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IL VALORE DELLA DONNA NEI VANGELI

Ultimo Aggiornamento: 12/01/2019 18:21
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12/01/2019 18:20
 
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5. MATRIMONIO, FEDELTÀ’, VEDOVANZA E INFERTILITA’


Il cristianesimo contribuì a redimere il valore della donna anche grazie alla nuova e radicale posizione su alcuni aspetti della vita sociale. Innanzitutto il matrimonio. Le ragazze pagane venivano sposate in giovane età, di solito da uomini molto più vecchi, e raramente avevano voce in capitolo nella scelta dello sposo, così anche per le donne romane, per le quali matrimonio si celebrava solitamente prima della pubertà e veniva subito consumato (esempi sono Ottavia, Agrippina, la moglie di Quintilliano e quella di Tacito). Lo storico Plutarco (46-120 d.C.) riporta che i romani «davano le loro figlie in spose quando avevano dodici anni, se non prima», tanto che egli descrisse «l’odio e la paura delle ragazze costrette contro natura» (citato in K. Hopkins, “The Age of Roman Girls at Marriage”, Population Studies 1965, p.114). Lo storico Cassio Dione (155-229 d.C.) concorda: «Le ragazze sono ritenute pronte per il matrimonio al compimento del loro undicesimo anno di età» (Cassio Dione, “Storia romana”).


Al contrario, fin dal primo cristianesimo «le donne cristiane si sposavano più tardi e avevano più scelta su chi sposare. Non è questione da poco se si pensa che le donne pagane erano spesso costrette a sposarsi e a consumare il matrimonio in età prepuberale (11 o 12 anni), mentre la gran parte di quelle cristiane aspettavano anche i 18 anni» (R. Stark, “Ascesa e affermazione del cristianesimo”, Lindau 2007, cap. 5). Inoltre, le donne cristiane avevano voce in capitolo sulla persona da sposare e partecipavano ad un matrimonio più sicuro, perché quello cristiano è ed era imprescindibilmente monogamico e indissolubile. Tutto questo quindi sottintende e implica anzitutto la pari dignità degli sposi: non è lecito ad un uomo avere più mogli, nel suo gineceo o nel suo harem! Non è lecito, in virtù della sua maggior forza, ripudiare la moglie, come fosse un oggetto, né sostituirla con delle schiave! E neppure, ovviamente, il contrario. Uno studio sull’età in cui ci si sposava, basato su iscrizioni funerarie romane, ha permesso di distinguere le donne cristiane da quelle pagane, con differenze molto nette: il 20% delle donne pagane aveva dodici anni o meno quando si sposava (il 4% aveva solo 10 anni), invece solo il 7% delle spose cristiane era sotto i tredici anni. Metà delle donne pagane si erano sposate prima dei quindici anni, rispetto al 20% delle cristiane e circa metà delle donne cristiane non si erano sposate fino all’età di diciotto anni o più (citato in K. Hopkins, “The Age of Roman Girls at Marriage”, Population Studies 1965).


Questa nuova considerazione della donna è stata spiegata così dal celebre storico del medioevo Jacques Le Goff: «Credo che tale rispetto della donna sia una delle grandi innovazioni del cristianesimo; pensiamo alla riflessione che la chiesa ha condotto sulla coppia e sul matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, ora tipicamente cristiana, formalizzata dal quarto concilio Lateranense nel 1215, che ne fa un atto pubblico (da cui la pubblicazione dei bandi) e, cosa fondamentale, un atto che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti. Ciò che mi pare rilevante nelle disposizioni del concilio Lateranense è il fatto che il matrimonio diventa impossibile senza l’accordo dello sposo e della sposa, dell’uomo e della donna: la donna non può essere data in matrimonio senza il suo consenso, essa deve dire sì» (Avvenire, 21/1/2007). Harold J. Barman, professore alla Harvard Law School, ha a sua volta spiegato che «sotto l’influenza del cristianesimo, e anche in virtù delle idee stoica e neoplatonica recepite dalla filosofia cristiana […], nel diritto di famiglia fu attribuita alla moglie una posizione più paritaria di fronte al marito, richiedendo il mutuo consenso di entrambi gli sposi per la validità del matrimonio, rendendo più difficile il divorzio (cosa che a quel tempo rappresentò un passo avanti verso la liberazione femminile) e abolendo il potere di vita e di morte del capo famiglia sui propri figli» (H.J. Barman, “Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale”, Il Mulino 2006, p.179)


Barman ha citato il divorzio, la cui posizione fu definita da Gesù: «Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio» (Mt 19,9). E’ una rottura radicale con i costumi del passato, dove il divorzio si giustificava per un mero capriccio del marito. La legge ebraica, ad esempio, stabiliva esplicitamente che una moglie ripudiata non era libera di «andare in moglie a qualunque uomo ebreo lei voglia»(M.J. Geller, “Early Christianity and the Dead Sea Scrolls”, University of London 57, 1994, p.83). La Chiesa invece è sempre stata inflessibile nella sua aderenza allo standard stabilito da Gesù, e ciò si tradusse nell’idea che non c’erano ragioni per risposarsi dopo il divorzio. Anche nella sessualità della coppia il cristianesimo parlava di equiparazione tra uomo e donna, lo spiega San Paolo quando dice: «Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è il padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra continenza» (1Cor 7,3-5). Il prof. Miguel Gotor, docente di Storia moderna presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, ha spiegato che i cristiani «hanno prevalentemente costruito un modello cognatizio che consente il trasferimento della parentela e della relativa eredità in ugual misura sia ai maschi sia alle femmine». Tali relazioni «proprie del cristianesimo hanno favorito una progressiva parità tra uomo e donna. Inoltre, il divieto di unioni tra parenti e la capacità della donna di ereditare, di trasmettere la proprietà e di sposarsi al di fuori della famiglia, hanno consentito una maggiore circolazione delle ricchezze e la formazione di un mercato autonomo, ma anche l’unione di Regni diversi senza guerra né sangue, bensì per via matrimoniale».


Il cristianesimo modificò anche la visione sull’infertilità, che nelle culture antiche veniva addossata alla moglie e giustificava il ripudio o il ricorso del marito ad altre donne, per ottenere il figlio desiderato. Si pensi ad esempio che le donne romane dovevano mettere al mondo almeno tre figli «per poter un giorno, alla morte del padre, essere libere da ogni tipo di tutela sui beni» (G. Duby e M. Perrot, “Storia delle donne”, Laterza 1993, pp. 342, 349). Nel cristianesimo, invece, «non è più motivo di separazione la sterilità, che nelle società antiche era vissuta sempre come malattia femminile» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza 2008, p. 15). Rispetto all’adulterio, nel matrimonio cristiano esso è proibito sotto pena di peccato mortale per entrambi i coniugi, «nella società romana, al contrario, la legge puniva severamente le adultere mentre l’infedeltà dei mariti non era soggetta a sanzioni penali, né a una seria disapprovazione morale. Era anzi pienamente accettato che l’uomo intrattenesse rapporti sessuali con gli schiavi di entrambi i sessi presenti nella casa». Come spiega L’Enciclopedia Treccani, «nel diritto germanico la donna adultera è lasciata alla vendetta del marito e dei parenti; può essere uccisa, o ridotta in servitù, o scacciata, o privata dei beni e mutilata del naso e degli occhi». Ebrei e musulmani, invece, «condannavano le adultere alla lapidazione. Nuovo agli orecchi dei suoi contemporanei suona dunque il discorso di Cristo sull’adultera: “Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero nel mezzo, bene in vista, e gli dissero: Maestro, questa donna è stata colta in flagrante adulterio. Ora Mosè ci ha ordinato nella legge che tali donne siano lapidate: tu che ne pensi? Parlarono così per tendergli un’insidia e aver poi un pretesto per accusarlo. Ma Gesù si inchinò e col dito si mise a scrivere in terra. E poiché quelli insistevano, egli alzò il capo e risposte: Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei. Poi si chinò di nuovo e continuò a scrivere in terra. Udite queste parole, se ne andarono tutti, uno dopo l’altro, cominciando dai più vecchi. Rimasero soltanto Gesù e la donna che continuava a stare lì, in piedi. Allora Gesù, alzatosi, le chiese: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Risposte: Nessuno, Signore. Le disse Gesù: Neppure io ti condanno, và e non peccare più” (Gv 8,3-11» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza 2008, p. 17). Una posizione in totale discontinuità dalle culture e società precedenti.


 


La battaglia della Chiesa per la fedeltà coniugale e l’autocontrollo degli istinti, sopratutto maschili, ha anche liberato l’uomo da una concezione animalesca del rapporto sponsale ma ha avuto anche l’effetto di nobilitare e liberare la donna. Scrive Aline Rousselle, professore di Storia Antica presso l’Università di Perpignan: «Gli uomini romani pagani non venivano allevati nell’idea di dover esercitare un certo autocontrollo. Per il ragazzo erano normale guardare con occhio concupiscente le giovani schiave di casa. Ve ne erano sempre di giovanissime da usare per il proprio piacere». Anche «le mogli dell’alta società romana non avevano difficoltà ad accettare le relazioni del marito con schiave e concubine. Talvolta erano esse stesse a scegliere queste “socie”». Analoga la situazione adottata non di rado dagli Ebrei: «Dal Talmud sappiamo che gli Ebrei poligami procreavano con la prima sposa e facevano prendere la pozione (abortiva, con grandi rischi anche per la vita della donna) alla seconda, che era fatta per il “piacere”» (A. Rousselle, “Storia delle donne”, Laterza 1993, pp. 346,348). Solo nel cristianesimo, inoltre, le donne potevano scegliere la loro vocazione: tantissime si dedicarono a Dio piuttosto che ad un uomo, decidendo la loro vita al di fuori di quel rapporto di dipendenza che nella società antica era ineludibile. Nell’antichità greca e romana ed ebraica, infatti, le donne erano destinate solo al matrimonio e alla maternità, nel senso che «sono pochissime le testimonianze, prima del cristianesimo, di donne rimaste nubili» (G. Duby e M. Perrot, “Storia delle donne”, Laterza 1993, pp. 324 e 365)


Un accenno anche alla nuova concezione della vedovanza delle donne: i primi cristiani fecero il possibile per riconoscere alle vedove la loro dignità, senza imporre loro di porsi immediatamente sotto il dominio di un nuovo marito come invece volevano le leggi di Augusto. Per fare questo venivano in aiuto anche economicamente a quelle di loro che avessero voluto rimanere tali: così a Roma, nel 251 d.C., il vescovo Cornelio assiste millecinquecento vedove e poveri della città, in ossequio all’insegnamento di san Giacomo apostolo: “Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorre gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni” (Giacomo 1,27)(F. Agnoli, “Indagine sul cristianesimo”, Piemme 2010, p. 51). Eppure ancora oggi esiste un’usanza diffusa presso molti popoli, estranei alla cultura cristiani, di uccidere le mogli dei capi comunità sulla tomba dei mariti, o alla consuetudine (come si spiega sull’Enciclopedia Treccani), vigente presso alcune tribù dell’Africa centrale e meridionale, di imporre alla vedova, dopo la morte dell’uomo «di stare seduta sulla nuda terra per tre mesi, prima di poter aspirare a un nuovo marito; di rimanere distesa nella capanna per un mese, di non accendere il fuoco, di non conversare con nessuno». Oppure si consideri quello che accade nelle isole Tobriand della Melanesia, «dove ella deve stare segregata da sei mesi a due anni in una specie di gabbia osservando severi tabù». Nell’India induista, invece, sebbene abolita in linea di diritto dagli inglesi, nell’Ottocento, esiste ancor oggi qua e là l’abitudine (sati) di bruciare le vedove sulle pire dei mariti, e permane comunque un orrenda discriminazione nei loro confronti: ad esempio rifiutando le donne che non vogliono suicidarsi alla morte del marito, come impone la tradizione o comunque la perdita di diritti di un essere umano (da “Repubblica”, 13/7/1999). Molte di loro sono giovanissime, andate in sposa da bambine a uomini più vecchi con il culto (diffuso) delle vergini: 2 vedove su 5 sono convolate a nozze prima dei 12 anni e quasi una su 3 è rimasta vedova prima dei 24 anni. Del resto si stima che nel Subcontinente 1 indiana su 4 convoli a nozze prima dei 18 anni previsti dalla legge e che quasi 1 su 5 prenda marito sotto i 10 anni (da “Corriere della Sera”, 20/8/2007).


Un’altra novità nella concezione cristiana della donna è nei riguardi delle prostitute. Ritenute ignobili nel mondo greco-romano, dove il «marchio di infamia le privava definitivamente del diritto al matrimonio legittimo e della facoltà di trasmettere i pieni diritti civili: il marchio diventava ereditario» (G. Duby e M. Perrot, “Storia delle donne”, Laterza 1993, pp. 346). Nel mondo cristiano, invece, «le meretrici non erano depositarie di un marchio indelebile, di una colpa foriera di dannazione eterna; nelle elaborazione giuridiche e teologiche il peccato più esecrabile era semmai quello di chi si faceva tramite e sfruttatore delle copule mercenarie» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza 2008, p. 180-185). La Chiesa si mostrò vicina anche alle prostitute: san Ivo di Chartres, vescovo di Chartres, raccomanda come un atto di grande carità cristiana quello di sposare una prostituta togliendola alla sua vita di peccato e papa Innocenzo IIIconcede l’indulgenza a chi prenda in sposa una ex meretrice. Nel 1227, grazie a papa Gregorio IX, fioriscono in tutta Europa conventi per il riscatto delle prostitute desiderose di cambiare vita dove venivano dati gli «strumenti indispensabili a una onesta esistenza nel mondo: i rudimenti di un mestiere, una dote, una nuova garanza di onorabilità»(M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza 2008, p. 180-185).


Anche le donne che sceglievano la vita religiosa nei conventi beneficiavano di istruzione e diritti, come ha sottolineato l’educatrice americana Emily James Putnam: «le ragazzine che entravano in convento imparavano a leggere e scrivere, venivano istruite, potevano studiare, tutte possibilità precluse a quante nelle classi povere erano destinate a matrimonio e maternità». Infatti esse «trovandosi libere dallo stato di soggezione a cui le confinava il ruolo di mogli e di madri, le religiose sfuggivano alle fatiche e alle sofferenze fisiche che, nella società del tempo, gravavano sulle donne feconde delle classi umili» (E.J. Putnam, citata in “Papa Francesco e le donne”, L. Scaraffia e G. Galeotti, 2014). Nel Liber Regula S. Spiritus, lo Statuto dell’Ordine Ospedaliero di Santo Spirito –fondato a Montepellier alla fine del XII secolo in ambito monastico, grazie alla concessione di Papa Innocenzo III- tra le altre iniziative morali e sociali, la missione dell’Ordine si estendeva anche a redimire le donne peccatrici, permettendo ogni anno un ritiro quindicinale: «alle donne peccatrici che desiderassero abitare durante la settimana santa nella casa di Santo Spirito fino a dopo l’ottava di Pasqua, per osservare la castità, sia concesso senza discussioni» (cap. XLVI). Ricordiamo anche l’esortazione di Innocenzo IIItendente a favorire la riabilitazione sociale di queste donne tramite il matrimonio e, per facilitarne il compito, elargiva addirittura delle speciali indulgenze a chi le sposava: «Stabiliamo che per tutti coloro che fanno uscire le pubbliche donne dal postribolo e le prendono in moglie, ciò giovi per la remissione dei peccati» (Balutius S: Epistolarium Innocenti III, Parisiis, Mugnet 1682, Litt. 112).


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Ro 10,17 La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo.
 
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