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CRITICA STORICA ALLA BIBBIA

Ultimo Aggiornamento: 26/10/2014 21:29
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01/05/2013 18:43
 
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LE GUARDIE AL SEPOLCRO 
 
Il fatto risulterebbe anch'esso dubbio a causa di varie «inverosimi­glianze» (330). Ma con questo criterio delle inverosimiglianze e difficoltà, anche a prescindere dal Vangelo, quante narrazioni storiche resterebbero indenni? In quante situazioni complesse del passato non si trovano, a ricostruirle, delle difficoltà? Queste potrebbero infirmare o diminuire la probabilità di narrazioni incerte, non di precise e autorevoli informazioni come questa, i cui aspetti oscuri possono avere tante spiegazioni. 

Inverosimile sarebbe per es. - secondo B. - che «i farisei pensino [ossia ricordino quello che Gesù ha detto] alla resurrezione di Gesù mentre i discepoli non ci pensano [ossia mostrino di non ricordarlo] affatto». Ora il paragone così posto è criticamente ingenuo, data la totale disparità dei rispettivi stati d'animo. Il fatto di quell'oscuramento di fede e di quella dimenticanza dei discepoli di Gesù è un celebre dato sorprendente, permesso dalla Provvidenza per rendere più certa la successiva loro testimonianza. Esso ha comunque una spiegazione nella depressione morale in cui erano caduti, di fronte a così disastrosi eventi. Nei farisei, d'altra parte, il ricordo della promessa di Gesù ha una spiegazione nella loro furbizia e nel loro interesse. 
 
LA TOMBA VUOTA 
 
Visite al sepolcro, constatazioni, apparizioni di Gesù e degli angeli sono variamente narrate dai quattro vangeli. A chi crede alla veracità delle narrazioni e tiene presente da un lato il carattere episodico e saltuario di esse e dall'altro la complessità di quel momento storico e psicologico della storia evangelica, non può recare alcuna meraviglia tale varietà. Essa costituisce solo uno stimolo ad integrare reciprocamente e armonizzare le narrazioni stesse, per scoprire tutta la ricchezza dell'evento, ricchezza che nasce proprio da quella multipla descrizione. Ed è noto che tale accordo si può senz'altro fare - anche se talora con inevitabili incertezze - risultando un'armonia di disparate testimonianze che si risolve, in definitiva, in una tanto più valida prova della loro veridicità, estesa proprio a tutte le particolari circostanze. Nessuna prova critica si può addurre in favore d'un ipotetico genere letterario che intenda trascurare l'obiettività di queste circostanze.

B. invece (351 ss.) è metodologicamente avverso a tale integrazione e armonizzazione. Egli raccomanda di «non mescolare i Vangeli tra loro, come si è fatto troppo [!] spesso; Giovanni va letto da solo» (359). Ma se proprio il quarto Vangelo è sistematicamente integratore degli altri! 

La realtà profonda. - Abbandonata la sicurezza dei testi e amputandoli svuotandoli, sulle ali di vaghe intuizioni («ci si accorge», «si ha l'impressione», «a me par di sentire», ecc.) B. afferma - al solito - di scoprire in tal modo lo «strato profondo» e primitivo della narrazione, la «realtà profonda» degli eventi: Gesù che esce dalla tomba chiusa e entra nello stato di gloria. Questa affermazione della scoperta del profondo, spesso ripetuta, crea la illusione che tali criteri esegetici portino a un consolidamento della documentazione evangelica.
Ma è una posizione che specula su un ben noto equivoco. A parte infatti l'impoverimento descrittivo degli eventi che ne deriva, il compito di tale documentazione non è l'enunciatodel fatto, bensì la garanzia della sua verità. Ora tale garanzia viene enormemente snervata dalla supposizione che le importanti circostanze, presentate dall'agiografo come storiche allo stesso modo della sostanza del fatto, siano invece artificiose, come sarebbe per es. delle apparizioni evangeliche. E' un puro sofisma dire che la narrazione così artificiosamente adornata dall'agiografo sarebbe «vera in profondità, perché esprime nelmiglior modo un avvenimento soprannaturale autentico» (353). Nel piano della veritàdocumentaria infatti, il miglior modo è precisamente costituito dalla esclusione di qualsiasi sovrapposizione artificiosa.

Secondo il B., «numerosi critici indipendenti - come, col solito eufemismo di moda, anche egli chiama gli esegeti dipendenti, in realtà, da pregiudiziali anticattoliche e antitradizionali - respingono questi racconti a causa del carattere artificiale delle apparizioni angeliche»; ma ora la riscoperta della pura tradizione della «tomba vuota» dissiperà «le loro obiezioni». E perché tali critici non dovrebbero allora considerare come artificioso e simbolico anche il preteso fatto sostanziale della uscita di Gesù dalla tomba chiusa e del suo ingresso nello stato di gloria? 

Gli angeli al sepolcro. - Ed ecco qualche saggio particolare della solidità critica delle obiezioni del P. Benoit, cominciando dalle apparizioni angeliche. 
«Dobbiamo credere all'esistenza del mondo angelico». Ma non sempre quando «i racconti biblici mettono in scena un angelo, egli è stato realmente visto», essendo noto «l'uso letterario» biblico di esprimere «un messaggio di Dio» mettendolo «sulla bocca di un angelo» (373). - Gratuita affermazione, quando si tratta, come in questo caso, di apparizioni presentate, come circostanziati fatti visibili, sul piano di una chiara documentazione storica.

Mentre Lc e Gv - obietta pure il B. - parlano di due angeli, Mt e Mc parlano di uno. - Questi non dicono uno solo. Forse si riferiscono a quello che parlò.

In Mt e Mc l'angelo nomina la Galilea solo per dare ai discepoli un appuntamento; Lc invece la nomina soltanto per ricordare il preannuncio della passione e risurrezione che là essi ricevettero. Dunque - secondo Benoit - «Luca ha cambiato il discorso sulla Galilea, pur conservando la frase»; siccome egli non parlerà delle apparizioni in Galilea, appositamente «gira la sua frase... abile scrittore... sa trarsi d'impaccio con acutezza» (356 s.). - Sarebbe l'acutezza del cosciente falsificatore. E' molto semplice invece: Mt e Mc hanno detto una parte e Lc l'altra parte del discorso dell'angelo. 

Pietro e Giovanni. - Lc 24, 12 parla della sola corsa di Pietro al sepolcro; Gv 20, 3-10 parla invece di Pietro e Giovanni. Nel quarto vangelo si vedrebbe pertanto - secondo B. - un riflesso della «concorrenza tra Pietro e l'Altro»; si intuirebbe l'influsso dei «discepoli giovannei, che desiderano collocare il loro Maestro... a fianco di Pietro, per vantare la sua chiaroveggenza»; ciò spiegherebbe «il movimento scenico qui [in Gv] descritto» (360 s.). Per quanto un po' evasivo (ma abbastanza chiaro a p. 367) B. sembra cioè presentare questo binomio Pietro-Giovanni come una artificiosa messa in scena dell'evangelista (B. infatti parla di «amplificazioni» di Gv, non di «integrazioni»: 366).

Grave e gratuita presentazione. La imparzialità critica impone invece di ritenere che Lc abbia parlato soltanto del principale protagonista, mentre Gv di tutti e due. Cosa c'entrano poi i «discepoli giovannei» in un testo scritto da Gv? B. stesso riconosce poi che vi sono tanti altri punti che presentano tale af.fiancamento (Gv 13, 23-26; 18, 15-16; 21, 7; 21, 21): li ha scritti o no Giovanni? Essi non fanno che esprimere la realtà storica di quel binomio. Con quale diritto tale ripetuto affiancamento si deve attribuire a un riflesso della «concorrenza tra Pietro e l'Altro», invece che alla verità storica di quella unione? Con questi criteri si può capovolgere qualsiasi documentazione. 

La Maddalena. - L'improvvisa ricomparsa della Maddalena al sepolcro in Gv 20, Il fa dire al B. che «si tratta di un altro pezzo letterario, la cui tradizione ignorava ciò che precede». Egli sentenzia inoltre che «è inutile cercare di combinare questo passo con la pericope precedente» (367). 

Ma è tanto inverosimile pensare che la Maddalena, dopo l'annuncio dato a Pietro e Giovanni (Gv 20, 2) e dopo averli visti partire di corsa verso la tomba (ivi 3) li abbia seguiti, non con la loro velocità, arrivando là un po' dopo? Anzi inverosimile parrebbe il contrario: che non abbia cioè pensato di tornare al sepolcro. 

Quanto alle apparizioni a Maria Maddalena, quella degli angeli «sembra mancare di fondamento» (371); essi «sono come gli angeli di cartapesta degli altari», dei «travicelli», essendo il loro intervento pressoché inutile, limitandosi a dire «la stessa parola» che dirà poi Gesù (368 ss.). 
Ora io mi chiedo se sia criticamente serio selezionare i testi sicuri con queste aleatorie e irriverenti motivazioni. Mi chiedo poi se si possano considerare inutili presenze e parole che preparano quelle di Gesù e che servono inoltre a sottolineare, con la risposta della Maddalena, il perdurante stato d'animo di essa. 

La successiva apparizione di Gesù alla Maddalena, narrata da Gv, è senz'altro identificata - secondo B. in ciò «le critiche sono d'accordo» - con quella delle altre donne, narrata da Mt 28, 9-10.
Troppa fretta. Questa pretesa certezza non risulta dai testi. E non so che farmene delle «critiche tutte d'accordo», quando sembrano campate in aria e nascere dal preconcetto di identificare le cose simili. L'apparizione di Gesù alle altre donne avvenne al loro nuovo ritorno al sepolcro, visto che non ne parlarono al primo annuncio che esse diedero ai discepoli (Mt 28, 8; Lc 24, 22); quanto alla Maddalena, dopo essere corsa dagli apostoli, vi era presumibilmente tornata prima di esse. L'incontro descritto da Gv ha inoltre un carattere molto personale e Mc 16, 9 lo presenta come anteriore ad ogni altro. Anche il messaggio affidato è diverso: Gv 20,17; Mt 10. 

Ma ecco, secondo B., un'altra difficoltà: secondo Gv 20, 14. 16, Maria si volterebbe indietro «due volte, cosa difficile [!] a spiegarsi» (372); si vedrebbe perciò qui la riunione di «due strati letterari differenti» (ivi).

Strano però che chi li avrebbe riuniti insieme non si sia accorto di tale difficoltà. Ma io penso che invece di una difficoltà vi sia qui un tratto veristico meraviglioso, che svela la testimonianza diretta della protagonista. La Maddalena, in lacrime, restando con la persona rivolta al sepolcro (verso cui la comparsa degli angeli aveva ancor più attirato la sua attenzione), si voltò una prima volta con la testa per rispondere allo sconosciuto che le si era avvicinato alle spalle e subito dopo, per una comprensibile reazione psicologica allo sforzo compiuto per dominarsi nel rispondere (tanto più per la prospettiva delineatasi nelle parole che le erano uscite dal cuore: «io lo prenderò!»), riabbassò la testa in un più intenso singhiozzo. Dopo qualche istante, sentitasi chiamare per nome, di scatto voltò nuovamente la testa verso colui in cui aveva riconosciuto Gesù, rispondendogli: «Rabbuni!»; e subito si alzò per gettarsi ai suoi piedi. Sembra una registrazione! 

«Non sono ancora asceso al Padre... Ascendo al Padre mio e Padre vostro...». Questa - afferma il B. - è «una importante lezione di teologia sul suo cambiamento di stato». Tale ascesa - precisa B. - avverrà subito. «Era carne, diventa spirito... totalmente spiritualizzato, in modo particolare nell'Eucaristia». E' «un grande insegnamento che Giovanni... pone sulle labbra di Gesù» (369). 
Qui mi domando perché deve essere Giovanni a porre questo insegnamento sulle labbra di Gesù e non Gesù proprio in questa occasione a dirle. Comunque la verità teologica è alquanto diversa. Quella ascensione al Padre si riferisce all'ascensione che avverrà tra quaranta giorni. Non si riferisce al cambiamento di stato, perché questo era già avvenuto (non: «avverrà subito») nell'istante stesso della risurrezione in cui Gesù aveva assunto lo stato e il corpo glorioso. Ma questo restava corpo e non si può propriamente dire che fosse «totalmente spiritualizzato», come non lo si può dire nell'Eucaristia, avendo Gesù affermato: «questo è il mio corpo... questo è il mio sangue». 

SECONDA APPARIZIONE NEL CENACOLO 

La professione di fede di Tommaso: «mio Signore e mio Dio», sarebbe - secondo B. - «anacronistica» non potendo gli apostoli avere la piena fede nella divinità di Gesù prima della Pentecoste (408 ss.). E l'agiografo che ben conobbe e visse il dramma della maturazione della fede non si sarebbe accorto di tale anacronismo nel descrivere una scena così circostanziata e precisa? In realtà anche Pietro aveva già fatto a Cesarea di Filippo la sua bella professione di fede (Mt 16, 16); così ora Tommaso. Ciò non toglie che questa fede si sia accesa nella Pentecoste con una luce ancor più piena.
 
Il B. osserva anche che Gesù, in quella apparizione, disse: «Beati quelli che non hanno visto hanno creduto». Questo riferirsi di Gesù al passato confermerebbe che il Signore non ha veramente detto quelle parole, perché avrebbe dovuto, caso mai, riferirsi all'avvenire. Ma il passo può benissimo essere tradotto: «Beati coloro che credono...». 
 
Come al solito, dopo questa nuova e gratuita svalutazione del testo, B. minimizza l'inconveniente: se Tommaso non ha detto tale espressione, ciò riguarderebbe solo «i particolari verbali», mentre «il valore profondo [eccoci alle consuete profondità sotto le... macerie] non ne risulta diminuito... egli ha riconosciuto il Signore [ma non come Dio: e questo sarebbe un trascurabile «particolare verbale?»]. A sua volta, Gesù ha esaltato la rede di coloro che credono senza avere visto». Visione critica paradossale. Sicché il riconoscimento della divinità di Gesù sarebbe un trascurabile elemento delle profondità. Strana profondità del testo che snerva tutte le testimonianze e i valori. Strani enunciati e fittizi valori che sta­rebbero tutti alla superficie, mentre quelli veri starebbero tutti in fondo.
 
LA PESCA MIRACOLOSA 

Quella narrata in Gv 21, 1-14, dopo la risurrezione, non sarebbe ­secondo B. (427 ss.) - che un trasferimento redazionale, compiuto da Gv, di quella narrata in Lc 5, 1-11, all'inizio del ministero di Gesù.

Ecco un altro bell'esempio di psicosi della unificazione, un altro caso tipico di metodologia preconcetta.

Per una tale mentalità esegetica, a nulla valgono: il circostanziato, diversissimo inquadramento temporale e psicologico dei due rispettivi episodi; le diversità di svolgimento; le notevoli diverse finalità, pur nella rassomiglianza; la giustificazione delle rassomiglianze per la rassomigliante finalità, che in Lc è la vocazione definitiva di quegli apostoli, connotando anche il primato di Pietro, e in Gv è il conferimento di questo primato a Pietro; il fatto che in entrambi i casi la pesca era il sim­holo più adatto e, d'altra parte, la ripetizione del miracolo era un oppor­tunissimo richiamo alla iniziale vocazione. A nulla vale tutto ciò. Per tale metodologia, le rassomiglianze significano senz'altro identità. 

Lo svolgimento argomentativo del B. dà poi un vero senso di disagio.
L'illustre biblista inizia domandandosi «se non si tratti qui della medesima tradizione che ha trovato due differenti espressioni». Poi subito abbandona tacitamente questa alternativa: essa non verterà più sulla unificazione o meno delle due narrazioni, essendo senz'altro abbandonata, gratuitamente e senza disputa, l'ipotesi della duplicazione. L'alternativa sarà ridotta solo all'autenticità da riconoscere o alla narrazione di Luca o a quella di Giovanni. Tra le due opinioni «è molto difficile decidersi», ma B. «è tentato [!] di pensare che ha ragione Luca», anche se «è difficile giustificare dettagliatamente tale opinione» (430-431). E una tale confessata somma incertezza viene preferita alla sicurezza di testi chiarissimi.

In particolare, quel ritorno al lavoro della pesca dopo la risurrezione non sarebbe «facile a comprendersi». - Ma è molto semplice. Come campavano? 
Essi - insiste B. - avrebbero dovuto senz'altro «partire per la predicazione universale che Gesù ha comandato». - Niente affatto. Essi, invece, avevano avuto l'ordine di andare in Galilea per incontrarsi con Gesù e non per fare dell'apostolato (Mt. 28, 7-10). E prima della ascensione Gesù impose loro di attendere a Gerusalemme il «dono promesso dal Padre» (Lc 24, 49; At 1, 4), che avranno appunto alla Pentecoste.

Per la soluzione proposta della identificazione (che B., con tale peso di argomenti, osa chiamare «critica») basterebbe [e dico poco!] «togliere il brano sulla rete e sulla pesca miracolosa (Gv 21, 5-6)... tutto il resto rimane» (432). - Confusione su confusione. Già infatti al v. 3 si parla del lavoro di pesca che B. aveva presentato come poco verosimile; e il miracolo ricompare al v. 11 quando vengono contati i pesci. 

L'ASCENSIONE 
 
«Secondo Luca, l'avvenimento ha luogo la sera... di Pasqua. Non si nota alcun intervallo nel racconto di Luca» (485). - E da ciò? Si sa bene che i Vangeli saltano anche lunghi periodi di tempo e che la cronologia non si può fare senza la loro mutua integrazione. In questo caso poi è Luca stesso che integra se stesso in At l, 3: «si diede a vedere vivente... per quaranta giorni».

Comunque - aggiunge B. - questa della immediata Ascensione «teologicamente è l'unica soluzione giusta. Gesù non aspetta in una grotta di Gerusalemme che la porta del cielo gli venga aperta» (486). - Qui si confonde,. come ho già notato, l'Ascensione, che significa la fine degli incontri terreni di Gesù, con il passaggio allo stato glorioso (pur velato nelle apparizioni prima dell'Ascensione) che avvenne non la «sera» di quel giorno, ma nell'istante stesso della risurrezione. E per lo stato glorioso non ha senso di parlare di grotte o di alberghi come di luogo in cui uno sia rinserrato e vincolato al modo terreno.
 
«Luca... molto discreto, si limita a sottolineare... elementi presi dall'Antico Testamento... dice dunque che Gesù sale su una nube. I due angeli (At 10-11) sono lì per dare laspiegazione teologica della scena... Luca ci offre un insegnamento teologico, non un reportage» (486-487).
 
Mi hanno contestato di vedere ovunque ambiguità. Quanto sarei lieto di non vederle! Le vedo perché ci sono; e purtroppo abbondano. Ecco anche qui, per es., che nuovamente questo parlare è oscuro e ambiguo. Luca non ha preso quegli elementi, bensì li ha trovatirealizzati in Gesù. Né logicamente, né secondo il Magistero si può concepire il Vangelo come elaborazione teologica della comunità e dell'agiografo, bensì va inteso come racconto ispirato dei «detti» e «fatti» del Signore, che costituiscono (insieme alla Tradizione) il fondamento di tale elaborazione
 
FACILONERIE BIBLICHE DI ALTRI AUTORI 
 
Una bella riprova della pressione psicologica d'un certo clima esegetico di moda - tanto diffuso quanto criticamente infondato - si ha considerando le strane superficialità di altri autori pur così dotti e profondi. Restando sull'argomento di questo capitolo si veda, per es. l'articolo, ricco, del resto, di tante belle considerazioni, del P. E. Gutwenger S. J., su La tomba vuota, riportato dal tedesco in Rassegna di teologia (2, 1968). Ecco qualche saggio. 
«Né si deve negare quel che di leggendario, secondo la mentalità di oggi, si è in filtrato nel racconto. Si pensi alle apparizioni di angeli alla tomba» (124). - Se il criterio della esegesi e della teologia dovesse essere la «mentalità di oggi», a parte che sarebbe sempre mutabile, si potrebbe fare un crocione sulla stessa divinità di Cristo. 
 
Contro la verità di questi angeli l'articolo tenta addurre tuttavia degli argomenti.

Nel quarto Vangelo «innanzi tutto - contrariamente a quanto dicono i sinottici - non si fa menzione di angeli». - A parte che un eventuale silenzio non costituirebbe una affermazione contraria, non si può parlare di silenzio, bensì di episodi diversi. Gv parla della sola Maddalena ed i sinottici delle altre donne, alle quali soltanto inizialmente comparvero gli angeli. Successivamente però Gv stesso farà menzione di angeli, apparsi alla Maddalena (Gv 20, 12-13). 

«Soltanto dopo che Pietro e il discepolo prediletto sono tornati a casa vengono introdotti due angeli [dunque Gv ne parla]... non hanno fatto altro che domandarle [alla Maddalena] perché pianga... Si ha l'impressione [male a fare della critica solida con le impressioni!] che i due versetti... provengano... da altra fonte. Ad ogni modo il testimone oculare [Gv] non aveva percepito nessun angelo. Nella sua narrazione gli angeli servono solo a formare un collegamento piuttosto barocco tra la tomba vuota e l'apparizione di Gesù alla Maddalena». - Conclusione netta, sicura, benché fondata soltanto su pure «impressioni» e su un irresponsabile ossequio alla «mentalità di oggi»! Invece è chiaro che gli angeli potevano apparire e sparire in apparenti sembianze umane quando e come volevano, davanti a chi volevano. E il fatto che ne parli lo stesso Gv che direttamente non li aveva visti è una conferma che egli se ne era bene informato. 
 
La presenza dei soldati di guardia al sepolcro (Mt 28, 11-15) sarebbe un'invenzione apologetica dei primi cristiani (126). Certo le strade erano pattugliate in quella Pasqua di notte, rendendo impossibile il trafugamento. Il fatto ebbe poi dalla primitiva comunità quell'«ampliamento secondario». Il grande motivo di ciò, secondo il Gutwenger, sarebbe che «gli altri evangelisti non ne parlano», cosa inammissibile se il fatto fosse stato vero, costituendo una «importante prova della risurrezione». - In realtà, il silenzio degli altri evangelisti non significa proprio niente in narrazioni così brevi e saltuarie, che riportano ben piccola parte - chi l'una e chi l'altra - di quei complessi e ricchissimi avvenimenti. La circostanziata narrazione di Mt, d'altra parte, non può esser nata da una primitiva invenzione cristiana puramente apologetica perché essa sarebbe stata facilmente smentita dalle parti interessate e dagli altri testimoni presenti o vicinissimi.
«Le aggiunte posteriori dei sinottici saltano subito all'occhio». - Quando un'esegesi è fatta con questi «salti agli occhi...» la serietà critica è finita.

 
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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