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CORSO BIBLICO SULLE LETTERE DI S.PAOLO

Ultimo Aggiornamento: 19/11/2012 19:28
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18/11/2012 21:09
 
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Le lettere di San Paolo

 

 

Prima lettera ai Tessalonicesi

 

Prendiamo in considerazione le lettere di S.Paolo cominciando dalla prima lettera ai Tessalonicesi. Qualcuno dei presenti in uno dei libri da me proposti nella prima lezione, potrebbe trovare delle opinioni in parti discordanti da quelle che esporrò, poiché l'esegesi cattolica della Sacra Scrittura si presenta abbastanza variegata. Infatti, la Bibbia viene presa in considerazione da vari autori che appartengono a diverse scuole di pensiero. E ciò costituisce una sorta di preconcetto per molti che si accostano alla Sacra Scrittura. Per esempio, uno studioso della corrente strettamente storico-critica tenderà a considerare storicamente non fondato tutto ciò che non è chiaramente riconducibile ad una esperienza razionale. Di conseguenza i miracoli narrati nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli verrebbero considerati delle "favolette" usate per dire che Dio è potente, che Dio Salva i suoi amici. Per questi autori l'episodio (il miracolo) sarebbe inventato, non corrisponderebbe necessariamente a un fatto storico.

Secondo altri studiosi, invece, non è possibile sostenere che un fatto non sia avvenuto semplicemente perché non riconducibile alla nostra ragione.

Dico tutto questo come premessa al nostro studio perché puo' darsi che alcuni degli autori da me citati nella bibliografia propongano un suddivisione delle lettere di S. Paolo diversa da quella che indicherò.

 

Certi esegeti pensano che solo alcune delle "Lettere" riportate nella Bibbia e attribuite a S. Paolo siano state scritte da lui, mentre le altre farebbero parte della c.d. pseudo-epigrafia. Si tratterebbe, cioè, di lettere attribuite a un personaggio illustre (che non le ha scritte) per dare loro maggiore importanza.

Io credo si possa sostenere che tutte le lettere ritenute di S. Paolo siano effettivamente riconducibili a lui, salvo la lettera agli Ebrei. Notiamo che anche nella liturgia questa lettera non viene indicata come "Lettera agli Ebrei di S. Paolo apostolo", ma se semplicemente come "Lettera agli Ebrei".

Di conseguenza nella suddivisione che vi propongo prendiamo in considerazione tutte le lettere attribuite a S. Paolo escludendo quella agli Ebrei.

 

I ° gruppo: le c.d. "lettere maggiori", cioè la lettera ai Romani, le due lettere ai Corinzi, la lettera ai Galati e le due lettere ai Tessalonicesi

 

II° gruppo: le "lettere della prigionia", ossia le lettere ai Colossesi, agli Efesini, ai Filippesi e a Filemone

 

III° gruppo: le "lettere pastorali", ossia le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito.

 

Tutte risultano scritte tra il 50-51 e il 65-66 e occupano, quindi, lo spazio di circa quindi anni nella vita dell'apostolo.

 

Potremmo chiederci: perché S. Paolo scrive? Perché, per una finalità essenzialmente apostolica, vuole comunicare a distanza con alcune comunità per aiutarle a risolvere i problemi sorti al loro interno.

Allora gli scritti di Paolo hanno uno scopo molto pratico e - a differenza di tante lettere dell'antichità - non sono né un esercizio letterario né uno sfoggio di bella scrittura e neppure la semplice espressione di pensieri nobili. E, per appartenendo a un genere letterario ben preciso (genere epistolare), non sono delle vere e proprie epistole (le quali erano una specie di trattazione in cui - ad esempio - un problema morale veniva affrontato in una forma quasi di esposizione dottrinale) e nemmeno vere e proprie lettere (che avevano una forma più confidenziale in quanto generalmente indirizzate a un amico). A questo secondo genere letterario appartiene un famoso scritto di S. Ambrogio a S. Felice, vescovo e fondatore della Chiesa di Como. E' il tipico esempio di una lettera fra amici.

In S. Paolo questi due generi (epistola e lettera) si mischiano, coesistono sempre. Le sue sono contemporaneamente lettere ed epistole che non scadono mai nella trattazione dottrinale fatta dal maestro, ma hanno sempre una notazione personale. In esse i riferimenti personali sono numerosi e sempre è presente il cuore di Paolo.

Quando l'apostolo parla di Cristo non fa mai un'esposizione dottrinale, ma parla di "qualcuno" che ha nel cuore e che conosce bene. In tutte le sue lettere S. Paolo mischia il "personale", cioè le sue vicende, con la trattazione di tipo morale e teologico. E notiamo che questi due aspetti sono presenti sempre nelle sue lettere, di solito già negli esordi, talvolta anche negli epiloghi.

 

Lettura: Lettera ai Romani 1,1-7, l'esordio della lettera.

In questo brano troviamo una cristologia completa e, insieme, una storia personale: l'apostolo - che è tale per vocazione - inizia subito con una trattazione completa - che sgorga dal cuore - su Gesù Cristo.

Una annotazione interessante: Paolo era ebreo e tale resta anche se parla il greco e inventa un nuovo modo di presentare il Vangelo.

 

Abbiamo detto negli anni precedenti che il saluto greco caire ("stai bene"), termine che nella Bibbia assume il significato di "rallegrati" (Lc 1,28). E' il saluto messianico per eccellenza.

Nel brano appena letto al v. 7 alla parola "grazia" ((caris) è unita la parola ebraica "pace" (shalom); "grazie e pace" (caris e eirene in greco). Allora, questo ebreo prende dalle due culture i due concetti più belli, cioè la "grazia", che è sovrabbondante amore di Dio che si riversa su di noi, e la "pace" che viene dal Signore. Ecco, uno stupendo saluto cristiano che è greco ed ebraico nello stesso tempo: grazia e pace.

 

S. Paolo nelle lettere ha uno stile personalissimo. Sapeva molto bene il greco ma non aveva interesse a scrivere un'opera letteraria in quanto i suoi scopi erano assai concreti. Egli adopera un modo di esprimersi talvolta contorto, cambiando spesso argomento. Per rendere meglio il suo pensiero sovente è costretto ad unire - secondo un suo criterio personale - delle preposizioni a sostantivi e a verbi, come ad esempio nell'espressione "con-morire con Cristo" per esprimere il senso dell'unione profonda che dobbiamo avere con Cristo.

E', quindi, un autore da affrontare con attenzione e con cautela, anche perché S. Paolo attribuisce a volte a dei vocaboli greci un significato diverso da quello loro proprio. Ad esempio la parola dicaiusüne che in greco vuol dire "giustizia" ed è usata come termine giuridico, per Paolo significa "la benevolenza di Dio".

 

Notiamo anche che nelle lettere sono presenti dei semitismi, cioè dei termini derivati dall'ebraico e dall'aramaico, la lingua in uso fra gli ebrei di Palestina.

 

Cominciamo l'esame delle lettere paoline con la prima lettera ai Tessalonicesi.

Come abbiamo già visto durante la studio dei Vangeli, un'opera di questo tipo è sempre contestualizzata in una certa comunità. Così Matteo nel suo Vangelo riporta molte citazioni vetero-testamentarie perché la sua opera era destinata ai giudeo-cristiani che avevano bisogno di considerare Gesù come senso ultimo delle profezie.

 

Tessalonica (l'odierna Salonicco), capitale della Macedonia, era una città notevole per importanza politica e, soprattutto, economica, in quanto possedeva uno dei porti più grandi del Mar Egeo. Era situata lungo la "Via Egnazia" che collegava - attraverso Durazzo - l'Italia con il Bosforo e l'Oriente. In quella città cosmopolita era presente una forte comunità ebraica. e, in particolare, una grande varietà di religioni, insieme a culti misterici legati alla magia e provenienti principalmente dall'Egitto e dall'Oriente.

 

Tessalonica era stata fondata nel 315 a.C. dal generale Cassandro in onore della moglie Tessaloniché, sorella dell'imperatore Alessandro Magno.

 

Paolo qui inizia a rivolgersi ai pagani, dopo aver predicato per alcuni giorni - inascoltato - nella sinagoga agli ebrei. Vedremo in seguito che la comunità cristiana di Tessalonica si qualificherà come la prima comunità formata esclusivamente da pagani convertiti o, se vogliamo, da cristiani provenienti dal paganesimo, con tutte le possibili conseguenze sui costumi e sulla moralità completamente diversa da quella dei giudei. A Tessalonica Paolo si ferma per un breve periodo (3-4 mesi) in quanto viene cacciato dal popolo sobillato dagli ebrei.

Immaginiamo la condizione psicologica dell'apostolo, il quale è costretto a fuggire abbandonando la comunità cristiana appena costituita proprio nel momento in cui inizia una persecuzione.

 

 

E' possibile dividere la lettera in quattro parti:

I vv. 1,1-10: l'esordio e un saluto;

II vv. 2,1-3,13: la rievocazione personale, in cui Paolo racconta le sue vicissitudini e i suoi spostamenti;

III vv. 4,1-5,22: le esortazioni e gli ammaestramenti, cioè la parte dottrinale vera e propria ;

IV vv. 5,23-28: l'epilogo, stupendo, della lettera.

 

Affido alla lettura personale la seconda parte.

 

 

Lettera di 1 Tessalonicesi 1,1-10

Vediamo subito che è necessario sottolineare alcuni elementi perché risultano espressi meglio nella lingua greca.

L'esordio della lettera ci rivela:

1 - chi è l'apostolo;

2 - quali sono le caratteristiche della comunità di Tessalonica.

 

1 - Notiamo innanzi tutto che Paolo si esprime al plurale indicando come apostoli se stesso, Silvano e Timoteo, uno dei primi vescovi.

L'apostolo è

a) un uomo di comunione, che sa - quindi - collaborare con gli altri;

b) colui che ringrazia Dio (v. 2) per la fede della comunità.

Ecco, anche noi dobbiamo ringraziare il Signore per la fede presente nella nostra comunità, per tutte le persone che vi si impegnano o che la frequentano anche solo saltuariamente;

c) colui che prega per la comunità perché sa che è necessario il sostegno di Dio (per chi nasce, per chi muore, per coloro che si avviano al matrimonio, per chi è nel dubbio...);

d) colui che ha dei fratelli. Infatti, Paolo non ha discepoli ma solo collaboratori e dei fratelli amati dal Signore;

e) colui che annuncia il Vangelo, da intendere in senso etimologico di "buona notizia"

E' diffuso un significato non esatto del termine "Vangelo". In proposito consiglio un testo molto valido del Segalla dal titolo "Il Vangelo e i Vangeli". Prima dei Vangeli c'è il Vangelo.

Secondo una interpretazione deformata della parola, si ritiene che il Vangelo coincida con i Vangeli, cioè con un insieme di norme soprattutto di comportamento. Ma non è così, perché il Vangelo è, prima di tutto, la buona notizia, l'annuncio che "qualcuno" ci ha salvato morendo per noi. E', cioè, l'annuncio della salvezza. E Paolo intende proprio questo;

f) un uomo che agisce disinteressatamente sempre e solo per il bene della comunità.

Nella seconda parte della lettera leggerete delle belle espressioni al riguardo, come in 2,5-7. Teniamo quindi presente che Paolo ricerca solo il bene della comunità anche, se necessario, con dei sacrifici.

 

 

La comunità

Viene nominata nel v. 1 del cap. 1: la chiesa di Tessalonica.

Qual è il significato della parola "chiesa" (ekklesía), quasi sconosciuta nei Vangeli?, quasi sconosciuta nei Vangeli?

Sappiamo che compare solo 3 volte nel Vangelo di Matteo; 20 volte nell'Apocalisse; 23 volte negli Atti degli Apostoli; 4 volte nelle lettere apostoliche e ben 62 volte nelle lettere di S. Paolo.

Ciò significa che l'apostolo quasi reinventa questo termine con un significato molto più ricco di quello attribuitogli nell'Antico Testamento, dove compare nella traduzione (dall'ebraico al greco) dei "settanta".

Sappiamo che quando gli ebrei si disperdono nel mondo greco la lingua ebraica rimane nell'uso liturgico, mentre la lingua greca viene adottata nell'uso sinagogale e normale con la conseguente necessità della traduzione, appunto in greco, dei testi biblici.

Vi ricordo che la traduzione ufficiale; quella a cui ci si riferisce nel mondo ellenistico, è la Bibbia dei " settanta" - studiosi che hanno, appunto, curato la versione dell'Antico Testamento dall'ebraico al greco -.

 

Ekklesía deriva da due termini greci, che poi formano una parola sola, ek kaléo che significa "chiamo fuori". E la Chiesa è "chiamata fuori" da qualcuno che l'ha scelta. Dai greci la parola Ekklesía era adoperata per definire l'assemblea popolare di uomini liberi. che avevano diritto di voto quando si trattavano gli affari della polis (città). E ciò costituisce un annuncio sconvolgente per gli schiavi.

Quando S. Paolo scrive: "Qui non c'è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti (Col 3,11) è come se dicesse: tu povero schiavo, oppresso da tutti, adesso fai parte di una ekklesía di uomini liberi; liberi perché liberati da Cristo.

 

Ancora: la versione dei "settanta" traduceva con ekklesía ed anche con sünagoghé (la sinagoga) la parola ebraica ka-ahal-Yahve (il popolo di Dio). Quindi il significato, che S. Paolo ha mutuato dalla Bibbia in lingua greca, del termine ekklesía è certamente "il popolo di Dio".

 

Nella prima lettera ai Tessalonicesi leggiamo (2,14); "...siete diventati imitatori delle chiese di Dio...", e questa espressione torna spesso in S. Paolo. E ciò fa pensare agli interpreti che l'apostolo abbia assunto un concetto fondamentale dell'ebraismo apocalittico dell'epoca: ekklesía tu Zeù (la Chiesa di Dio) corrisponderebbe a ka-ahal-El (e sappiamo che El è un modo per indicare Dio).

Questa espressione era usata nei filoni dell'apocalittica ebraica non per indicare il popolo di Dio, ma per definire la schiera dei salvati nel giorno del giudizio; cioè la Chiesa di Dio era costituita sa un gruppo più ristretto rispetto al popolo. Quindi, Ka-Ahal-El (ossia "il popolo di Dio") va inteso nel senso più restrittivo e significa "gli eletti", "i salvati".

 

 

Teniamo presenti tutte queste definizioni pur sapendo che nessuna di essere corrisponde pienamente al significato che S. Paolo attribuisce a ekklesía. La Chiesa è chiamata da Dio nel mondo ma fuori dal mondo.

 

La Chiesa per S. Paolo ha una dimensione universale che si riconduce necessariamente a una dimensione locale. Quelle che noi chiamiamo oggi "chiesa universale" e diocesi" (cioè la chiesa particolare che incarna l'universale) hanno un fondamento in S. Paolo. E la diocesi non è una realtà puramente organizzativa, ma fa parte dell'essere della Chiesa, in quanto non si ha Chiesa se questa non è collocata in un determinato luogo. E tutte le Chiesa di determinati luoghi formano la grande Chiesa di tutto il mondo.

Inoltre, la Chiesa - anche locale - diventa "Chiesa domestica". Per il nostro apostolo il radunarsi vero, autentico, fondante della Chiesa si ha nella liturgia. Quando si prega celebrando l'Eucarestia si è veramente Chiesa.

Sappiamo che l'Eucarestia nasce in una dimensione domestica, nella domus (la casa), nella casa di gente cristiana che ospita la comunità che si riunisce. Allora si comprende come mai in una comunità - ad es.. quella di Corinto - ci possano essere più chiese. Tutte, però, si riconducono all'unica Chiesa. E proprio la riunione della comunità per celebrare l'Eucarestia - e su questo insisto - costituisce il momento fondante della Chiesa.

 

 

 

V lezione

Prima lettera ai Tessalonicesi - continuazione

 

Nella lezione precedente abbiamo evidenziato alcune caratteristiche dell'apostolo; caratteristiche presenti anche al cap. 2 che avevo affidato alla vostra lettura.

 

Nella disamina del cap. 1 ci siamo soffermati sul termine qualificante ekklesía che noi usiamo tradurre con "chiesa", e abbiamo visto i diversi significati che questa parola puo' assumere, anche se nessuno di essi puo' considerarsi esauriente.

 

Lettura cap. 1,3

Qui compaiono tre virtù (che Paolo riprenderà altre volte), le virtù teologali: fede, speranza e carità. Chi ha partecipato la scorsa estate al viaggio ad Assisi ricorderà che nel Palazzo pubblico - il Comune - di Siena, nell'allegoria del buon governo sono rappresentate queste tre virtù, come a significare che il buon governo non ne puo' prescindere.

Il testo greco è più espressivo rispetto alla versione della "Bibbia di Gerusalemme" e, seguendo la traduzione letterale, il v. 3 va così letto: "...memori davanti a Dio e Padre nostro dell'opera della vostra fede, della fatica dell'amore e della pazienza della vostra speranza...".

Nessuno sostenga che amare è facile, perché, invece, amare è faticoso: qualche volta costa davvero tanta fatica. E, poi, sottolineamo la pazienza della speranza. Senza pazienza non si ottiene nulla. La pazienza è importante e consiste nel sapere attendere i frutti. Ricordiamo, ad esempio, il libro "La pazienza del contadino" di don Bruno Maggioni, che prende spunto da un brano del Vangelo di Marco in cui si parla del contadino che, dopo aver seminato, torna a casa ad attendere che dal seme cresca la pianta.

 

Lettura del v. 4, nel quale scopriamo che i fratelli (adelfoi) della comunità di Tessalonica sono "amati da Dio" ed "eletti (scelti) da lui".

Siamo ben lontani dal discorso della predestinazione in quanto noi non siamo scelti per andare automaticamente in paradiso, ma perché il Signore ci fa una proposta di santità. E noi ci guadagnamo la nostra santità in questa vita.

Ecco, allora, il senso delle opere secondo il quale le opere buone non costituiscono una presunzione di salvezza (è stato proprio ora scritto un documento congiunto fra protestanti e cattolici sulla giustificazione). Le opere buone non sono una pretesa per salvarci da soli ma semplicemente la risposta a una chiamata, a una scelta che Dio ha operato su di noi e per noi. Ci ha scelti perché noi diventiamo santi e portiamo la santità nel mondo. Di conseguenza le opere buone hanno un contesto molto più ampio e non sono fine a se stesse, come quelle compiute dai farisei. Allora noi siamo predestinati non alla gloria ma a una proposta di salvezza, che ci viene offerta lungo un cammino di santità.

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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