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L'INFERNO: Cosa insegna la Scrittura e la Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 14/12/2012 16:34
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14/12/2012 16:17
 
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Cosa dice la Scrittura riguardo alla condizione di infelicità che riguarderà i reprobi impenitenti che avranno peccato in maniera grave, con deliberato consenso, piena avvertenza e in opposizione a Dio.

Ecco i principali versetti che si riferiscono in modo diretto o indiretto, a tale condizione:

C
OR.5,10 OGNUNO DOVRA’ COMPARIRE DAVANTI AL TRIBUNALE DI CRISTO PER RICEVERE LA RETRIBUZIONE DI QUANTO AVRA’ FATTO MENTRE ERA NEL CORPO…

MT.25.30 IL SERVO FANNULLONE GETTATELO NELLE TENEBRE: LA’ SARA’ PIANTO E STRIDORE DI DENTI.

MT.25.41 …IL RE DIRA’ LORO:…VIA LONTANO DA ME, MALEDETTI NEL FUOCO ETERNO, PREPARATO PER IL DIAVOLO…

LU.6.25 GUAI A VOI CHE ORA RIDETE PERCHE’ FARETE CORDOGLIO E PIANGERETE.

MT.3.12 (GESU’) ARDERA’ LA PULA COL FUOCO INESTINGUIBILE.

EB.10.28-31 …DI QUANTO PIU’ SEVERA PUNIZIONE…/ E’ PAUROSO CADERE NELLE MANI DEL DIO VIVENTE.

GIU.1.23 CONVINCETE I VACILLANTI, ALTRI SALVATELI STRAPPANDOLI DAL FUOCO.

MATT.26,24 SAREBBE STATO MEGLIO PER LUI (GIUDA) NON ESSERE MAI NATO

AP.14.9-11 CHIUNQUE ADORA LA BESTIA SARA’ TORMENTATO CON FUOCO E ZOLFO…PER I SECOLI DEI SECOLI…

AP.21.8 PER I VILI E GLI INCREDULI…E’ RISERVATO LO STAGNO ARDENTE DI FUOCO E DI ZOLFO: E’ QUESTA LA SECONDA MORTE.

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14/12/2012 16:24
 
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INFERI E INFERNO sono due termini che indicano due aspetti diversi! L'Inferno NON è una prigione dalla quale si può uscire e che è meglio conosciuto nella Scrittura come:
Geenna (dal greco) è l'inferno vero e proprio di fuoco e zolfo, o "stagno ardente di fuoco e zolfo" di Apocalisse 20:10 e 20:15. E' il termine tradotto in greco dall'Aramaico di "gehinnam", cioè valle di Hinnom, a sud di Gerusalemme, dove al tempo del dominio cananeo venivano eseguiti sacrifici di bambini tramite roghi e che valeva come luogo di giudizio divino. Quando Gesù parla di questo luogo non si riferisce al luogo geografico, ma a quello che esso rappresenta, cioè il luogo della punizione eterna. Abyssos (dal greco) cioè "abisso", "inferi", in particolare "prigione dei demoni in punizione" dei passi di Luca 8:31 e Apocalisse 9:1; un significato simile è attribuito a "tartaros" di 2° Pietro 2,4
diverso dal termine biblico come:
Sceol (in ebraico) ovvero Ades (in greco), comunemente chiamato "inferno" e "soggiorno dei morti", ed è il luogo provvisorio ed intermedio di soggiorno dell'anima della persona deceduta sino alla resurrezione finale. Lì Gesù è andato a predicare il Vangelo agli spiriti dei morti (1° Pietro 3:19, 4:6), ed è pure da lì che, quando se n'è salito in alto, nel cielo, ha liberato molti che erano prigionieri, portandoli con se (Efesini 4:8). Quindi Sceol o Ades, adesso, dopo la resurrezione di Gesù, è la condizione e il luogo dove vanno le anime di coloro che saranno giudicate : salvate o condannate da Dio ed è tutt'ora un luogo in cui si soffre.
(spiegazione  tratta da un testo in un sito evangelico) 

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14/12/2012 16:29
 
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NEL FUOCO ETERNO SENZA AMORE

(Tratto dalla rivista mensile “Papa Giovanni” – Sacerdoti del Sacro Cuore (Dehoniani) Collegio Missionario Via Barletta – 70031 Andria - Bari. c.c.p. 5702)

 

L’INFERNO E IL MISTERO DEL MALE

Seguendo l'esempio di Cristo, la Chiesa ha ammoni­to i fedeli, durante tutto il corso della sua storia, "della triste realtà della morte eterna". La Sacra Scrittura par­la di questo castigo eterno e ci mette in guardia contro la malizia deliberata che distrugge una persona interior­mente e conduce alla morte eterna. C'è un nesso essen­ziale tra l'inferno e il mistero del male, e in ultima ana­lisi, tra l'inferno e la libertà dell'uomo. Il rifiuto di cre­dere all'inferno equivale al rifiuto di prendere Dio sul serio, e anche al rifiuto di considerare seriamente l'uo­mo, la sua libertà e la sua responsabilità di compiere il bene. Per questa ragione, una certa conoscenza dell'in­ferno è necessaria per comprendere come si conviene il senso dell'uomo e il suo posto in questo mondo, secon­do il piano di Dio.

Nelle prime tappe della storia della salvezza, la realtà dell'inferno non è stata concretamente intuita come lo fu invece nella rivelazione posteriore. Si concepiva lo "Shéol" come il luogo ove sia i buoni che i cattivi di­moravano dopo morte, e dove avevano una forma di e­sistenza oscura e insoddisfacente. Si capiva che Dio a­vrebbe severamente punito chi era ostinatamente catti­vo, ma molti restavano perplessi, perché i malvagi pare­vano prosperare tanto quanto i giusti. La rivelazione che lo "Shéol" fosse un luogo di punizione riservato ai mal­vagi non avvenne che gradualmente. Da essa deriva una comprensione più piena della responsabilità personale di ciascuno riguardo ai suoi atti. Il castigo divino del male nulla ha a che fare con la vendetta; è piuttosto una que­stione di giustizia e di misericordia da parte di un Dio a­mante e onnipotente, che mantiene e ristabilisce un or­dine universale che qualunque colpa di qualsiasi uomo scompiglia. L'uomo deve prendere se stesso sul serio, perché Dio lo prende sul serio. Col passare del tempo ci fu una crescente comprensione del genere di castigo do­vuto al peccato.

All'inizio del tempo dell'Antico Testamento, il casti­go era concepito sotto forma di immagini materiali, come malattie, prove, accorciamento della vita. Solo a poco a poco divenne chiaro che il castigo più grave era implici­to nella natura stessa del peccato; che rifiutare Dio vole­va dire separare se stesso dalla infinita bontà di cui il cuo­re ha una fame insaziabile (cf Sal 62, 1). Nell'Antico Te­stamento, con l'idea dell'inferno, era unita l'immagine del fuoco fisico, con riferimento alla "Geenna", la "Valle di Ben-Hinnom", dove, in sacrifici umani interdetti, alcuni bambini erano stati consumati dal fuoco. Più tardi, i rifiuti della città erano bruciati in detta valle, ove il fuoco era a­limentato giorno e notte. Isaia allude a questa valle, sen­za tuttavia nominarla, come al luogo dove giaceranno i corpi di coloro che si sono ribellati contro Dio (cf Is 66,24). Nella letteratura rabbinica, la "Geenna" divenne il pozzo di fuoco dove i cattivi sono puniti dopo la morte.

Gesù Cristo ha parlato spesso dell'Inferno. Quando parlò "dell'inferno... il fuoco inestinguibile" (cf Mt 25,31), Egli lo fece spinto da un senso di compassione, per mettere in guardia gli uomini da questa tragedia irre­parabile, da questa "seconda morte" (Ap 21,8), con la sua permanente separazione dalla vita eterna di Dio, per la quale l'uomo è stato creato.

Cristo parlò energicamente con immagini comuni in quel tempo, di "inferno, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue" (Mc 9,47-48). Usando tali im­magini Cristo non stava dandoci una descrizione lettera­le dell'inferno, perché il male della separazione da Dio non può mai essere adeguatamente descritto. Cristo inve­ce voleva richiamare alla necessità della conversione ed avvertire che quelli, che deliberatamente persistono nel male, andranno alla completa rovina.

Il Nuovo Testamento frequentemente si è riferito al ca­stigo infernale come castigo senza fine. "E se ne andran­no, questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna" (Mt 25,46). Questo ha fatto parte dell'ordinario insegnamen­to della Chiesa fin dal principio. Alcuni teologi antichi, soprattutto Origene al terzo secolo, hanno affermato che tutti i peccatori, Satana compreso, avrebbero potuto e­ventualmente essere portati alla salvezza. Ma la Chiesa ha sempre respinto vigorosamente questo modo di pensare ed altri simili come incompatibili con la verità rivelata, ed ha solennemente confermato la dottrina secondo cui il ca­stigo infernale è eterno.

 

NEL FUOCO ETERNO SENZA AMORE

Dio aveva collocato Adamo ed Eva in un luogo deli­zioso detto Paradiso terrestre, che comunemente, si ri­tiene che sia quella regione che ora viene detta Armenia, perché la Sacra Scrittura accenna a quattro fiumi che in esso scorrevano: il Fison, il Geon, il Tigri e l'Eufrate. Tut­te le ricchezze della terra vennero da Dio concesse al­l'uomo perché ne usasse e ne disponesse. Un'unica ec­cezione fece però il Signore nel concedere l'elevazione alla vita soprannaturale. Proibì, cioè, di mangiare il frut­to di un albero misterioso che si trovava al centro del Pa­radiso terrestre e che Dio stesso denominò della scienza del bene e del male".

Ecco le parole di Dio: "Mangia del frutto di qualunque albero del Paradiso. Ma dell'albero della scienza del be­ne e del male non mangiare; perché in qualsiasi giorno tu ne avrai mangiato, di morte morirai!". Ma il demonio, in­vidioso della felicità degli uomini primitivi, che erano sta­ti da Dio destinati a prendere in Cielo il posto da lui per­duto, si presentò ad Eva sotto l'aspetto di astuto e insi­dioso serpente, e così le parlò: "Per qual motivo Dio v'ha comandato di non gustare di qualsivoglia albero del Pa­radiso?". Eva rispose: "Del frutto degli alberi che sono nel Paradiso, noi ne mangiamo; ma del frutto dell'albero che è in mezzo al Paradiso, Dio ci ha comandato di non man­giare e di non toccarlo, ché non abbiamo a morirne" .

Ma il demonio assicurò Eva con queste parole: "No davvero, che non morirete. Dio però sa che in qualunque giorno ne mangerete, vi s'apriranno gli occhi e sarete co­me dèi, sapendo il bene ed il male". Ella guardò il frutto con avida curiosità, vide che era bellissimo, stoltamente credette alle parole del demonio, s'avvicinò all'albero e con leggerezza colse il frutto proibito, che poi presentò ad Adamo. Ne mangiarono insieme. I loro occhi s'aprirono e conobbero d'aver peccato! Il primo peccato dell'uma­nità, che si chiama peccato originale, fu dunque un peccato d'orgoglio e di disubbidienza. I nostri progenitori in­fatti presuntuosamente avevano creduto di poter diventa­re come Dio, ed avevano disubbidito al comando divino. L’uomo è simile a Dio soprattutto per le capacità che possiede in quanto persona. Riflette Dio nella sua intelli­genza, nella sua attitudine verso il bene e verso il male, nella sua libertà e nel suo destino immortale. Nella sua in­telligenza l'uomo è immagine di Dio. Con le sue arti e le sue doti tecniche l'uomo ha trasformato mirabilmente il mondo materiale, creato da Dio e affidato a lui come a pa­drone (cf Gn 1,26). Ma l'uomo deve stimare di più lo spi­rito di saggezza che non la tecnologia. In realtà, quanto più aumenta il suo potere tecnico tanto più ha bisogno di saggezza. Questa presuppone la capacità di afferrare il sen­so delle cose e di capire che cosa ha veramente valore. Dio ha creato gli uomini capaci di porsi dei problemi, di filo­sofare e di raccogliere importanti intuizioni sulla creazio­ne e sulle sue finalità. Tuttavia, è principalmente tramite la Rivelazione che Dio illumina le intelligenze umane con la saggezza necessaria per modellare sapientemente il mondo. Anche la coscienza rende l'uomo simile a Dio.

All’opposto di altri esseri viventi, l'uomo ha una co­stante preoccupazione per ciò che è veramente buo­no e cattivo, anche se sovente non è stabile in questa preoc­cupazione. "L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore". Anche la libertà rende l'uomo simi­le a Dio, che è sommamente libero. Gli uomini non sono guidati unicamente da forze cieche o da istinti. Essi sono responsabili e liberi. "Se vuoi, tu puoi osservare i coman­damenti; agire con fedeltà dipenderà dalla tua propria de­cisione" (Sir 15,15).

Anche nella sua condizione decaduta, l'uomo con­serva la libertà di fare le sue proprie scelte, la libertà di agire o di non agire, di fare questo o quest'altro. La li­bertà umana non è cosi piena e perfetta come quella di Dio. La pressione delle circostanze può limitare parec­chio la libertà e la responsabilità di una persona. Tutta­via, finché una persona ha la facoltà di vivere in una for­ma autenticamente umana, conserva un certo ambito di questa libertà.

Creando l'uomo, Dio gli concesse ancora un'altra li­bertà, quella che fu restituita a noi da Cristo. È la libertà di vivere nell'amicizia di Dio, di compiere, con l'aiuto del­la grazia, le buone opere che il nostro cuore desidera, e di soddisfare le aspirazioni radicate da Dio nei nostri cuori. Nessun altro essere vivente fatto di materia, se si e­sclude l'uomo, ha una conoscenza personale di Dio, né è immortale. È chiaro che l'uomo è mortale. Gli uomini muoiono. Ma essi non muoiono completamente. "È sta­bilito che gli uomini muoiano una sola volta, e poi vie­ne il giudizio" (Eb 9,27). Ciò che noi chiamiamo morte non è una cessazione completa dell'essere. È piuttosto un passaggio ad un altro stato di vita. "Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata". Chi ama Cristo al momento della morte non trova la morte del tut­to terribile. Morire per Cristo è "partire ed essere con Cristo" (Fil 1,23).

Tuttavia, la morte è un grande nemico che gli uomini naturalmente paventano e odiano. Nonostante che il suo principio spirituale sopravviva alla morte e possa essere con il Signore, tuttavia non è cosa buona per l'uomo abban­donare questa carne che è parte di se stesso. L'immorta­lità dell'uomo non è solo quella dell'anima, ma anche quella del corpo nella vita eterna, nella risurrezione, quan­do "la morte sarà stata assorbita nella vittoria" (1Cor 15,54). Ogni uomo è simile a Dio in quanto è destinato a vivere per sempre. Ecco perché qualsiasi persona deve es­sere trattata con sommo rispetto, sia essa giovane o vec­chia, sia essa utile o inutile, secondo l'ottica delle possi­bilità terrene.

In molti scritti di pastorale e di spiritualità cattolica è spesso usata l'espressione "salvare la propria anima" (cf Mt 16,26). Nelle lettere di San Paolo la "carne" si oppo­ne sovente allo "spirito". Non dobbiamo vivere "alla ma­niera della carne", ma secondo lo spirito (cf Rm 8,13).

Il termine "carne" è usato nella Sacra Scrittura in signi­ficati diversi. A volte se ne parla come di un principio al quale bisogna opporsi. In questo caso, come in tanti altri, si tratta di qualcosa di più della realtà fisica dell'uomo. Si tratta dell'uomo così come lo conosciamo, dell'uomo nel­la sua condizione di peccatore, non ancora compiuta in lui l'opera della redenzione. In altri passi scritturistici, "car­ne" equivale semplicemente a "uomo". Così, il Verbo di Dio "si è fatto carne" (Gv 1,14), cioè è divenuto un uomo con un corpo umano e un'anima umana.

"Salvare la propria anima" ha il significato di salvare completamente se stesso, salvare tutto il proprio essere per la vita eterna. Preoccuparsi della propria anima non si­gnifica affatto curare qualche parte interiore di se stesso, ma piuttosto badare a tutto il proprio essere alimentando l'amore di Iddio e del prossimo, e corrispondendo alle gra­zie che rendono capaci di avere quell'amicizia con Dio, che fiorisce nella vita eterna. Uno raggiunge la piena sal­vezza solo quando il corpo e l'anima insieme sono uniti nella gioia della risurrezione, quando la famiglia di Dio gioisce alla Sua presenza nella vita eterna.

 

LE DOMANDE DELL'UOMO

L’uomo ha da sempre verificato che, per poter sopravvivere e per poter crescere elevando­si positivamente, deve risolvere i molti problemi che giorno dopo giorno gli si presentano. E’ na­to con l'uomo, come in ogni altra creatura, l'istinto di conservazione. Questo istinto lo ha aiutato a risolve­re prima di tutto quei problemi direttamente collega­ti alla propria sopravvivenza. Spesso vi è riuscito, ma proprio in questa sua impresa l'uomo ha capito di non essere il più forte all'interno del mondo esistente; al­lora ha incominciato a porsi diversi interrogativi riguardo al senso della vita. Ed ecco che hanno fatto la loro comparsa i problemi dell'esistere: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Che senso ha la mia vi­ta? Perché esiste la morte? Perché esistono il dolore, il male, la malattia?

Nel corso dei secoli si sono evidenziate soprattutto tre possibilità di soluzione: la religione naturale; la reli­gione rivelata dalla fede; l'ateismo. Si parla di reli­gione o di religione naturale quando l'uomo, per cer­care una risposta agli interrogativi fondamentali della vita, riconosce l'esistenza di Qualcosa-Qualcuno a lui superiore e pensa di incontrarlo nelle forze della natu­ra. Si dice allora che l'uomo attribuisce poteri divini ad animali, vegetali, persone. Queste divinità però, es­sendo state inventate dagli uomini, non possono esse­re più grandi della loro scatola cranica. Essi, infatti, anche se l'uomo attribuisce loro poteri inesauribili e caratteristiche di immensa grandezza e anche l'im­mortalità, corrispondono sempre e solo alle aspettati­ve dell'uomo. Egli da sempre osserva l'ambiente in cui vive. La natura gli parla e gli fa scoprire, al di là di ciò che vede e tocca, una dimensione diversa: la di­mensione trascendente (che va al di là del mondo sen­sibile) e spirituale (che riguarda lo spirito, ciò che dà vita, senso alle realtà del mondo). Questa dimensione si esprime nelle esperienze religiose.

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LA COMPARSA DEL PECCATO

I1 primo uomo peccò, e i suoi discendenti l'hanno imita­to, ma Dio rimane misericordioso. "Se noi manchiamo di fe­de, Egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso" (2Tm 2,13). La Chiesa si rallegra per questa fedeltà misericordiosa di Dio: "E quando, per la sua disobbedienza, l'uomo perse la tua amicizia, tu non l'hai abbandonato in po­tere della morte, ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare. Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza, e per mez­zo dei Profeti hai insegnato a sperare nella salvezza".

Nella Genesi, il racconto del primo peccato si conclu­de con la profezia di una redenzione divina. Lì vediamo Dio che si rivolge al tentatore e gli dice: "Io porrò inimi­cizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno" (Gn 3,15). La fede della Chiesa ha visto in queste parole la prima di tutte le profezie, secondo cui Cristo sarebbe venuto a sal­varci. Gesù è la "stirpe" o la "progenie" della donna, e "la ragione per cui è apparso il Figlio di Dio fu per distrug­gere le opere del diavolo" (1 Gv 3,8).

Lungo i secoli della storia della salvezza anteriori a Cristo, Dio ha ripetutamente chiamato gli uomini al pen­timento, ad una rinnovata grandezza, e alla salvezza. Non ha mai dimenticato di essere stato Lui che ha creato l'uomo, e ha fatto l'uomo non solo perché fos­se la sua creatura, ma anche perché partecipasse della Sua vita divina e della Sua amicizia. Più e più volte si parla del Suo amore per il Suo popolo eletto, para­gonandolo all'amore di un marito per la sua sposa, un amore che perdura anche se costei lo tradisce; il Suo è un amore insondabile ed eterno, che alla fine la porterà alla fedeltà: "Io la attirerò a me... parlerò al suo cuore... essa risponderà come nei gior­ni della sua giovinezza... E ti fidanzerò a Me per sempre; ti fidanzerò a Me nella giustizia e nel diritto, nella bene­volenza e nell'amore" (Os 2, 16-17, 21).

Dio, intendendo e preparando nel suo grande amore la salvezza del genere umano, si scelse con singolare dise­gno un popolo, al quale affidare le sue promesse. Infatti dapprima concluse un'Alleanza con Abramo e poi col po­polo d'Israele per mezzo di Mosè. Con questa Alleanza, Dio si è impegnato di assisterli e di salvarli; in cambio ri­chiese che impegnassero se stessi ad essergli fedeli.

Dopo averli liberati dalla schiavitù dell'Egitto, Dio parlò loro per mezzo di Mosè: "Voi stessi avete visto... come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatto veni­re fino a Me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e cu­stodirete la mia Alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli (Es 19,4-5). E quando Mosè "riferì tutte queste cose, come gli aveva ordinato il Signore, tutto il popolo rispose insieme e disse: Tutto quanto il Signore ha detto noi lo faremo" (Es 19,7-8). E, tuttavia, essi e i loro discendenti caddero ripetute volte nel peccato, e fe­cero l'amara esperienza delle pene e dei castighi, conse­guenze del peccato. Ma la misericordia incessante di Dio diede loro possibilità di pentimento, e rinnovò l'Allean­za, sempre di nuovo: con Giosuè, con Davide, al tempo di Esdra. Le Alleanze di Dio con gli uomini sono un se­gno della libertà e della ricchezza del Suo amore. Con es­se il Signore di tutta la creazione liberamente lega se stes­so agli uomini. Egli entra in alleanza con coloro che li­beramente decide di favorire con speciali doni. Allo stes­so tempo, tuttavia, il suo amore permane universale: è ri­volto a tutti. Anche a quelli che ha scelto in modo parti­colare. Egli dichiara apertamente che sono stati scelti per essere coloro per mezzo dei quali Egli vuol portare la sal­vezza a tutti. Così, Egli disse ad Abramo: "Io ti benedirò... e per la tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra" (Gn 22,17- 18).

Dio, per mezzo dei profeti da Lui inviati, ha inse­gnato al suo popolo la maniera di vivere in attesa della sua misericordia redentrice. "Israele, parlando Dio stesso per bocca dei profeti, comprese il suo piano con sempre maggiore profondità e chiarezza". Questi profe­ti non erano solo uomini sinceri ed entusiasti. Erano i rappresentanti di Dio. Dio li aveva chiamati e poteva far sì che gli altri li riconoscessero come suoi profeti. Tut­tavia le parole dei Profeti non furono sempre bene ac­colte, perché essi richiedevano la fede personale e la conversione interiore, e insistevano sulla fedeltà a tutta la legge di Dio. I Profeti insegnarono agli uomini a spera­re nella salvezza che il Messia avrebbe portato. Difatti, il Vangelo, che Cristo ingiunse agli apostoli di predica­re, era stato prima promesso per mezzo dei Profeti. Co­si, i profeti dei tempi antichi parlarono della grazia del­la salvezza futura, la Buona Notizia di Cristo, che era già la salvezza per coloro che aspettavano fedelmente il lo­ro Salvatore.

La salvezza di questi ultimi è menzionata nel Nuovo Testamento, nella Lettera agli Ebrei, dove è detto di quel­li che furono favoriti col dono della fede nel tempo del­l'Antico Testamento: "Nella fede morirono tutti costo­ro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma aven­doli solo veduti e salutati di lontano... Per questo Dio non disdegna di essere chiamato loro Dio: ha preparato, in­fatti, per loro una città" (Eb 11, 13-16).

Fin dai primordi della Chiesa, il compimento delle pro­fezie dell'Antico Testamento ha guidato gli uomini verso la fede, o ha confermato la loro credenza. Tale compi­mento non è solo la realizzazione, nella vita di Cristo, di eventi particolari predetti dai Profeti.

È l'Antico Testamento nel suo insieme: sono tutte le sue promesse e le sue attese che si vedono realizzate in Cristo. Il compimento supera di molto le attese; non sa­rebbe possibile avere un quadro dettagliato del mistero di Cristo soltanto dalle promesse dell'Antico Testamento. Ma se alla luce della venuta di Cristo si getta uno sguar­do retrospettivo sull'Antico Testamento, ci si rende con­to quanto sovrabbondantemente si siano realizzate in Lui tutte le promesse e tutte le speranze.

Non si può negare che nella profezia ci sia una certa oscurità, perché essa tratta di un mistero e si rivolge alla fede. Inoltre, il linguaggio dei Profeti è sovente un lin­guaggio di simboli e di immagini poetiche. Ma anche co­sì, durante i secoli anteriori alla venuta di Cristo, le pro­messe profetiche di questo evento confermavano il popo­lo nella speranza, e, al tempo di questa venuta, diedero testimonianza a Cristo. La Chiesa insegna che le profezie dell'Antico Testamento riguardanti Cristo, come le pro­fezie proprie di Gesù nei Vangeli, sono "segni certissimi della divina rivelazione".

 

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LOTTA TRA BENE E MALE

"Siate sobri, vigilate! Il vostro avversario, il diavolo, come un leone ruggente va in giro, cercando qualcuno da divorare" (1Pt 5,8). Fedele alla dottrina della Sacra Scrit­tura, la Chiesa insegna che gli spiriti decaduti, come pure gli uomini decaduti, esistono realmente e si comportano maliziosamente nel mondo. La Chiesa non insegna il ter­rore di Satana. Essa raccomanda soltanto un santo timore di Dio, e il timore di compiere il male deliberatamente. In­fatti, l'influsso di Satana è subordinato in modo decisivo alla potenza di Dio. Come il Concilio Vaticano II ha più volte ripetuto, Cristo "ci ha liberati dal potere di Satana" (SC 6, cf GS 2,22; AG 3,9). Grazie all'opera redentrice di Cristo, il demonio può nuocere soltanto a coloro che libe­ramente gli permettono di farlo. I Vangeli parlano di pos­sessioni diaboliche, mostrano Cristo in atto di espellere de­moni e di istruire i suoi apostoli a fare altrettanto. Più gra­ve, però, del male fisico che Satana potrebbe causare, è il male morale. La Sacra Scrittura presenta Satana anche co­me una fonte di tentazione (Mt 4,1-11).

E' "il seduttore perfido e astuto, che si insinua in noi at­traverso i sensi, l'immaginazione, la concupiscenza, la lo­gica utopica, i contatti sociali disordinati nel dare e pren­dere la vita, per introdurre deviazioni...". La stessa storia mondiale è sotto l'influsso del demonio. "Tutta intera la storia umana è, infatti, pervasa da una lotta tremenda con­tro le potenze delle tenebre; la lotta, cominciata fin dal­l'origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fi­no all'ultimo giorno (cf Mt 24,13). San Paolo dice: "la no­stra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di car­ne, ma contro i Principati e le Potestà, i dominatori di que­sto mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abi­tano nelle regioni celesti" (Ef 6,12).

Chi percepisce le profondità insondabili e amare del mi­stero del male difficilmente è portato ad un ottimismo super­ficiale, a credere, cioè, che il male è soltanto un difetto accidentale del mondo in evoluzione verso giorni migliori. Ci sono tracce di malizia così profonda da lasciare perplessi. L'oscuro mistero di Satana è che vi sono nel mondo degli esseri personali che agiscono, poco conosciuti a noi, pieni di malizia e sempre pronti a compiere il male, irrevocabil­mente allontanatisi da Dio e a Lui ostili (cf Mt 25,41).

Che la storia umana sia segnata spesso da corsi tragi­ci ed irrazionali è dovuto in parte a tali influenze. Dio ri­mane il Signore di ogni cosa. Qualunque potere ha il de­monio trova i suoi limiti nei disegni della Provvidenza. Alla fin fine, tutte le cose sono state fatte per concorrere al bene di coloro che amano Dio. Satana e gli altri spiriti caduti sono essi pure semplici creature. È Dio che li ha creati, benché non li ha fatti per essere malvagi o sorgen­te di male. "Il Diavolo, infatti, e gli altri demoni sono sta­ti creati da Dio buoni per loro natura, ma essi da se stessi divennero cattivi".

La struttura rimane. Dio ha fatto ogni cosa buona. Ha proibito la malizia e l'egoismo, ma ha fatto anche le per­sone libere, e non costringe nessuno a rimanergli fedele. Quelli che orgogliosamente resistono a Dio si pervertono e portano il male nell'universo. Dio permette il male, non già perché è impotente ad impedirlo, ma perché Egli, l'On­nipotente, ama la libertà. Egli è capace di ricavare i mag­giori beni da ogni sorta di mali, come il maggior bene del­la fedeltà di fronte alle avversità, della pazienza, della ca­rità resa perfetta in prove amare.

"L'uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di in­quietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge co­me l'ombra e mai si ferma. Tu, sopra un tale essere tie­ni aperti i tuoi occhi e lo chiami a giudizio presso di te? Chi può trarre il puro dall'immondo? Nessuno. Se i suoi giorni sono contati, se hai fissato un termine che non può oltrepassare, distogli lo sguardo da lui e lascialo stare finché abbia compiuto, come un salariato, la sua giorna­ta! Poiché anche per l'albero c'è speranza: se viene ta­gliato, ancora ributta e i suoi germogli non cessano di crescere; se sotto terra invecchia la sua radice e al suolo muore il suo tronco, al sentore dell'acqua rigermoglia e mette rami come nuova pianta. L'uomo invece, se muo­re, giace inerte; quando il mortale spira, dov'è? Potran­no sparire le acque del mare e i fiumi prosciugarsi e disseccarsi, l'uomo che giace più non si alzerà, finché durano i cieli non si sveglierà, né più si desterà dal suo sonno" (Gb 14, 1-12).

 

GLORIA DI DIO E’ L’UOMO VIVENTE

"Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio del­l'uomo perché te ne curi?" (Sal 8,5). L'uomo è un gran mi­stero per lui stesso. Spesso esalta se stesso come norma as­soluta di tutte le cose, oppure si abbassa fino al punto di disperare (GS 129. Con la sua arte e la sua industria egli ha operato meraviglie che allietano l'immaginazione; nel­lo stesso tempo, però, la storia umana è anche un intreccio di peccati e di dolori, un implacabile susseguirsi di maro­si che corrodono il rispetto dell'uomo verso se stesso. Gran­dezza e miseria, santità e colpa, speranze e timori contras­segnano il mistero della sua realtà. Ma la fede cattolica pro­clama che "tutto quanto esiste sulla terra deve essere rife­rito all'uomo come a suo centro e a suo vertice" (GS 12). Ancor più, l'uomo è oggetto dell'amore di Dio stesso. "L'hai fatto poco meno di un dio, e di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue ma­ni; tutto hai posto sotto i suoi piedi" (Sal 8,6-7).

Nel primo capitolo della Genesi, là dove il primo rac­conto della creazione del mondo raggiunge il suo vertice, Dio è raffigurato nell'atto di creare l'uomo quale corona e gloria di tutto quello che aveva fatto. "Allora Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza e do­mini..." (Gn 1, 26). Gran parte della Sacra Scrittura dalle prime pagine poetiche della Genesi, che annunciano tante verità fondamentali riguardanti l'umanità, sino ai Vangeli, nei quali gli uomini conoscono in Cristo molto più a fon­do il segreto della loro natura, non è che una delucidazio­ne del significato dell'uomo. Poiché l'uomo è `l'immagi­ne di Dio', ciò che abbiamo detto di Dio ci aiuta a scopri­re che cosa noi siamo; quello che noi sappiamo dell'uma­nità, ammaestrati e aiutati dalla fede, ci istruisce nei ri­guardi di Dio. Sia nel proprio essere individuale che nella sua realtà sociale l'uomo riflette Dio che l'ha fatto.

In ogni uomo vivente si fondono intimamente la realtà fisica e quella spirituale. Fatto "con polvere del suolo" (Gn 2,7), degli stessi elementi di cui si compone la terra, l'uo­mo è il portavoce e il sacerdote di tutta la realtà materia­le. L'uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che que­sti, attraverso di lui, toccano il loro vertice e prendono vo­ce per lodare in libertà il Creatore. L'uomo è essenzial­mente una creatura corporea, e non gli è lecito disprezza­re la sua vita corporale. Come il corpo di Cristo è perfet­tamente santo per i cristiani. così pure vi è una sacralità nella dimensione corporea di ogni vita umana.

L' uomo tuttavia è maggiormente immagine di Dio nel­le sue qualità specificamente umane. È il principio spiri­tuale di ciascun uomo che fa di lui la carne vivente che e­gli è. È questo principio spirituale, o anima, che lo rende aperto alla comprensione e all'Amore infinito che l'ha chiamato alla vita. L'uomo non è un composto di corpo e di spirito, quasi si trattasse di due esseri distinti; non è sol­tanto un'anima che ha un corpo. Anima e corpo formano una singola persona vivente. L' anima non è estranea al corpo, al contrario, essa è il principio vitale che fa sì che il corpo sia la carne umana, una carne che deve essere ca­ra all'uomo ed è parte del suo essere.

Nel Cristianesimo non c'è l'odio per la materia. Esso è una religione d'incarnazione. L'anima dell'uomo non è materiale, ma è creata per dare vita umana al corpo che costituisce con essa l'uomo vivente. L'anima dell'uo­mo non preesiste al corpo. Dio crea immediatamente ogni anima individuale al momento stesso in cui la persona u­mana comincia ad essere. Nemmeno è destino dell'uomo di vivere per sempre semplicemente come un'anima, al­lorché la morte dissolve il corpo. È vero, l'anima conti­nua ad esistere come realtà spirituale dopo la morte di u­na persona e Dio chiama a sé gli uomini e sostiene in lui il loro essere e la loro gioia prima della risurrezione fina­le (cf Fil 1,23). Ma la salvezza di un uomo non è la sal­vezza dell'anima soltanto, ma quella di tutto l'uomo, ed essa sarà completa soltanto nella risurrezione del corpo, e nella vita di uomini pienamente viventi, riuniti insieme nella gioia del Signore.

 

L'INFERNO ESISTE?

Nella Costituzione Lumen gentium, il concilio Vatica­no Il ricorda con parole della Scrittura l'alto destino ver­so il quale siamo incamminati: "Con verità siamo chia­mati, e lo siamo, figli di Dio, ma ancora non siamo ap­parsi con Cristo nella gloria (cf Col 3, 4), nella quale sa­remo simili a Dio perché lo vedremo qual è. Oltre ad af­fermare questo destino glorioso, il Concilio non manca di segnalare il grande rischio che corre l'uomo, se usa male della libertà: "Siccome poi non conosciamo né il giorno né l'ora bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente affinché, finito l'unico corso della nostra vi­ta terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nu­ziale ed essere annoverati tra i beati" (cf Mt 25,31-46), né ci si comandi, come ai servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno nelle tenebre esteriori dove "ci sarà pianto e stridore dei denti".

Prima di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compa­riremo "davanti al tribunale di Cristo, perché ciascuno ri­trovi ciò che avrà fatto quando era nel suo corpo sia in be­ne che in male", e alla fine del mondo "ne usciranno, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione di condanna" (Gv 5,29).

Tutti risusciteremo, come insegna il Signore nelle pa­role riferite da san Giovanni: "chi ha operato il bene a ri­surrezione di vita; chi ha operato il male, a risurrezione di condanna": alcuni per il cielo e altri per l'inferno. La ve­rità di fede dell'inferno, rivelata varie volte nel Nuovo Te­stamento, dev'essere accettata alla luce di un'altra verità centrale della nostra fede: il Signore ha manifestato il suo desiderio che "tutti gli uomini siano salvati e arrivino al­la conoscenza della verità".

Davanti alla realtà dell'inferno e al concetto che l'uo­mo ha di Dio, spesso sorge la perplessità nel cuore del­l'uomo. "Se Dio desidera così" la salvezza dell'uomo, pos­siamo domandarci con Giovanni Paolo II, "se Dio per questa causa dona suo Figlio..., può l'uomo essere dannato, può essere respinto da Dio? Può Dio, il quale ha tanto a­mato l'uomo, permettere che costui lo rifiuti così da dover essere condannato a perenni tormenti? E, tuttavia, le paro­le di Cristo sono univoche. In Matteo egli parla chiara­mente di coloro che andranno al supplizio eterno". Come si coniugano queste due verità? Come possiamo afferma­re la nostra fede in un Dio che è Amore e che desidera sal­vare, e che è al tempo stesso Giustizia definitiva e non am­mette che restino impuniti i crimini degli uomini? Non so­no domande nuove: hanno turbato i pensatori nel corso del­la storia, da Origene, nel III secolo, fino ai nostri giorni.

Domande alle quali si risponde facendo ricorso alla Rive­lazione e accettando l'esistenza del mistero: il mistero del­l'Amore di Dio e della sua Giustizia, e il mistero del pec­cato e dell'indurimento del cuore dell'uomo.

Nella parabola del ricco epulone e del povero Lazza­ro il Signore affronta un argomento che ha preoccupato nei secoli precedenti: come mai a volte all'empio le cose vanno bene in questa vita e al giusto vanno male. Nel­l'Antico Testamento viene progressivamente rivelata la soluzione al problema: anzitutto viene affermato che qui in terra, alla fine, il Signore fa giustizia. E la risposta che troviamo, per esempio, nel Salmo 36: "Sono stato fan­ciullo e ora sono vecchio, non ho mai visto il giusto ab­bandonato, né i suoi figli mendicare il pane... Ho visto l'empio trionfante... Sono passato e più non c'era, l'ho cer­cato e più non si è trovato". Nel libro di Giobbe, gli ami­ci insistono sul fatto che le sofferenze di Giobbe dipen­dono dai suoi peccati: soffri?, dunque hai peccato, per que­sto vieni castigato. Nella seconda parte si fa un passo a­vanti: un altro personaggio, Elifaz, parla del mistero del­la provvidenza divina: non possiamo chiedere spiegazio­ni a Dio, che è troppo grande perché lo possiamo com­prendere. E Giobbe, da parte sua, manifesta la sua spe­ranza nell'aldilà, dove si risolve il problema della retri­buzione. Nella parabola del ricco epulone, il Signore usa l'espressione "seno di Abramo".

Nell'Antico Testamento era stata data una rivelazione progressiva sulla sorte di coloro che muoiono: in princi­pio si afferma l'esistenza dello Sheol, dove riposano i mor­ti, tanto i giusti quanto gli ingiusti; i profeti stabiliscono come dei gradi nello Sheol: gli empi stanno nella sua par­te più profonda. Al tempo della predicazione di Cristo, gli ebrei sapevano dai salmi che il giusto spera da Dio la li­berazione dallo Sheol, che non è più un dormitorio comune ma significa l'inferno in senso stretto.

Già dal libro della Sapienza la diversa sorte degli uni e degli altri nell'aldilà era stata posta in maniera sempre più chiara: il destino dell'empio è la morte la permanen­za nello Sheol; i giusti hanno la vita eterna in comunione con Dio. Questi stanno nel seno di Abramo, che non è un luogo di tormento, ma di gioia. È importante anche l'af­fermazione di Daniele: anche l'empio risusciterà. Gli uni risusciteranno "alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna".

 

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ASTIENITI DAL FARE IL MALE

Chi ha conosciuto Dio, non deve più operare mal­vagiamente, ma compiere il bene. Astieniti dal male e non farlo; non astenerti dal bene ma fal­lo. Poiché se ti astieni dal fare il bene, commetti peccato grave; se invece ti astieni dal fare il male, compi una gran­de giustizia. Astieniti pertanto da ogni malvagità operando il bene. Ci dobbiamo astenere dall'adulterio e dalla for­nicazione, dal bere smodato, dalle malvagie delizie, dal­le molte vivande, dallo sfoggio di ricchezza; dalla mil­lanteria e arroganza e superbia, dalla menzogna e maldi­cenza e simulazione, dal rancore e da ogni bestemmia. Queste azioni sono di tutte le più cattive nella vita degli uomini. Bisogna pertanto che il servo di Dio si astenga da queste azioni; poiché chi non si astiene da queste non può vivere per Dio. Molte cose vi sono, dalle quali biso­gna che il servo di Dio si astenga: furto, menzogna, falsa testimonianza, avarizia, mala passione, inganno, vana­gloria, ostentazione e quanto vi è di simile a queste cose. Ascolta invece le cose dalle quali bisogna che tu non ti a­stenga, ma le faccia. Dal bene non astenerti, ma fallo. Le azioni dei buoni, le quali bisogna che tu compia, né te ne astenga, sono anzitutto la fede, il timore del Signore, la carità, la concordia, le parole di giustizia, la verità, la pa­zienza; nulla di più buono di queste cose vi è nella vita degli uomini. Se uno osserva queste cose né si astiene da esse, beato diventa nella Sua vita.

Ascolta poi quelle che a queste fanno corona: assistere le vedove, visitare gli orfani e gli indigenti, essere ospitale, non contrastar nessuno, essere pacifico, starsene al di sot­to di tutti gli uomini, onorare i vecchi, praticare la giusti­zia, conservare la fraternità, sopportare l'oltraggio, esser paziente, non aver rancore, consolare i travagliati nell'a­nimo, non disdegnare quelli che hanno abbandonato la fe­de, ma rimetterli nella retta via e renderli fiduciosi, am­monire i peccatori, non opprimere i debitori e i bisogno­si

(Mand.8, 2-12). (da Il Pastore di Erma - scritto circa 100 anni dopo la morte di Cristo)

 

IL DESTINO DEI GIUSTI E DEGLI EMPI

Sono 23 i luoghi nei quali i Vangeli fanno riferimento al fuoco dell'inferno, con espressioni che non attenuano la se­rietà del castigo annunciato nell'Antico Testamento. Come insegna con evidenza la parola del ricco epulone, il destino dei giusti e degli ingiusti, nella fase escatologica, è diffe­rente: "Ecco lui "Lazzaro" è consolato e tu "il ricco" sei in mezzo ai tormenti". La medesima verità viene insegnata in molti altri passi, per esempio: "Così sarà alla fine del mon­do. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e strido­re di denti".

Un'altra pagina che afferma la diversa sorte dei giusti e de­gli ingiusti, è il cosiddetto discorso escatologico (capitoli 24 e 25 di san Matteo): "Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti ed egli se­parerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sini­stra". Nel Nuovo Testamento, servendosi costantemente di ter­mini usati dall'Antico Testamento, il Signore e gli apostoli fanno riferimento alla condizione di dannazione eterna con di­verse espressioni, oltre a inferno: Geenna, abisso, fornace ar­dente, tenebre esteriori, luogo di tormenti, morte seconda, ecc. Giovanni Paolo II, in linea con la tradizione teologica e ma­gisteriale, ne offre una linea interpretativa: "Le immagini con le quali la Sacra Scrittura ci presenta l'inferno devono essere interpretate correttamente. Esprimono l'estrema frustrazione e vuoto di una vita senza Dio. L' inferno, più che un luogo, in­dica la situazione a cui giunge colui che liberamente e defini­tivamente si allontana da Dio, fonte di vita e di gioia".

Con dichiarazioni della Sacra Scrittura così perentorie, la fede nell'esistenza dell'inferno nel corso della storia del­la Chiesa è stata costante: i Padri apostolici riprendevano le formule del Nuovo Testamento; e i primi simboli della fede affermavano l'esistenza della condanna, come per e­sempio quello detto Quicumque o Simbolo atanasiano, nel quale si afferma: "E quanti operarono il bene, andranno al­la vita eterna; quanti, invece, il male, nel fuoco eterno".

Nei primi secoli, solo alcuni gnostici negarono l'esi­stenza dell'inferno, sostenendo invece che coloro che non si salvano, saranno annientati. Ma questo "non stare con Cristo" il Signore non lo spiega come annientamento, ben­sì come tormento e dolore eterno. Gli avventisti e i testimo­ni di Geova, basandosi su un'esegesi assai poco fondata, difendono oggi, come anticamente alcuni gnostici, l'an­nientamento totale di quanti non fanno parte del numero degli eletti. Fra i successivi documenti magisteriali sono da evidenziare le definizioni sull'esistenza dell'inferno date dal Concilio Lateranense IV (anno 1215) (nel quale viene definita anche l'eternità delle pene), dal Concilio di Lione (anno 1274) e da quello di Firenze (anno 1439) (in cui viene dichiarato che la condanna inizia immediata­mente dopo la morte).

Le più importanti affermazioni dogmatiche sull'inferno sono raccolte nella Bolla Benedictus Deus di Benedetto XII (anno 1336), nella quale si legge: "Noi inoltre definiamo che, secondo la generale disposizione di Dio, le anime di coloro che muoiono in peccato mortale attuale, subito do­po la loro morte discendono all'inferno, dove sono tor­mentate con supplizi infernali". Come osserva il cardinale Joseph Ratzinger, la dottrina dell'inferno si scontra con la nostra idea di Dio e dell'uomo, ma è fortemente radicata nell'insegnamento di Gesù. Tanto che non è possibile al­cuna incertezza: è un dogma di fede con una base molto so­lida nel Vangelo e negli scritti apostolici, sia quanto all'e­sistenza dell'inferno che all'eternità delle pene.

Dicono fra loro sragionando: "La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per ca­so e dopo saremo come se non fossimo stati. È un fumo il soffio nelle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore. Una volta spentasi, questa, il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria legge­ra. Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessu­no si ricorderà delle nostre opere. La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore. La no­stra esistenza è il passare di un'ombra e non c'è ritorno al­la nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso del­le creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squi­sito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della pri­mavera, coroniamoci di boccioli di rose prima che avviz­ziscano; nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché que­sto ci spetta, questa è la nostra parte" (Sap 2,1-9).

 

LA PENA ETERNA

Monsignor De Ségur (1881) nel suo libro L'Enfer rac­conta il seguente episodio che apprese direttamente da un parente della dama a cui il fatto si riferisce: "In quel tem­po, Natale del 1859, ella era ancora viva. Si trovava a Lon­dra nell'inverno dal 1847 al 1848, vedova sui 29 anni, ric­ca e appassionata dei divertimenti. Fra le eleganti persone che frequentavano il suo salotto, si faceva notare un gio­vane signore le cui continue visite la compromettevano non poco. Una notte, la signora stava leggendo a letto un ro­manzo. Udito suonare il tocco dell'orologio, spense le can­dele e stava per addormentarsi, quando s'accorse che una luce strana, pallida, sembrava avvicinarsi. Con stupore e sgomento vide aprirsi lentamente la porta ed entrare nella camera quel giovane signore, il quale prima che ella po­tesse pronunciare parola, le si avvi­cinò, le strinse il braccio sinistro al polso e con ac­cento disperato le disse: "Vi è l'in­ferno". Per lo spavento e per il dolore di quella stretta, la signora svenne. Rinvenu­ta chiamò la ca­meriera. Costei, entrando, sentì un forte odore di bruciato, e avvi­cinatasi alla pa­drona che a sten­to poteva parlare, vide che aveva in­torno al polso una scottatura così profonda che le carni si erano quasi consumate. Osservò pure che dalla porta del salone fino al letto e dal letto alla porta c'era sul tappeto impressa l'orma di un passo d'uo­mo che aveva bruciato il panno da parte a parte. L'indo­mani, l'infelice signora venne a sapere, con spavento, come quella notte, verso l'una, quel giovane era caduto u­briaco fradicio e che i servi l'avevano raccolto e portato nella sua camera dove improvvisamente morì". All'epoca in cui quel vicino parente della signora narrava il tragico caso, la sventurata portava ancora al polso sinistro una lar­ga fascia in forma di braccialetto che non toglieva mai.

 

DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

1033. "Non possiamo essere uniti a Dio se non sce­gliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi: "Chi non ama ri­mane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna" (1Gv 3,15). Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli. Morire in peccato mortale senza essersene pen­titi e senza accogliere l'amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva au­to-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola "inferno".

1034. Gesù parla ripetutamente della "Geenna", del "fuoco inestinguibile", che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e do­ve possono perire sia l'anima che il corpo. Gesù an­nunzia con parole severe che egli "manderà i suoi an­geli, i quali raccoglieranno... tutti gli operatori di ini­quità e li getteranno nella fornace ardente" (Mt 13,41­42), e che pronunzierà la condanna: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!" (Mt 25,41).

1035. La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esi­senza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la mor­te discendono immediatamente negli inferi, dove subi­scono le pene dell'inferno, "il fuoco eterno". La pena principale dell'inferno consiste nella separazione eter­na da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.

1036. Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli in­segnamenti della Chiesa riguardanti l'inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l'uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino e­terno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione. "Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per es­sa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla Vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!" (Mt 7,13-14).

Siccome non conosciamo né il giorno né l'ora, bi­sogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo as­siduamente, affinché, finito l'unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati tra i beati, né ci si co­mandi, come a servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove "ci sarà pianto e stridore di denti".

1037. Dio non predestina nessuno ad andare all'in­ferno; questo è la conseguenza di una avversione vo­lontaria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine. Nella liturgia eucaristica e nelle pre­ghiere quotidiane dei fedeli, la Chiesa implora la mi­sericordia di Dio, il quale non vuole "che alcuno peri­sca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2Pt 3,9): Accetta con benevolenza, o Signore, l'offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia: di­sponi nella tua pace i nostri giorni, salvaci dalla dan­nazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti.

 

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LA TESTIMONIANZA DEI MISTICI

Santa Teresa d'Avila:

"Tale visione durò un brevissimo spazio di tempo, ma anche se vivessi molti anni, mi sembra che non potrei mai dimenticarla. L’entrata mi pareva come un vicolo assai lungo e stretto, come un forno molto basso, scuro e angusto; il suolo, una melma piena di sudiciume e di un odore pestilenziale in cui si muoveva una quantità di rettili schifosi. Nella parete di fondo vi era una cavità come di un armadietto incassato nel muro, dove mi sentii rinchiudere in un spazio assai ristretto. Ma tutto questo era uno spettacolo persino piacevole in confronto a quello che qui ebbi a soffrire. Ciò che ho detto, comunque, è mal descritto.

Quello che sto per dire, però, mi pare che non si possa neanche tentare di descriverlo né si possa intendere: sentivo nell’anima un fuoco di tale violenza che io non so come poterlo riferire; il corpo era tormentato da così intollerabili dolori che, pur avendone sofferti in questa vita di assai gravi, anzi, a quanto dicono i medici, dei più gravi che in terra si possano soffrire – perché i miei nervi si erano tutti rattrappiti quando rimasi paralizzata, senza dire di molti altri di vario genere che ho avuto, alcuni dei quali, come ho detto, causati dal demonio – tutto è nulla in paragone di quello che ho sofferto lì allora, tanto più al pensiero che sarebbero stati tormenti senza fine e senza tregua. Eppure anche questo non era nulla in confronto al tormento dell’anima: un’oppressione, un’angoscia, una tristezza così profonda, un così accorato e disperato dolore, che non so come esprimerlo. Dire che è come un sentirsi continuamente strappare l’anima è poco, perché morendo, sembra che altri ponga fine alla nostra vita, ma qui è la stessa anima a farsi a pezzi. Non so proprio come descrivere quel fuoco interno e quella disperazione che esasperava così orribili tormenti e così gravi sofferenze. Non vedevo chi me li procurasse, ma mi pareva di sentirmi bruciare e dilacerare; ripeto, però, che il peggior supplizio era dato da quel fuoco e da quella disperazione interiore.

Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com’ero in quella specie di buco nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocamento. Non c’era luce, ma tenebre fittissime. Io non capivo come potesse avvenire questo: che, pur non essendoci luce, si vedesse ugualmente ciò che poteva dar pena alla vista. Il Signore allora non volle mostrarmi altro dell’inferno; inseguito, però, ho avuto una visione di cose spaventose, tra cui il castigo di alcuni vizi. Al vederli, mi sembravano ben più terribili, ma siccome non ne provavo la sofferenza, non mi facevano tanta paura, mentre in questa prima visione il Signore volle che io sentissi davvero nello spirito quelle angosce e afflizioni, come se le patissi nel corpo. Non so come questo sia avvenuto, ma mi resi ben conto che era per effetto di una grande grazia e che il Signore volle farmi vedere con i miei occhi da dove la sua misericordia mi aveva liberato. Sentir parlare dell’inferno è niente, com’è niente il fatto che abbia alcune volte meditato sui diversi tormenti che procura (anche se poche volte, perché la via del timore non è fatta per la mia anima) e con cui i demoni torturano i dannati e su altri ancora che ho letto nei libri; non è niente, ripeto, di fronte a questa pena, che è ben altra cosa. C’è la stessa differenza che passa tra un ritratto e la realtà; bruciarsi al nostro fuoco è ben poca cosa in confronto al tormento del fuoco infernale.

Rimasi spaventata e lo sono tuttora mentre scrivo benché siano passati quasi sei anni tanto da sentirmi agghiacciare dal terrore qui stesso, dove sono. Così non c’è una volta in cui io sia afflitta da qualche sofferenza o dolore che non mi sembri una sciocchezza tutto quello che si può soffrire quaggiù, convinta che, in parte, ci lamentiamo senza motivo. Torno pertanto a dire che questa è una delle maggiori grazie che il Signore mi ha fatto, perché mi ha aiutato moltissimo, sia per non temere più le tribolazioni e le contraddizioni di questa vita, sia per sforzarmi a sopportarle e ringraziare il Signore di avermi liberato, come ora mi pare, da mali così terribili ed eterni.

D’allora in poi, ripeto, tutto mi sembra facile in paragone di un attimo di quella sofferenza ch’io ebbi lì a patire".

(Santa Teresa d'Avila [dottore della Chiesa]; "Libro della vita", cap. 32) [Approvazione ecclesiastica]

 

 

Santa Caterina da Siena:

(1) "Figliola, la lingua non è sufficiente a descrivere la pena di queste povere anime. Come ci sono tre vizi principali - cioè l'amore per sé stessi, da cui proviene il secondo, che è l'amore per la propria reputazione, e dalla reputazione procede il terzo, cioè la superbia, con l’ingiustizia, la crudeltà e con altri immondi e iniqui peccati che seguono questi - così ti dico che nell'inferno essi hanno quattro tormenti principali, dai quali procedono tutti gli altri tormenti.

Il primo è che si vedono privati della mia visione, e ciò è per loro pena tanto grande che, se fosse possibile, sceglierebbero il fuoco e i più grandi tormenti e vedermi, piuttosto che non avere pene e non vedermi. Questa prima pena produce in loro la seconda, quella del verme della coscienza, il quale sempre rode, vedendosi essi per loro colpa privati di me e della compagnia degli angeli, avendo meritato la compagnia dei demoni e la loro visione. Il vedere il demonio (che è la terza pena) raddoppia in loro ogni fatica.

Come i santi sempre esultano nella visione di Me, e vedono rinnovarsi con allegrezza il frutto delle fatiche che essi hanno portate per Me, con tanta abbondanza d'amore e disprezzo di loro medesimi, così, al contrario, in questi poveretti si rinnovano i tormenti della visione del demonio, perché nel vederlo essi conoscono più sé stessi, cioè conoscono che per loro colpa se ne sono fatti degni. E per questa ragione il verme rode ancor di più, e il fuoco di questa coscienza non cessa mai di ardere.

E la pena è ancora più grande perché essi lo vedono nella sua figura, la quale è tanto orribile che non c'è cuore d'uomo che la possa immaginare. E se ben ti ricordi, quando te lo mostrai nella sua forma in un breve spazio di tempo (che sai che fu quasi un istante), tu scelsi, dopo che fosti tornata in te, di volere andare per una strada di fuoco, anche se dovesse durare fino al giorno del giudizio, piuttosto che vederlo ancora. Malgrado tutto questo che tu vedesti, tuttavia non sai bene quanto egli è orribile, perché si mostra, per divina giustizia, più orribile nell'anima che è privata di me, e più o meno secondo la gravità delle loro colpe.

Il quarto tormento è il fuoco. Questo fuoco arde e non consuma, perché l'anima non può consumare sé stessa; non è cosa materiale che il fuoco può consumare, perché essa è incorporea. Ma Io per divina giustizia ho permesso che il fuoco li bruci dolorosamente, così che li affligga e non li consumi. E li affligga e li bruci con grandissime pene, in diversi modi, secondo la diversità dei peccati; chi più e chi meno, secondo la gravità della colpa.

Da questi quattro tormenti provengono tutti quanti gli altri: freddo e caldo e stridore di denti e altri ancora. Ora, poiché non vollero correggersi dopo il primo rimprovero che gli fu fatto, per il falso giudizio e l'ingiustizia nella loro vita, e poiché nel secondo rimprovero, cioè nell’ora della morte, non vollero sperare né vollero dolersi dell'offesa che mi avevano fatto, ma solo della loro pena, allora hanno ricevuto così miserabilmente la morte eterna".

(Santa Caterina da Siena [dottore della Chiesa]; "Dialogo della Divina Provvidenza", cap. 38) [Approvazione ecclesiastica]

(1): adattamento in italiano moderno di un codice originale edito nel 1912

 

 

Santa Faustina Kowalska:

"Oggi, sotto la guida di un angelo, sono stata negli abissi dell’inferno. E’ un luogo di grandi tormenti per tutta la sua estensione spaventosamente grande.

Queste le varie pene che ho viste: la prima pena, quella che costituisce l’inferno, è la perdita di Dio; la seconda, i continui rimorsi di coscienza; la terza, la consapevolezza che quella sorte non cambierà mai; la quarta pena è il fuoco che penetra l’anima, ma non l’annienta; è una pena terribile: è un fuoco puramente spirituale acceso dall’ira di Dio; la quinta pena è l’oscurità continua, un orribile soffocante fetore, e benché sia buio i demoni e le anime dannate si vedono fra di loro e vedono tutto il male degli altri e il proprio; la sesta pena è la compagnia continua di satana; la settima pena è la tremenda disperazione, l’odio di Dio, le imprecazioni, le maledizioni, le bestemmie. Queste sono le pene che tutti i dannati soffrono insieme, ma questa non è la fine dei tormenti. Ci sono tormenti particolari che le varie anime che sono i tormenti dei sensi. Ogni anima con quello che ha peccato viene tormentata in maniera tremenda e indescrivibile. Ci sono delle orribili caverne, voragini di tormenti, dove ogni supplizio si differenzia dall’altro. Sarei morta alla vista di quelle orribili torture, se non mi avesse sostenuta l’onnipotenza di Dio.

Il peccatore sappia che col senso col quale pecca verrà torturato per tutta l’eternità. Scrivo questo per ordine di Dio, affinché nessun’anima si giustifichi dicendo che l’inferno non c’è, oppure che nessuno c’è mai stato e nessuno sa come sia. Io, Suor Faustina, per ordine di Dio sono stata negli abissi dell’inferno, allo scopo di raccontarlo alle anime e testimoniare che l’inferno c’è. Ora non posso parlare di questo. Ho l’ordine da Dio di lasciarlo per iscritto. I demoni hanno dimostrato un grande odio contro di me, ma per ordine di Dio hanno dovuto ubbidirmi.

Quello che ho scritto è una debole ombra delle cose che ho visto. Una cosa ho notato e cioè che la maggior parte delle anime che ci sono, sono anime che non credevano che ci fosse l'inferno. Quando ritornai in me, non riuscivo a riprendermi per lo spavento, al pensiero che delle anime là soffrono così tremendamente, per questo prego con maggior fervore per la conversione dei peccatori, ed invoco incessantemente la misericordia di Dio per loro. O mio Gesù, preferisco agonizzare fino alla fine del mondo nelle più grandi torture, piuttosto che offenderTi col più piccolo peccato".

(Santa Faustina Kowalska; "Diario di Suor Faustina Kowalska", pag. 276-277) [Approvazione ecclesiastica]

 

 

La veggente di Fatima, Suor Lucia:

"…la Signora aprì di nuovo le mani, come nei due mesi precedenti. Sembrò che il riflesso penetrasse la terra e vedemmo come un mare di fuoco. Immersi in quel fuoco i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, in forma umana, che fluttuavano nell’incendio, trasportate dalle fiamme che uscivano da loro stesse, insieme a nuvole di fumo che cadevano da ogni parte uguali al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione che suscitavano orrore e facevano tremare di paura. I demoni si distinguevano per le forme orribili e schifose di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti come neri carboni roventi.

Eravamo spaventati e come per chiedere aiuto, alzammo gli occhi alla Madonna, che ci disse con bontà e tristezza: ‘Avete visto l’inferno, dove vanno a finire le anime dei poveri peccatori… ".

(Apparizione di Fatima del 13 luglio 1917) [Approvazione ecclesiastica]

 

 

La mistica boliviana, Catalina Rivas:

"...Nell’inferno [...] non c’è gioia ma odio; non unione ma disaccordo completo. Essi sono nelle tenebre più complete e ci sono a causa dell’amore che hanno per se stessi, amore che li porta ad odiare Me e tutti. Per questo la violenza è suprema nell’inferno…".

(19 gennaio 1996, messaggio di Gesù a Catalina Rivas) [Con imprimatur del Vescovo locale]

 

 

La Madonna ha portato due dei veggenti di Medjugorje (Vicka e Jakov) a visitare il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio. Ecco come Vicka descrive l’Inferno:

"Prima abbiamo visto un grande fuoco… Eravamo abbastanza vicini e davanti a noi c’era il fuoco… Noi vi siamo stati con la Madonna. Per noi è stato un modo diverso... [Vicka vuol dire che lei e Jakov in quel momento erano solo spettatori e non attori di quella situazione e quindi di quel tremendo dramma non avevano la stessa percezione che ne avevano i dannati; N.d.R.]... Abbiamo visto le persone che prima di entrare nel fuoco sono normali; poi, quando precipitano nel fuoco, vengono trasformati in orribili animali. Si sentono tante bestemmie e le persone che urlano e gridano… E’ come quando tu vedi una persona, per esempio una ragazza bionda, che prima di entrare nel fuoco è normale. Ma quando va giù nel fuoco e poi ritorna su, si cambia in una bestia, come se non fosse mai stata una persona".

Vicka spiega che le persone trasformate in bestie hanno anche le corna e la coda "è proprio un modo di essere simile a demoni. E’ una trasformazione che avviene rapidamente. Prima di precipitare giù nel fuoco, sono normali e quando ritornano su sono trasformati… La Madonna ci ha detto: ‘Queste persone che si trovano qui all’Inferno vi sono andate con la loro propria volontà, perché loro vi hanno voluto andare. Quelle persone che qui sulla terra vanno contro Dio già incominciano a vivere un Inferno e poi solo continuano’. [All’inferno] ci va chi vuole…Va chi è contro la volontà di Dio... Dio non manda nessuno. Tutti abbiamo la possibilità di salvarci".

(Testimonianza della veggente di Medjugorje, Vicka Ivankovic. Brani tratti dal libro di Padre Livio Fanzaga "Vicka parla ai giovani e alle famiglie")

 

 

Rosario Toscano, il veggente delle apparizioni di Belpasso:

"Dopo un po’ la Madonna accostò le sue mani l’una accanto all’altra aperte. Dalle palme uscì una luce intensa che cadde a terra un po’ più avanti dove io ero inginocchiato: io guardai e vidi che la terra si spaccò. Dentro quella specie di profondo fossato vidi un mare di fuoco, dove erano immerse delle persone che bruciavano e gemevano, ed il loro colore variava dal color carbone a quello bronzeo. C’erano anche degli animali di una specie sconosciuta e non esistente su questa terra. Io spaventato alzai gli occhi alla Madonna e le dissi: ‘Madonnina, salvali!’. La Madonna rispose: ‘Sono le anime dell’inferno, sono coloro che non solo hanno dimenticato Dio, ma l’hanno offeso indifferenti di Gesù e delle Sue Leggi’ ".

(1 febbraio 1987; testimonianza del veggente di Belpasso, Rosario Toscano)

 

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