occidentale, ne ha ricavato l’idea di una così alta opportunità del celibato per i suoi preti da averlo reso obbligatorio sin dai primi secoli quando era all'inizio solo un consiglio che via via che le comunità si espandevano, diventava sempre più un esigenza. C’è però una differenza da considerare: è che la Chiesa può imporre una simile disciplina ai suoi ministri, perché il ministero dell’ordine sacro ha la sua sola ragion d’essere nel servizio da rendere alla comunità. Il sacramento dell’ordine non è dato al cristiano per il bene di chi lo riceve: essere preti nella Chiesa è solo un servizio da rendere alla comunità. E le norme che lo regolano non sono misurate sulle esigenze della persona (giacché nessuno è obbligato a farsi prete né alcuno ha il diritto di diventarlo), ma su quelle del servizio da rendere. Da qui deriva che la Chiesa possa porre le sue condizioni, come è avvenuto per il celibato, per il divieto della militanza politica, per l’imposizione di un faticoso e lungo curriculum formativo.

Ma la Chiesa non potrebbe, in alcun modo, porre condizioni analoghe per la celebrazione del matrimonio: sposarsi è un diritto naturale della persona umana, che non può essere sottoposto ad altre condizioni che non siano quelle intrinseche al matrimonio stesso, come lo sono la condizione monogamica o l’accettazione della indissolubilità.

Il diritto canonico non potrebbe quindi vietare a chi intende sposarsi di esercitare alcune professioni che, pure, sembrano contraddire la possibilità di un’armoniosa vita familiare. C’è quindi una reale asimmetria fra le due prospettive, nonostante l’analogia fra il carattere di dedizione totale proprio del ministero ordinato e quello che accompagna il sacramento del matrimonio.

Con questo non voglio dire che gli sposi non debbano prendere sul serio, con la massima determinatezza, il problema di alcune incompatibilità fra un certo tipo di aspirazioni, di professioni, di carriere, di interessi e il loro amore sacramentalmente consacrato. Ma sono problemi che trovano la loro soluzione non nella creazione di statuti giuridico-sacramentali, bensì nella ricerca sincera della fedeltà alla propria vocazione.

D.A.

 


 
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29/10/2015 23:01
 
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Il fondamento biblico del celibato sacerdotale

di Ignace de la Potterie

Fin dal IV secolo esiste una documentazione esaustiva sulla pratica del celibato. Ma prima?
Da diversi secoli viene discussa la questione se l'obbligo del celibato per i chierici degli Ordini maggiori (o almeno quello di vivere nella continenza per quanti erano sposati) sia di origine biblica oppure risalga soltanto a una tradizione ecclesiastica, dal IV secolo in poi, perché fin da quel periodo, indubbiamente, esiste al riguardo una legislazione irrecusabile. La prima soluzione è stata recentemente presentata di nuovo con una straordinaria dovizia di materiali da C. Cochini: “Origini apostoliche del celibato sacerdotale”. La posizione dell'autore, chiaramente espressa nel titolo, sembra che si possa e si debba mantenere, purché si tenga attentamente conto con lui, meglio forse che nel passato, della crescita della tradizione antica, punto sul quale hanno insistito anche A. M. Stickler nella sua prefazione e H. Crouzel in una recensione.

Un principio di origine apostolica
In altri termini, si deve dire che l'obbligo della continenza (o del celibato) è diventato legge canonica soltanto nel IV secolo, ma che anteriormente, fin dal tempo apostolico, veniva già proposto ai ministri della Chiesa l'ideale di vivere nella continenza (o nel celibato); e che quell'ideale era già profondamente sentito e vissuto come una esigenza da parecchi (per esempio Tertulliano e Origene), ma che non era ancora imposto a tutti i chierici degli Ordini maggiori: era un principio vitale, una semente, chiaramente presente fin dal tempo degli apostoli, ma che doveva poi progressivamente svilupparsi fino alla legislazione ecclesiastica del IV secolo.

Il Catechismo e il Magistero
In questa medesima linea sembra orientarsi anche il recente Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1579), il quale, prudentemente, non menziona nemmeno la legge canonica del celibato, che pur esiste sempre nel diritto attuale della Chiesa (CIC 277, § 1), ma indica soltanto le sue motivazioni bibliche: però, anche qui, non rimanda più (come spesso nel passato) all'Antico Testamento, cita solo due passi del Nuovo Testamento: quello di Mt 19,12, sul celibato “ per il Regno dei cieli ”, poi il testo paolino di 1 Cor 7,32, dove si parla di coloro che sono “chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle "sue cose" ”; e si aggiunge infine che, “abbracciato con cuore gioioso, esso (il celibato) annuncia in modo radioso il Regno di Dio”. Certo, si potrebbero ancora citare qui altri passi del Nuovo Testamento a cui rimandava, per esempio, Paolo VI nella sua Enciclica Sacerdotalis coelibatus (nn. 17 35), per indicare le ragioni del sacro celibato (il suo significato cristologico, ecclesiologico ed escatologico). Ma il problema è che questi diversi testi descrivono, come un ideale tipicamente cristiano, il valore teologico e spirituale del celibato in genere; questo ideale, però, vale anche per i religiosi e per le persone consacrate nel mondo; non indicano una connessione speciale con i ministeri nella Chiesa.

Esistono nella Sacra Scrittura testi che legano celibato e sacerdozio
La domanda precisa che si pone quindi è questa: esistono nella Sacra Scrittura dei testi che indichino un nesso specifico tra celibato e sacerdozio? Sembra di sì. Ma si dovrebbero a questo scopo meglio valutare certi passi neotestamentari che stranamente non vengono quasi più presi in considerazione nelle discussioni recenti: sono i testi in cui viene proposta la norma paolina (molto controversa, è vero) dell'“unius uxoris vir ”, per l'analisi della quale anche C. Cochini ha portato recentemente materiali nuovi.

Il principio "unius uxoris vir"
Questo principio, enunciato più volte nelle Lettere Pastorali, ha nel nostro caso un'importanza unica per due ragioni. La prima é, come hanno mostrato bene tanto A. M. Stickler quanto C. Cochini, che la clausola è una delle formule principali sulle quali si basava la Tradizione antica per rivendicare proprio l'origine apostolica della legge del celibato sacerdotale. Questo però era senza dubbio un enorme paradosso: come è possibile fondare il celibato dei sacerdoti partendo da testi che parlano di ministri sposati? Un tale ragionamento può avere qualche senso soltanto se si trova tra i due estremi (il matrimonio dei ministri e il celibato) un termine medio: è quello della continenza a cui si obbligavano proprio i ministri sposati. E probabilmente perché questo valore di mediazione della continenza non è stato più capito in seguito, che in tempi recenti la formula “ unius uxoris vir ” non è più stata usata nelle discussioni sul celibato. E’ molto opportuno oggi riesaminare attentamente quell'argomento tradizionale. L'altra ragione per cui questi testi sono specialmente importanti dal punto di vista strettamente biblico sta nel fatto che sono gli unici passi del Nuovo Testamento in cui viene emanata una norma identica per i tre gruppi dei ministri ordinati, e solo per loro: infatti, secondo le Lettere Pastorali, deve essere “ unius uxoris vir” sia l'episcopo (1 Tm 3,2), sia il presbitero (Tt 1,6), sia il diacono (1 Tm 3,12), mentre quella formula (tecnica a quanto sembra) non viene mai adoperata per gli altri cristiani. C'è qui dunque una esigenza specifica per l'esercizio del sacerdozio ministeriale in quanto tale. D'altra parte, si deve osservare anche che la formula complementare “ unius viri uxor” (1Tm 5,9) viene usata soltanto per una vedova di almeno sessant'anni, ossia, non per una cristiana qualsiasi, ma per una donna anziana che esercitava anch'essa un ministero nella comunità (possiamo paragonarlo a quello delle diaconesse nella tradizione antica). Il carattere stereotipato di questa formula delle Pastorali fa sospettare che doveva essere già radicata in una lunga tradizione biblica.


Che cosa significa dunque il fatto che il ministro della Chiesa doveva essere “l'uomo di una sola donna”?
La formula “unius uxoris vir” fin dal IV secolo era intesa, come lo spiega bene A. M. Stickler, “ (nel) senso di un argomento biblico in favore del celibato d'ispirazione apostolica: si interpretava infatti la norma paolina nel senso di una garanzia che permetteva di assicurare l’osservanza effettiva della continenza presso i ministri sposati prima della loro ordinazione”. Nella seconda parte faremo un passo in avanti: proporremo un approfondimento teologico della clausola paolina stessa, per mostrare che, già al livello del Nuovo Testamento, essa propone infatti, per il sacerdozio ministeriale, il modello del rapporto sponsale tra Cristo - Sposo e Chiesa - Sposa, sulla base della mistica del matrimonio di cui Paolo parla più volte nelle sue lettere (cfr. 2Cor 11,2; Ef 5,22 32); partendo da lì, apparirà abbastanza chiaro che, per i ministri sposati, la loro ordinazione implicava l'invito a vivere in seguito nella continenza.

La legislazione ecclesiastica a partire dal IV secolo
C’è un accordo generale tra gli studiosi per dire che l'obbligo del celibato o almeno della continenza è diventato legge canonica fin dal IV secolo. Ripetutamente vengono citati qui diversi testi inconfutabili: tre decretali pontificie attorno al 385 (“ Decreta” e “ Cum in unum ” del papa Siricio, “ Dominus inter” di Siricio o di Damaso) e un canone del concilio di Cartagine del 390.

La legislazione faceva riferimento alla tadizione apostolica
Ma è importante osservare che i legislatori del IV o V secolo affermavano che questa disposizione canonica era fondata su una tradizione apostolica. Diceva per esempio il concilio di Cartagine: conviene che quelli che sono al servizio dei divini sacramenti siano perfettamente continenti (continentes esse in omnibus), “ affinché ciò che hanno insegnato gli apostoli e ha mantenuto l'antichità stessa, lo osserviamo anche noi”. Fu poi votato all'unanimità il decreto stesso sull'obbligo della continenza: “Piace a tutti che il vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dall'unione coniugale con le loro spose (ab uxoribus se abstineant), affinché venga custodita la purezza perfetta di coloro che servono all'altare”.

Dalla monogamia alla fedeltà assoluta nel celibato
Non viene esplicitamente citato qui l'“ unius uxoris vir ” paolino; ma il riferimento a quella clausola è implicito, perché vengono menzionati, come nelle Pastorali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Del resto, la citazione di 1Tm 3,2 è perfettamente esplicita in un testo un po' anteriore, la decretale “Cum in unum” di Siricio stesso, che presentava le norme del concilio di Roma del 386; qui, il papa formula prima una obiezione: l'espressione “unius uxoris vir” di 1Tm 3,2, dicevano alcuni, esprimerebbe per il vescovo proprio il diritto di usare del matrimonio dopo l'ordinazione sacra; Siricio risponde presentando la propria interpretazione della clausola: “Egli (Paolo) non ha parlato di un uomo che persisterebbe nel desiderio di generare (non permanentem in desiderio generandi dixit); ha parlato in vista della continenza che avrebbero da osservare in futuro (propter continentiam futuram)”. Questo testo fondamentale è stato ripetuto diverse volte in seguito; viene commentato cosi da C. Cochini: “ La monogamia, [ossia la legge dell`unius uxoris vir] è una condizione per accedere agli Ordini, perché la fedeltà [finora osservata] a una sola donna è la garanzia per verificare che il candidato sarà capace [in futuro] di praticare la continenza perfetta che verrà chiesta da lui dopo l'ordinazione”. E l'autore prosegue: “Questa esegesi delle prescrizioni di san Paolo a Timoteo e a Tito è un anello essenziale col quale i vescovi del sinodo romano del 386 e il papa Siricio si situano in continuità con l'età “ apostolica”.

Motivazioni teologiche della continenza e del celibato dei sacerdoti
Dal tempo dei Padri fino a oggi ci troviamo confrontati con due interpretazioni diverse della formula paolina: per gli uni, la norma “unius uxoris vir ” proibisce la poligamia successiva; per gli altri, soltanto la poligamia simultanea.
La prima soluzione è senz'altro la più tradizionale: l'espressione significa allora che i ministri sacri potevano, sì, essere uomini sposati. ma una volta soltanto; e se la moglie era morta. non potevano aver fatto un secondo matrimonio e non potevano risposarsi. Oggi ancora, questa interpretazione è la più comune tra gli esegeti cattolici. Secondo l'altra soluzione, invece, “ unius uxoris vir ” significa soltanto l'interdizione di vivere contemporaneamente con diverse donne: sarebbe semplicemente la raccomandazione di osservare la morale coniugale.

Perché la formula "uomo di una sola donna" viene usata solo per i ministri?
Ma nessuna delle due soluzioni è pienamente soddisfacente. Alla prima si obietta: se l'unione in cui viveva finora il ministro sposato era onesta, perché non avrebbe potuto esserlo un secondo matrimonio, dopo la morte della consorte? E' tanto più vero che l'Apostolo stesso da una parte richiedeva che la vedova anziana che serviva la comunità fosse stata “unius viri uxor” (1Tm 5,9), dall'altra consigliava alle giovani di risposarsi (1Tm 5,14).Ma l'altra soluzione fa ugualmente difficoltà: la fedeltà coniugale nella vita matrimoniale è certamente richiesta da tutti i cristiani. Per quale motivo allora l'espressione “ unius uxoris vir ” (e analogamente “ unius viri uxor ”) viene usata unicamente per coloro che esercitano un ministero nella comunità?

La monogamia era norma per tutti i battezzati
Aggiungiamo che la seconda interpretazione non va oltre il semplice livello della morale generale: applicata ai ministri della Chiesa ha qualcosa di banale, di riduttivo. La prima l'interdizione di un secondo matrimonio è piuttosto di carattere disciplinare e canonico, ma non viene indicato il suo fondamento teologico. La stessa lacuna, del resto, si notava già per la legislazione canonica del secolo IV: papa Siricio e tanti altri dopo di lui leggevano nella clausola paolina l'obbligo alla continenza per il clero sposato. Davano, è vero, un argomento: la purezza richiesta per avvicinarsi all'altare. Ma bisogna riconoscere che di quello non si parla affatto nel testo delle Pastorali.

Le motivazioni non erano giuridiche ma teologiche
Alla fine della sua indagine storica, anche A. M. Stickler riconosceva che, in tutto questo problema del celibato sacerdotale, si era rimasti troppo al livello giuridico; in quella lunga storia é mancata la riflessione teologica sul senso profondo del sacerdozio ministeriale, sulla motivazione del suo celibato e sul suo valore spirituale. Questo è particolarmente vero per l'uso canonico che si faceva della norma “ unius uxoris vir”, dal secolo IV in poi. Bisogna quindi cercare, nella tradizione patristica e canonica stessa, se venivano date talvolta delle motivazioni teologiche, per fondare sulla clausola paolina l'obbligo disciplinare della continenza del clero.

Tre testimonianze significative: Cristo aveva una sola sposa, la Chiesa
In primo luogo quella di Tertulliano, all'inizio del III secolo. Egli ricorda che la monogamia non è solo una disciplina ecclesiastica, ma anche un precetto dell'Apostolo. Risale quindi al tempo apostolico. D'altra parte, insiste sul fatto che parecchi credenti, nella Chiesa, non sono sposati, vivono nella continenza, e che diversi di loro appartengono agli “ Ordini, ecclesiastici ”; ora, gli uomini e le donne che vivono così, prosegue Tertulliano, “ hanno preferito sposare Dio ” (Deo nubere maluerunt; a proposito delle vergini, egli precisa che sono “ spose di Cristo”. Ma quale legame c'è tra il matrimonio monogamico da una parte e la continenza dall'altra? Tertulliano non lo dice, ma porta qui l'esempio di Cristo che, secondo la carne, non era sposato, viveva da celibe (non era quindi “un uomo di una sola donna”); però, nello spirito, “ aveva una sola sposa, la Chiesa ” (unam habens ecclesiam sponsam).


Sant'Agostino: il sacerdote altro Cristo
Con sant'Agostino facciamo un passo avanti. Egli, che aveva preso parte ai lavori dei sinodi africani, conosceva certamente la legge ecclesiastica della “continenza dei chierici”. Ma come Agostino spiega allora la clausola “unius uxoris vir ” che viene usata da Paolo per i chierici sposati? Nel De bono coniugali (verso il 420) egli ne propone una spiegazione teologica, e si domanda perché la poligamia era accettata nell'Antico Testamento, mentre “nel nostro tempo, il sacramento è stato ridotto all'unione fra un solo uomo e una sola donna; e di conseguenza non è lecito ordinare ministro della Chiesa (Ecclesiae dispensatorem) se non un uomo che abbia avuto una sola moglie (unius uxoris virum) ”; ed ecco la risposta di Agostino: “Come le numerose mogli (plures uxores) degli antichi Padri simboleggiavano le nostre future chiese di tutte le genti soggette all'unico uomo Cristo (uni viro subditas Christo), così la guida dei fedeli (noster antistes, il nostro vescovo) che è l'uomo di una sola donna (unius uxoris vir) significa l'unità di tutte le genti soggette all'unico uomo Cristo (uni viro subditam. Christo)”. In questo testo, dove troviamo la formula “unius uxoris vir” applicata al vescovo. Tutto l'accento cade sul fatto che lui, “l'uomo ”, nelle relazioni con la sua “donna”, simboleggia il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Un uso analogo dei termini uomo e donna si trova in un passo del De continentia: “L'Apostolo ci invita a osservare per così dire tre coppie (copulas): Cristo e la Chiesa, il marito e la moglie, lo spirito e la carne”. Il suggerimento fornitoci da questi testi per l'interpretazione della clausola “unius uxoris vir” applicata al ministro (sposato) del sacramento è che egli, come ministro, non rappresenta soltanto la seconda coppia (il marito e la moglie), ma anche la prima: egli impersona ormai Cristo nel suo rapporto sponsale con la Chiesa. Abbiamo qui il fondamento della dottrina che diventerà classica: “ Sacerdos alter Christus ”. Il sacerdote, come Cristo, è lo sposo della Chiesa.

Il sacerdote sposato a Cristo e alla Chiesa
Un’ultima parola ancora sulla legislazione canonica del Medioevo. Diverse volte, nei libri penitenziali, si dice che, per un chierico sposato, avere ancora, dopo l'ordinazione, dei rapporti coniugali con la propria moglie, rappresenterebbe un'infedeltà alla promessa fatta a Dio; anzi, sarebbe un adulterium, perché, essendo quel ministro ormai sposo della Chiesa, il suo rapporto con la propria sposa “ appare come una violazione di un legame matrimoniale”. Questa pesante accusa a un uomo legittimamente sposato e onesto può soltanto avere senso se si sottintende, come una cosa risaputa, che il ministro sacro, dal momento della sua ordinazione, vive ormai in un altro rapporto, anch'esso di tipo sponsale, quello che unisce Cristo e la Chiesa, nel quale egli, il ministro, l'uomo (vir), rappresenta Cristo Sposo; con la propria sposa (uxor), quindi, “ l'unione. carnale deve (ormai) diventare spirituale ”, come diceva san Leone Magno.

“uomo di una sola donna”: come Cristo nei confronti della Chiesa
Con queste diverse premesse storiche e teologiche, abbiamo raccolto abbastanza materiale per affrontare il proble¬ma esegetico, cioè per fare un'analisi precisa della formula stessa “unius uxoris vir” delle Lettere Pastorali.
Abbiamo visto precedentemente che, delle due interpretazioni tradizionali della clausola, l'una (la più diffusa) era di tipo disciplinare, l'altra esclusivamente morale. Ma non veniva quasi mai indicato perché un ministro della Chiesa doveva essere “l'uomo di una sola donna”.Vorremmo mostrare adesso che la ragione di questa norma, il suo senso profondo e le sue implicazioni sono già presenti nel testo stesso, s si riesce ad analizzarlo bene. Bisogna anzitutto chiarire il problema della provenienza di questa formula misteriosa, il cui carattere fisso, tecnico, stereotipato, è innegabile. Diciamo lo subito: la clausola è in realtà una formula di Alleanza Questo diventa chiaro quando si tiene presente il parallelismo tra la formula delle Lettere Pastorali con il passo di 2Cor 11,2, dove Paolo presenta la Chiesa di Corinto come una donna, come una sposa, che egli ha presentato a Cristo come una vergine casta: “ Io sono geloso di voi della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati ad un solo uomo (uni viro), per presentarvi a Cristo come una vergine pura”. Il contesto di questo brano è specialmente chiaro se connesso con 1Tm 5,9; la stessa formula “unus vir” viene usata per parlare dei rapporti sia della Chiesa, con Cristo, sia di quelli della vedova che ha avuto un solo uomo e che svolge un ministero nella comunità. In 2Cor 11,2, la sposa di Cristo e la Chiesa stessa. Rileggiamo più attentamente il testo. La gelosia di cui parla Paolo è una partecipazione alla “gelosia ” di Dio per il suo popolo: è lo zelo da cui è divorato l'Apostolo affinché i suoi cristiani rimangano fedeli all'Alleanza fatta con Cristo, che è il loro vero e unico Sposo. Un altro dettaglio conferma questa lettura: la Chiesa Sposa viene paradossalmente presentata a Cristo Sposo come “una vergine pura”; è un rimando alla Figlia di Síon, talvolta chiamata dai profeti “vergine Sion”, “vergine Israele”, specialmente quando viene invitata, dopo le infedeltà del passato, a essere di nuovo fedele all'Alleanza, al suo rapporto sponsale con il suo unico Sposo.

Il matrimonio è l'immagine del rapporto tra Cristo e la Chiesa
L'altro passo decisivo del Nuovo Testamento è il testo classico di Ef 5,22 33: l'uomo e la donna, uniti in matrimonio, sono l'immagine di Cristo e della Chiesa; ora il Cristo, lo Sposo, ha offerto se stesso per la Chiesa, al fine di farsene una sposa gloriosa, santa e immacolata (cfr. vv. 26 27). Ma il fatto che l'espressione “ unius uxoris vir ” non venga usata qui nella lettera agli Efesini per tutti gli sposi cristiani, e sia riservata nelle Pastorali al ministro sposato, mostra che la formula fa direttamente riferimento al ministero sacerdo¬tale e al rapporto Cristo Chiesa: il ministro deve essere come Cristo Sposo.

Il ministro del culto deve essere come Cristo Sposo
Sottolineiamo un’altra conseguenza importante del collegamento tra “unius uxoris vir” (o “unius viri uxor”) delle Pastorali con il passo di 2Cor 11,2: è il fatto che la Chiesa-Sposa è chiamata “vergine pura”. L'amore sponsale tra il Cristo Sposo e la Chiesa Sposa rimane sempre un amore verginale. Per la Chiesa di Corinto (dove ovviamente la grande maggioranza dei cristiani era sposata), si trattava direttamente di ciò che Agostino chiama la virginitas fidei, la virginitas cordis, la fede incontaminata , ben descritta anche da san Leone Magno: “ Discat Sponsa Verbi non alium virum nosse quam Christum”. Ma per i ministri sposati di cui parlano le Lettere Pastorali, è normale che in quella visione mistica del loro ministero l'appello radicale alla virginitas cordis sia stato vissuto da loro anche come un appello alla virginitas carnis verso la propria moglie, ossia, quale appello alla continenza, come è diventato chiaro nella Tradizione, almeno dal secolo IV in poi. Non si tratta più, allora, di una prescrizione ecclesiastica, esteriore, bensì di una percezione interiore del fatto che l'ordinazione fa di lui, come ministro, un rappresentante di Cristo Sposo, in relazione con la Chiesa, Sposa e Vergine, e che non può quindi vivere con un’altra sposa.

Una sola Sposa: la Chiesa
Il rapporto decisivo dell'“ unius uxoris vir ” delle Pastorali con la “vergine pura” di 2Cor 11, 2 è stato sottolineato anche molto bene da E. Tauzin: gli uomini che sono consacrati a Dio, dice, “devono rappresentare Cristo: ora, lui è soltanto lo Sposo di una sola Sposa, la Chiesa: "Virginem castam exhibere Christo"”. E applica poi questo principio alla parabola di Mt 25,1 13, dove le dieci “vergini”, che sono (al plurale) le spose di Cristo, rappresentano in realtà la sua unica sposa: “Esteriormente, c'è molteplicità, interiormente l'unità. La migliore immagine esteriore dell'unità interiore non è forse la verginità? ”.
Questa argomentazione sacramentale e spirituali dell'“unius uxoris vir”, fondata sulla teologia dell'Alleanza, emerge nella Tradizione occidentale già con Tertulliano, poi con sant'Agostino e san Leone Magno. La troviamo ben compendiata da san Tommaso, nel suo commento di 1Tm 3,2 (“Oportet ergo episcopum... esse, unius uxoris virum”): “Questo si fa, non solo per evitare l'incontinenza, ma per rappresentare il sacramento, perché lo Sposo della Chiesa è Cristo, e la Chiesa è una: "Una est columba mea" (Cant 6,9)”. Ma san Tommaso non fa ancora il confronto con il testo di 2Cor 11,2, che parla della Sposa Vergine; perciò non aggiunge che il valore di rappresentanza del sacerdozio monogamico comporta anche per il ministro sposato l'appello alla continenza e, conseguentemente, per coloro che non sono sposati, l'appello al celibato.

La differenza tra celibato e continenza
Per comprendere bene il modo in cui abbiamo cercato di indicare il fondamento biblico del celibato sacerdotale, è importante distinguere celibato e continenza. Nella Chiesa antica molti sacerdoti erano sposati. Questo spiega il fatto che, proprio per parlare dei ministri della Chiesa, venisse usata la formula “unius uxoris vir”; spiega inoltre il grande interesse dei Padri per il matrimonio monogamico (cfr. per esempio Tertulliano: De monogamia). Ma è diventato sempre più chiaro nella Tradizione che per un ministro della Chiesa, unito una sola volta in matrimonio con una donna, l'accettazione del ministero portasse come conseguenza che egli in seguito avrebbe dovuto vivere nella continenza.

"unius uxoris vir" collegamento con le nozze spirituali tra Cristo e la Chiesa
In tempi più recenti è stata introdotta la separazione tra sacerdozio e matrimonio. Pertanto la formula “ unius uxoris vir ”, intesa alla lettera e materialmente, non è più di applicazione immediata per i sacerdoti di oggi, i quali non sono sposati. Ma, proprio qui, paradossalmente, sta ancora l'interesse della formula. Bisogna partire dal fatto che, nella Chiesa apostolica, veniva usata solo per i chierici; prendeva cosi, oltre il senso immediato dei rapporti coniugali, un senso nuovo, mistico, un collegamento diretto con le nozze spirituali di Cristo e della Chiesa questo lo insinuava già Paolo; per lui, “unius uxoris vir” era una formula di Alleanza: introduceva il ministro sposato nella relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa; per Paolo, la Chiesa era una “vergine pura”, era la “Sposa” di Cristo. Ma questo collegamento tra il ministro e Cristo, essendo dovuto al sacramento dell'ordinazione, non richiede più oggi, come supporto umano del simbolismo, un vero matrimonio del ministro; perciò la formula vale tuttora per i sacerdoti della Chiesa, benché non siano sposati; quindi, ciò che nel passato era la continenza per i ministri sposati diventa nel nostro tempo il celibato di quelli che non lo sono. Però il senso simbolico e spirituale dell'espressione “ unius uxoris vir ” rimane sempre lo stesso. Anzi, poiché contiene un riferimento diretto all'Alleanza, ossia al rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, ci invita a dare oggi, molto più che nel passato, una grande importanza al fatto che il ministro della Chiesa rappresenta Cristo Sposo di fronte alla Chiesa Sposa. In questo senso, il sacerdote deve essere “l'uomo di una sola donna”; ma quell'unica donna, la sua sposa, è per lui la Chiesa che, come Maria la sposa di Cristo.

Giovanni Paolo Il nella sua lettera post sinodale Pastores dabo vobis.
A mo' di conclusione, ne citiamo alcuni passi più significativi.
Al n. 12, dopo aver ricordato che, per l'identità del presbitero, non è prioritario il riferimento alla Chiesa, bensì i riferimento a Cristo, il papa continua: “ In quanto mistero infatti, la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo: Lui, infatti, è la pienezza, il corpo, la sposa ( ... ). Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell'essere una derivazione, una partecipazione specifica e una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza: egli è un'immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua assoluta "novità" nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristiano e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali ”.
Sulla base di questa strettissima unità tra il presbitero e Cristo, si comprende meglio la ragione teologica profonda del celibato.
Il n. 22 è intitolato: “Testimone dell'amore sponsale di Cristo”. Più avanti: “Il sacerdote è chiamato a essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa ”. Cita poi una proposizione del sinodo: “ In quanto ripresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa ”.
Al n. 29, proprio nel paragrafo dove parla della verginità e del celibato, il Santo Padre cita per intero la propositio 11 del sinodo su questo argomento; poi, per spiegare la “ motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato ”, scrive: “ La volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l'Ordinazione sacra, che configura il sacerdote e Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l'ha amata ”.
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25/10/2017 15:45
 
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Perché oggi un giovane dovrebbe preferire il celibato alla vita di coppia?



 


Lo spiega lo scrittore tanto amato dai teenager, Alessandro D'Avenia,
che del celibato ha fatto una ragione di vita

Cosa spinge oggi un giovane a restare celibe e dedicare la sua vita a Dio e agli altri? Lo spiega uno degli scrittori più amati dai teenager: Alessandro D’Avenia.

Quarant’anni, insegnante in un liceo milanese, curatore del blog  Prof 2.0, D’Avenia non ha mai nascosto la sua vocazione. Tutt’altro. Ne ha fatto un “cavallo di battaglia”. E la sua lezione sul celibato sarà uno dei temi che affronterà in “Ogni storia è una storia d’amore“, il suo ultimo libro in uscita il 31 ottobre.

“NON RINUNCIO ALL’AMORE”

«L’amore di coppia? Sto bene così — rispondeva al Corriere della Sera (2 giugno) — ho scelto di dedicare la mia vita ai ragazzi, a scuola e nel volontariato. Mantenere il celibato è una decisione che ho maturato nel tempo. Non significa rinunciare all’amore, ma viverlo seguendo altre strade, quelle dove mi porta la mia passione, raccontare e ascoltare storie, a scuola, in teatro, nei libri».

Poi puntualizza: «Non sono un filantropo e basta: la mia vita è piena del rapporto con Dio (ma non ho la vocazione sacerdotale) e il mio amore per lui, in fondo, ha un aspetto sentimentale: senza, non posso vivere».

“NON SONO UN SENTIMENTALISTA”

Al giornalista che prova a stuzzicarlo dicendo che forse la ragazza giusta deve ancora arrivare, lui risponde “inamovibile”. «Sono incantato dalla grazia femminile — la replica — ma Dio che è la fonte di quella grazia mi ha incantato ancora di più. Il mio non è idealismo, né sentimentalismo, né fuga dalla realtà. È un amore profondo, che cresce giorno per giorno e trabocca. E quando hai la fortuna di vivere un amore così, che fai? Te lo tieni stretto».

LE DOMANDE DEI SUOI STUDENTI

I primi a restare perplessi, ammette D’Avenia, sono i suoi studenti: «le loro reazioni vanno dal “che peccato” — e queste sono le ragazze — al “ma non ha voglia di una famiglia sua?”». E a quel punto risponde così: «Li guardo e dico: vi sembra che io non abbia dei figli?».

VIVERE SENZA SESSO

Quando l’argomento ricade sul sesso e come riesca a vivere senza, il prof dice loro, con grande serenità, che «raccontare l’incanto o il disincanto del sesso è raccontare l’amore. Noi facciamo l’amore come amiamo, il sesso rivela com’è la nostra capacità di amare. A volte fare l’amore è semplicemente dare una carezza».

Oggi, al contrario di ciò che si pensa, «vedo poca trasgressione, cioè capacità di andare oltre se stessi, di crescere. Essere fedeli è trasgressivo, essere gentili anche quando si è stanchi, chiedere scusa, sorprendere con un’attenzione inattesa è erotico»


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