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CORSO BIBLICO SULL'APOCALISSE

Ultimo Aggiornamento: 16/11/2012 20:44
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16/11/2012 19:23
 
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Apocalisse di Giovanni 2

L'apocallittica in Daniele 8

Cenni di storia della Chiesa nel I sec. dopo Cristo. 9

La scomunica-ebraica 13

Atteggiamento dei cristiani verso l'impero 13

Tavola cronologica 14

L'Apocalisse 22

Epoca della composizione 25

Capitolo 1 dell'Apocalisse 30

Capitolo 2 38

I. EFESO 38

II. Smirne 41

III. Pergamo 43

IV. Tiatira 45

V - Sardi 47

VI. Filadelfia 48

VII. Laodicea 50

Capitolo 4 - lettura 53

Capitolo 5- lettura. 56

Capitolo 6 62

Capitolo 7 66

Capitolo 8 71

Capitolo 9 75

Capitoli 10 e 11 79

Capitolo 12 87

Capitolo 13 92

Capitolo 14 95

Capitolo 15 100

Capitolo 15 (continuazione) e Capitolo 16 101

Capitolo 17 107

Capitolo 18 110

Capitolo 19 113

Capitolo 20 116

Capitolo 21 e 22 119

Conclusione e considerazioni finali 125

 

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16/11/2012 19:25
 
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Colpisce la scarsissima competenza degli italiani quando parlano di religione.

Quasi nessun cattolico ha mai letto seriamente i testi sacri. E a proposito di serietà di studi religiosi ricordo, come ho già detto l'anno scorso, che in varie facoltà teologiche islamiche il primo anno di studio è riservato alla memorizzazione di tutto il Corano e dei più importanti testi sacri delle principali religioni.

 

Tema del corso è l'Apocalisse, dal greco apocalypsis e significa rivelazione, svelamento di qualche cosa che è nascosto e viene reso chiaro, manifesto.

Il linguaggio dell'Apocalisse è molto complicato e difficile, tanto che per decifrarlo dovremmo possedere innumerevoli nozioni di simbolismi antichi. Non abbiamo infatti sufficienti conoscenze per poter dare un esatto significato a tutte le immagini che compaiono nel testo. Pensate che, ad esempio, un versetto apocalittico di Zaccaria ha ben 42 interpretazioni diverse.

Nell'Apocalisse il linguaggio è simbolico, allegorico; il bene e il male sono sempre in contrasto fra loro.

La letteratura apocalittica sembra il regno della fantasia con strane e mostruose bestie e con sconvolgimenti della natura. E' bene sottolineare il pericolo di dare un'interpretazione letterale ai testi apocalittici, come per esempio l'interpretazione millenaristica ("mille e non più mille!").

 

La letteratura apocalittica ha un contesto ben preciso: nasce sempre in momenti drammatici della storia d'Israele e della Chiesa; momenti di oppressione e di perdita della libertà, di contrasto tra il bene e il male. Ricordiamo la persecuzione di Antioco IV che voleva imporre una cultura unica in Israele e distruggere la cultura ebraica oppure la persecuzione sistematica dei cristiani da parte dell'imperatore romano. Sono momenti drammatici nei quali si manifesta il contrasto tra il bene (Iahwe, Dio) e il male (identificato in Antico IV e nell'imperatore romano). Però in questo contrasto appare sempre essenziale un punto: la certezza della vittoria di Dio. Quanto sia potente il male non ci interessa perché Jahwe comunque vincerà; il male sarà sempre sconfitto da Dio. E' un Dio che non combatte e non vince da solo, ma agisce in funzione del suo popolo. Il vincitore assieme a Dio sarà sempre il suo popolo.

Ecco una bella caratteristica della letteratura apocalittica: Dio e il popolo sono uniti sempre.

Un grande sviluppo dell'apocalittica, che prima era solo accennata. avviene intorno al I 50 a.C., epoca delle persecuzioni, con alcuni libri ispirati ed altri non ispirati.

Al centro di questo genere letterario c'è l'escatologia, dal greco "escatà", discorso sulle cose ultime, sull'aldilà. L'apocalittica suscita attesa del momento supremo, di quando

Dio verrà a ristabilire ciò che è giusto e buono e a distruggere ciò che è malvagio. E in quel momento ci sarà il trionfo di Dio e del suo popolo.

L'apocalittica diventa un modo di interpretare la storia attuale perché io so che Dio trionfa e perché so che facendo parte del popolo di Dio sono chiamato a contribuire al suo trionfo.

In questo senso vivo in prima persona il contrasto tra il bene e il male.

Quali sono i retroterra del libro dell'Apocalisse? Sono i brani apocalittici dell'Antico Testamento. Infatti in vari autori troviamo diversi brani apocalittici come, per esempio, in:

a) Daniele, libro scritto intorno al 150 a.C.;

b) Ezechiele, risalente al periodo dell'esilio babilonese {580 - 560 a.C..); c) Zaccaria {520 a.C. ca.), in particolare nei capitoli 9-14;

d) Isaia {740-700 a.C.), 34-35; 63-1,6; 24-27; e) Gioele {400 a.C:), nei capitoli 3 e 4.

Comprendiamo facilmente che la letteratura apocalittica ha origine nei profeti.

Due elementi ritorneranno durante la lettura di questi brani: 1 ) l' annuncio di un giudizio;

2) un avvenire di pace.

Sia il giudizio sia l'avvenire avranno tre protagonisti:

1) Dio;

2) il nemico; 3) il popolo.

Dio entra in gioco sempre più personalmente, fino a restare l'unico a combattere il male sulla terra.

Il nemico potrà essere simbolico come Edom, oppure un animale mitico (leviatan), oppure nomi inventati {come in Ez. 38 e 39 Gog e Magog, che sono due figure mitiche dell'apocalittica). Ovviamente il nemico viene sempre sconfitto.

C'è, poi, il popolo che viene coinvolto e non è, quindi, semplice spettatore della lotta tra il bene e il male.

Il nemico agisce perché il popolo ha bisogno di purificazione e una volta purificato verrà collocato nella Gerusalemme.

Leggiamo ora i capitoli 3 e 4 di Gioele. Appare significativo il titolo che comprende questi due capitoli: "L'era nuova e il giorno del Signore".

 

Ecco, questi brani non sono proprio da intendere in modo letterale (per esempio, là dove si parla della guerra santa). Notiamo anche che qui non sono presenti quegli elementi fantasiosi che troveremo nei brani apocalittici successivi. Nei capitoli apocalittici arcaici di Gioele si parla della natura, degli uomini e dei popoli nemici di Dio.

Lettura di

Ezechiele 38 e 39: entrano in scena personaggi e regni mitici.

E' bene ripetere che l'apocalittica è un genere letterario che ha la sua origine nella profezia e che porta alla speranza. I primi apocalittici sono stati, come abbiamo visto, i profeti. Allora, se è vero che i profeti sono stati mandati da Dio per tenere vivo nel popolo l'ideale messianico, l'apocalittica rende ancora più efficace il loro messaggio. E i testi apocalittici sono libri di speranza che ci aiutano a leggere il presente alla luce del futuro.

Nella Bibbia c'è un intreccio fra passato, presente e futuro, intreccio profondo che ritroviamo anche, ad esempio, nella Messa che - come la Pasqua ebraica - è memoriale. L'apocalittica lascia scoperto il passato per proiettarsi nel futuro. Il presente è disperazione, ma non ci si deve preoccupare perché arriverà il momento in cui Dio vincerà e con Lui il suo popolo. Questo messaggio di speranza ha origine dal momento fondamentale della storia d'Israele: l'esilio.

Bellissimo nella teologia ebraica è il tema della sofferenza di Dio, cioè di un Dio talmente identificato con il suo popolo da non essere un Dio lontano, ma un Dio che soffre attraverso la sofferenza di un popolo. Se notiamo bene siamo ad un passo dall'incarnazione e dalla. morte in croce.

Con il ritorno deludente dall'esilio occorrevano dei profeti che parlassero di tempi migliori. Matura l'idea che la salvezza non sia terrena e la speranza dei profeti si proietta sempre di più verso l'escatologia.

L'apocalittica è il profetismo proiettato alla fine dei tempi, al ritorno all'era primordiale, all'Eden.

Con Daniele, ultimo profeta, l'apocalittica prenderà il posto del profetismo. Per quest'ultimo il male deriva dall'uso stolto della libertà, mentre per l'apocalittica esso è frutto delle potenze demoniache.

II^ lezione

Inquadramento storico dell'Apocalisse.

La lettura e l'interpretazione dell'Apocalisse richiedono un inquadramento storico che serve a conoscere in quale ambiente culturale e politico quel libro venne scritto.

Per comprendere bene la situazione in cui si è sviluppata la Chiesa nel primo secolo dopo Cristo occorre risalire all'origine e alle cause dell'evoluzione dei costumi e della cultura nell'area del Mediterraneo orientale in cui si è svolta la storia d'Israele dal III secolo a.C. fino alla conquista romana. E' perciò necessario parlare dell'ellenismo. Alcune date che saranno esposte e che sono riportate nella tavola cronologica allegata sono da considerare soltanto indicative, perché su di esse non tatti gli storici sono concordi.

Ellenismo.

L'ellenismo è stato definito come la civiltà e la storia in genere del bacino del Mediterraneo medio e orientale ed ha inizio a partire dal 333 a.C., anno della partenza di Alessandro Magno il Macedone per la conquista . dell'oriente, e termina convenzionalmente nel 31 a.C., anno della battaglia di Azio (in cui Ottaviano sconfigge Antonio) e dell'avvio del periodo della pax romana.

L'ellenismo si formò, quindi, nel contatto fra la civiltà greca classica ormai matura e forse decadente e le civiltà orientali (iranico-babilonese, ebraica, egiziana). Il confronto fra le civiltà orientali e quella greca ebbe come conseguenza logica o l'assorbimento o la radicalizzazione delle posizioni di ciascuna. Tale confronto fu condizionato profondamente dalla situazione politica e sociale che la conquista di Alessandro Magno aveva determinato.

Dopo un primo tentativo di unione fra greci e barbari, voluto da Alessandro Magno, i diadochi (suoi successori nei vari regni ellenistici) favorirono sempre i greci e la fondazione di città o di colonie greche.

La lingua greca (Koiné), anche dopo la conquista romana, divenne la lingua franca cioè di uso comune (koiné significa "comune") e la più diffusa del bacino del Mediterraneo orientale, in sostituzione dell'aramaico, del fenicio e dell'egiziano. Sopravvissero alcune culture, come l'ebraica e l'egiziana, ma fortemente influenzate da quella greca.

In Gerusalemme si verificarono varie opposizioni all'egemonia ellenistica ed anche atteggiamenti contrastanti. Con l'ellenismo, tollerante sul piano religioso, si sviluppò la credenza dell'immortalità dell'anima, già presente nella religione egizia (almeno per i giusti).

Gli orientali furono colpiti dalla diversa concezione dell'uomo portata dai greci. L'uomo per questi era libero, mentre per gli orientali era servo del re e, a maggior ragione, di Dio.

I valori presso i greci (vedi Socrate e Platone) non erano soltanto rispettati in funzione della salvezza, ma costituivano i fondamenti della società.

I greci portarono una vitalità eccezionale e fondarono in Palestina nuove città (es. Filadelfia e Tolemaide), tutte con il teatro e la palestra.

Portarono anche una nuova concezione del rapporto tra uomo e stato, inteso questo non più come comunità di sangue, ma come comunità di partecipazione ai diritti e ai doveri comuni sullo stesso territorio.

Si diffuse il fenomeno della diaspora degli ebrei, che costituirono numerose e consistenti comunità in tutto il bacino del Mediterraneo orientale ed anche in Libia e a Roma. Di primaria importanza furono le comunità di Alessandria. e Leontopoli in Egitto e di Antochia in Siria.

Si noti che già prima della conquista. greca comunità ebraiche erano sorte in Babilonia.

Gli ebrei della diaspora parlavano greco ed accoglievano numerosi proseliti. I soldati giudei che avevano prestato servizio presso qualche re ellenistico al ritorno in patria portavano la lingua greca, nuove abitudini e una visione del mondo molto diversa.

Molte persone delle classi più elevate cominciarono ad assumere a partire dal II sec. a.C. nomi greci e ad assorbire una nuova mentalità.

Il pensiero greco e i relativi costumi influenzarono molto il giudaismo. Si posero in discussione varie usanze e regole (come la circoncisione) e si modificò la mentalità di alcuni strati della popolazione.

Il giudaismo che era entrato in crisi subito dopo il ritorno dall'esilio in Babilonia si divise in correnti e in sette (come i sadducei, i farisei e gli esseni). La prima crisi si verificò appunto nel IV sec. a.C. con lo scisma samaritano e con la costituzione di un altro Tempio sul monte Garizim.

Sopravvisse alla fine, dopo la distruzione del Tempio, solo il farisaismo che confluì poi nel cristianesimo e nel rabbinismo.

Scomparve con il 70 d.C. (distruzione del Tempio) la casta sacerdotale dei sadducei.

Note storiche.

Dopo la dominazione persiana, succeduta a quella babilonese, la Palestina fu conquistata da Alessandro Magno e alla morte di questi (323 a.C.) entrò nell'orbita dei regni postalessandrini (dei diadochi). In un primo periodo appartenne ai re Tolomei (Egitto), poi nel 200 a.C. circa, dopo la battaglia di Cesarea di Filippo, passò alle dipendenze dei re Seleucidi (Siria) e vi rimase fino al 141 a.C. Dal 14I al 63 a.C. vi fu un periodo di relativa indipendenza.

II dominio romano sulla Palestina venne favorito anche dalle lotte interne e si realizzò gradualmente dopo la prima conquista da parte di Pompeo che nel 63 a.C. occupò Gerusalemme ed entrò nel Tempio.

I vari re vassalli che governavano allora la Palestina, suddivisa in più parti, erano nominati addirittura dai Romani, che rafforzarono prima della nascita di Cristo il loro potere in quei territori anche per difenderli dai tentativi di conquista dei Parti.

Ottaviano, divenuto imperatore a vita con il titolo di Augusto, costruì a Gerusalemme la torre Antonia e il palazzo della città alta.

La Siria. (comprendente anche la Palestina) divenne provincia imperiale e nel 29/30 a.C. Erode iniziò la ricostruzione del Tempio.

La nascita di Cristo avvenne in un periodo in cui l'influenza dell'ellenismo aveva ormai raggiunto il massimo sviluppo, anche grazie alla conquista della Grecia da parte dei Romani che, a loro volta, assimilarono molti elementi della civiltà, della cultura e della religione dei greci.

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L'apocallittica in Daniele

 

In Israele durante la dominazione siriana (Seleucidi) la politica di ellenizzazione dei giudei fu particolarmente forte e raggiunse l'apice con Antioco IV che operò una vera e propria persecuzione attorno agli anni dal 167 al 164 a.C. fino al punto di tentare d'impedire la circoncisione degli ebrei in Gerusalemme. Proprio in quell'epoca risulta scritto "Il libro di Daniele" nel quale è contenuta una predicazione apocalittica come messaggio di conforto e di speranza per i giudei osservanti perseguitati.

 

L'apocalittica (da "apocalypsis" = rivelazione, svelamento) era una letteratura che sotto forma di sogni, visioni e profezie intendeva svelare i misteri divini e soprattutto il futuro, in una nuova interpretazione della storia.

L'apocalittica in Daniele, nel "Libro di Enoch" e nel "Libro dei sogni" (questi ultimi due non canonici) - come anche il messianismo - era segno dei grandi momenti di crisi politica e ideologica ed ebbe il carattere di rifiuto del presente e di raffigurazione di un migliore avvenire.

Il libro di Daniele era destinato, perciò, a sostenere e a consolare gli ebrei perseguitati e rappresentava la reazione alla riforma culturale e politica imposta dai dominatori Seleucidi. Costituisce il parallelo dell'Apocalisse di Giovanni, scritta all'epoca di un'altra grande persecuzione. Nella parte profetica del libro di Daniele sono riportate quattro visioni in cui si racconta la storia d'Israele e appare una profezia che riguarda il messianismo, previsto per il tempo successivo alla disfatta di Antioco IV e alla sua morte (anno 163 a.C.). Con questo messianismo si sarebbe dovuto avere il trionfo della giustizia e della santità, culminato nella risurrezione di molti (i giudei già morti), con un'esistenza di vita eterna per i buoni oppure di perenne infamia per i malvagi e i crudeli (Dan.7,13-14; 12,2).

Il nuovo regno previsto da Daniele si sarebbe esteso a tutti i popoli e sarebbe stato conferito non ad un messia davidico, ma ad un misterioso personaggio "uno, simile ad un

figlio d'uomo", che poteva essere inteso -secondo alcune interpretazioni- in senso collettivo (il popolo di Dio) oppure in senso individuale (il Messia). Questo secondo significato sarà poi ripreso da Gesù (Mt. 8,20 ; 26,64) e dagli apostoli.

L'attesa del Messia negli ambienti apocalittici aveva portato alla convinzione che in soccorso d'Israele potesse venire non tanto un re terreno quanto un inviato da Dio, un altro salvatore preesistente e nascosto presso Dio.

Il libro di Daniele è il più antico documento incontestato sulla risurrezione dei morti contenuto nella Bibbia ebraica. Fuori di questo testo si trova un'altra testimonianza della risurrezione nel libro II dei Maccabei (7,9 ; 14,46).

 

Cenni di storia della Chiesa nel I sec. dopo Cristo.

 

Con la predicazione e le opere di Gesù Cristo ha inizio di fatto la storia della Chiesa, fondata su Pietro, mentre convenzionalmente questa storia comincia nell'anno 30 con la discesa dello Spirito Santo e con la predicazione degli apostoli.

La prima chiesa è costituita in Gerusalemme dai 12 apostoli, dai loro discepoli e dai primi giudei convertiti, tutti di stirpe ebraica e praticanti la fede d'Israele.

Gli apostoli (chiamati in un primo tempo "i dodici") con aggregato Paolo annunciano e spiegano la resurrezione di Gesù basandosi su:

1) la testimonianza (hanno visto Cristo risorto);

2) le opere di potenza (numerosi erano i prodigi e di segni compiuti dagli Apostoli (Atti 2,43);

3) il compimento delle profezie, che riguardano particolarmente i giudei, i quali devono riconoscere che con Cristo si è realizzata l'attesa di un avvenimento escatologico annunciato dai profeti.

La prima comunità di giudeo-cristiani si inserisce nel contesto generale del giudaismo dell'epoca. Si manifesta subito l'ostilità dei grandi sacerdoti e dei sadducei.

I sacerdoti, ormai creature del potere romano (nel 30 capo della famiglia-casata di Seth era Anna e grande sacerdote in carica Caifa) erano gelosi dell'influenza dei cristiani sul popolo e timorosi di perdere il loro potere personale (Atti 5,17) mentre i Sadducei costituivano un partito nello stesso tempo politico e religioso, fedele all'ideale sacerdotale imperniato sul Tempio, ostili alle innovazioni in campo religioso (Atti 4,2).

L'ostilità si manifesta in successive fasi:

1) primo episodio: l'arresto di Pietro e Giovanni sorpresi a predicare nel Tempio e portati davanti al Sinedrio e poi rilasciati (Atti 4,3-23);

2) arresto di un gruppo di apostoli (At. 5,17-24) e loro rilascio grazie all'intervento del fariseo Gamaliele farisei non condannano a priori il movimento di Gesù perché ammettono il messianismo, al quale sono invece ostili i sadducei per ragioni dottrinali);

3) persecuzioni contro gli ellenisti e Stefano (36 d.C.) e martirio di Stefario;

4) arresto di Giacomo, fratello di Giovanni e di Pietro (Pasqua 41 ), e suo martirio nel 43 (At.12,2) su iniziativa di Erode Agrippa re di Giuda;

5) cacciata di Paolo dalla sinagoga e da Tessalonica; 6) arresto di Paolo a Gerusalemme (58 d.C.);

7) lapidazione di Giacomo, fratello del Signore (nel 62 d.C:).

I farisei partecipano alla persecuzione di Stefano e degli ellenisti cristiani perché rimproverano loro il distacco dalla questione dell'indipendenza giudaica, dal Tempio che ne era il simbolo e dalla struttura legale d'Israele (At. 6,13-14).

I primi cristiani furono giudei convertiti, uniti ai dodici in Gerusalemme, e successivamente giudei del teritorio circostante e di varie città dell'Asia Minore e del Mediterraneo orientale. Fedeli al culto del Tempio, quelli di Gerusalemme avevano come capo Giacomo, fratello del Signore.

Dopo la dispersione degli ellenisti, allontanati dalla. città successivamente al martirio di Stefano, il gruppo di Giacomo restò egemone della Chiesa di Gerusalemme fino all' anno della distruzione del Tempio e della città (70d.C.). I primi cristiani, quindi, continuarono a partecipare alla vita religiosa del loro popolo, costituendo un gruppo particolare in seno alla totalità d'Israele. Formavano, però, una comunità a parte e vennero designati dagli Atti con il nome di "ecclesìa" che in greco significa "assemblea ufficiale" e si consideravano il nuovo popolo di Dio.

Il termine "ecclesìa", che inizialmente aveva indicato la Chiesa di Gerusalemme, si estese poi alle diverse chiese locali, per assumere successivamente il significato di Chiesa universale.

Paolo era un ebreo ellenista nato all'estero {Tarso) verso l'anno 5 d.C. e circonciso con il nome giudaico di Saulo e con quello greco romano di Paolo, come era norma per i giudei fuori della Palestina. Era, per eredità dal padre, anche cittadino romano e questa qualifica fu la causa del suo viaggio a Roma.

Paolo si affiancò ai dodici ed operò nell'Asia minore e in Grecia (famosi sono i suoi viaggi) per finire a Roma dove fu martirizzato sotto Nerone, durante la prima persecuzione. La sua opera portò una svolta decisiva nella vita della giovane comunità cristiana. Comparve con lui una nuova concezione del Messia d'Israele come Messia del mondo intero, degli ebrei e dei pagani. Venne chiamato "l'apostolo delle genti" perché rivolse la sua opera principalmente all'evangelizzazione dei pagani.

Già all'epoca dell'inizio della missione di Paolo il primo cristianesimo si suddivideva in gruppi ben caratterizzati:

A) I giudei convertiti (suddivisi in due gruppi):

1) giudeo-cristiani di lingua aramaica, provenienti dalla Palestina, giudei come i dodici apostoli e fedeli al Tempio e alla Legge;

2) giudeo-cristiani di lingua greca, provenienti dalla diaspora (ellenisti) come Stefano e i sette in Gerusalemme critici nei confronti del Tempio e della. Legge;

B) Pagani convertiti: cristiani provenienti dal paganesimo, convertiti senza avere prima aderito al giudaismo, non sottoposti alla circoncisione e affrancati dalla Legge, di lingua greco-latina. Questi divennero ben presto la stragrande maggioranza dei cristiani, man mano che procedeva 1'evangelizzazione.

Il primo centro cristiano dopo Gerusalemme fù Antiochia (in Siria), luogo di popolazione cosmopolita e di cultura greca, grande polo di espansione del cristianesimo nei primi 15 anni. Apparteneva evidentemente al mondo ellenistico e vi si rifugiarono i giudei ellenisti, cacciati da Gerusalemme dopo il martirio di Stefano che vi fondarono la Chiesa locale. Anche la comunità cristiana di Damasco venne fondata da questi ellenisti.

Proprio ad Antiochia, che fu la prima sede di una comunità di cristiani provenienti dal paganesimo (quindi non giudei), venne dato per la prima volta il nome di "cristiani" ai seguaci della nuova religione (At. 11,26).

Il ministero di Paolo ebbe inizio nell'Asia Minore nel 45 d.C. e si estese poi alla Grecia. Proprio a seguito dei contrasti fra cristiani provenienti dal paganesimo e giudeo-cristiani, Paolo cominciò ad elaborare la teoria del rifiuto dei giudei e della conversione dei pagani (At. 13,46-47).

Pietro evangelizzò il litorale mediterraneo e poi Roma, dove risulta presente già nel 44 d.C. sotto 1'imperatore Claudio e dove subirà poi il martirio al tempo della persecuzione di Nerone.

Attorno al 49 d.C. si verificarono due fatti importanti per la cristianità: 1) il Concilio di Gerusalemme;

2) l'incidente di Antiochia..

Nel Concilio di Gerusalemme venne regolata definitivamente la questione della circoncisione dei Gentili (pagani), i quali ne finirono esentati. Si resero più evidenti i contrasti fra cristiani provenienti dal paganesimo e fra quelli provenienti dal giudaismo, questi ultimi legati alla Legge, alle tradizioni e al culto d'Israele .

II Concilio fu importante per le relazioni tra cristianesimo e giudaismo, ma anche per lo. sviluppo della comunità cristiana di Gerusalemme. Pietro e Giovanni vi rappresentavano i "dodici" e Giacomo la comunità giudeo-cristiana. di Gerusalemme; erano presenti anche Paolo e Barnaba.

2_Ad Antiochia il contrasto fra le posizioni dei giudeo-cristiani, in parte condivise da Pietro, e quelle di Paolo si fa più evidente.

Paolo, che all'episodio fa cenno nell'epistola ai Galati (Gal. 2), chiude da questo momento definitivamente con il giudeo-cristianesimo e si dedica soltanto alla chiesa nell'ambiente greco-romano, cioè lavora alla conversione dei pagani.

Continua intanto la frattura tra il cristianesimo e la comunità giudaica, che troverà il suo compimento nella scomunica ebraica.

 

La scomunica-ebraica

Dopo la catastrofe del 70 d.C. (distruzione del Tempio e di Gerusalemme e sterminio dei suoi abitanti) il farisaismo aveva stabilito la sua sede nella città di Javne (vicino a Giaffa) e mirava ad una riforma religiosa e all'esclusione delle varie sette dissidenti ed eretiche che si erano costituite negli ultimi tempi.

Nel Concilio tenuto a Javne tra il 90 e il 100 venne pronunciata la famosa scomunica degli eretici e dei cristiani, che fu aggiunta alla preghiera delle benedizioni, recitate tre volte al giorno, (..."I nazrim periscano all'istante"...). Questo atto comportò la definitiva esclusione dei giudeo-cristiani dalla sinagoga.

Dopo questa scomunica le comunità giudeo-cristiane ben presto si estinsero e la Chiesa assunse sempre più un carattere greco-latino, anche a causa della sua notevole espansione in tutti i territori dell'Impero romano.

Clemente, vescovo di Roma (dopo Pietro, Lino e Cleto), assunse la direzione della Chiesa nell'88 e verso il 100 scrisse un'epistola ai Corinzi in cui parla della Chiesa di Roma, presentandosi come l'erede della tradizione di Pietro e di Paolo.

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16/11/2012 19:26
 
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Atteggiamento dei cristiani verso l'impero

All'inizio i cristiani non manifestarono alcuna opposizione alle leggi di Roma e si comportarono come sudditi rispettosi (Paolo stesso invitava i cristiani a sottomettersi al potere romano). Però, dopo l'inizio delle persecuzioni e specialmente dopo Nerone, l'impero venne considerato un nemico, tanto da essere simboleggiato nell'Apocalisse come una bestia che sale dal mare. Roma vi è indicata addirittura come Babilonia.

 

Ostilità verso i cristiani e loro persecuzione da parte dei romani

Il cristianesimo venne considerato dai Romani come una religione rivoluzionaria, che non aveva carattere nazionale e che condannava come false tutte le altre religioni tranne

l'ebrea. I cristiani furono osteggiati anche dai giudei e accusati ingiustamente di ostilità verso il genere umano, do adorare una testa d'asino, di compiere riti segreti con immolazione di bambini (di cui venivano mangiate le carni) e, addirittura, di pratiche incestuose.

Il primo gesto di ostilità si verificò con l'allontanamento dei giudei (compresi i cristiani) da Roma al tempo dell'imperatore Claudio (49 d.C.) a causa di contrasti fra le due comunità.

Avvenne, poi, la Ia persecuzione sotto Nerone (dal 64 al 66) a causa dell'accusa ai cristiani (già circondati di ostilità) di avere provocato l'incendio di Roma. In quel periodo va collocata la morte per martirio di Pietro e di Paolo.

In Palestina l'imperatore Vespasiano, dopo la distruzione di Gerusalemme, fece ricercare ed uccidere tutti i parenti di Gesù in quanto discendenti della Casa di Davide.

La IIa persecuzione, molto violenta, avvenne sotto l'imperatore Domiziano (91 - 96) e colpì i cristiani anche tra gli intellettuali a Roma. Di questa persecuzione in Asia Minore abbiamo una prova nell'Apocalisse, il cui genere letterario è anche espressione di un messaggio di speranza rivolto ai fedeli nella prova.

L'ultima e IIIa persecuzione del I° secolo dopo Cristo, subito dopo quella di Domiziano, si ebbe con Traiano (98 circa), durante la quale fu martirizzato Simeone, secondo vescovo di Gerusalemme, appartenente alla casa di Davide.

Lettura del cap. 12, 1-3 del libro di Daniele.

Tavola cronologica

333 a.C. Alessandro Magno conquista la Siria. Fine dell'epoca persiana e inizio dell'epoca ellenistica.

323 a.C. Morte di Alessandro Magno a Babilonia.

319-287 a.C. I Diadochi si dividono l'impero fondato da Alessandro Magno.

fino al 200 a.C. La Giudea sottomessa ai Tolomei (Egitto).

dal 200 al 142 a.C. La Giudea sottomessa ai Seleucidi (Siria).

dal 141 al 63 Indipendenza della Giudea con vari re. Gerusalemme ellenizzata. Periodo di guerre di conquista degli altri territori della Palestina e di lotte di successione.

169 a.C. Antioco IV di Siria saccheggia il Tempio di Gerusalemme..

167-164 a.C. La grande persecuzione di Antioco IV. Sacritifi a Giove nel Tempio di Gerusalemme.

164 a.C. Libro di Daniele. Fine di Antioco IV.

163 a.C. Antioco V restituisce ai Giudei la libertà religiosa.

14l a.C. Fine in Giudea dell'occupazione seleucida.

63 a.C, Pompeo conquista Gerusalemme e la Giudea perde l'indipendenza.

37 a.C.-4 a.C. Erode, alleato dei Romani, regna sulla Palestina.

31 a.C. Ottaviano sconfigge Antonio nella battaglia di Azio. Fine dell'epoca ellenistica.

29-30 a.C. Erode inizia la ricostruzione del Tempio.

29 a.C.-14 d.C Augusto imperatore dei Romani.

7-6 a.C. ca. Nascita di Gesù di Nazaret.

14-37 Tiberio imperatore dei Romani.

30 Venerdì precedente la Pasqua: morte di Gesù. Pentecoste - Effusione dello Spirito Santo sulla Chiesa. La prima comunità.

33 Elezione dei sette diaconi ellenisti a Gerusalemme (tra cui Stefano).

36 Martirio di Stefano. Cacciata degli ellenisti da Gerusalemme. Conversione di Paolo.

37 ca. Fondazione della Chiesa di Antiochia.

41-54 Claudio imperatore.

43 Martirio di Giacomo, fratello di Giovanni. 49 Espulsione dei Giudei da Roma.

Concilio di Gerusalemme.

50 ca. Viene messo per iscritto in aramaico il Vangelo orale di Matteo.

51 Lettere di Paolo ai Tessalonicesi.

5l-68 Nerone imperatore.

62 II Sommo Sacerdote Anan fa lapidare Giacomo fratello del Signore.

64 ca. Vangelo di Marco. Martirio di Pietro a Roma.

64 - 67 Ia persecuzione romana.

verso il 70 Vangelo greco di Matteo. Vangelo di Luca e Atti degli Apostoli.

66 - 70 Rivolta dei Giudei e guerra giudaica che si conclude con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Gli abitanti sono uccisi o venduti come schiavi.

67 Martirio di Paolo a Roma.

68 Suicidio di Nerone.

69 - 79 Vespasiano imperatore.

79 - 81 Tito imperatore.

81 - 96 Domiziano imperatore.

91 - 96 IIa persecuzione romana.

96 - 98 Nerva imperatore.

95 circa Edizione definitiva dell'Apocalisse.

98 - 100 Vangelo di Giovanni. Morte di Giovanni.

98 ca IIIa persecuzione. Traiano imperatore.

tra il 90 e il 100 Scomunica Ebraica.

verso il 100 Epistola di Clemente, vescovo di Roma, ai Corinzi.

IIIa lezione

Prima di affrontare i brani apocalittici del Nuovo Testamento è opportuno parlare di Giovarmi Battista, che fa da "ponte" tra l'Antico e il Nuovo.

E' importante evidenziare che i profeti hanno come contenuto del loro messaggio l'aspetto più propriamente sociale della realtà. Infatti essi dicono: Convertitevi! State rubando agli orfani; state distruggendo le case delle vedove; vi arricchite ingiustamente; non offrite i sacrifici dovuti. Su tutto questo il Signore vi giudicherà.

I profeti erano profondamente inseriti nella società del tempo e giudicano gli avvenimenti con gli occhi di Dio.

L'apocalittica, invece, non ha un contenuto sociale, ma consolatorio.

Allora, Giovanni Battista è un profeta vero e proprio oppure il suo messaggio ha già dei contenuti apocalittici? Quando. egli dice: convertitevi; voi soldati accontentatevi della paga pattuita; voi pubblicani non fate la "cresta" sulle tasse, si esprime come un profeta sociale che, però, assume dei connotati apocalittici quando afferma: "Già la scure è posta alla radice..." oppure: "Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma Colui che viene dopo di me è più potente di me... egli vi battezzerà in Spirito ~ Santo e fuoco." (Mt. 3,1011).

Giovanni Battista con la sua predicazione annuncia che sono vicini i tempi ultimi e che il suo battesimo ha una funzione preparatoria a questi. Il Battista, anche grazie a Gesù era paragonato ad Elia, scomparso dalla terra perché portato in cielo su un carro di fuoco.

Ai tempi di Gesù si era diffusa l'idea che il profeta Elia, discendendo dal cielo, avrebbe preparato il terreno al Messia. E proprio Gesù ne parla riferendosi però a Giovanni Battista (Mt. 11,10-14). Ecco, il Battista è un precursore che prende il posto di Elia, atteso per gli ultimi tempi secondo la tradizione popolare, e che introduce, con la sua predicazione, dei contenuti apocalittici nei Vangeli.

Consideriamo ora alcuni brani apocalittici del Nuovo Testamento: 1) Le. 17,22-37. "Il giorno del Figlio dell'uomo".

Già il titolo ci richiama la figura strana, misteriosa del "Figlio dell'uomo" presente nel libro del profeta Daniele.

Al di là delle immagini bibliche del diluvio e della distruzione di Sodoma (in cui pare che il giudizio di Dio proclami nel modo più chiaro e più forte lo sterminio dei peccatori) notiamo che qui si vuole sottolineare:

1 ) la repentinità dell' evento; 2) la presenza di falsi profeti.

Una delle caratteristiche di Gesù sarà quella di prendere le distanze da coloro che volevano conoscere esattamente il luogo e il tempo di quell'evento.

Notiamo che nel nostro brano è scritto "1'uomo verrà preso e 1'altro lasciato". Il termine "preso" rappresenta coloro che saranno salvati, mentre il termine "lasciato" simboleggia quanti si perderanno. E ciò significa certamente che nel giorno del "Figlio dell'uomo" ci sarà un giudizio.

2) Luca 22,28-30.

E' uno dei discorsi pronunciati nell'Ultima Cena nel contesto della prima Messa celebrata da Gesù che dice ai suoi apostoli: "Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove... e siederete in trono a giudicare le dodici tribù d'Israele."

Perché questo numero? Perché dodici apostoli?

Perché dodici è un numero escatologico, apocalittico, che ci porta agli ultimi tempi dato che al tempo di Gesù le dodici tribù d'Israele non esistevano più.

Il numero 12 viene citato per indicare la ricostruzione del "nuovo" Israele che è principio dell'Israele "finale".

Ai tempi degli evangelisti i primi cristiani credevano in un imminente ritorno di Gesù ,

ossia ritenevano che il giorno del giudizio fosse vicinissimo, tanto da pensare di non morire prima di aver visto il ritrno di Cristo.

E' facile immaginare la grandissima tensione esistente. Ma quando l'evento atteso non si verificò, subentrò una grande delusione con conseguente disimpegno e lassismo.

Gli evangelisti e Paolo intervennero energicamente, invitando i cristiani alla testimonianza e alla preparazione sulla terra del regno del Salvatore.

Gesù è un apocalittico? Il centro e il contenuto fondamentale della sua predicazione sono apocalittici. "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo" sono le prime parole di Gesù in Mc. (l, 14-15).

Infatti il regno di Dio si sta realizzando con la presenza di Gesù che ha già inaugurato i tempi ultimi e che offre al discepolo una serie di comportamenti (codice morale) non per prepararsi "a" (al Paradiso), ma per vivere intensamente sulla terra. Per es. nel "discorso della montagna" viene affermato "Beati i poveri in spirito perchè di essi è il regno dei cieli".

3) Lc. 10,23-24.

Ecco, il regno si è già in parte realizzato.

"Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro e udire ciò che voi udite, ma non 1'udirono". Adesso si sta realizzando il regno di Dio che ha una dimensione anche futura ("venga il tuo regno" recitiamo nel "Padre nostro"). Siamo nelle dinamica cristiana che qualcuno ha sintetizzato nell'espressione "già e non ancora".

In questa prospettiva leggiamo in

4) Mc. 4,26-32 due belle parabole sul regno, nelle quali si parla di questa realtà che c'è già in parte.

Troviamo due paragoni che ci fanno intravedere il regno del Signore con quel semino che c'è già , ma che tende a diventare sempre più grande. E la pienezza del regno si realizzerà soltanto quando avverrà la mietitura. Noi siamo chiamati nella fase tra il seme e la mietitura a costruire il regno di Dio giorno per giorno. Quanto abbiamo letto rappresenta solo una piccola anticipazione delle parabole evangeliche che parlano del regno di Dio e che hanno, quindi, un contenuto escatologico.

5) Mt. 13,36-43.

Il brano contiene la spiegazione della parabola della zizzania. Sono varie le immagini apocalittiche che ci parlano del giudizio ultimo di Dio.

6} Mt. 25,31-46. "Il giudizio finale".

7) Mt. 20,1-16.

La parabola degli operai mandati nella vigna.

8) Lc. 19,12-27.

Il brano ha per tema la vigilanza.

9) Mt. 13,44-46.

10) Mt. 22,1-14.

Si noteranno sempre due aspetti leggendo le parabole citate: 1) individuale - il giudizio per te;

2) comunitario - il giudizio per tutta 1'umanità.

Qualcuno vede in questo la differenza tra il giudizio personale al momento stesso della morte e il giudizio finale in cui tutta 1'umanità nella resurrezione riceverà il suo posto definitivo.

11) Mc. 13, 1-37. Lettura.

Si tratta. del primo grande discorso escatologico; precede il racconto della passione. Struttura del brano:

vv. 1-4: introduzione (che è un dialogo sul Tempio e sui tempi in cui "questo" avverrà);

vv. 5 - 8: introduzione al discorso, nel senso di affermazione generale di falsi profeti, di falsi messia, di terremoti, di guerre, ecc.;

vv. 9 - 13: annuncio delle persecuzioni e annuncio di speranza ("...chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato.") - Evidentemente il discorso è stato fatto in un periodo di persecuzione o, comunque, Gesù aveva previsto che ci sarebbero state delle persecuzioni; vv. 14 - 23: la desolazione, la fuga, la tribolazione;

vv. 24 - 27:la venuta del Figlio dell'uomo che salverà gli eletti

vv. 28 - 32: la parabola del fico che "si fa tenero e mette le foglie" (per dire che il tempo è vicino). Invito alla vigilanza.

I versetti 14 - 23 sono i più importanti e presentano varie difficoltà. Lettura del v. 14 - "L'abominio della desolazione".

Ad "abominio" potremmo dare il significato di "cosa ripugnante"; a "desolazione" quello di "squallore, abbandono". La citazione pare tratta dal libro di Daniele, il quale usa questa espressione quando narra che Antioco IV voleva collocare nel Tempio di Gerusalemme la statua di Zeus o di se stesso.

Nel I libro dei Maccabei si parla allo stesso modo a proposito della profanazione del Tempio, nel quale non poteva essere collocata alcuna immagine di uomo o di divinità. Ricordiamo che uno dei motivi che contribuirono a togliere a Pilato il favore del popolo di Gerusalemme fu proprio la sua iniziativa di portare nella città santa degli scudi con impressa l'effige dell'imperatore e di appenderli su vari monumenti della città stessa.

Notiamo un particolare: "chi legge capisca".

Dovrebbe essere più logica 1'espressione "chi ascolta capisca".

Sembra quasi che Gesù abbia scritto questo discorso. E vengono alla mente le ultime ipotesi sull'epoca di composizione dei Vangeli Sinottici. Allo stato attuale degli studi si ritiene come più antico il Vangelo di Marco che sarebbe stato composto - nel testo greco tra il 65 e il 75 d.C.. Ma uno studioso (Carmignac) dei documenti di Qumran, in armi recenti, ha sviluppato una sua ipotesi secondo la quale il Vangelo di Marco sarebbe ancora più antico e la sua stesura risalirebbe a pochissimi anni dopo la morte di Gesù, intorno al 40 d.C.

E Carmignac sostiene anche che il testo greco a noi pervenuto avrebbe un originale ebraico.

(La sintesi dei suoi studi è contenuta in un libro dal titolo "La nascita dei Vangeli Sinottici".)

Questa ipotesi non appare del tutto azzardata. Se si ritiene valido l'anno 40 o quelli immediatamente successivi come epoca di compilazione del Vangelo di Marco, "l'abominio della desolazione" si riferirebbe all'affronto dell'imperatore Caligola che, esattamente nell'anno 40, ordinò che la sua statua venisse collocata nel Tempio di Gerusalemme.

Notiamo un parallelismo: in Daniele si parla della statua di Zeus, in Marco della statua di Caligola nel Tempio.

Per fortuna quest'ultima statua per vari motivi non venne collocata nel Tempio di Gerusalemme. Se questo abominio fosse avvenuto probabilmente la sollevazione degli ebrei e la guerra giudaica (66-70) sarebbero avvenuti prima. Ricordiamo che Caligola fu il primo ad introdurre il culto dell'imperatore vivo come fosse una divinità.

Nel discorso escatologico di questo brano alle affermazioni apocalittiche si alternano richiami alla vigilanza. Gesù ci invita a non dare troppa importanza al momento dell'evento, ma a vigilare evitando il pietismo, pessima tendenza che scade nel fatalismo. Questa, è una delle caratteristiche fondamentali dell'apocalittica nei Vangeli, cioè è 1'atteggiamento del cristiano che è proiettato verso la fine con grande attenzione al presente ("Vigilate!"}.

Lc. 21 e Mt. 24 (interessanti i vv. 10-12 in cui l'evangelista parla dei contrasti interni alla comunità cristiana).

IV lezione

Nelle lettere di S. Paolo sono evidenti alcuni elementi apocalittici dovuti soprattutto ai problemi sorti nelle varie Chiese.

Con la folgorazione sulla via di Damasco inizia per Paolo un'era nuova della vita, una preparazione a quei tempi ultimi che Gesù aveva annunciato dicendo: "...il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo." (Mc.) E, allora, è il suo stesso modo di vivere che lo porta a capire il significato fondamentale dell'Apocalisse, o quanto meno dello stile apocalittico, che riguarda gli ultimi tempi (escatologici).

Lettura di alcuni brani paolini che solitamente vengono proposti durante il rito funebre:

1) I Tessalorricesi 4, 13-18.

Se non è attendibile 1'ipotesi che i Vangeli siano più antichi di quanto ritenuto fino a pochi anni fa, sicuramente questa lettera scritta intorno al 50 d.C. costituisce il testo più antico del N.T.

Nella comunità era vivo il problema concreto di sapere quale sarebbe stata la sorte dei cristiani già morti al momento della venuta del Signore, ritenuta imminente. S.Paolo risponde agli interrogativi affermando che né i vivi né i morti avranno particolari vantaggi al momento finale, perché "prima risorgeranno i morti in Cristo: quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro..." perché Cristo è morto e Risorto. (E' bello ricordare che con il battesimo veniamo uniti alla morte e alla risurrezione di Cristo.)

Per la giovane comunità cristiana il rischio del disimpegno era forte; infatti, se il Signore verrà dopo la mia morte che senso ha impegnarsi?

Ecco che S. Paolo conclude il brano con una esortazione: "Confortatevi dunque a vicenda con queste parole..."

Nello stile apocalittico puro non troviamo esortazioni che sono tipiche dei profeti, dei saggi, della Sapienza. Allora questo brano apocalittico, che ci trasporta alla venuta del Signore. diventa consolatorio con un invito a non scoraggiarsi, a progredire. perché il bene operato sarà comunque tenuto in considerazione.

2) I Corinzi 15, 20-28

S. Paolo anche in questa lettera parla degli ultimi tempi e, soprattutto, del glorioso che sottometterà ogni realtà (tranne il Padre), compresa la morte.

Ecco il tema apocalittico: nell'ultimo giorno Cristo trionferà.

Cristo

3) II Corinzi 5,1-10. vv. I -8.

E' un altro brano interessante che viene proposto durante la celebrazione dei funerali. Cristiano è il desiderio di morire per "abitare presso il Signore"; anticristiano, invece, è

darsi la morte. Anelare alla comunione piena con Diop non è certo un peccato. S.Paolo stesso in un altro punto dirà: "Per me il vivere é Cristo, il morire un guadagno".

Il cristiano accoglie la morte con serenità perché non c'é niente nella vita che valga la pena di farci desiderare di rimanere qui, perché di là ci aspetta il Signore.

vv. 9-10.

Ecco il tema del giudizio. Questo brano é bello perché, al di là del suo contenuto apocalittico, é uno scritto di dialogo tra una cultura ellenistica che separava l'anima dal corpo e 1'ebraismo che non conosceva tale distinzione. Per 1'ebraismo c'era infatti la persona, un "unico" di anima e di corpo, il "nefes".

4) Romani 8, 18-30.

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16/11/2012 19:27
 
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L'Apocalisse

Prologo: cap. 1, 1-3. Lettura

Inizio drammatico e solenne.

Introduzione generale.

Nel libro stupendo dell'Apocalisse noi troviamo alcuni elementi caratteristici dell' apocalittica, come il riferimento a fatti concreti, che però devono essere interpretati alla luce di Dio e che vengono narrati attraverso un simbolismo molto complicato, ma anche raffinato.

L'autore definisce la sua opera come una profezia e si qualifica come un profeta. Ricordiamo in proposito che 1'apocalittica prende il posto del profetismo e che qui siamo di fronte ad un testo apocalittico con caratteri profetici. Sembra di tornare indietro nei secoli per la presenza di tante esortazioni, di tanti inviti alla conversione (che di per sé non sono tipici dell'apocalittica).

Rilettura del v.3. "Beato che legge...". L'espressione significa che si tratta di un testo destinato alla lettura nell'assemblea liturgica (oggi diremmo durante la Messa), di grande ricchezza, sottolineata dal rapporto esistente fra lettore e uditori. Quindi é un libro apocalittico, profetico e liturgico.

C'è già il significato della lettura della parola di Dio durante la Messa: "Beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte..."

Struttura

A - Prologo 1,1-3

B - Epilogo 22, 6-21

Il testo contenuto fra il prologo e 1'epilogo si Suddivide in due parti: I^ parte - 1,4 - 3,22 .

Contiene le famose sette lettere, che sono messaggi inviati alle Chiese dell'Asia che corrisponde all'attuale Asia Minore).

II^ parte - 4,1 - 22,5

Si suddivide in 5 sezione:

1) capitoli 4 e 5 - Presentazione dei personaggi che successivamente entreranno in azione:

Dio, corte celeste, Agnello. Libro dei sigilli.

2) 6,1 - 7,17 - Inizia 1' azione e viene presentata 1' apertura dei 7 sigilli. Si tratta di una prima esposizione, più profonda dell'introduzione, degli elementi che verranno poi sviluppati.

3) 8,1 - 1l,l4 - Qui abbiamo la successione delle sette trombe.

Si entra maggiormente nel vivo dell' azione e comincia il confronto tra il bene il male che nel corso della storia avrà alterne vicende. Viene approfondita in particolare la figura dei protagonisti negativi.

4) 11,15 - 16,16 - Sono proposti tre grandi segni: il drago, la donna e i sette angeli con le coppe. Assistiamo ad un crescendo della lotta tra il bene e il male fino al suo momento culminante, il grande giorno in cui uno degli elementi vincerà.

5) 16,17 - 22,5 - Ecco la conclusione della vicenda con la condanna definitiva e irreversibile del male e 1'esaltazione del bene. E' il trionfo di Dio e del suo popolo che confluisce nella grande immagine della Gerusalemme celeste.

Autore. L'autore si definisce "servo Giovarmi" e mai "apostolo Giovanni", anche se nell'antichità 1'Apocalisse era attribuita allo stesso autore del Vangelo.

In ogni caso si potrebbe dire che si era fatto riferimento, come accadeva spesso nell'apocalittica apocrifa, ad un personaggio molto noto per dare maggiore importanza allo scritto. Questo libro potrebbe essere stato composto da un autore sconosciuto appartenente alla scuola di Giovanni, al quale è stato poi attribuito.

Nell'Apocalisse sono contenute alcune notizie sul suo autore.

Prima di tutto 1'Autore afferma di essere un "servo" (cap. 1,1). E' un'espressione che troviamo in altri testi riferita anche a Pietro, Giacomo e a Paolo (che si definisce più volte "servo di Gesù e nell'A.T. ad Abramo, Mosé e Davide. Notiamo allora un ideale collegamento fra Antico e Nuovo Testamento: sono tutti servi di Dio.

Il nostro autore però, contrariamente a quanto fanno Pietro e Paolo, non rivendica il titolo di "apostolo". Infatti Pietro e Paolo di definiscono entrambi "servo di Gesù Cristo e apostolo per volontà di- Dio", mentre Giovanni si considera solo "servo'(termine anche tecnico per designare un appartenente alla comunità cristiana).

Al v.9 del cap.l Giovanni dice di essere "...vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù."

Sappiamo cosi con certezza che Giovanni è un fratello cristiano. Per la precisione la parola "compagno'' andrebbe tradotta "associato", termine raro che compare solo tre volte nel N.T. e che designa una persona che partecipa con altre alla salvezza (e quindi si ritiene un salvato) perché è stato fedele nella tribolazione, nel regno e nella costanza. Questi tre termini (tribolazione, regno e costanza) erano molto in voga alla fine del I secolo e designavano il complesso dell'essere cristiano. In altre parole il cristiano era tribolato, perseguitato, ma regnava con Gesù e con Lui viveva nella costanza, ossia nella testimonianza che veniva resa ai pagani. (Ricordiamo in proposito un brano di una lettera, di S. Paolo in cui si dice che Gesù diede la sua bella testimonianza davanti a Pilato. Tribolazione, regno e costanza erano indicativi di un cristiano serio, tanto serio da trovarsi per la sua testimonianza in un luogo di pena come l'isola di Patmos che era una colonia penale.

 

Epilogo

Colleghiamo 1'introduzione con il cap. 22,18-19 e notiamo un ritorno all'idea di profezia. E' possibile dedurre che 1'autore dell'Apocalisse fosse un profeta appartenente ai circoli profetici cristiani allora molto in voga. Era, comunque, un cristiano impegnato ad alto livello nella comunità, talmente innamorato di Cristo da vivere la sua pena proprio in quanto seguace di Gesù Cristo.

A questo punto ha scarsa importanza sapere se l'autore del libro sia o meno l'apostolo Giovanni, anche se 1'opinione prevalente è che si tratti proprio di lui.

 

Epoca della composizione

L'Apocalisse è indirizzata alle sette Chiese dell'Asia, perseguitate e impegnate a definire il proprio rapporto con il giudaismo e con già al loro interno il male dell'eresia. Si tratta quindi di Chiese e di comunità già sviluppate (non siamo certamente negli anni più vicini a Cristo). In particolare, la presenza dell'eresia sta a significare che il pensiero teologico è già cresciuto e che sono presenti diverse interpretazioni di Cristo.

Sicuramente siamo in un tempo di tribolazione, ma non di disperazione. Infatti la parola "costanza" ricorre nell'Apocalisse sette volte ed implica una "fedeltà nonostante tutto". La Chiesa non è distrutta perché, nonostante la tribolazione, i cristiani restano fedeli a Cristo e questo apre i cuori alla speranza.

Fra gli elementi presenti nell'Apocalisse ricordiamo gli inni liturgici, molto elaborati e di altissima teologia, e le grandi tensioni interne alle comunità cristiane. Dopo la scomunica dei cristiani da parte degli ebrei molti si chiedono se abbia ancora valore 1'Antico Testamento. Prevale 1'intuizione che non si possono rinnegare le radici comuni.

Un altro motivo di tensione nelle varie comunità è costituito dal difficile rapporto con 1'autorità imperiale di Roma.

tutti questi elementi ci aiutano a definire 1'epoca di composizione del libro: tra il 90 e il 100 d.C.

Roma è considerata la bestia con le sette teste, che ha origine dai sette colli. Possiamo dire con certezza che siamo nell'epoca della tremenda persecuzione di Domiziano (morto nel 96 d.C.), che ha inizio nel 95.

Si tratta di una persecuzione più dura di duella di Nerone che si era accanito contro i cristiani, soprattutto perché accusati di essere responsabili dell'incendio di Roma. Domiziano inizia la persecuzione dei cristiani dalla cerchia dei suoi parenti. Tutto ciò significa che il cristianesimo aveva raggiunto i ceti più alti della società. L'imperatore perseguita un cugino cristiano che in quell'anno era console e in tale veste doveva presiedere al culto pubblico, trovandosi così ad operare una scelta fra Cristo e Domiziano che pretendeva di essere chiamato "dominus et deus" (signore e dio). Non era possibile che un cristiano venerasse come dio un tiranno.

Gli storici sostengono che Domiziano avesse capito per primo che il cristianesimo minava alle radici la base del potere imperiale. Solo gli ebrei erano esentati, dietro pagamento di una tassa di 10 dragme, dall'obbligo di sacrificare all'imperatore. Pare anche che Vespasiano avesse esteso ai cristiani tale possibilità, sicuramente per poterli individuare meglio.

La persecuzione di Domiziano costituisce una vera e propria svolta con intimidazioni sempre più gravi. L'accusa che il diritto romano formula verso i cristiani è di "impietas"(empietà, ateismo) in quanto non riconoscono le divinità di Roma. Tale accusa comporta la pena di morte.

La prima vittima della persecuzione fu, appunto, il cugino dell'imperatore condannato a morte, mentre la cugina venne esiliata su un'isoletta.

Poiché gli studiosi collocano tale persecuzione nel 95, la data dell'Apocalisse può essere credibilmente situata tra il 95 e il 96, anni in cui hanno avuto inizio le persecuzioni codificate dal diritto romano.

 

L'Apocalisse è un discorso profetico e, come tale, non può avere una trattazione sistematica. Dobbiamo trarre, di volta in volta, le verità che l'autore ci propone.

Quali sono le tematiche più importanti che costituiscono la struttura teologica portante del nostro libro?

 

1° elemento teologico portante: Dio.

Nell'Apocalisse Dio è presentato con i termini dell'Antico Testamento, come ad esempio "santo", "giusto", "onnipotente". Ovviamente si aggiunge poi la connotazione cristiana, tanto che nell'Apocalisse e nel N.T. Dio è detto "Padre di Cristo". (Notiamo, per inciso, che proprio partendo dal nostro libro si può leggere tutta la Bibbia a ritroso.) Negli ultimi anni del I secolo d.C. la teologia stava elaborando concetti che per noi oggi sono scontati. Proprio in quel periodo iniziarono i contrasti tra i cristiani per il sorgere delle prime eresie, come l'eresia gnostica, una delle più gravi dell'epoca, secondo la quale Jahwe, il Dio dell'A.T., malvagio e vendicativo, non sarebbe stato il vero Dio, ma un "eone", una creatura eccelsa e malvagia la quale, per ingannare gli uomini, si spacciava per Dio. Sorse così la necessità di un'altra realtà, questa volta buona, Gesù, che rivelasse il vero Dio santo e misericordioso. Dio viene definito "Colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente" in Ap.1,8, con evidente richiamo alla risposta data a Mosè nell'Esodo: "Io sono colui che sono!" (Es.3,14). Jahwe è colui che è.

La rielaborazione cristiana del concetto di Dio ci dà il senso dell'eterno. Infatti Egli mette in moto e conduce lo sviluppo della salvezza e non è come il "motore immobile" di Aristotele che dà inizio al mondo e poi lo abbandona. Il processo di salvezza ha lo scopo di superare poco per volta il male. Secondo l'Apocalisse, infatti, Dio opera comunque e gradualmente smantella il male. Alla fine ci sarà il "giorno di Jahwe", secondo i profeti. Dio rinnoverà tutto e con il suo popolo vivrà in una intimità profonda.

2° elemento teologico portante: Cristo.

Cristo per il nostro autore è "l'Agnello", "il testimone fedele", è "l'Amen" (= così è), "il Verbo di Dio", "il Figlio di Dio", "la stella luminosa del mattino".

Il tema centrale è così sintetizzato: Cristo morto, risorto e vivente guida la Chiesa. L'Apocalisse ci dice che le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa che è guidata da Cristo vivente e risorto. Cristo guida la sua Chiesa con una duplice funzione:

a) giudica la Chiesa con la sua parola e la purifica;

b) l'aiuta a sconfiggere tutte le forze ostili che la insidiano dall'interno e dall'esterno.

Attraverso la Chiesa, attraverso la comunità da Lui guidata, Cristo prolunga la sua presenza personale che è vittoriosa in tutto. Ecco perché l'Apocalisse è un libro di speranza.

 

3° elemento teologico portante: la Chiesa.

Nell'Apocalisse è già presente una bella visione della Chiesa universale (che comprende tutte le comunità sparse nel mondo allora conosciuto, cioè le Chiese locali). L'ecclesiologia del nostro libro è richiamata dal Concilio Vaticano II: la Chiesa universale è costituita dalle Chiese locali che sono appunto l'immagine, in piccolo, di quella universale. Si tratta di comunità che crescono tra le molte difficoltà che si presentano al tempo della stesura dell'Apocalisse e che hanno una meta sicura: la Gerusalemme celeste, cioè il momento in cui la Chiesa sarà perfetta. Allora sarà la sposa totalmente integra di Cristo. Fino a quel momento la Chiesa avrà la duplice componente di santa e peccatrice.

 

Altri elementi importanti ma non diffusi come gli altri nel nostro testo sono:

1) lo Spirito Santo. L'Apocalisse, infatti, è il libro del N.T. che meglio riesce a raggiungere l'idea trinitaria già presente nel Vangelo di Giovanni. Leggiamo in proposito i vv.4^ e 5^ del cap.1. Si tratta di un saluto perfetto nel quale è presente una formula trinitaria perfetta, dove lo Spirito Santo è rappresentato dai sette Spiriti, Spirito settiforme;

2) gli angeli che danno una manifestazione concreta e complessa di Dio. Diversi angeli collaborano con lui per realizzare il piano di salvezza mentre altri vi si oppongono;

3) l'escatologia (= discorso sulle cose ultime). Apparentemente nell'Apocalisse compaiono due elementi contraddittori:

a) una realtà eterna che va al di là del tempo, immobile. L'autore fa delle allusioni e dei riferimenti non concreti a determinate situazioni, tanto che tutto sembra collocato su uno sfondo irreale ma eterno;

b) descrizioni e riferimenti a fatti concreti e cronologicamente individuabili.

 

E' facile conciliare questi due elementi perché l'Apocalisse ci dice che determinati avvenimenti accadono oggi (95 d.C.) ma accadranno anche in futuro (per es. le persecuzioni). Un fatto reale come la persecuzione di Domiziano si trasfigura e diventa simbolo di tutta la storia della Chiesa, che sarà costellata di avvenimenti simili (persecuzioni ed eresie nelle varie parti del mondo in epoche successive). Il fatto diventa tipico e sarà ripetuto per millenni. E' un'annotazione importante: il tempo scorre verso una meta, verso l'eternità. Quindi l'Apocalisse ha una bellissima teologia della storia, di una storia guidata da Dio, che è la storia di ciascuno, della Chiesa, dell'umanità: storia della salvezza in cui contempliamo l'amore di Dio. Il Signore guida la storia misteriosamente, secondo un piano che prevede comunque la salvezza.

 

Il cammino della Chiesa nella storia delle salvezza è tra il "già" e il "non-ancora", in uno stato di purificazione interiore, sottomessa al giudizio di Cristo e dello Spirito. La comunità ecclesiale così purificata sarà in grado di fare una riflessione sapienzale sul mondo e su di sé per cogliere le realtà autentiche nascoste sotto le apparenze.

 

 

Per esempio, il Cap.17,1-7.

La donna qui citata altri non è che Roma divinizzata. Proviamo a pensare a un tempio con la statua della dea Roma (esattamente come quella descritta nel brano) che la gente di allora era abituata a vedere. Non per nulla le città dell'Asia Minore erano state le prime ad accogliere il culto dell'imperatore e della dea Roma, che dovevano essere i culti unificati di tutto l'impero. Questi versetti dicono ai fedeli che la statua che vedono in realtà rappresenta una prostituta, non una dea. Dio porta a una realtà autentica ciò che era stato mascherato. E una delle funzioni della 2^ parte del libro è proprio quella di aiutare i lettori a cogliere la realtà vera. Inoltre il nostro lavoro è un esempio di lettura sapienzale della storia (degli avvenimenti, delle persone e delle situazioni). Il Signore ha rivelato i segreti a Giovanni che ne rende partecipe la comunità.

 

I simboli dell'Apocalisse.

1) Simboli biblici, numerosi.

Vengono ripresi concetti già presenti nell'A.T. come ad es. il cielo, simbolo della trascendenza divina, il corno, simbolo della potenza, la vendemmia, simbolo del giudizio divino.

2) Simboli cosmici.

Soli di diverso colore, luna color sangue, disastri. Vogliono comunicarci che il Signore è l'unico padrone del creato e che con la sua onnipotenza, se vuole, può incidere a suo piacimento nella storia del mondo.

3) Simboli teriomorfi.

Gli animali ai quali si riferisce (per es. l'agnello, il leone, le cavallette) servono all'autore per dire che nella storia ci sono realtà non pienamente spiegabili.

4) Simboli aritmetici.

Sono molto complessi e partono da un presupposto orientale, secondo il quale ogni realtà è misurabile e quantificabile compiutamente. Il simbolo più comune è il numero 7 che indica la totalità, la perfezione. Lo stesso vale per i suoi multipli. La metà di 7 o le frazioni di 7 sono indice di imperfezione, di non pienezza.

5) Simboli cromatici.

Alcuni colori hanno equivalenze precise. Ad esempio "bianco" è il colore della trascendenza, "verde" il colore della saggezza e del comando.

 

Nell'Apocalisse troviamo almeno 500 riferimenti diretti e allusivi dell'Antico Testamento. Lo steso procedimento di citazioni indirette è presente nel Vangelo di Gv. il quale solo nell'ultimo capitolo riporta l'unica citazione diretta. L'autore interpreta e rielabora alcuni riferimenti per farci arrivare alla "interpretazione tipica". In alcuni casi l'interpretazione della citazione è fornita dalla Bibbia stessa. Un brano viene ripreso nei libri successivi in un determinato contesto che gli dà un certo significato. Ricordiamo a questo proposito il salmo 90 (91) che viene citato da Satana nell'episodio della tentazione del Vangelo di Mt. (4,5-6). Qui Satana dà un'interpretazione messianica al salmo proprio nei versi in cui si parla del Messia. Potremmo dire che Apocalisse costituisce una rilettura cristiana dell'A.T..

 

Considerazioni generali.

Nell'Apocalisse sono presenti due elementi che si completano a vicenda:

1) il mistero, cioè il piano di salvezza di Dio, che si manifesta in modo cifrato, simbolico;

2) la sapienza, la virtù che ci permette di cogliere il significato dei simboli, che ci consente di arrivare all'autenticità del piano di salvezza.

Concludendo possiamo definire l'Apocalisse un libro rivoluzionario perché sovverte gli ordinamenti dall'alto, sottoponendoli (non solo quello romano, ma tutti quelli che seguiranno nel corso della storia) al giudizio di Dio. E' Dio che giudica la validità di una forma di governo. Si scopre così che ogni potere umano è caduco.

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16/11/2012 19:28
 
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Capitolo 1 dell'Apocalisse

 

 

Lettura del prologo, vv. 1-3.

Siamo di fronte a una rivelazione fatta da Gesù Cristo (Colui che rivela) e "che Dio gli diede". Quindi Gesù è testimone perché il Signore gli ha dato da comunicare ciò che Cristo stesso ha visto e sentito. Nell'Apocalisse tutto è rivelazione di Gesù che si serve di un uomo, Giovanni, per trasmettere le "cose" ai suoi servi, cioè a coloro che credono in Lui e che beneficeranno di tale rivelazione.

Potremmo dire, sintetizzando, che:

1) il protagonista è Gesù;

2) il mediatore è Giovanni;

3) i destinatari sono i servi.

E' così succintamente spiegato anche il ruolo della Chiesa che ancora oggi funge da mediatrice, come Giovanni, fra Cristo e i suoi servi.

 

Chi sono i "servi", i destinatari dell'Apocalisse? I destinatari sono "colui che legge" e "coloro che ascoltano la parola" (v. 3) e sono introdotti dalla prima delle sette beatitudini contenute nel testo. "Beato chi legge e beati coloro che ascoltano".(v. 3). Questa prima beatitudine ci richiama il contesto liturgico della Messa: c'è chi proclama e chi ascolta e si fa istruire dalla parola di Dio. E proprio grazie a questa beatitudine comprendiamo che le "cose" scritte nell'Apocalisse sono per il bene di chi legge e di chi ascolta. Ne consegue che non si tratta di un libro catastrofico, ma di uno scritto di speranza, di felicità suprema, che si inserisce nell'annuncio della buona notizia alle Chiese perseguitate.

L'Apocalisse vuol far luce sul mistero di Cristo e della Chiesa e sulla storia umana e l'illuminazione progressiva ci porterà alla felicità.

 

Il contenuto del nostro libro è costituito da "le cose che devono presto accadere" (v. 1), cioè dalla storia umana illuminata da Dio che ci rivela, dal suo punto di vista, tutto ciò che deve accadere.

 

Nei versetti del prologo sono evidenti delle indicazioni di carattere temporale, cronologico. La prima è costituita dall'espressione: "le cose che devono presto accadere" (v. 1). "Presto" andrebbe qui tradotto "all'improvviso", "di sorpresa" e, quindi, avremo "le cose che devono accadere all'improvviso".

 

 

La seconda indicazione, la più importante, è data dall'espressione: "Perché il tempo è vicino" (v. 3) in cui è contenuta una parola-chiave usata non solo nell'Apocalisse, ma in tutto il Nuovo Testamento: "cairòs" anziché "cronos" che entra nella composizione di tante parole italiane (ad es. Cronologia, cronografia). Si tratta di un termine tecnico. "Cairòs" è presente in alcuni brani apocalittici del N.T. come Mt. 24, Mc. 13 e Lc. 21.

Per comprendere adeguatamente il significato di questa parola greca leggiamo in Lc. 19, 41-44, il "Lamento su Gerusalemme", brano particolarmente significativo. Nell'espressione "....non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata" è contenuto il termine "cairòs" che significa il "tempo decisivo", "il momento cruciale" in cui si deve fare una scelta. E solitamente nel N.T. indica il momento in cui si deve scegliere Cristo o gli altri. Qui "cairòs" significa anche l'oggi, il passato, ma anche il futuro, tutti i tempi in cui si deve prendere una decisione. Gerusalemme ha sbagliato, non ha saputo riconoscere il momento propizio in cui era stata visitata.

 

Un tempo può essere determinato, come nel nostro caso in cui c'è la presenza di Cristo che annuncia la pace, oppure indeterminato. "Cronos", termine greco al quale si era prima accennato, significa invece "il tempo che passa". Per noi discepoli di oggi è sempre "cairòs" perché in ogni momento dobbiamo operare la scelta o con Cristo o contro Cristo.

 

Il prologo, quindi, ci ha indicato alcuni elementi importanti: Gesù Cristo, le "cose" che devono accadere, Giovanni (il mediatore), ma soprattutto ci ha introdotto all'Apocalisse, un libro di speranza che porta alla beatitudine. Teniamo anche presente un avvertimento: "cairòs", il tempo della decisione, è vicino.

 

Indirizzo - lettura dei vv. 4-8

Ecco una solenne liturgia con il dialogo fra il solista (Giovanni) e l'assemblea.

Nella I parte (vv. 4-5) parla Giovanni;

nella II parte (vv. 5-7) risponde l'assemblea con le acclamazioni;

nella III parte (v.8) interviene Dio.

L'indirizzo ci dice che l'Apocalisse era destinata alla lettura nell'assemblea liturgica e che suscitava l'entusiasmo negli ascoltatori. I vv. 4-8 precedono le lettere scritte alle sette Chiese d'Asia.

 

v. 4 -

"...grazia a voi e pace..."

Giovanni con "grazia" e "pace" coniuga due culture diversissime fra loro: la greca ("grazia") e l'ebraica ("pace", "shalom"). L'autore dell'Apocalisse con tale saluto ci sta dicendo che Gesù Cristo ha costituito un solo popolo. Ed è una formula che ci indica la pienezza della salvezza; concetto che sottintendeva sempre "shalom", parola con un chiaro significato religioso e con la quale si augura la salvezza.

 

vv. 4-5

Siamo davanti a una stupenda formula trinitaria che, come tutto il brano, è un commento teologico non esplicito di Giovanni all'Esodo.

Per esempio, Es. 3 "Il roveto ardente".

"Dio disse a Mosè: Io sono Colui che sono. Dirai agli Israeliti:l'Io sono mi ha mandato a voi". In questo, che è uno dei brani più alti dell'A.T., Dio rivela il suo nome a un uomo, fatto inaudito nella prospettiva vetero-testamentaria, ma conserva comunque un mistero. Potremmo affermare che Dio è l'Esistente, l'Essere.

L'espressione "Io sono Colui che sono" è stata oggetto di varie interpretazioni sia nella Bibbia che nel rabbinismo. L'originalità di Giovanni sta nel non scrivere come nei testi rabbinici "Colui che era, che è, che sarà", ma nel definire Dio come "....Colui che è, che era e che viene" (v. 4). A questo proposito si legge Isaia 40, 1-11. Il Signore viene a liberare il suo popolo: nel brano di Isaia, dalla schiavitù babilonese, nell'Apocalisse, dalla persecuzione. E' il tema profetico di un Dio che viene a salvare il suo popolo e perciò entra nella storia.

Giovanni con "viene" vuole sottolineare che è il Dio della storia, del "cairòs" (ossia del tempo decisivo) che porta alla salvezza, e non il Dio astratto.

Conviene ripetere che si tratta di una delle definizioni più alte di Dio proposte dalla Bibbia: nella quale c'è tutta la teologia dell'Incarnazione. Non per niente è stata scritta da persona che ha vissuto l'esperienza di Cristo.

 

I lettera di Giovanni: vv. 1-4.

Riecheggia la solennità del prologo del Vangelo di Gv.:"In principio era il logos...". Qui è descritto il Dio che viene. Dio è il futuro già presente e il passato già futuro. "E il Verbo si fece carne": Gesù è qui adesso.

 

"sette spiriti" (v. 4)

Sette è un numero simbolico, espressione della totalità, e indica anche lo Spirito Santo.

 

v. 5 -

Il grande inno cristologico serve a Giovanni per illustrare ai lettori il triplice ruolo di Cristo:

1) testimone fedele;

2) primogenito dei morti;

3) principe dei re della terra.

 

E continua il commento dell'Esodo.

Ad esempio il v. 5b ci richiama l'agnello il cui sangue steso sugli stipiti delle porte salvò gli ebrei (Es. 12). Dio salva oggi la sua Chiesa così come aveva salvato gli ebrei dalla schiavitù con il sangue dell'agnello.

 

v. 6a -

E' facile ripensare al Sinai, alla grande Alleanza quando Mosè asperse con il sangue dell'agnello gli ebrei (Es. 24). La stessa materia, il sangue, unì l'altare, cioè Dio, e il popolo. Gesù viene riportato così dall'Apocalisse all'Alleanza primordiale del Sinai, al primo gesto di salvezza operato da Jahwe (la liberazione dall'Egitto) e oggi ci libera dalla schiavitù del peccato e fa di noi un popolo santo, "di sacerdoti".

 

Quindi:

1) Cristo è il testimone fedele che svolge un ministero, cioè ci dice (secondo Giovanni) chi è il Padre;

2) primogenito dei morti: morte e resurrezione di Gesù;

3) principe dei re della terra: glorificazione di Cristo.

v. 7 -

"...viene sulle nubi" Cristo. La nube è un elemento classico di tutte le teofanie. In proposito riandiamo a Es. 13 - lettura. La nube nasconde agli occhi degli egiziani gli ebrei che possono così varcare indisturbati il Mar Rosso. Notiamo che in tutta la Bibbia la nube indica sì un mistero, ma, anche, una presenza salvifica.

 

"...anche quelli che lo trafissero..."

Il versetto 7b richiama Zaccaria e anche il Vangelo di Gv. Si veda, ad esempio, il cap. 19, 31-37. Questo è un brano storico perché l'evangelista, che non ha mai citato esplicitamente la Scrittura, qui scrive "....perché si adempisse la Scrittura ..." e "...un altro passo della Scrittura dice ancora....".

Allora, quando leggiamo il v. 7 del cap. 1 dell'Apocalisse ripensiamo al v. 37 (Gv. 19,37) che ci riporta al dramma della morte, ma anche al S. Cuore, al dono del Sangue e dell'Acqua, alla Chiesa, ai Sacramenti.

 

 

Capitolo 1 (continuazione)

 

 

Ricordiamo che nel brano d'indirizzo avevamo sottolineato alcuni elementi: il saluto di Giovanni, le acclamazioni dell'assemblea e, infine, l'entrata in scena di Dio stesso che parla.

 

v. 8 - lettura

Il Signore si definisce con un'espressione che non compare in nessuna altra parte della Bibbia: "Io sono l'Alfa e l'Omega", cioè la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco. Ciò significa che Dio è principio e fine di tutto e anche "...Colui che è, che era e che viene...", ossia l'Essere in perpetua azione. Il Signore aggiunge poi un attributo che compete solo a Dio Padre "l'Onnipotente", (in greco "pantocrator" cioè "colui che può tutto") termine che prende il posto dell'ebraico "Jahwe Sabaot" (="Dio degli eserciti"). "Onnipotente" è l'appellativo più tipico di Dio che veramente è Colui che può tutto. Teniamo presente che nell'Indirizzo sono delineati alcuni personaggi che entreranno poi a pieno titolo nel testo dell'Apocalisse.

 

vv. 9-20 "Visione preparatoria" - lettura

C'è un primo passaggio molto accentuato dal v.8, in cui Dio parla in prima persona, al v.9 che segna l'inizio della narrazione di Giovanni. Viene qui descritta la prima visione dell'Apocalisse, dalla quale emerge un personaggio misterioso, importante, "simile a Figlio di uomo", sfolgorante nei suoi abiti che denotano una particolare dignità.

 

vv. 9-10

"Io, Giovanni, vostro fratello...". Abbiamo già visto nell'Introduzione chi è questo Giovanni e soffermandoci sul v.9 notiamo che, come tutti i profeti, egli dà alla sua visione un contesto geografico (l'isola di Patmos), autobiografico ("Io, Giovanni") e anche temporale ("...nel giorno del Signore"). Per capire meglio la contestualizzazione di una visione leggiamo

Isaia 1,1

Il contesto dei profeti antichi è dato sempre da coloro che detenevano il potere politico, cioè dai re. Vediamo che l'epoca in cui Isaia profetizza è piuttosto prolungata nel tempo. A proposito dei re citati da Isaia leggiamo

2 Re 18, 1-8

in cui si parla del re Ezechia, figlio di Acaz che "fece ciò che è retto agli occhi del Signore" e

 

 

2 Re 16, 1-4

ove si narra del re Acaz il quale invece, "non fece ciò che è retto agli occhi del Signore suo Dio" e "...fece perfino passare per il fuoco suo figlio..." compiendo un sacrificio umano.

 

Perché questi esempi? Per dirvi che quando un cristiano legge la Bibbia e vuole fare una "lectio divina" deve cercare di collegare un brano all'altro. Vedete come da una visione inaugurale di un profeta sia possibile arrivare alla lettura di altri bani e, alla fine di un anno, avere al nostro attivo la riflessione su molti testi biblici.

 

L'autore usa l'espressione "rapito in estasi nel giorno del Signore...", cioè di domenica. Ciò significa che Giovanni vuole determinare non solo un giorno certo della settimana, ma un giorno estremamente simbolico, il giorno della resurrezione, del trionfo della vita sulla morte. Non per niente la domenica è definita "il giorno primo" e "il giorno ottavo". E' il primo giorno, il segno della novità di vita ma anche il giorno ottavo, nel senso escatologico del compimento dei tempi (la venuta di Gesù). Ecco perché la domenica è fondamentale per noi cristiani e anche i vescovi italiani ribadiscono in un recente documento che è "il giorno del Signore" e che non va considerato soltanto come un momento di riposo. IL centro della festa deve essere l'Eucaristia che ci riporta al giorno primo, quello della Risurrezione, ma anche al giorno finale che ha iniziato i tempi ultimi. E' triste constatare la scarsa presenza dei nostri bambini alla Messa domenicale. Viene da chiedersi che senso abbia oggi per le famiglie il giorno del Signore.

 

"Rapito in estasi" andrebbe tradotto dal greco con "Io fui in spirito". Significa che si tratta di una visione vera e propria. Di certo nella Bibbia l'uso di questa terminologia indica che ci troviamo di fronte a un intervento divino legato a una rivelazione, a una missione.

Leggiamo, ad esempio, quanto scritto in

Atti 11, 1-11 e in particolare soffermiamoci sul

v. 5 in cui si racconta di Pietro che giustifica la sua condotta dopo il battesimo dei primi pagani (non circoncisi). Anche qui sono narrate un'estasi e una visione come nel cap. 1,10 dell'Apocalisse. E proprio in tale visione viene detto a Pietro che tutto ciò che è purificato da Dio non può essere considerato immondo. In termini cristiani significa che ciò che Gesù Cristo ha salvato con il suo sacrificio non può esser escluso dalla salvezza. Ne deriva la missione affidata a Pietro: andare a battezzare chiunque, anche i non circoncisi. Nell'Apocalisse ci troviamo di fronte a un uomo chiamato Giovanni, che ha una visione, al quale viene affidata una missione proprio mentre si trova n un momento di tribolazione, quando è unito in modo particolare alla passione di Cristo perché perseguitato. Allora significa che Gesù è con lui non solo nella tribolazione ma anche nella vittoria. Giovanni è con Cristo sofferente per essere poi con Cristo glorioso. Sempre nel v.10 troviamo le tematiche tipiche della gloria: "...una voce potente, come di tromba...". Possiamo ricordare al riguardo la grande teofania del Sinai e alcuni brani apocalittici del N.T. già letti, in particolare

Mt. 24 e I Tessalonicesi 4

nei quali si incomincia a parlare di Cristo glorioso.

 

v. 11 - Le sette Chiese -

Il numero sette ha un valore reale ma è anche il simbolo della pienezza. Significa che questa visione è sì per le sette Chiese elencate ma è anche per la Chiesa nella sua totalità. Senza la Chiesa particolare non esiste la Chiesa universale e viceversa. La diocesi è la Chiesa nella sua perfezione in un territorio delimitato.

 

vv. 12-16 - lettura -

Descrizione della visione di un personaggio "simile a figlio di uomo". Per avere un termine di paragone leggiamo

Daniele 7, 9-14 "Visione del Vegliardo e del Figlio di uomo".

Per questo profeta "uno, simile a un figlio di uomo" è il misterioso messia escatologico, il messia-giudice che detiene un potere grandissimo in un regno che non finirà mai.

 

La prima parte della prima visione dell'Apocalisse ci induce a pensare al Cristo glorioso in un contesto di Tempio, di Chiesa e di preghiera (vedi "i candelabri"). Gesù Cristo, simile a "Figlio di uomo", ha ottenuto la vittoria sul male e con la sua Risurrezione sono iniziati sia la fine dei tempi che il tempo del giudizio. Gesù è re glorioso (vedere la "parabola del regno" nel Vangelo) di un regno vero, misterioso, incompiuto, ma in espansione. Si tratta di un regno quasi fisico, di un estendersi del regno dei cieli nel mondo.

v. 13 -

Il re glorioso indossa un abito particolare, l'abito del Sommo Sacerdote. Questo "Figlio dell'uomo", re glorioso e sommo sacerdote, assume le sembianze del vegliardo nel libro di Daniele. Ma mentre nel brano del profeta sono presenti due personaggi, nell'Apocalisse compare un solo personaggio, Gesù glorioso identificato con Dio. E' il Signore stesso, il re glorioso, il sommo sacerdote. Siamo di fronte a una teofania.

 

 

 

v. 16 -

Cristo ha potere sulla Chiesa. Pensiamo alla sette stelle nella mano destra che rappresenta la potenza di Dio. Gesù ha in mano le sette Chiese (anche in questo caso il numero è simbolico).

Infine un accenno a una bellissima espressione "...dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio...". Allora per comprendere bene questa parte del v.16 leggiamo

Lettera agli Ebrei vv. 12-13

Ecco che il "Figlio di uomo" dalla cui bocca esce la parola divina (spada a doppio taglio) è riscoperto anche come profeta. Per conferma leggiamo

Isaia 49, 1-2 "Secondo canto del servo del Signore".

 

Nell'Apocalisse Cristo Signore è Dio nella sua triplice funzione di re, sacerdote e profeta. Siamo di fronte a una grande liturgia battesimale.

Giovanni a Patmos sta contemplando il suo essere un re, un sacerdote, un profeta perché è stato incorporato a Cristo. La prima parte della visione ci presenta dunque il Cristo glorioso, lo stesso Cristo che in modo rivoluzionario e sconvolgente diventa pane, cioè l'Eucarestia.

 

v. 17 - lettura -

Davanti all'apparizione Giovanni si spaventa. Concludiamo richiamando un brano evangelico particolarmente interessante

Lc. 5, 1-11

Anche qui assistiamo a una teofania

 

Capitolo 1 (continuazione)

 

Abbiamo concluso la scorsa lezione con la lettura dei primi versetti di Lc. 5 in cui Gesù si mostra senza particolare sfoggio di potenza e sale sulla barca di Simone. La reazione di Pietro è simile a quella di Giovanni, descritta in Ap. 1,17. Come a Pietro Gesù aveva detto: "Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini (Lc. 5,10), così al nostro autore "...disse: Non temere..." (v. 17).

Davanti a Dio, da Cristo in poi, non dobbiamo avere timore perché anche un peccatore come Pietro può essere chiamato a diventare "pescatore di uomini".

 

vv. 17-20 - lettura

Cristo, rivelandosi, attribuisce a se stesso delle caratteristiche che nell'A.T. sono tipiche di Jahwe, come, ad esempio, "Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente" (v. 17), ma poi aggiunge un attributo suo proprio: "Io ero morto ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi" (v. 18). Il Cristo glorioso è passato attraverso la morte in croce per risorgere nella gloria. Gesù è "morto e risorto".

Cristo affida a Giovanni la missione di annunciare ciò che ha visto. E questa missione viene affidata anche a noi, oggi. Quando noi andiamo a Messa, ad esempio, e vediamo con gli occhi della fede realizzarsi il mistero pasquale abbiamo poi il compito di annunciarlo ai nostri fratelli. Parliamo a tutti con semplicità per rendere ragione della nostra speranza, della gioia che è in noi.

 

Giovanni deve annunciare non solo ciò che ha visto ma anche quanto il Signore gli dice. Gesù Cristo stesso gli suggerisce l'interpretazione delle visioni. E' importante vedere con gli occhi della fede la decodificazione dei fatti che noi viviamo. Teniamo presente che la decodificazione è quanto ci viene detto oggi dal Cristo vivente, ossia dalla Chiesa. Ecco perché è necessario leggere i documenti ecclesiali (almeno uno all'anno!) Interessante, ad esempio, è "L'istruzione sul ruolo e il ministero dei laici", il recente documento, pubblicato su "Avvenire", che indica fra l'altro una chiara distinzione fra il ruolo dei laici e quello dei sacerdoti.

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16/11/2012 19:30
 
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Capitolo 2

 

I. EFESO

vv. 1-7 - lettura

"All'Angelo della Chiesa di Efeso scrivi....", sono parole di Cristo. Il Risorto parla alle sette Chiese Pensiamo al candelabro ebraico a sette bracci: è un'immagine bellissima della Chiesa. Il candelabro è uno ma è costituito da tutte le sette fiamme riunite, che però rimangono fiamme singole. Ecco le chiese particolari e la Chiesa universale.

Le sette lettere in realtà più che allo stile epistolare appartengono allo stile profetico, e in esse si sente la voce di Dio che giudica, che analizza, che mette in evidenza le cose positive e quelle negative.

L'introduzione è solenne: "Così parla Colui...". Sembra di sentire l'"Oracolo di Jahwe" dell'A.T. Sulle sette Chiese, come era avvenuto da parte dei profeti nei confronti di Israele, sono espressi una critica e un incitamento a proseguire.

Se notiamo bene, la maggior parte dei titoli dati al Signore è già presente nell'Introduzione. Ora nelle lettere i vari attributi divini vengono ripresi (es. "...Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d'oro...") e sviluppati in un diverso contesto. Anche le immagini (es. "Al vincitore darò da mangiare...") sono un'anticipazione di quanto scritto negli ultimi capitoli apocalittici ove si parlerà della Gerusalemme celeste.

 

Perché le lettere sono indirizzate proprio alle Chiese di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardì, Filadelfia, Laodicea?

La risposta più ovvia è che in tali città erano presenti comunità cristiane.

Nelle nostre lettere sono contenuti precisi riferimenti religiosi, politici, geografici alle città in questione, che indicano che lo scrivente conosceva molto bene la regione in cui erano situate le comunità destinatarie degli scritti.

I messaggi alle Chiese fanno emergere tre aspetti:

1 - le tensioni esistenti all'interno delle comunità cristiane,

2 - le tensioni con il giudaismo,

3 - la tensione con il potere imperiale, con Roma.

 

Riprendiamo l'esame della prima lettera o, quanto meno, di alcuni versetti.

Efeso, uno dei centri religiosi più importanti dell'antichità, era una metropoli con 250.000 abitanti e con il celebre tempio di Artemide (Diana per i Romani), meta di grandi pellegrinaggi, considerata una delle sette meraviglie del mondo.

 

Chi è l'Angelo della Chiesa di Efeso? Secondo alcuni studiosi sarebbe lo spirito tutelare della comunità (idea diffusa nel tardo giudaismo), mentre per altri si tratterebbe del messaggero latore delle lettera (dal significato del termine greco).Per altri ancora sarebbe il ministro responsabile della comunità, che avrebbe letto poi il messaggio nell'assemblea liturgica. Secondo l'interpretazione più valida l'Angelo diventa una personificazione della comunità ecclesiale.

 

Cristo in questa prima lettera è presentato come il dominatore della Chiesa. Egli "cammina in mezzo ai sette candelabri d'oro" e, quindi, è dinamico, cammina con la sua Chiesa. Ci accorgiamo di pagine bibliche in sottofondo: "cammina" ricorda innanzitutto l'Esodo, con il popolo che cammina nel deserto mentre la nube lo segue; e, inoltre, Dio che passeggia nel giardino mentre Adamo ed Eva, commesso il peccato, si nascondono perché nudi (Genesi 3, 8-10).

 

In questa I lettera pare si possa cogliere la descrizione di un peccato. Nel v. 5 Gesù parla al passato: "Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima".

Per capire bene il messaggio inviato alla Chiesa di Efeso è importante ripensare al peccato originale e leggere Genesi 2 e 3. L'episodio della caduta di Adamo ed Eva ci aiuta a capire il valore del premio finale, l'albero della vita. Infatti ai due in Genesi vengono proibiti l'albero della conoscenza del bene e del male e l'albero della vita. Adamo ed Eva mangiano del primo ma viene loro impedito, dall'arrivo di Dio, di nutrirsi dell'albero della vita.

Adesso il vincitore (v. 7) potrà mangiare dell'albero della vita perché Dio e l'uomo si sono perfettamente riconciliati.

 

La Chiesa di Efeso ha degli aspetti positivi come ad esempio le "opere" (in greco ta erga) che sono ritenute fondamentali nella tradizione giudaica. Un buon ebreo doveva conoscere la Torah e metterla in pratica: la preghiera e - come era chiamata dagli ebrei - l'elemosina. La sola preghiera e la sola elemosina non bastavano. E, al di là delle interpretazione date agli scritti di S.Paolo, la fede e le opere assieme sono indispensabili anche per noi cristiani. S. Giacomo afferma che senza le opere non c'è fede.

Noi andremo in Paradiso perché Cristo è morto per noi e perché abbiamo capito il senso di questa morte attraverso la quale si realizza la redenzione. Possiamo intendere la fede e le opere come "la tua fatica e la tua costanza" (v. 2).

Alla luce di altri passi del N.T., soprattutto di S. Paolo, "fatica" significa "sforzo apostolico", "annuncio del Vangelo", "fatiche dell'annuncio". La Chiesa di Efeso pratica le opere, annuncia il Vangelo ed è costante, cioè ha l'atteggiamento giusto del cristiano quando è perseguitato. Sono questi aspetti positivi notevoli. Ma la Chiesa di Efeso deve ritrovare il suo amore (agàpe) di un tempo verso Gesù, cioè deve recuperare quel rapporto di amore intenso e disinteressato che aveva prima con il Signore. L'agàpe èl'anima di ogni cosa e quando viene meno rimane l'egoismo.

Scopriamo poi che nella comunità cristiana di Efeso erano presenti dei falsi apostoli (v. 2) che, stando ai testi di S. Paolo, erano persone che si ritenevano super-apostoli (oratori che invece a Corinto riscuotevano grande successo), oppure che si spacciavano per apostoli ma non lo erano. Questa accusa veniva rivolta anche a S. Paolo perché egli non aveva condiviso la vita terrena di Gesù. Di fatto i falsi apostoli erano persone che mistificavano, che predicavano un falso Vangelo. Alcuni studiosi li identificano con coloro che nel v. 6 sono definiti "i Nicolaiti".

Secondo l'Apocalisse costoro di nutrivano delle carni immolate agli idoli. Noi ne abbiamo notizia dai Padri della Chiesa (in particolare da Ireneo e da Eusebio di Cesarea), i quali li fanno risalire a Nicola - uno dei sette diaconi - che aveva costituito un gruppo considerato eretico perché aveva tendenze libertine e lassiste e l'uso di consumare le carni sacrificate agli idoli.

Per altri studiosi il termine "Nicolaiti", che deriva comunque da "Nicola", è simbolico. "Nicola" significa "vincitore del popolo" ma in senso negativo vuol dire "imbroglione del popolo".

 

A colui che sopporta la persecuzione e che è vittorioso in questa Chiesa, Gesù Cristo promette "l'albero della vita che sta nel paradiso di Dio" (v. 7). Ciò significa che Cristo - il nuovo Adamo - permette la riconciliazione di coloro che il vecchio Adamo aveva separato: Dio e l'uomo. E quindi, grazie al nuovo Adamo, l'uomo riacquista la vita che aveva perso con il vecchio Adamo. S. Paolo scriveva: Cristo è il nuovo Adamo che ci ha liberato dal peccato.

 

II. Smirne

2, 8-11 - lettura -

Smirne era considerata la città più grande e più bella della provincia dell'Asia (corrispondente a circa l'attuale territorio della Turchia). Fino dall'epoca delle guerre cartaginesi fu una potentissima alleata di Roma e successivamente fu inglobata nell'Impero. Città di grandissima tradizione militare e politica, vantava due magnifici templi, uno dedicato alla dea Roma e l'altro all'imperatore Tiberio. Era sede di una numerosissima comunità giudaica ed era famosa anche per i giochi cruenti e incruenti che vi si praticavano.

 

In questa II lettera Cristo è definito "il Primo e l'Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita" (v. 8 ). E' questo un attributo di Gesù già notato nell'Introduzione. Qualche studioso sostiene che il secondo titolo "che era morto ed è tornato alla vita" si riferirebbe a un'esperienza vissuta dalla città di Smirne, cioè la sua distruzione totale e la successiva rinascita nel II secolo a.C.

Gesù Cristo parlando alla Chiesa di Smirne dà un duplice incitamento:

1) a non aver paura,

2) a restare fedele.

Ci troviamo di fronte a una comunità che si sta preparando a una grande persecuzione (v. 10). L'espressione "la tua tribolazione, la tua povertà"(v. 9) ci riporta al periodo della schiavitù d'Egitto, quindi a un momento di oppressione (Esodo 3).

Nel v. 10 leggiamo "tribolazione per dieci giorni" che può indicare sia un breve periodo di tempo sia un numero molto importante nella Bibbia (i Comandamenti o le piaghe d'Egitto). Abbiamo, quindi, sia un numero importante che il senso della brevità. Questa espressione allora significa che la persecuzione sarà breve ma molto intensa.

 

 

 

v. 9 - lettura -

"... e la calunnia da parte di quelli che si proclamano giudei e non lo sono ma appartengono alla sinagoga di satana".

Sappiamo che S. Paolo, da buon ebreo, si pone il problema del destino del popolo ebraico che, di fatto, non aveva riconosciuto Gesù (anche se aveva ricevuto la Legge). Nelle sue lettere per indicare la Chiesa S. Paolo usa raramente l'espressione "il popolo di Dio" perché di esso fa ancora parte Israele.

Come interpretare l'espressione riportata?

Innanzitutto notiamo che il termine greco blasfemian, tradotto in italiano con "calunnia", ha in realtà il significato più forte di bestemmia. Ritroveremo questo termine nell'Apocalisse nel brano in cui si parla della lotta della bestia contro Dio (dalla bocca della bestia escono bestemmie) oppure lo vedremo ancora là dove si parla dell'uomo che rifiuta di convertirsi; Allora quell'uomo stesso è una bestemmia vivente, incarnata, perché ha visto Dio e l'ha rifiutato.

 

Chi erano "quelli che si proclamano giudei e non lo sono"? Erano forse falsi ebrei?

Per la risposta è illuminante un brano di S. Giustino (ebreo convertito), uno dei primi Padri della Chiesa, filosofo, apologista e martire, il quale afferma che la stirpe vera, spirituale, siamo noi; noi che siano stati condotti a Dio per mezzo del Cristo crocifisso. Allora gli ebrei non sarebbero realmente il popolo di Dio ma lo sarebbero i cristiani. Conseguentemente a questa ipotesi si arriva a quell'affermazione "...appartengono alla sinagoga di satana". Secondo Giustino sarebbero gli ebrei non convertiti la bestemmia fatta persona e di conseguenza l'assemblea di satana. Questa ipotesi sicuramente non sarebbe stata condivisa da S.Paolo.

In ogni caso il nemico più pericoloso per la chiesa di Smirne è il diavolo, satana, l'avversario e l'accusatore.

 

v. 10 - lettura .

"...ti darò la corona della vita". Nell'antichità era il diadema portato dal re o, più semplicemente, la corona assegnata al vincitore.

E in una città sede di giochi era ben chiaro a tutti il significato del termine corona. Addirittura a Smirne l'acropoli (la città alta difesa dalle mura) era chiamata "corona".

La "corona della vita" è la vita eterna che non conoscerà la "seconda morte", cioè la morte spirituale, la dannazione eterna ("...il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte" v. 11). E qui viene subito in mente il "Cantico delle creature" di S. Francesco là dove parla della morte e auspica che non avvenga nei peccati mortali perché, in tal modo, la morte seconda non farà male.

 

 

Capitolo 2 (continuazione)

 

 

III. Pergamo

lettura 2,12-17.

Pergamo era la città più insigne e famosa della zona, centro di grande cultura, che possedeva una biblioteca nella quale erano conservati più di 200.000 volumi. Era la città in cui, come dice il nome, fu inventata la pergamena, in sostituzione del fragile papiro.

Secondo l'Apocalisse Pergamo era sede di satana, perché vi risiedeva il proconsole romano della provincia asiatica, ossia il rappresentante più alto dell'impero romano.

 

v. 12b - lettura

L'autore insiste sulla "spada affilata a due tagli", il gladio, in quanto il proconsole romano esercitava lo ius gladii - il diritto di usare il gladio - cioè di comminare la pena di

morte. Infatti solo l'autorità romana poteva infliggere ufficialmente tale sanzione (come avvenne di fatto per Gesù). Ricordiamo che proprio perché l'autorità ebraica non poteva stabilire la condanna a morte, l'uccisione di S. Stefano avvenne per linciaggio.

Sappiamo che Pergamo era una grande capitale religiosa. Vi avevano sede il famosissimo tempio di Zeus, il Giove dei romani, e i templi di Atena, di Dionisio e di Esculapio (il dio della medicina). Già la presenza del tempio dedicato a Dionisi, il dio dei culti orgiastici, il Bacco dei latini, è indicativo della dubbia moralità della città. Inoltre Pergamo fu la prima a ricevere da Roma il permesso di erigere un tempio alla dea Roma e uno alla memoria di Giulio Cesare. Dalla religione tradizionale si passava, così, a quell'artificio che Roma usava per affermare il suo potere, uguale per tutti: il culto della dea Roma e, in seguito, la divinizzazione dell'imperatore. E' facile immaginare la città come luogo di scontri per i cristiani a causa della presenza del proconsole romano e dell'espressione dei vari culti idolatrici.

Ecco perché Cristo è il giudice che sottopone la comunità cristiana al giudizio della sua parola (la spada a due tagli che esce dalla sua bocca) proprio in contrapposizione allo ius gladii del proconsole.

 

v. 13 - lettura.

La comunità di Pergamo tiene "saldo il mio nome" (nel significato di conservare e di credere), cioè è riuscita a mantenersi fedele in un contesto difficile e nonostante abbia avuto anche un martire, Antipa, a noi sconosciuto.

 

 

 

v. 14 - lettura

Fra i cristiani di quella città erano presenti alcuni problemi dottrinali. Nel nostro brano si usa il termine tecnico didaché (da didasco, insegno) per dire di dottrine che non erano in linea con l'insegnamento apostolico. Sono citati i Nicolaiti (v. 15) e Balaam. A proposito di quest'ultimo si rimanda al libro dei Numeri 22, 23, 24. Balaam era un indovino pagano entrato al servizio di Jahwe, quasi a significare che lo spirito di Dio non si ferma mai alle cose costituite.

 

"fornicazione": la parola nella Bibbia indica quasi sempre il culto idolatrico.

 

v. 17 - lettura.

1) "manna nascosta". Secondo un Targum molto diffuso all'epoca (si tratta di un commento ufficiale della Bibbia fatto dai grandi rabbini, che in realtà parafrasavano solo il testo sacro) e secondo alcuni libri apocrifi, la manna che il popolo aveva conosciuto solamente durante l'esodo, era riservata ai tempi messianici. Sarebbe infatti ricomparsa con l'avvento del Messia. La manna era nascosta ma adesso ricompare perché siamo ai tempi ultimi, perché è arrivato il Messia. Gesù Cristo glorioso ha inaugurato i tempi nuovi. In proposito sarebbe opportuno leggere Numeri 11 in cui si parla proprio della manna.

 

2) "una pietruzza bianca". Sul suo significato della piccola pietra si possono fare alcune ipotesi. Infatti la pietruzza potrebbe:

a) avere un valore giudiziario, cioè rappresentare i sassolini che il giudici mettevano nell'urna per stabilire, a seconda del colore, se l'imputato era da ritenere colpevole o innocente;

b) significare il biglietto d'ingresso ai giochi del circo (quindi un "qualcosa" che indica l'ingresso in una realtà);

c) essere una sorta di gettone per l'acquisto dei viveri.

Importante è il colore. Il bianco nell'Apocalisse indica sempre il mondo del risorto, il mondo dei salvati. Potremmo dire che questa pietruzza è il pegno della salvezza.

 

3) "un nome nuovo". L'espressione potrebbe riferirsi al vittorioso cui viene cambiato il nome oppure a Cristo stesso, secondo quanto ritengono i maggiori interpreti. Ciò significa che la conoscenza autentica di Gesù è riservata a chi manifesta fede e costanza nella persecuzione e non a quelli, come sostenevano gli gnostici; che Dio stesso aveva scelto anche se non avevano meritato. Per la conoscenza intima del Signore, quindi, bisogna aver la fede e soprattutto la costanza nella persecuzione; solo allora si riceverà il premio.

 

 

 

IV. Tiatira

Lettura 2, 18-28.

E' la lettera centrale, la quarta su sette (tante quante sono le Chiese). Siamo di fronte al messaggio più importante, indirizzato, seconda la logica divina; alla città meno conosciuta della zona. Viene facile il parallelo con Nazareth di cui non parla mai l'A.T. ma che Dio sceglie per la vita terrena del Figlio (Gesù è detto "il Nazareno"). Fra l'altro la nostra lettera sembra essere unica per tutte le Chiese; infatti al v. 23 si dice: "Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini".

"Gli affetti e i pensieri degli uomini". La traduzione letterale dal greco sarebbe: "i reni e i cuori degli uomini". Ricordiamo che per l'ebraismo ogni organo umano è sede di alcune facoltà".

 

v. 18 - lettura

E' l'unica volta nelle lettere in cui Gesù Cristo ha l'appellativo di "Figlio di Dio", che indica la potestà sulle nazioni (ci riallacciamo al Salmo 2 che parla del Messia).

 

v. 19 - lettura

Di positivo in questo messaggio troviamo le caratteristiche della Chiesa esemplare: la carità, la fede, il servizio e la costanza. Da notare in questo brano l'insistenza sulle opere, buone e cattive. Leggiamo nel v. 19 la parola chiave, la più bella della Bibbia: agápe, tradotta inesattamente con "carità".

In proposito leggere 1 Corinzi cap. 13 che banalmente viene definito "inno alla carità" o "inno all'amore" mentre è "Inno all'agápe" che è l'amore tipico di Dio, totalmente gratuito, al quale è chiamato anche il cristiano. E' l'amore di chi, pur essendo tradito, continua ad amare. E' l'amore di Cristo che sulla croce invoca: "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno".

 

"il servizio", in greco diaconia: altro termine tecnico che designa i discepoli, in modo particolare gli Apostoli e, più tardi, i diaconi, cioè coloro che servono la comunità.

 

"la fede" e "la costanza", ossia la sopportazione con fortezza delle persecuzioni fino alla prigionia e alla morte.

La Chiesa di Tiatira è stupenda, quindi, anche se situata in una città poco importante.

 

v. 20 - lettura.

Gezabele era la perfida regina sposa di Acab, re di Israele. Di lei si scrive in

1° Re 16, 29-34

18, 1-4 e 17-19

19, 1-8

21, 1-26 (la vigna di Nabot).

Gezabele potrebbe essere anche un nome simbolico nell'Apocalisse; si tratta di una donna che conduce al peccato perché chi la segue compie le opere del male. Ma potrebbe essere un nome reale. E' chiaro il riferimento al personaggio dell'A.T.: una donna che porta lontano dalle strade divine con la prostituzione, cioè con l'idolatria..

 

v. 23 - lettura

Già abbiamo commentato questo versetto. Aggiungiamo solo una sottolineatura: la grande importanza attribuita alle opere ("e darò a ciascuno di voi secondo le proprie opere").

 

v. 24 - lettura

"le profondità di satana".

Secondo alcuni studiosi l'espressione potrebbe riferirsi all'esoterismo, cioè alla magia, oppure allo gnosticismo. Le profondità che alcuni credono di Dio in realtà sono le profondità di satana. Certamente si parla di conoscenza di rivelazioni occulte.

 

v. 27 - lettura.

Alla fine della lettera si cita direttamente il salmo 2, 8-9. Siamo di fronte alla questione del potere, dell'autorità, con una distinzione fra l'autorità dell'uomo e quella di Cristo. E' chiara la polemica con il potere imperiale. La Storia ci insegna che gli imperi umani passeranno tutti ma il potere di Cristo resterà sempre. L'unico che può dare autorità autentica è Cristo. E in questo senso dobbiamo leggere anche le attuali situazioni politiche.

Possiamo ricordare in proposito la concezione della Storia che aveva Polibio, grande storico greco affascinato dalla potenza romana, il quale sosteneva che, secondo i suoi studi, tutte le forme di governo passano attraverso queste fasi:

I - monarchia che degenera in tirannide,

II - ribellione al tiranno e avvento dell'aristocrazia (=governo dei migliori),

III- involuzione dell'aristocrazia e passaggio all'oligarchia (=governo di pochi),

IV - nuova ribellione e instaurazione della democrazia (=governo del popolo),

V - degenerazione della democrazia in anarchia (=nessun potere).

Alla fine il ciclo si ripete con l'avvento di un uomo forte, l'instaurazione della monarchia che degenera in tirannide e così via.

Tutto questo ci induce a pensare che i cristiani non dovrebbero legarsi a particolari forme politiche e non dovrebbero neppure instaurare una teocrazia come avviene, ad esempio, nei Paesi musulmani di stretta osservanza. Per certi aspetti rispondeva a questa tendenza la societas cristiana medievale.

 

v. 28 - lettura.

"...la stella del mattino". Secondo Numeri 24, 17 è l'immagine del Messia, mentre per Isaia 12 la stella che risplende è in contrapposizione al re di Babilonia (un astro caduto).In Daniele 12, 3 appare come simbolo dell'immortalità dei giusti.

 "...e darò a lui la stella del mattino" significa allora che il vincitore potrà contemplare la vittoria di Cristo "stella del mattino", sarà dalla parte dei giusti e sarà immortale.

 

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Capitolo 3

 

 

V - Sardi

Lettura 3, 1-6.

Sardi non era all'epoca città famosa ma lo era stata come capitale del regno di Creso, monarca proverbialmente noto per le sue ricchezze. Era una città munita perché possedeva una rocca considerata inespugnabile.Nel corso della sua storia era stata sorpresa due volte di notte e gli assedianti (Dario re di Persia nel 546 a.C. e Antico II nel 218 a.C.) erano riusciti a impadronirsi di Sardi senza colpo ferire. Era quindi una città i cui abitanti potevano ben capire il paragone del v. 3: "...verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te".

 

v. 1 - lettura

"i sette spiriti di Dio". In questo messaggio Cristo è investito della pienezza dello Spirito Santo che Gli dà l'autorità sulle sette Chiese. Il Cristo ci appare nella pienezza dei suoi poteri.

 

v. 4 - lettura

"alcuni che hanno macchiato le loro vesti". L'espressione "macchiato le vesti" appare nel N.T. tre volte (due delle quali nell'Apocalisse) ed è una metafora per parlare del rapporto con gli idoli.

Le esortazioni contenute in questa lettera rimandano a delle disposizioni spirituali fondamentali per un cristiano: la vigilanza, l'accoglienza, l'ascolto e la conservazione della parola. Potremmo dire che la Chiesa di Sardi ha bisogno di riscoprire la gioia di essere discepola. Ormai sono rimaste poche persone degne di accompagnare il Messia. In pochi decenni (siamo nel 95 d.C.) la comunità di Sardi è arrivata ad una crisi grave tanto che nel v. 1 troviamo scritto: "Ti si crede vivo e invece sei morto".

 

v. 5 - lettura

"vestito di bianche vesti" indica la conformità al regno celeste, al mondo nuovo di Cristo.

 

E' interessante l'accenno al "libro della vita" da cui derivano tante immagini, come ad esempio il così detto "libro di S.Pietro". Nel giudaismo era diffusa l'idea che ogni essere umano avesse computata la vita in un grande libro gestito da Dio,nel quale venivano annotati il bene e il male compiuti. Infatti si credeva nell'esistenza del grande "libro dei giusti" con elencati coloro che salivano in paradiso mentre i condannati all'inferno erano annotati nel "libro degli ingiusti". E' facile l'analogia con i registri che esistevano al tempo dell'impero di Roma, in cui erano elencati tutti i cittadini romani che fruivano di una privilegiata condizione sociale. Ma, ovviamente, il "libro della vita" di cui parla Giovanni è tutt'altra cosa.

 

VI. Filadelfia

Lettura 3, 7-13

Era una città importante e, rispetto alle altre sei, di recente costruzione al centro di grandi vie di comunicazione, con una intensissima attività commerciale. Filadelfia era costruita in una zona fortemente sismica, tanto che nel 17 d.C. era stata quasi completamente distrutta da un terremoto. Venne poi interamente ricostruita.

 

 

 

Capitolo 3 (continuazione)

 

VI. Filadelfia (continuazione)

Cristo nella lettera sesta è presentato con vari titoli, nessuno dei quali appare nella visione preparatoria.

 

v. 7 - Lettura.

 

a) "il Santo" è concetto chiave del libro di Isaia nel quale il Signore viene proclamato tre volte santo ("Santo, Santo, Santo il Signore...."). Nella Bibbia il termine vuole significare semplicemente che Dio è trascendente; Dio è l'Altro e non potrà mai essere compreso dall'uomo nell'Antico Testamento Il tre volte Santo è l'irraggiungibile per eccellenza, Colui che giudica e non è giudicato, Colui che castiga e non è castigato.

Dio non è mai completamente percepibile. Noi cristiani rischiamo di dimenticare questo concetto, perché Gesù Cristo è il Dio fatto uomo

Nell'Antico Testamento è presente la concezione di un Dio molto distante ma anche dell'Emmanuele, il Dio con noi. E poiché abbiamo Gesù fatto pane nell'Eucarestia, tendiamo forse a materializzare l'idea di Dio.

"...sarà dunque santo..." (Lc 1,35) è l'annuncio dell'Angelo a Maria. Teniamo presenti queste parole per evitare sia di banalizzare il nostro Dio sia di vederlo lontanissimo. Il Santo è il Dio con noi: mirabile equilibrio della religione cristiana!

 

b) "il Verace" è Colui che dice la verità.

In proposito leggiamo la I lettera di Giovanni 5,20-21. I due versetti sono l'esplicitazione del termine "verace" che significa: "egli è il vero Dio" (5,20).

 

c) "la chiave di Davide"

E' facile riandare al brano evangelico in cui si parla di Pietro quando riceve le chiavi del Regno (Mt 16,19). Con l'espressione sopra riportata si afferma che questo potere è di Cristo e che ovviamente quello di Pietro è solo un potere delegato. E proprio in Mc 2 ("Guarigione di un paralitico") leggiamo nel v.10 una delle affermazioni più belle di Gesù: "...il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati". Di fronte alla mormorazione di alcuni scribi, i quali sostenevano che tale facoltà appartiene solo a Dio, Gesù opera il miracolo della guarigione del paralitico come mezzo per dimostrare che Egli è Dio e in quanto tale possiede, appunto, il potere di rimettere i peccati.

 

 

 

Il nostro versetto 7 riprende Isaia 22,22 "Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide...", ove la chiave è un simbolo del potere. (Il profeta parla di Sebna, il maggiordomo che aveva la responsabilità del palazzo reale di cui possedeva, pertanto, le chiavi). L'affermazione contenuta nella lettera è chiara: : Cristo ha il potere di ammettere o di escludere dalla Gerusalemme celeste.

 

v. 8 - lettura

"Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere".

Ecco, il potere di Cristo viene esercitato soprattutto nell'aprire le porte.

 

vv. 9-11

Alla Chiesa di Filadelfia Cristo non rivolge un rimprovero preciso ma soltanto degli inviti perché la comunità cristiana è costante nella fede ed ha un grande slancio missionario, tanto da essere oggetto della benevolenza divina. Le promesse di Cristo dimostrano che la Chiesa di Filadelfia è privilegiata.

 

v. 12 - lettura

"Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio.... in nome del mio Dio... il nome della città... il mio nome nuovo...".

In questa lettera notiamo l'importanza del termine "nome" ripetuto ben tre volte. Nella concezione biblica il nome rimanda alla realtà espressa nel nome stesso: il nome rivela la persona. Non a caso la Chiesa ha sempre insistito perché vengano scelti nomi di santi per i battezzandi.

 

Ricordo, a proposito del nome, che "Il nome della rosa" è un titolo ateo perché "la rosa" era uno degli appellativi di Dio nel Medio Evo e perché le vicende del noto romanzo si riferiscono a un periodo preciso della filosofia nominalista la quale sosteneva che ai nomi non corrisponde alcuna realtà. Quindi il titolo del libro significa che la rosa, cioè Dio, non esiste in quanto è solo un nome, e questo in opposizione alla concezione biblica.

Il comandamento "Non nominare il nome di Dio invano" (da noi interpretato restrittivamente "non bestemmiare") è per gli ebrei espressione di un rispetto grandissimo di Dio, in quanto il solo pronunciare il suo nome rimanda direttamente alla sua essenza. E allora per non leggere il tetragramma sacro YHWH gli ebrei ricorrevano a varie perifrasi.

 

Filadelfia diventa così il luogo per eccellenza della rivelazione, cioè delle scoperta profonda di questo "nome" che in realtà non sappiamo bene che cosa significhi. Dal seguito dell'Apocalisse apprendiamo che questa comunità diventa il modello della Chiesa

 

 

che si oppone alla bestia la quale è colei che fa "blasfemìa", la bestemmia del nome di Dio. La nuova Gerusalemme, che è una realtà futura, si sta già realizzando; alla chiesa di Filadelfia viene dato il "nome" che anticipa la Gerusalemme nuova. E tutti coloro che nelle varie Chiese partecipano alla sorte di Cristo sono le colonne della Gerusalemme nuova.

 

 

VII. Laodicea

Lettura 3,14-22.

Era una delle città più ricche dell'impero romano tanto che in occasione del terremoto del 17 d.C. non chiese sovvenzioni all'imperatore per le opere di ricostruzione. Inoltre Laodicea era nota per le sue notevoli attività commerciali e bancarie, e famosa per la sua scuola di medicina e per la produzione di unguenti medicamentosi esportati in tutto l'impero.

 

Cristo anche in questo messaggio ci appare con titoli nuovi e stupendi:

a) "Amen" (= in verità, così è) significa, almeno in Giovanni, la totale disponibilità di Gesù al disegno salvifico del Padre. Gesù Cristo infatti è Colui che più di ogni altro ha detto "amen" come nel momento drammatico del Getzemani. Alla fine delle stesse tentazioni narrate dai Vangeli sinottici sentiamo Cristo dire "amen" ("così è"; Padre accolgo il tuo progetto). Ecco perché non solo pronuncia l'amen, ma diventa "Amen": Gesù è l'Amen incarnato. Se noi vogliamo dire "amen" non possiamo che guardare a Lui.

Qualche teologo in questa parola vede anche la conclusione della rivelazione nel senso che "così è". Allora Cristo diventerebbe l'amen pronunciato dal Padre. Perciò si dice che Cristo è il vertice della rivelazione, l'ultima parola del Padre.

 

b) "Testimone fedele e verace"

Questa espressione corrisponde a una delle tematiche presenti nel Prologo del Vangelo di Giovanni: " Egli venne come testimone..." (v.7). Gesù diventa testimone del Padre, ma anche di se stesso, perché si rende testimonianza.

Questo passo del Nuovo Testamento è l'unico in cui Cristo viene definito "testimone". Potremmo dire che si tratta di un'espressione giuridica in quanto Gesù Cristo rende testimonianza al Padre e a se stesso. E noi ci fidiamo della sua parola. Però non dimentichiamo che "testimone" (martüs) in greco significa anche "martire". La martüria può indicare sia la testimonianza che il martirio. Quindi nel nostro termine appare evidente non solo un valore giuridico ma anche un valore esistenziale.

Cristo ha testimoniato fino al martirio. Il martire cristiano è, ugualmente, un testimone per eccellenza, in quanto associato al sacrificio di Gesù, cioè al dono libero della propria vita (che è tutt'altra cosa rispetto al suicidio).

 

I martiri cristiani veri e propri non si consegnavano ai loro persecutori e si distinguevano, ad esempio, dalla sette del "montanisti", i così detti "perfetti", i quali si presentavano spontaneamente ai propri nemici perché ritenevano di raggiungere la perfezione attraverso la morte per martirio.

Il martirio è una grazia, un dono divino che non si ottiene forzando gli avvenimenti.

 

c) "il Principio della Creazione di Dio"

Notiamo una ripresa del Prologo di Giovanni, della Lettera ai Colossesi 1,15-20 e, per alcuni studiosi, di Genesi 1.

Il ruolo di Cristo non è essenziale solo nella redenzione ma anche nella creazione. Il "logos", infatti, è presente con il Padre nella creazione, come è scritto nel Prologo: "In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio....". Qualche teologo sostiene che Dio comincia a salvare quando crea, perché il suo amore è già all'opera.

Il primo gesto salvifico di Dio dopo il peccato originale è stato quello di rivestire Adamo ed Eva per ridonare loro la dignità perduta.

 

La Chiesa di Laodicea riceve soltanto rimproveri, in particolare per la tiepidezza, che è il contrario del fervore. E la tiepidezza contestualizzata in questa Chiesa è l'autocompiacimento per il benessere materiale, che è un atteggiamento interiore il quale impedisce di cogliere in pienezza la ricchezza dello Spirito. Il "tiepido" è colui che compie dei gesti che non entrano in profondità nel cuore.

 

v. 18 - lettura

L'oro purificato è l'autentica ricchezza che proviene da Cristo.

 

v. 19 - lettura.

"Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo". Nonostante l'atteggiamento di rimprovero così duro, il Signore non cessa di amare questa Chiesa incoerente ma sempre Sua. L'amore si manifesta nell'aiuto dato alla comunità perché possa convertirsi.

 

v. 20 - Lettura di uno dei versetti più belli della Bibbia.

E' la ripresa dell'immagine di Cristo, sposo per eccellenza, che non può mai venir meno alla sua fedeltà alla Chiesa anche quando questa diventa una sposa infedele.

Gesù Cristo sposo ci richiama la bellissima "Parabola delle dieci vergini" (Mt 25) e il "Cantico dei Cantici" che canta l'amore tra Dio e il popolo.

 

La cena di cui parla il v.20 ci richiama immediatamente la Cena Eucaristica, la Messa, e l'episodio de "I discepoli di Emmaus" ("Egli entrò per rimanere con loro." - Lc 24,29).

 

 

v. 21 lettura

La parola "trono" costituisce un accenno alla glorificazione di Cristo e nello stesso tempo ha una funzione letteraria di introduzione ai capitoli successivi.

 

Alcune considerazioni finali.

1) Sono evidenti nelle sette lettere luci e ombre in quanto Cristo afferma che nelle Chiese sono presenti aspetti positivi e altri negativi.

2) In questi messaggi risultano fondamentali le opere perché espressione di una fede che diventa carità.

3) "Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alla Chiese". E' il versetto con cui terminano tutte le lettere e che ci suggerisce il docile ascolto dello Spirito.

 

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Capitoli 4 e 5

 

II. Le visione profetiche

 

Capitolo 4 - lettura

I capitoli 4 e 5 sono molto ricchi di simboli e uniti tra loro, tanto che l'uno si deve interpretare alla luce dell'altro, e costituiscono l'apertura, il preludio di tutta la parte centrale del libro.

 

Notiamo innanzi tutto che all'inizio della visione c'è una porta aperta nel cielo: stiamo arrivando a un livello più profondo di rivelazione.

E' interessante considerare che circolavano a quell'epoca diversi apocalissi apocrife, non ispirate, per le quali, di fronte ad una visione più approfondita, era sempre necessaria per il veggente una lunga serie di prove. Nell'Apocalisse di Giovani, invece, i cieli sono già aperti ("....una porta era aperta nel cielo." v. 1) e, quindi, il veggente non ha dovuto schiudere a poco a poco, con i suoi sforzi, la porta.

Questo passo del brano sembrerebbe in contraddizione con il discorso sulle opere (rivedere la lezione precedente). Infatti ricordiamo che nei messaggi alle sette Chiese si insiste sulla fondamentalità delle opere in quanto coloro che non operano non potranno godere di una conoscenza perfetta di Dio. Non è una contraddizione: si tratta semplicemente di sottolineare l'azione della Grazia. Il cristianesimo, anzi il cattolicesimo, è una religione di grande equilibrio: esiste la Grazia, esistono le opere. Noi andremo in Paradiso perché Cristo è morto in croce (la Grazia) e perché pratichiamo opere che sono in sintonia con quella morte in croce.

Ancora un'annotazione introduttiva: Colui che parla in questo capitolo è la stessa "voce" che avevamo sentito parlare nelle lettere. Di conseguenza anche nel cap.4 il centro è cristologico.

 

v. 1

"....ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito.".

Il significato di questa espressione sarà svelato alla fine dei capitoli che stiamo considerando.

 

v. 2

"Ed ecco, c'era un trono nel cielo...".

Il trono citato nella lettera alla Chiesa di Pergamo era la sede del proconsole rappresentante di Roma, e quindi della "bestia" (Ap. 2,13).

Questo trono, invece, è diverso perché non è eretto sulla terra ma nel cielo. Ecco la differenza fra i troni terrestri e il trono di Dio. E, per descrivere questo trono, Giovanni fa riferimento all'Antico Testamento e precisamente ai capitoli 25, 26, 27 e 28 dell'Esodo (nei quali si descrive l'arredamento del Santuario, del Tempio itinerante) e a 1 Re, 6.

Lettura di 1 Re 6,1-13, che riguarda la descrizione del Tempio di Salomone, la cui successiva distruzione ad opera dei Babilonesi mise veramente in crisi l'ebraismo perché Dio aveva promesso di abitare in mezzo agli Israeliti. In 1 Re 6,13 leggiamo: "Io abiterò in mezzo agli Israeliti; non abbandonerò il mio popolo Israele".

A questo proposito ricordiamo che, secondo i Salmi, il Signore abitava nel Tempio.

Dopo la distruzione del secondo Tempio da parte dei Romani, l'ebraismo non fu più la religione del Tempio (del sacrificio e della parola) ma della Sinagoga (in greco=riunione, da sün=insieme e agogè=il condurre), e quindi solamente della Scrittura e della Torah.

 

Prosegue la lettura e la spiegazione di 1 Re 6,14-22.

A proposito dello sfarzo e dei rivestimenti d'oro del Tempio ricordiamo che S.Francesco obbligava i suoi frati alla povertà personale ma, nello stesso tempo, a recare con sè durante i viaggi missionari una pisside d'oro per collocarvi l'Ostia consacrata qualora avessero trovato il SS. Sacramento non dignitosamente conservato. Come per la dimora del Signore, il Tempio di Gerusalemme, così per l'Ostia consacrata, la povertà non era ammessa. Si trattava di una grande intuizione del Santo perché si era allora agli inizi dell'adorazione eucaristica e non esistevano norme liturgiche precise.

 

Lettura di 1 Re 6, 23-30.

 

Nel cap.4 dell'Apocalisse siamo di fronte a un luogo liturgico, al tempio del cielo che prende il posto del Santuario itinerante e del Tempio di Gerusalemme.

 

 

v. 3

"Colui che stava seduto era simile nell'aspetto a diaspro e cornalina."

Il diaspro è un quarzo a macchie che si scolpisce per decorazioni, mentre la cornalina è una pietra preziosa di colore rosso chiaro o rosso scuro. Sono due termini che rendono l'idea della lucentezza e della grandiosità di Dio.

 

v. 4

"...ventiquattro vegliardi...". Ventiquattro è multiplo di dodici, numero simbolico, che per l'ebraismo rappresenta le dodici tribù d'Israele e, per il cristianesimo, i dodici apostoli. Sono soltanto delle ipotesi che lasciano francamente perplessi.

 

A proposito di questo numero simbolico scopriamo nell'Antico Testamento e precisamente in 1 Cronache 1,25 che Davide istituì ventiquattro classi di sacerdoti cantori (cioè adibiti al canto liturgico): oggi potremmo definirli "salmisti". Se invece ci riferiamo al giudaismo di quell'epoca, vediamo che i libri della Bibbia ritenuti ispirati erano ventiquattro (in quanto i libri profetici minori in molte tradizioni erano raggruppati in un libro solo). Allora il numero in questione potrebbe rappresentare l'Antico Testamento che rende omaggio al trono di Dio e, come si vedrà in seguito, a Colui che porta a compimento l'Antica Alleanza.

 

"Vegliardi". Potremmo tradurre meglio con "anziani", la cui funzione appare importantissima sia nell'Antico che nel Nuoco Testamento. Ad esempio, dagli "Atti degli Apostoli" risulta che le comunità cristiane prima di assumere importanti decisioni consultassero anche gli anziani. E' appena il caso di ricordare che "prete" deriva dal greco "presbüs" cioè "anziano".

I vegliardi che stanno intorno al trono "...avvolti in candide vesti con corone d'oro sul capo..." hanno tre funzioni:

1) sacerdotale, cioè di adorare e, come vedremo dopo, di presentare le preghiere e le offerte dei fedeli al Signore. Notiamo che il sacerdote celebrante la Messa all'offertorio offre a Dio anche le intenzioni, le pene, le gioie dei fedeli;

2) regale, perché i vegliardi portano la corona d'oro sul capo;

3) di governo, perché anch'essi sono assisi sui troni.

Abbiamo quindi ventiquattro personaggi importanti, sacerdoti e re, che governano assieme a Dio.

 

v. 5

Le sette lampade rappresentano la grandezza dello Spirito.

 

 

 

v. 6

"...quattro esseri viventi...". Quattro è numero simbolico. Quattro sono i punti cardinali, i venti, gli elementi del mondo. E' un numero che indica l'universalità e, quindi, questi quattro esseri viventi hanno un'azione di portata universale.

 

"...pieni d'occhi...". Sono esseri viventi un po' strani; gli occhi indicano la multiforme sapienza di Dio, la Sua onniscienza e la Sua provvidenza. Riferimenti biblici di questi strani personaggi, che hanno la funzione di sottolineare il mistero divino, si trovano in Ez. 1 e in Is. 6.

 

v. 7

I simboli dei nostri esseri viventi rappresentano anche i quattro evangelisti secondo un'interpretazione simbolica data per primo da S.Ireneo e, in seguito, da tutti i Padri della Chiesa.. Quattro è il numero dei Vangeli e indica l'universalità della parola ma nello stesso tempo l'universalità delle persone alle quali si rivolge la parola di Dio.

 

v. 8

"Santo, santo, santo...".; "Tu sei degno, o Signore e Dio nostro..." (v. 11); "Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono..."(v. 3); "Sette lampade accese ardevano davanti al trono..." (v. 5).

Siamo in un contesto liturgico sia come luogo che come situazione; siamo in una liturgia celeste nella quale notiamo un ritmo ternario ("Santo, santo, santo..." v. 8 e "..la gloria, l'onore e la potenza..."" v. 11) che sottolinea la perfezione di Dio. Ci troviamo di fronte a qualche cosa di sublime: all'adorazione di Dio.

 

v. 10

In questo versetto è contenuta la dichiarazione della superiorità del Signore rispetto all'uomo. Infatti "...i ventiquattro vegliardi si prostravano davanti a Colui che siede sul trono e adoravano Colui che vive nei secoli dei secoli e gettavano le loro corone davanti al trono...".

I vegliardi, togliendosi la corona, affermano la supremazia di Dio che è il vero re, mentre loro sono re soltanto per partecipazione. I ventiquattro si comportano perciò ben diversamente dalla bestia e da tutti i re terreni, che mai getterebbero spontaneamente la corona davanti al trono divino.

 

v. 11

"....perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono.".

Dio è provvidente. Dio crea le cose e le fa sussistere.

 

 

 

Capitolo 5- lettura.

 

vv. 1-5.

In questa seconda parte della visione si ritrovano i personaggi del cap.4 ma è evidentissimo un elemento nuovo: un libro a forma di rotolo. E subito un angelo proclama: "Chi è degno di aprire il libro e di sciogliere i sigilli?".

Soffermiamoci sul termine "libro" che nel nostro capitolo - in greco - è ripetuto sette volte (nel testo italiano compare per otto volte perché nel v.7 è stata aggiunta questa parola per rendere meglio comprensibile la traduzione).

 

In sintesi potremmo dire che il libro:

1 - partecipa dell'autorità di Dio il quale lo regge nella mano destra, che è il simbolo dell'autorità. E' opportuno ricordare che la destra è anche la mano che colpisce e, nei salmi, la mano che regge la spada;

2 - è completamente sigillato con sette sigilli (numero che indica la totalità);

3- è scritto sui due lati : "...sul lato interno e su quello esterno..." (v. 1).

 

Leggiamo a questo riguardo Ezechiele cap.2 che si conclude con "...teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto all'interno e all'esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai.". Se teniamo sullo sfondo questo brano, possiamo affermare che il libro di cui parla l'Apocalisse è costituito soprattutto da lamenti, pianti e guai.

 

 Riprendiamo il cap. 2 di Ezechiele che ci induce a pensare a un "libro", scritto all'interno e all'esterno, contenente lamenti, pianti e guai. Sulla natura di questo libro sono state fatte due ipotesi:

1) il "libro a forma di rotolo" raffigurato nell'Apocalisse rappresenterebbe l'Antico Testamento che solo Cristo può rivelare in pienezza dandone, così, l'interpretazione autentica. Senza Gesù Cristo l'Antico testamento resterebbe un libro sigillato;

2) questo libro rappresenterebbe il piano di Dio, il progetto di Dio che è sigillato e che solo Gesù Cristo può rivelare.

Sia che si accetti la prima o la seconda ipotesi il centro è Cristo. L'Antico Testamento costituisce una preparazione alla venuta di Gesù il quale, nello stesso tempo, ci aiuta a rileggere quel testo retrospettivamente, in modo da comprenderlo in pienezza.

Parliamo sempre, sia ben chiaro, di Gesù risorto. La risurrezione è di capitale importanza perché senza di essa Gesù Cristo non sarebbe altro che un fallito della storia. Infatti la risurrezione permette agli apostoli e ai discepoli di rivedere la vicenda terrena di Gesù con occhi diversi: quell'uomo bravo, buono, coerente, morto in croce, è veramente Figlio di Dio.

 

v. 5 - lettura

"...ha vinto il leone della tribù di Giuda...".

Notiamo una voce verbale al passato. Si tratta di un verbo che nell'Apocalisse è costantemente associato alla vittoria dei credenti. In questo versetto, comunque, "ha vinto" si riferisce alla vittoria di Cristo. Rileggiamo in proposito le bellissime parole di Gv 16,33: "Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!". Anche qui si sta parlando al passato. Possiamo dire che la stessa incarnazione di Gesù, la sua presenza terrena, prima ancora della morte in croce, siano manifestazioni della vittoria divina sul mondo. E' proprio una vittoria di Dio che non è rimasto nel suo cielo ma ha dimostrato di sapersi accollare il mondo. (E questo ci rincuora tantissimo). Dalla sua vittoria sul mondo Gesù Cristo riceve il potere di aprire i sigilli.

 

"il leone della tribù di Giuda" e "il germoglio di Davide"

I titoli attribuiti da uno dei vegliardi a colui che aprirà il libro e scioglierà i sette sigilli ci rimandano a Davide e, quindi, a una dimensione del Messia (la famiglia davidica, il discendente di Davide, ecc.). Per quanto concerne "il leone della tribù di Giuda" il riferimento è a Genesi 49,9 e al brano messianico per eccellenza 2 Samuele 7.

 

vv. 6-10 - lettura

Inizia ora in onore dell'Agnello una grande liturgia in tre tempi:

1) vv. 6-10

2) vv. 11-12

3) vv. 13-14

Ritroveremo il termine "agnello" ben 28 volte nell'Apocalisse. Ecco il simbolismo numerico: 28 è il prodotto di 7 x 4, due cifre che dicono pienezza e totalità.

Cerchiamo di chiarire il significato di "Agnello".

Nel testo greco della Bibbia si usano due parole per definire l'Agnello, secondo le diverse sfumature che assume questo termine:

1) amnòs

2) arnìon

Prendiamo in considerazione quest'ultimo termine che originariamente era il diminutivo di ariete (piccolo ariete) e che in seguito, all'epoca di Gesù, aveva assunto i due significati di "agnello" e di "ariete". Vediamo allora di dare delle valenze ad "armòn", parola carica di simbolismi. Subito pensiamo a:

 

1) Esodo 12, 1-14 e 29 (sempre cap.12). Lettura

L'Angelo sterminatore è passato ma il sangue posto sugli stipiti ha preservato gli Israeliti. Il sacrificio dell'agnello è un sacrificio sostitutivo: gli ebrei, cioè, hanno ammazzato l'arniòn invece di sacrificare i propri primogeniti.

Ripensiamo agli episodi biblici di Abramo e di Isacco e quell'ariete (un agnello cresciuto) che il grande patriarca trova impigliato fra i cespugli. L'agnello si immola per salvare la vita ai primogeniti degli Israeliti. Il sangue dell'agnello permette la salvezza: ecco il paragone con Gesù.

2) Isaia 53. "Quarto canto del servo del Signore" e il famoso "servo sofferente". Lettura. Soffermiamoci sul v. 7.

Il sacrificio dell'agnello si incarna qui in una persona, il misterioso Messia, il "servo di Jahwe" che salverà tutti con la sua sofferenza. Sono evidenti anche in questo caso due riscontri in quanto l'agnello ci richiama:

a) qualcuno che dà la vita per gli altri,

b) qualcuno che viene ucciso per permettere agli altri di vivere.

Ecco il retroterra biblico di questa figura.

 

Torniamo all'Apocalisse.

Mentre i testi dell'Antico Testamento usano "amnòs", che ci richiama la mitezza, l'obbedienza e la non-ribellione, Giovanni adopera la parola "arnìon" che racchiude anche altri significati, come, ad esempio, un contenuto di giudizio.

Giovanni Battista, che per primo chiamò Gesù "Agnello di Dio", nella sua predicazione non pensa certo a un Messia mite e buono, ma a un Messia giudice. Infatti in Mt 3 leggiamo: "Già la scure è stata posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco" (v. 10) e "Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile (v. 12).

Di fronte a una realtà ben diversa da quella auspicata, il Battista entra in crisi e mentre si trova in carcere manda i suoi discepoli a chiedere a Gesù se Egli sia veramente Cristo. In Mt. 11 è contenuta la stupenda risposta del Messia: "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano..." (v. 4). Gesù non usa il ventilabro ma siede addirittura a mensa con i peccatori. Viene allora spontaneo pensare che Giovanni Battista esclamando "Ecco l'agnello di Dio.." (Gv. 1,29) non avesse proprio presente l'idea di un Messia mite e umile, ma, piuttosto, l'arnìon, l'agnello che è contemporaneamente anche ariete. Ne deriva che il giudizio è una componente essenziale di questo agnello mite che, però, giudica.

Un'altra annotazione interessante: nella letteratura apocrifa e nell'Antico Testamento la parola greca "arnìon" è riferita a chi esercita la funzione di guida del popolo.

Credo che si debbano tenere ben presenti tutte queste diverse sfumature per capire chi sia l'agnello di cui parla l'Apocalisse: un Cristo mite e umile che si è immolato ma, allo stesso tempo, un Cristo giudice e, diciamolo pure, un po' guerriero (vedi le "sette corna" del v. 6). Gesù non è perciò quella figura remissiva alla quale siamo abituati a pensare quando, anche nelle nostre Chiese, proclamiamo: "Ecco l'Agnello di Dio, ecco Colui che toglie il peccato del mondo".

E nel v. 6 è scritto: "Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un agnello, come immolato". Si tratta di un Agnello che ha subito la croce, l'immolazione; ma che adesso è ritto in mezzo al trono: Cristo morto e risorto, glorioso, giudice della storia.

 

Le "sette corna" di cui è dotato l'agnello sono un simbolo di potenza guerresca ma anche il segno dell'efficienza messianica.

 

I "sette occhi" simboleggiano i sette spiriti mandati su tutta la terra. L'Agnello possiede, perciò, la pienezza dello Spirito.

Se gli occhi sono segno della Provvidenza di Dio che tutto vede e a tutto provvede, allora a questo agnello è stato demandato anche tale potere. Potremmo senz'altro definire l'Agnello come il "provvidente", Colui che pensa a guidare la storia e la vita di ciascuno di noi.

 

v. 8 -lettura

"...coppe d'oro colme di profumi che sono le preghiere dei santi".

Quando ci scoraggiamo, perché abbiamo la sensazione che le nostre preghiere non portino ad alcun effetto, rileggiamo questo brano dell'Apocalisse per riacquistare la certezza che le nostre suppliche, comunque portate davanti al Signore, valgono.

Diceva una delle nostre suore di clausura nel Monastero della Visitazione che uno degli scogli più difficili da superare nella vocazione consiste nel pregare in continuazione senza mai conoscere l'effetto delle proprie preghiere. Sono claustrali che pregano tutto il giorno secondo le intenzioni dettate dalla Superiora che, sola, conosce, attraverso la lettura dei giornali, quanto accade nel mondo.

vv. 9-10. Lettura

"Cantavano un canto nuovo"..." (v. 9)

Il canto nuovo esalta il ruolo di Gesù nella salvezza: la passione di Cristo e la sua resurrezione hanno una dimensione di redenzione per tutti gli uomini vissuti in ogni tempo. Notiamo in questo due versetti il ritorno del numero quattro (tribù, lingua, popolo e nazione) per sottolineare proprio simbolicamente l'universalità dell'opera redentrice di Gesù Cristo.

 

"...un regno di sacerdoti..."(v. 10)

Cristo è venuto a dare inizio al regno di Dio, che è anche un regno concreto, con una dimensione visibile, umana; regno d'amore, inteso come dominio di Dio sul cuore degli uomini e, di conseguenza, sull'umanità intera.

Giovanni non si riferisce qui ai sacerdoti ministeriali, ma ai sacerdoti comuni, cioè i battezzati. Viene da domandarsi se siamo consapevoli di esser sacerdoti, ossia di avere la possibilità di compiere azioni sacre. Ogni azione nostra diventa sacra. Stiamo allora attenti a non desacralizzare i nostri comportamenti facendo il male. Comportiamoci correttamente e i nostri sacrifici spirituali saranno a Dio graditi.

 

Sottolineamo ora nell'espressione "siamo un regno di sacerdoti" la dimensione della regalità. Siamo tutti re e regine secondo lo stile di Cristo, che è lo stile del servizio. Siamo re e sacerdoti che si mettono al servizio di Dio servendo l'umanità. Ben a ragione possiamo affermare di essere tutti dei "pontefici",cioè delle persone che costituiscono un ponte tra Dio e l'umanità, e di avere dignità regale e sacerdotale in quanto associati alla morte e alla resurrezione di Gesù attraverso il Battesimo.

 

vv. 11-12- lettura

Ora cambiano i protagonisti ed entrano in scena gli angeli adoranti.

Notiamo che gli attributi dell'Agnello sono sette, numero simbolico che indica pienezza del potere; potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione. Questo Agnello, a cui nulla manca, è il detentore del potere ed è stato reso perfetto dalla morte patita.

Siamo di fronte a una dossologia, a una solenne liturgia.

vv. 13-14. lettura.

L'adorazione, iniziata nella cerchia ristretta dei vegliardi e dei quattro esseri viventi, si estende a tutte le creature del cielo e della terra. Adesso tutto l'universo è chiamato alla venerazione. E si tratta di una bellissima lode cosmica espressa con una liturgia sia celeste che terrena.

L'Apocalisse non ci proietta solo nel "dopo" o nel "sopra", ma anche nel presente, perché qui e adesso si deve compiere l'atto di adorazione. Tutto il cosmo entra nel progetto di Dio e i quattro esseri viventi che "dicevano:Amen" diventano allora l'emblema di tutta la creazione. Sono quattro (l'universalità) a dire "amen", "così è", concludendo in tal modo tutta la grande lode con una professione di fede.

Se vogliamo essere apocalittici, dobbiamo essere portatori della speranza, della salvezza, del rispetto per tutti, perché ogni uomo è stato redento a prezzo del sangue di Cristo. Sentiamoci chiamati alla conversione, alla salvezza assieme a tutti gli altri uomini e scopriamo che i nostri non saranno più occhi di giudizio ma di accoglienza.

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16/11/2012 20:34
 
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Capitolo 6

 

vv. 1-8. Lettura

Siamo arrivati all'apertura dei primi sigilli.

Questo capitolo costituisce una delle parti dell'Apocalisse più difficili da interpretare e perciò dobbiamo essere disposti a uscire dai nostri schemi su Dio e a compiere lo sforzo di interpretare lo scritto alla luce di Cristo. E leggendo il nostro brano faremo anche delle scoperte non piacevoli. Ci troveremo di fronte, ad esempio, all'ira di Dio e alla vendetta dei martiri.

 

Compaiono nel cap. 6 i quattro cavalieri dell'Apocalisse, che sono diventati leggendari, tanto da costituire argomento per una vasta letteratura.

1 - "...un cavallo bianco e colui che cavalcava aveva un arco..."

Il cavallo bianco ha un significato positivo, mentre l'arco fa pensare alla guerra. Non dimentichiamo che nel territorio dell'impero romano, in cui è ambientato l'Apocalisse, era diffusa la fama del popolo guerriero dei Parti, che fondava la potenza del suo esercito sull'abilità dei cavalieri che tiravano con l'arco. I Parti, nemici irriducibili di Roma, furono gli unici ad infliggere all'Impero gravi sconfitte senza esserne mai conquistati. E la loro forza era costituita proprio da quei guerrieri diventati famosi, perché sapevano usare l'arco cavalcando a tutta velocità senza le staffe e perché riuscivano a colpire esattamente il bersaglio tirando rivolti all'indietro.

Allora, questo cavaliere che cavalca con l'arco in mano in un territorio dove la fama dei Parti era molto diffusa, comincia a darci l'idea di una figura non del tutto gioiosa, come il cavallo bianco, invece, avrebbe potuto fare intendere.

 

 

Capitolo 6 (continuazione)

 

 

vv. 1-8 - lettura

Il cavallo bianco si presenta con un segno ambivalente (figura positiva e negativa). Tra i motivi positivi si evidenzia il colore bianco, segno della purezza, simbolo di Dio. Tra gli elementi negativi notiamo, per esempio, che il cavallo bianco è inserito in un contesto di sventura costituito dagli altri tre cavalli che, a loro volta, sono inquadrati in un contesto più ampio nel quale domina il tema del giudizio di Dio. Sottolineamo anche un altro elemento negativo: l'arco, simbolo di guerra che porta morte. La figura del cavallo bianco resta tuttavia positiva.

 

Il cavallo rosso fuoco. Il colore rosso simboleggia la forza sanguinaria. Legata a questo cavallo e al suo cavaliere c'è la visione tremenda "A colui che lo cavalca fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada" (v. 4).

La guerra e la spada sono simboli di morte.

 

Il cavallo nero. Il colore nero è simbolo di lutto e di sventura.

".... e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano" (v. 5). La bilancia evoca la giustizia; le misure di grano e di orzo, l'olio e il vino ci richiamano una situazione di ingiustizia e di conseguente carestia (che porta al razionamento). Certamente si tratta di una visione cupa.

 

Il cavallo verdastro. Il verdastro è un colore che non è attestato in altra parte dell'Apocalisse e che richiama i cadaveri in decomposizione, la morte, anche perché colui che cavalcava questo cavallo "si chiamava Morte" (v. 8).

Entrano poi in scena altre componenti dello sterminio come la fame, la spada, la peste e le fiere della terra. Alcune di queste potrebbero essere attribuite all'uomo, come la spada e la fame (che probabilmente non sussisterebbe se ci fosse un'equa distribuzione delle ricchezze).

La peste, invece, richiama le epidemie che, in genere, non sono proprio cercate dall'uomo. Questo vale anche per le fiere della terra.

Tutte le scene riferite al secondo, al terzo, al quarto cavaliere ci presentano una realtà fortemente negativa.

 

 

 

 

 

La figura del primo cavaliere ci aiuta a capire che la storia non è sempre negativa perché su tutto trionfa Cristo (il cavallo bianco). E la vittoria di Cristo è situata all'inizio del capitolo per significare che gli altri tre cavalieri hanno comunque un potere limitato ("Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra" v. 8). Ciò significa che le forze del male non prevarranno, anche se apparentemente adesso sembrano essere forti.

Vediamo che il cavaliere bianco porta armi potenti (l'arco e la freccia) con le quali vince la morte, la carestia e tutti gli altri mali.

 

Consideriamo quindi che:

a) cavalli e cavalieri sono espressione delle diverse potenze che entrano in gioco nella storia;

b) la presenza e l'azione dei quattro cavalieri ci richiama la volontà di Dio. Infatti nel v. 3 è l'essere vivente che grida: "Vieni"; è l'essere vivente che chiama il cavallo;

c) l'azione misteriosa di Dio si può manifestare anche attraverso realtà che noi chiamiamo negative.

 

E allora chi può negare in assoluto che la malattia di una persona non sia fonte di grazia? Quante persone hanno scoperto Dio durante una malattia oppure quante si sono allontanate dal Signore proprio durante una sofferenza?

La morte stessa, per chi resta quaggiù, può essere motivo di allontanamento o di avvicinamento a Dio.

Notiamo inoltre che l'azione delle potenze malvagie è limitata dal potere divino che puo' suscitarle. Anche secondo la dottrina attuale il demonio ha un potere limitato.

Nel brano che riguarda i quattro cavalieri la mediazione è svolta dagli "esseri viventi" che chiamano dicendo: "vieni". Questa mediazione ci fa comprendere che siamo di fronte a una realtà celeste che diventa terrestre. Potremmo dire anche il contrario: una realtà terrestre si eleva diventando così celeste. Ciò si verifica anche per il primo cavallo (v. 1) perché Gesù Cristo ha avuto una dimensione terrestre.

E' il mistero di Natale, celebrazione dell'Incarnazione, la quale si compie con la passione e con la morte.

Infatti solo questa dimensione terrestre ha dato a Cristo la possibilità di pervenire alla vittoria: con la morte in croce e con la resurrezione. La realtà terrestre di Gesù non va sottovalutata. Ecco perché la Chiesta cattolica da sempre cerca di fondare anche dal punto di vista storico la presenza di Cristo in mezzo a noi. E si punta ad arrivare a questa affermazione: è esistito un uomo di nome Gesù.

vv. 9-11 - lettura

L'apertura del quinto sigillo fa entrare in scena le anime dei santi. Notiamo che la descrizione di queste anime corrisponde a quella proposta all'inizio dell'Apocalisse (1,9) da Giovanni che si trova nella tribolazione a causa della testimonianza resa a Gesù. Coloro che hanno testimoniato sono stati uccisi, immolati. Siamo di fronte ai martiri.

E' interessante notare come le anime "di coloro che furono immolati" si trovino sotto l'altare: la Chiesa si edifica sui corpi dei martiri. E questo è proprio vero, perché le grandi basiliche antiche sono state costruite sulle tombe dei martiri. Ed è per questo motivo che la liturgia prevede ancora oggi che all'interno dell'altare siano conservata le reliquie dei santi protettori della Chiesa.

Qui i martiri si fanno portavoce di tutti i cristiani perseguitati.

Tutte queste vicende non certamente gioiose sono racchiuse tra la chiamata del cavallo bianco e la comparsa dei martiri che partecipano alla vittoria di Cristo. A proposito non dimentichiamo che con Giovanni Paolo II i martiri sono diventati coloro che hanno testimoniato la fede anche dando la vita per i fratelli, come padre Massimiliano Kolbe. Potremmo affermare che con l'attuale Pontefice si entra nella seconda dimensione del martirio: l'amore. Il martire è colui che dà la vita per i fratelli oltre che per la fede.

 

Nel v. 10 i martiri chiedono giustizia e vendetta.

E' bene ricordare che nei Salmi e nella Torah queste due funzioni appartengono a Dio.

Nell'Antico Testamento la vendetta operata da Jahwe consiste nel ristabilire la giustizia in difesa dell'oppresso. Si tratta del "ribaltamento" presente nel Magnificat: "...ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili..." (Lc 1,52). Allora comprendiamo che la vendetta di Dio è Maria e con lei Gesù.

 

La gioia dei martiri è simboleggiata dalla veste candida (v. 11). E' la gioia del trionfo. Cristo è candido come la veste dei martiri che partecipano alla sua vittoria e che sono quindi protagonisti nella storia della salvezza.

 

Spesso mi viene chiesto: che faremo in paradiso?

Io rispondo che in paradiso ci sono persone che lavorano in quanto partecipano con Dio alle vicende del mondo e soffrono con la sofferenza dettata dall'amore per coloro che sono rimasti sulla terra.

In paradiso contempleremo Dio, ossia continueremo in modo privilegiato a collaborare con Lui nella Sua opera di salvezza.

 

vv. 12-17 - lettura

Siamo di fronte ad una scena apocalittica. Gli sconvolgimenti descritti ("Il sole divenne nero...") appaiono come segni convenzionali della fine dei tempi ed indicano un intervento speciale di Dio che sovverte le leggi della natura. E vi saranno coinvolti tutti gli uomini, anche i ricchi e i potenti. In questo senso la giustizia divina è uguale per tutti. Davanti a Dio le uniche credenziali che possiamo presentare sono quelle dell'amore. E al momento del giudizio Dio, assieme all'Agnello, affermerà la sua potenza. Dio e l'Agnello non sono indifferenti al male. Esploderà la loro ira ed essi giudicheranno.

A proposito del giorno del giudizio e dell'ira troviamo dei riferimenti in

a) Sofonia 1,7.14

b) Amos 5, 18.20

c) Isaia 13, 6-13

d) lettera di Giuda v.6.

 

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16/11/2012 20:37
 
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Capitolo 7

 

 

vv. 1-8

Abbiamo letto precedentemente nel cap.6 al versetto 11: "...e fu detto loro di pazientare ancora un poco finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che devono essere uccisi come loro".".

Alla domanda: "Fino a quando...non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue..."? viene dato come risposta l'invito ad avere pazienza, perché deve essere prima completo il numero dei santi, di coloro che offrono fa vita per Cristo.

 

Ora un angelo arriva (v. 2) e grida a gran voce agli altri quattro angeli: "Non devastate né la terra ne il mare né le piante finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi." (v. 3)

"Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattro-mila..." (v.4). Si tratta di versetti molto difficili da interpretare.

 

Il sigillo di cui parla il v. 4 potrebbe avere un richiamo in Ezechiele 9, 1-4 ("...segna un tau sulla fronte degli uomini..." v. 4).

Ci troviamo davanti al numero dodicimila per ogni tribù d'Israele, ossia al numero dodici moltiplicato per mille. E mille è il numero della totalità massima, intesa in senso biblico.

Questa scena appare un po' misteriosa perché dopo l'elenco delle tribù, al v. 9, è scritto:"... apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua.".

 

I centoquarantaquattromila sono forse una élite dei salvati? E, del resto, tutti gli altri portano una veste candida ("...apparve una moltitudine immensa...." v. 9); ciò vuol dire che anch'essi sono dei salvati.

E se i primi provengono da ogni tribù di Israele, gli altri "...da ogni nazione, razza, popolo e lingua.".

 

La risposta alla prima domanda posta al v. 10 del cap.6 è "...finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi" (7,3), mentre la risposta alla seconda domanda è data da coloro che possono resistere e cioè "...centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele...." (7,4) e da "...una moltitudine immensa che nessuno poteva contare,...avvolti in vesti candide..." (7,9).

 

I primi tre versetti costituiscono una introduzione solenne al cap. 7: quattro angeli "...trattenevano i quattro venti perché non soffiassero sulla terra né sul mare né su alcuna pianta.". Qui notiamo una dimensione universale, perché quattro è il numero dei punti cardinali e il simbolo dell'universalità.

 

Qual è il simbolo che porta alla salvezza?

Nel libro dell'Esodo si parla del sangue dell'agnello steso sugli stipiti delle porte delle case degli Israeliti, mentre in Ezechiele 9, 4-6 è scritto: "...e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abominii che vi si compiono".

Qualcuno sostiene che il sigillo dell'Apocalisse, anche se non se ne fa menzione esplicita, sia ripresa di quel "tau" che nel libro di Ezechiele rappresentava il segno della salvezza.

 

Leggere Genesi 49, in cui vengono elencate le tribù di Israele e, per ogni figlio di Giacobbe, sono indicate le caratteristiche e le gesta.

 

Capitolo 7 (continuazione)

 

 

Nel v.5 leggiamo l'elenco dei dodicimila segnati da ogni tribù dei figli d'Israele.

 

Lettura di Genesi 49 - "Le benedizioni di Giacobbe" - in cui sono elencate le tribù che componevano il popolo di Dio.

Nelle benedizioni di Giacobbe notiamo delle singolarità. In particolare, noi sappiamo quanto fosse importante la primogenitura per la cultura ebraica, ma nel brano ora letto notiamo che Ruben viene spodestato per la sua cattiva condotta e che neppure il secondo e il terzogenito assumono la condizione preminente che sarebbe spettata al primogenito. Infatti, colui che riceve veramente la benedizione di Giacobbe è Giuda (v. 8) la cui tribù, al momento della composizione di questa parte della Genesi, si trovava al sud in situazione di preminenza. Si sa che in quel periodo storico la tribù di Ruben aveva ben poco potere mentre quella di Levi era diventata la tribù dei sacerdoti, ossia di coloro che non possedevano territorio e non avevano, quindi, alcun potere politico. Ricordiamo, in proposito, il salmo 16, il canto del levita, cioè di colui che ripone solo in Dio la sua sicurezza, il suo fondamento.

D'altra parte anche la tribù di Simeone aveva ormai un ruolo insignificante.

 

Inoltre sappiamo che al nord la tribù più potente era quella di Efraim, tanto che il suo nome divenne quello collettivo di tutta la popolazione, come è detto in vari salmi.

Efraim era figlio di Giuseppe la cui tribù quasi subito di divise in due: Efraim e Manasse (vedi Genesi 48,20 in cui si narra di Giacobbe che adotta e benedice questi due figli di Giuseppe). Fondamentalmente potremmo dire che attraverso l'adozione il nonno fa suoi i nipoti Manasse ed Efraim, le cui tribù entrano così a pieno titolo fra quelle di Israele.

Di conseguenza le tribù diventano tredici, di cui dodici stanziate su proprio territorio, con relativi confini, e una, quella di Levi, senza territorio e con il compito del sacerdozio, della custodia dei santuario, dei sacrifici.

 

Leggere Genesi 48.

Nell'episodio dell'adozione narrato nell'ultima parte del capitolo è evidente una sostituzione: Manasse, il primogenito, viene soppiantato da Efraim per una precisa scelta di Giacobbe.

 

Constatiamo che la sequenza del cap. 7 dell'Apocalisse non rispetta l'ordine dell'elenco delle tribù contenuto in Genesi 49.

 

Le tribù più povere, più emarginate, sono collocate ai primi posti nell'elencazione del nostro cap. 7. E Giuda non può che essere la prima perché da questa tribù uscirà Davide e da Davide discenderà il Messia. Potremmo dire, allora, che dai vv. 5-8 emerge un Israele nuovo che è basato sulle dodici tribù moltiplicate per mille, numero che significa agli occhi di Dio la pienezza, la totalità.

Centoquarantaquattromila è evidentemente un numero simbolico, il quadrato di dodici moltiplicato per mille, ossia l'Israele perfetto.

 

 

vv. 9 - 17 - lettura

Notiamo che la prima scena del nostro brano è ambientata sulla terra, mentre la seconda scena avviene in cielo. Ancora una volta siamo di fronte a una liturgia celeste grandiosa, stupenda, che viene celebrata davanti al trono e all'Agnello.

Questa "moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (v. 9) partecipa già alla vittoria dell'Agnello.

 

E tutti erano "...avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani.". (v. 9b)

La veste candida è il segno della resurrezione, mentre la palma simboleggia la vittoria. Ciò significa che questa moltitudine immensa appartiene già tutta intera alla salvezza.

 

Ci troviamo di fronte alle due Chiese (che sono poi una Chiesa sola) che potremmo chiamare:

a) la prima, la Chiesa militante, ancora sulla terra in attesa del sigillo sulla fronte, che combatte (metaforicamente) per estendere il regno di Dio nel mondo (noi apparteniamo a questa Chiesa);

b) la seconda, la Chiesa trionfante, è composta da coloro che, esaurito il loro compito terreno, sono stati giudicati buoni, fedeli e vigilanti e si trovano in Paradiso.

Le due Chiese, le due scene, sono complementari: una ci dice che sulla terra il numero dei discepoli, segnati con il sigillo, è immenso; l'altra che il numero di coloro che hanno raggiunto la salvezza e che partecipano della vittoria di Cristo è ugualmente immenso.

Noi siamo la Chiesa militante e coloro che noi definiamo morti costituiscono la Chiesa trionfante e continuano a vivere in Dio per collaborare alla sua opera di salvezza.

 

Concludiamo la spiegazione del v. 9 soffermandoci su "...e portavano palme nelle mani."

La citazione delle palme potrebbe costituire un riferimento alla "Festa delle capanne" e, in particolare, al rito della processione dei pellegrini che salivano al tempio agitando appunto rami di palma in segno di tripudio e di gioia grande.

 

 

 

 

v. 10 - rilettura.

"La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello."

Erano le parole cantate dai pellegrini durante la processione (evidente è il riferimento al salmo 118 "Liturgia per la festa delle capanne").

 

v. 14

Come conferma che la festa delle capanne è presente nel nostro brano, notiamo il rito conclusivo dell'acqua, che darà poi a Gesù l'occasione di parlare dell'acqua che risana, come nell'episodio della guarigione del paralitico (Gv 5)

Si tratta di un rito importantissimo nella festa delle capanne. Il sacerdote, infatti, alle prime luci dell'alba andava ad attingere l'acqua, che veniva poi portata in grandi recipienti all'altare dove era benedetta in quanto sarebbe stata la fonte di vita per l'anno successivo.

Era quasi come una caparra: l'acqua benedetta avrebbe dovuto portare la vita, avrebbe dovuto essere una sorgente nuova:

... né avranno più sete,

né li colpirà il sole,

né arsura di sorta, ..." (v. 16)

Siamo di fronte a una sorgente, siamo in un clima particolare di festa di ringraziamento che ancora oggi celebrano i nostri agricoltori in autunno. E si tratta di un contesto liturgico tipico, secondo vari studiosi, della festa delle capanne.

 

v. 17

Ci immaginiamo "...l'Agnello che sta in mezzo al trono...". E rileggendo il v. 15, in particolare la sua ultima parte ("...e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro."), ci ritorna alla memoria il v. 14 del Prologo del Vangelo di Giovanni nella giusta versione dal greco:

"E il Verbo si fece carne

e pose la sua tenda in mezzo a noi,..."

Con il riferimento alla tenda abbiamo una ripresa di tutta la cultura ebraica e in particolare di quella dei primi tempi, i tempi del deserto, quando Jahwe viveva sotto una tenda, prima che fosse costruita per Lui una casa di legno di cedro. Ricordiamo che la maggior parte dei profeti era nemica del tempio, al quale attribuiva la mortificazione della religione autentica. Secondo costoro, infatti, il tempio aveva "incasellato" Dio e aveva reso superbi gli ebrei.

 

 

 

 

 

Le lodi che la moltitudine rende a Dio ci dicono che la salvezza viene da Lui, che la fonte della grazia non siamo noi, bensì il sacrificio di Cristo, sul quale si innestano le nostre opere buone che contribuiscono a renderlo ancora presente e ad essere salvezza per noi, per gli altri e per l'umanità intera.

Notiamo ancora una volta che gli attributi di Dio sono sempre sette (vedere v. 12) per significare la perfezione, la pienezza delle sue doti. Soffermiamoci poi su una bella immagine: l'Agnello del v. 17 sarà il pastore che condurrà il gregge.

 

Abbiamo visto così quale sarà la sorte di tutti coloro che passeranno attraverso la tribolazione e avranno il coraggio di restare fedeli e di partecipare al sacrificio di Cristo.

 

Cristo vive nel corpo mistico che è la Chiesa. Se leggiamo in Atti 9 il brano della conversione di S.Paolo, rimaniamo colpiti dalla frase pronunciata da Gesù: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" (Atti 9,4). Ma Paolo non stava certamente perseguitando Gesù (che era già morto e risorto) ma la Chiesa. Siamo di fronte a una identificazione bellissima di Cristo con la sua Chiesa. Ciò significa che il sangue dei martiri si confonde con quello dell'Agnello e significa anche che le nostre sofferenze e i nostri dolori si fondono e si confondono con i dolori e le sofferenze di Cristo e che le nostre opere buone si fondono e si confondono con quelle di Cristo.

E' evidente la responsabilità che ricade così su tutti i membri della Chiesa (in positivo e in negativo) Pensiamo a questo quando partecipiamo alla Messa.

 

Capitolo 8

 

vv. 1 - 2 - lettura

Stiamo passando da una scena molto movimentata al silenzio totale. La venuta di Dio implica sempre nei profeti un momento di giudizio e di salvezza. Sottolineo: giudizio e salvezza.

Leggiamo in proposito: Zaccaria 2, 17

Abacuc 2,20

Sofonia 1,7-16.

Tutto quanto è narrato in quest'ultimo brano è stato preparato dal silenzio davanti a Dio che sta per arrivare.

 

"...e si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora."(v. 1)

Si tratta in una indicazione simbolica, di un tempo incompiuto. E' un tempo di attesa che ci introduce a uno dei settenari più famosi, quello delle trombe che entrano in scena per l'apertura del settimo sigillo.

 

vv. 3 - 5 - lettura

Ecco un altro angelo che regge un incensiere d'oro. I versetti che ce lo presentano fanno da parallelo ai capitoli 4 e 5, cioè fungono da introduzione a una solenne liturgia.

Leggiamo in proposito Esodo 30,1 e 30,7-10 in cui si parla di un altare che funge da luogo di lode perenne a Dio, con un incenso che brucia sempre. Ma è anche il luogo dove una volta all'anno il sacerdote compie il rito dell'espiazione per i peccati di tutto il popolo.

L'incenso, mischiato ai profumi e bruciato sull'altare d'oro e offerto insieme con le preghiere di tutti i Santi, rappresenta una ripresa dei riti di espiazione e di perdono. Il contesto è litugico ma ben delimitato: prima c'era la lode, adesso ci sono l'espiazione e il perdono. Sono tutti aspetti della liturgia che, a ben riflettere, sono presenti nella Messa.

Allora è bello pensare e constatare attraverso il nostro brano che il "fuoco preso dall'altare" si riversa sulla terra "insieme con le preghiere dei santi" (vv. 4-5). E abbiamo subito sulla terra le condizioni tipiche delle teofanie, cioè della manifestazione del Signore: "...scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di terremoto." (v. 5) Ciò significa che esiste una comunicazione tra terra e cielo.

 

Ma la sottolineatura più importante è per "le preghiere dei santi". Questi versetti ci dicono proprio che il Signore tiene in considerazione tutte le nostre preghiere e le porta alla perfezione (notiamo l'aggiunta degli aromi). Quindi, non solo appare legittimo pregare, ma è doveroso pregare per chiedere qualche beneficio al Signore. Gesù stesso aveva detto: "...Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto." (Lc. 11,9). La preghiera di richiesta è una delle più belle, perché con essa riconosciamo l'esistenza di Qualcuno più grande di noi, che può operare ciò che a noi risulta impossibile.

Ugualmente importante è la preghiera di intercessione per gli altri, per i fratelli, per il mondo intero.

Il Signore quindi accetta le nostre preghiere e le purifica da tutti i nostri egoismi per farle poi ricadere sulla terra, manifestando così la sua divina presenza.

v. 6 - lettura

I sette angeli potrebbero essere definiti "gli angeli della faccia" perché stanno direttamente al cospetto di Dio e lo guardano quindi in faccia. Essi potrebbero costituire la categoria "angeli" più alta, essere cioè i capi.

Sappiamo che l'Antico Testamento ci presenta tre angeli molto importanti, che noi chiamiamo arcangeli: Gabriele (=forza di Dio), Michele (chi è come Dio?), Raffaele (= Dio è medicina oppure medicina di Dio).

Gabriele, famoso saprattutto per l'Annunciazione, nell'Antico Testamento è l'angelo che in Daniele rivela i progetti di Dio, il senso dei sogni e delle visioni.

Michele è l'angelo guerriero, il capo dell'esercito di Dio e tradizionalmente viene raffigurato a guardia de paradiso terrestre con la spada fiammeggisante.

Raffaele, invece, si incontra nell'episodio ben noto narratro nel libro di Tobia ed è l'angelo che toglie la cecità al protagonista.

 

Di solito gli angeli vengono presentati nell'Antico Testamento nei momenti cruciali della storia d'Israele (ossia nei tempi in cui sono stati composti i libri nei quali questi angeli sono nominati) come:

a) all'epoca dell'esilio babilonese;

b) durante la persecuzione da parte di Antioco IV Epifane.

 

Ecco, nel nostro v.6 compaiono i sette "angeli della faccia" con una tromba ciascuno.

In alcuni brani apocalittici da noi letti precedentemente si parla delle trombe. In S.Paolo (1 Corinzi 15,52) è scritto: "...suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati".

 

La tromba ("shofar") era ricavata da un grande corno d'ariete e il suo suono veniva udito a notevole distanza. Nell'Antico Testamento serviva essenzialmente per due scopi:

1) liturgico. Infatti questo strumento era usato per acclamare la regalità di Dio nelle liturgie solenni, tanto è vero che nelle teofanie dell'Esodo, quando Dio si presentava, si udiva sempre il suono delle trombe. Sappiamo anche che una grande tromba veniva adoperata per convocare il popolo alla liturgia nelle maggiori solennità;

2) guerresco. Le trombe chiamavano all'adunata e davano poi il segnale d'inizio dell'attacco.

Abbiamo una commistione di uso liturgico e guerresco in un episodio del'Antico Testamento che descrive la caduta delle mura e la successiva conquista della città di Gerico. In proposito è opportuno leggere Giosuè 6, 1-20.

Proprio nel settimo giorno, il sabato, il Signore manifesta la sua potenza dimostrando che il popolo di Israele può entrare nella città senza colpo ferire semplicemente facendo crollare le mura.

E le trombe, strumento liturgico, diventano il segno della presenza divina perché avanzano "davanti all'arca del Signore" (v. 12).

 

Nell'episodio della presa di Gerico appare evidente un giudizio per la città "votata allo sterminio per il Signore" (v. 17), ma è altrettanto evidente un momento di salvezza sia per il popolo che occupa la città sia per la prostituta Raab, la quale aveva ricevuto la promessa di avere salva la vita propria e dei suoi familiari purché esponesse alla finestra un filo rosso, come segno di riconoscimento per gli ebrei.

Il filo rosso, secondo i Padri della Chiesa, simboleggia il sangue di Cristo che salva coloro che si affidano a Lui.

 

Nel libro di Isaia è presente una dimensione escatologica, che poi sarà ripresa da S.Paolo: Alla fine dei tempi "...suonerà la grande tromba..." (27,13) per radunare tutti i figli d'Israele. Quindi la tromba costituisce un richiamo all'unità del popolo ebraico.

 

vv. 7-13 - lettura

I flagelli evocati da Giovanni, e descritti nei versetti ora letti, sono tipicamente biblici e richiamano sicuramente alla nostra memoria le piaghe d'Egitto (Esodo 7-11) che sono servite a colpire gli empi e a liberare, a salvare il popolo.

Ci troviamo ancora in quel duplice contesto di giudizio e di salvezza che conosciamo fin dall'inizio del libro. Il fatto che Giovanni ci trasporti nel clima del Vecchio Testamento ci aiuta a non interpretare letteralmente questi flagelli che hanno, invece, la funzione teologica di presentarci un Dio che giudica e che, nello stesso tempo, salva.

 

Notiamo una progressione nella durezza di questi flagelli. Difatti nell'episodio della prima tromba non vengono colpiti gli uomini, mentre nel secondo episodio sono toccate altre creature viventi. Soltanto con il suono della terza tromba sono interessati gli uomini. Con la quarta tromba viene coinvolto tutto il cosmo. C'è proprio un crescendo: si va dai vegetali, dagli esseri viventi, all'uomo, all'universo intero.

Vale la pena di sottolineare che tutti i flagelli menzionati sono finalizzati alla conversione degli uomini e che i primi quattro hanno, potremmo dire, una funzione pedagogica.

E in tutto questo si cela una verità molto bella: Dio vuole portarci a tutti i costi in Paradiso. Il che significa: costi quel che costi a noi.

 

 

 

Io credo che per alcune persone la sofferenza rappresenti l'estremo segnale che Dio manda per indurlo alla conversione. Il Signore ci vuole vicini. Egli sa che la peggior sorte che ci può capitare non è la sofferenza terrena ma quella eterna. Infatti Gesù Cristo è morto per liberarci dall'inferno.

 

I flagelli colpiscono soltanto una parte dei vegetali, delle acque, degli animli della terra, del cosmo. Ciò vuol dire che il mondo non viene distrutto totalmente ma soltanto una terza parte. E riguardo al genere umano è scritto addirittura "molti uomini". Ciò significa che qui Giovanni riprende un tema bellissimo del profeta Michea che parla del "resto di Giacobbe".

 

Michea 5, 6-7 - lettura.

In questo brano abbiamo prima un'immagine molto bella (la rugiada e la piogga) e poi un'altra meno poetica (il leoncello che sbrana).

Nel giorno del giudizio Dio terrà per sé i bravi, i buoni, coloro che accompagneranno il Messia (secondo le varie concezioni dell'ebraismo). Il Signore vaglierà il suo popolo e troverà che alcuni, pochi, saranno rimasti fedeli. Questi pochi sono definiti con il termine tecnico "il resto d'Israele".

 

Nei primi quattro quadri delle trombe il "resto" non è poi così esiguo se costituisce i due terzi. Ciò significa che la misura che il Signore usa non è stretta come quello del Dio dell'Antico Testamento. Un terzo di quanro esiste nel mondo perisce ma i due terzi restano.

Emerge ora anche il tema della ricapitolazione universale in Cristo: "...tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto..." (S.Paolo - Romani 8,22) in attesa di essere restituita al suo candore, alla sua bellezza. Tutto partecipa alla salvezza con un criterio misterioso, che sappiamo però più largo di quello dell'A.T.

Basterebbe questa osservazione: nell'Antico Testamento la salvezza si pone non per tutti gli ebrei ma soltanto per "il resto d'Israele", mentre in Apocalisse la dimensione appare universale ("...ogni nazione, razza, popolo e lingua." Ap.7,9).

Per avere una riprova della ristrettezza del "resto" si può leggere Zacc. 13, 8-9.

 

v.13 - lettura

Con questo versetto Giovanni introduce i "guai" che saranno descritti nel successivo capitolo.

 

 Capitolo 9

 

 

vv. 1-20 - lettura

La quinta tromba. La sesta tromba.

 

Siamo di fronte, probabilmente, alla visione più complicata del libro dell'Apocalisse.

E' tutto un intrecciarsi di strane situazioni in queste visioni. Le cavallette in alcuni momenti sembrano cavalli di guerra e in altri paiono cavalieri con sembianze umane. L'angelo dell'Abisso nell'episodio della quinta tromba compare all'inizio e alla fine del brano,mentre nella scena riguardante la stessa tromba vengono "...sciolti i quattro angeli..." (v.15) "...incatenati sul gran fiume Eufrate..."(v.14).

In proposito si possono fare delle osservazioni:

1 - in primo luogo notiamo che il potere di tutti questi esseri è limitato. Al v.3, per esempio, è scritto "..e fu dato loro un potere pari a quello degli scorpioni della terra." e al v.4 viene concesso alle cavallette di danneggiare"...soltanto gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte." e "Però non fu concesso loro di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi..." (v.5).

Il potere di queste creature è sempre limitato. Torna così il tema del male che non ha un potere assoluto.

 

Che cosa rappresentano le visioni delle cavallette e dei cavalieri? Sicuramente la prima richiama la piaga delle cavallette d'Egitto.

Lettura di Esodo 10, 1-6 in cui sono descritti dei fenomeni, naturali all'epoca. Il senso del miracoloso dato dall'autore del testo sta nell'abilità, di aver riunito tutte insieme la piaghe. Ecco il sottofondo teologico della piaga delle cavallette: come nel libro dell'Esodo si parla di un faraone che ha il cuore indurito (come i suoi ministri e i suoi funzionari), così nel libro dell'Apocalisse si presenta un mondo che ha il cuore indurito e non si vuole convertire.

 

2 - Quale interpretazione dare a questo brano? Certamente non un significato letterale.Vediamo, allora, gli avvenimenti come realmente accaduti e trasfigurati dai simboli oppure come dei fatti che dovranno verificarsi alla fine del mondo?

Direi che tuttta la narrazione sia da interpretare secondo l'idea della strada: il cammino della storia umana è come un strada, per cui uno stesso avvenimento si ripete durante il persorso. Per esempio, potremmo dire che, dietro queste immagini, davanti agli occhi di Giovanni erano presenti le scorrerie tremende dei Parti e delle orde barbariche che da nord (Caucaso) premevano sui confini dell'impero.

 

 

 

L'importante è tener presente che la situazione di pericolo e di minaccia non è circoscritta a quel momento, ma si ripeterà durante tutta la storia dell'umanità. La guerra, le scorrerie dei barbari (chiamiamoli pure con nomi di attualità) con il procedere delle storia continueranno a verificarsi. Leggiamo il brano con le valenze teologiche date dall'Apocalisse: le forze del male possiedono un potere limitato e, perciò, non prevarranno.

Il nostro è un libro di speranza e, quindi, interpretiamo quanto narrato anche come un invito alla conversione, alla purificazione del nostro cuore.

 

L'Apocalisse non ci racconta come sarà la fine del mondo bensì ci offre i criteri d'interpretazione della storia odierna.

 

La sesta tromba trova un paragone molto significativo in uno dei brani apocalittici più antichi (Ezechiele 38 e 39), che ci parla di Gog, mitico re simbolico, che regnava su Magog, luogo della malvagità.

Si tratta, in conclusione, di avvenimenti reali di ogni tempo, da non prendere alla lettera, e trasfigurti dai simboli. Sottolineamo ancora una volta il crescendo dei flagelli: nell'episodio della quinta tromba gli uomini vengono tormentati per cinque mesi - quindi un breve periodo - mentre nella scena della sesta tromba un terzo dell'umanità è ucciso.

 

vv. 20-21 - lettura.

Sono versetti importanti perché danno il senso delle due visioni. I flagelli descritti (quinta e sesta tromba) accadono perché gli uomini praticano l'idolatria e di conseguenza operano in modo malvagio. E allora tutti questi guai dovrebbero servire a portare gli uomini al vero Dio e ad aiutarli a compiere le opere buone.

 

 

Capitolo 9 (continuazione)

 

 

Ribadiamo il concetto più volte espresso: l'Apocalisse ci fa ripercorrere a ritroso tutta la Sacra Scrittura.

 

vv. 20-21 - lettura

Abbiamo rilevato che la parziale distruzione (v. 18) aveva come scopo la conversione dell'umanità, che però rivela un cuore duro. La mancata conversione ci ricorda lo sfondo delle piaghe d'Egitto: il faraone non cambia l'atteggiamento del cuore e resta sulle sue posizioni. Ma questa è anche la logica del prologo del Vangelo di Giovanni, in cui il logos, nonostante tutti i tentativi, non viene accettato dal mondo. In particolare leggiamo:

"... la luce splende nelle tenebre

ma le tenebre non l'hanno accolta." (Gv 1,5)

"Venne fra la sua gente

ma i suoi non l'hanno accolto." (Gv.1,11)

 

Alla fine, ecco la presenza di Gesù che però pochi accolgono e tanti rifiutano (e su questo il Vangelo di Giovanni è chiarissimo).

 

La causa dei flagelli è l'idolatria; perciò bisogna indurre l'uomo a convertirsi ed ad allontanarsi dagli idoli.

Come classico esempio di idolatria leggiamo il brano "Il vitello d'oro" narrato in Esodo 32, 1-6. Si tratta di un episodio che influirà molto sulla spiritualità di Israele tanto da essere richiamato, per la sua drammaticità, in diversi salmi, come nel salmo 106 v.20:

"...scambiarono la loro gloria

con la figura di un toro che mangia fieno".

 

Evidenziamo due aspetti dell'idolatria:

 

1 - la degradazione di Dio.

Hai un Dio che parla, agisce e ascolta, ma ti accontenti di un idolo che ha bocca e non parla, ha orecchi e non ascolta. Ci troviamo in un clima molto diffuso anche oggi. Come conferma, pensiamo, ad esempio, alla superstizione, che è degradazione di Dio. Il mondo è ancora affollato di persone che credono negli idoli e per questo vanno tanto di moda certe "filosofie" orientali, che non sono vere e proprie religioni. In fondo l'uomo ha un idolo fondamentale, sintesi di tutti gli idoli: se stesso.

 

 

 

L'uomo cerca se stesso.Ed ecco, allora, che quando vuole trovare se stesso è disposto a crearsi anche un "dio-fantoccio" che inventa le cose: "lui" è tua immagine, non tu immagine sua

Ti dichiari credente ma in che cosa credi? E' terribile l'odierna forma di idolatria perché, in fondo, esprime un bisogno di Dio, purtroppo colmato male. Una idolatria che ti accontenta perché hai trovato te stesso come idolo.

Pensiamo, ad esempio, alle teorie della reincarnazione, così di moda, e alla "New age", quell'eresia moderna che dona la tranquillità di aver trovato Dio in se stessi. Trova te stesso e avrai trovato Dio. (Anche S.Agostino affermava che nell'interno dell'uomo abita Dio, ma con un significato molto diverso).

 

Le filosofie e le tecniche di meditazione che non sono finalizzate a Cristo rendono l'uomo idolatra di se stesso.

 

Proviamo a leggere in chiave critica quell'ossessionante ricerca della forma fisica tanto in auge oggi: cos'è se non la ricerca di se stessi? Si fa pressante l'invito a valutare non superficialmente quanto ci circonda.

 

2 - il rifiuto di Dio.

Lettura del salmo 10, vv. 24-25.

In questo salmo, come in altri, è evidente il rapporto di contrasto fra i buoni e i cattivi, tra gli umili e gli empi. E ci ritroviamo con un "trattato" di psicologia religiosa in una riga. Siamo di fronte all'idolatria nel senso di rifiuto di Dio.

Notiamo la finezza psicologica del v. 25b. L'empio comincia a dire:"Dio non se ne cura..."

Quante persone, quanti giovani, diventano atei constatando, ad esempio, la presenza del male nel mondo o l'incoerenza dei cristiani. Sono fatti che fanno loro sostenere: "Dio non se ne cura" e, se anche esiste, non glie ne importa nulla. E avviene così il passaggio successivo: "Dio non esiste" (v.25).

Con il rifiuto di Dio l'uomo troverà altri idoli: il successo, il potere, il denaro, il lavoro, la famiglia, il volontariato....: sintesi di tutti questi idoli è l'io. Ci troviamo allo stesso punto: l'uomo sta idolatrando se stesso. Siamo in un clima individualista.

Stiamo attenti a valutare con la "griglia" del Vangelo e, soprattutto, dell'antropologia cristiana (cioè del significato che la parola "uomo", "persona", ha per noi cristiani) certe idee che ci vengono proposte come sacrosante.

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16/11/2012 20:38
 
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Capitoli 10 e 11

 

 

Ci aspetteremmo di sentire la settima tromba, invece avviene un cambiamento di scena.

 

Cap. 10, 1-11 e cap. 11, 1-13- lettura

Come nel cap.7 ci aspettavamo l'apertura del settimo sigillo e ci siamo trovati di fronte alla visione dei centoquarantaquattromila e delle innumerevoli schiere dei salvati, così ora, dopo il suono della sesta tromba, la narrazione viene interrotta da una visione di speranza costituita dal piccolo libro aperto e dai due testimoni.

 

L'angelo che compare è un personaggio con particolari caratteristiche, tanto che qualche studioso l'ha identificato con Dio. "...la fronte cinta di un arcobaleno...", "...la faccia come il sole..." e "...avvolto in una nube..." fanno pensare, infatti, a caratteristiche tipiche delle manifestazioni divine. Ma ciò non corrisponde al vero perché l'angelo giura in nome di Dio ("...e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli." v. 6).

 

Il ruggito del leone e i sette tuoni: anche queste due manifestazioni (vedi profeta Amos) potrebbero far pensare alla voce stessa del Signore.

Di fatto si tratta di un angelo che dà inizio ad una investitura profetica. Noi sappiamo che Giovanni era un profeta che soffriva a causa della proclamazione della parola. Ora l'angelo gli affida una missione: "Devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni e re" (v. 11).

E ai profeti si era già accennato nel precedente cap.10 nel quale, al v. 7 nel testo italiano, leggiamo una versione che non rende letteralmente il significato del termine greco eueggélisen. Anziché "...si compirà il mistero di Dio come Egli ha annunziato ai suoi servi, i profeti.", si dovrebbe tradurre:"...si compirà il mistero di Dio di cui fu data (o comunicata) buona notizia ai suoi servi, i profeti."

Allora il mistero di Dio racchiude in sé una buona notizia e non è, quindi, un mistero di morte e di distruzione. E' il Vangelo. Potremmo dire che questo mistero divino che si compie rappresenta un giudizio di salvezza.

 

Per smentire le previsioni catastrofiche dei profeti leggiamo il salmo 96, vv. 10-13 che ci apre il cuore alla gioia: tutta la creazione è in festa per il giudizio di Dio.

Questo bellissimo salmo ci dice che il cristiano si pone davanti alla morte, al momento dell'incontro con il Signore giudicante, con tripudio e con gioia. Dio viene a giudicare la terra, a liberare finalmente il suo popolo. Ben venga la morte per il cristiano. E prepariamoci ogni giorno all'incontro con il Signore. Io vi raccomando la lettura di un libro fondamentale della spiritualità cristiana, scritto da S.Alfonso Maria de' Liguori,: "Apparecchio alla morte".

 

Ap.10, vv. 8-9 - lettura

"...il libro aperto..." (v. 8) e "...prendilo e divoralo..." (v. 9).

A questo proposito leggiamo: "Il libro ingoiato." Ezechiele 3, 1-11 (Abbiamo già considerato la fine del cap.2 in relazione alla precedente visione del rotolo scritto su entrambi i lati.).

Il profeta, ascoltato o non ascoltato, deve annunziare la parola, non può tacere.

 

Consideriamo ora un brano più drammatico del precedente:

Geremia 15, 10-21 "Rinnovo della vocazione".

"Quando le tue parole mi vennero incontro,

le divorai con avidità; ..." (v. 16)

Il profeta divora le parole di Dio, come fanno Ezechiele e Giovanni.

 

"Non mi sono seduto per divertirmi

nelle brigate dei buontemponi,

ma spinto dalla tua mano sedevo solitario..." (v. 17)

Ecco la solitudine del profeta.

 

E nel v. 18 leggiamo la quasi bestemmia di Geremia:

"Tu sei diventato per me un torrente infido,

dalle acque incostanti."

La risposta del Signore è contenuta nei vv. 19-21: mentre il profeta si lamenta, Dio gli rivela la verità e lo rende vero verso se stesso.

"Se tu ritornerai a me io ti riprenderò..." (v. 19).

Ciò significa che Geremia si è allontanato dal Signore, ma che il Signore non si è allontanato da lui.

 

"...se saprai distinguere ciò che è prezioso

da ciò che è vile." (v.19)

Quando siamo in uno stato d'animo che non ci consente di distinguere il bene dal male, le cose autentiche da quelle false, è saggio seguire il consiglio di S.Ignazio il quale sosteneva che quando ci si trova in uno spirito di desolazione non di debba operare alcuna scelta. Conviene rimanere fermi sulle decisioni precedenti. Poi, quando sarà passato lo spirito di desolazione, si potranno nuovamente assumere decisioni.

 

Constatiamo che lo sfondo del nostro brano dell'Apocalisse si trova proprio in Ezechiele cap.3. Come il profeta, Giovanni viene invitato a diventare intermediario fra Dio e gli uomini. Se fino a questo punto avevamo trovato come intermediari gli angeli e l'Agnello, ora leggiamo che Giovanni diventa profeta. Quale onore per un uomo! Ciò significa che anche noi possiamo essere intermediari fra Dio e gli altri uomini; possiamo essere (e di fatto siamo) dei profeti.

Dolcezza e amarezza sono le caratteristiche del "piccolo libro aperto". Analogamente il rotolo di cui parla il profeta Ezechiele (cap. 3) era "dolce come il miele" (dolcezza), ma in realtà conteneva guai, distruzioni e altro ancora (amarezza).

Questa è sempre la duplice valenza della parola di Dio, che è parola di giudizio e di salvezza, che è parola di purificazione finalizzata alla gioia. Sempre.

 

Mentre vi parlo penso alla recente visita del Papa a Cuba.

Dovremmo rileggere i discorsi da lui pronunciati in occasione di questo ultimo viaggio: la sua parola è dolce e amara; parola di verità che fa male, ma che apre nuove speranze. E' la parola di Dio e dei suoi profeti. Fa male ma nel stesso tempo è balsamo per curare la ferita aperta.

Non dobbiamo mai allontanarci dal Signore, nemmeno quando abbiamo la consapevolezza tremenda dei nostri peccati, perché Egli è l'unico che può risanarci. La consapevolezza di essere peccatori deve portarci ancora più vicino a Dio. Non dobbiamo sottostare al tentatore. Pensiamo a quanto ciò sia vero non solo per ciascuno di noi, ma per tutta la Chiesa, che sarà sempre bisognosa di purificazione. Una purificazione che, però, non è desolazione e morte, ma preludio alla resurrezione e, quindi, a una nuova primavera, a un nuovo sviluppo.

 

Questa, da sempre, è la storia della Chiesa, non compresa da quei cristiani che ritengono che la Chiesa abbia agito sempre e solo bene. Ricordiamo, ad esempio, papa Paolo III che, pur avendo mantenuto nella sua vita una condotta lussuriosa e quindi censurabile, convocò il Concilio di Trento, indubbiamente su ispirazione dello Spirito Santo.

E', questa, la Chiesa, casta meretrix; e non c'è da stupirsi. Anche il riconoscere i propri demeriti può diventare un punto di forza, a condizione di non accodarsi a tutte le critiche che da secoli, senza la minima ricerca storica, vengono rivolte in merito a determinati episodi della vita della Chiesa.

 

Il Cap. 11 inizia con una misurazione del Santuario di Dio. Al riguardo leggere Ezechiele 40, 41, 42, un grande oracolo di salvezza.

 

La misurazione indicava:

1) separazione (misuro questo terreno per separarlo da tutti gli altri);

2) appropriazione (misuro il terreno perché è di mia proprietà);

3) preservazione (questo terreno è mio e nessuno può usarlo senza il mio

permesso).

 

Lettura di Ez. 43, 1-9

Finita la misurazione, "La gloria del Signore entrò nel tempio...". Dio ha ripreso possesso del suo Santuario che è stato misurato.

 

 

 

 

Capitolo 11 (continuazione)

 

 

vv. 1-2 - rilettura

"Ma l'atrio...non lo misurare..." (v. 2)

Secondo alcuni interpreti l'atrio rappresenterebbe il popolo d'Israele che sarà dato in balìa dei pagani dopo l'avvento della Chiesa, divenuta adesso popolo santo di Dio. Per altri studiosi, invece, si tratterebbe di quella parte della Chiesa che deve essere perseguitata, che sta vivendo il momento della persecuzione.

 

Un dato sicuro: la durata della persecuzione è fissata in quarantadue mesi..

Si tratta di un tempo reale o simbolico?

Diremmo l'uno e l'altro, perché tre anni e mezzo - ossia quarantadue mesi - costituiscono la durata della persecuzione di Antioco IV Epifane, considerata la persecuzione per eccellenza (vedere Daniele 7 e 9). Tre e mezzo, tra l'altro, dà proprio l'idea dell'incompiuto in quanto è la metà di sette, simbolo della totalità, della compiutezza. Quindi tre anni e mezzo diventa il simbolo del tempo limitato.

E', anche questo, un segno di grande speranza. I pagani potranno spadroneggiare ma solo per tre anni e mezzo.

Vediamo, allora, effettivamente i due livelli: il simbolico (la durata per eccellenza, per antonomasia) e il reale (una durata autentica, ossia un tempo comunque limitato).

 

vv. 3 -13 - lettura.

I due testimoni.

E' molto bello constatare che in questa persecuzione durata milleduecentosessanta giorni (ossia tre anni e mezzo) Dio non dimentica il suo popolo;anzi, è presente attraverso i suoi due testimoni.

Per sapere chi sono questi due testimoni cerchiamo riferimenti nei testi dei Profeti e precisamente in Zaccaria 4, 1-14. I due olivi di cui si parla richiamano certamente la visione dell'Apocalisse (cap. 11) e rappresentano le due persone destinate a salvare il popolo in un tempo cruciale della storia d'Israele, cioè il momento del ritorno dall'esilio.

Il primo olivo simboleggia Zorobabele che incarna il potere civile e che, secondo il sogno dei profeti, sarebbe dovuto diventare re; essere, quindi, l'unto, il consacrato, il messia. L'altro olivo, invece, rappresenta il Sommo Sacerdote Giosué, colui che personifica il potere spirituale.

Secondo l'interpretazione delle figure dei due olivi data da Zaccaria, e di cui il nostro brano è una evidente ripresa, si tratta di due persone che si assumono in nome di Dio l'incarico di guidare il popolo alla salvezza.

vv. 6 -12 lettura

I due testimoni, che sembrerebbero invincibili, richiamano Elia (il cielo chiuso e la trasfigurazione sul Tabor) e Mosè (i flagelli e le piaghe d'Egitto).

Le indicazioni fornite ci indurrebbero a pensare che potrebbe trattarsi proprio di loro, ma poi scopriamo che, una volta esaurita la missione, i due personaggi diventano apparentemente vincibili (vv. 7-10) tanto che la "bestia" prende il sopravvento e sembra trionfare. Ma il trionfo è passeggero, perché dopo tre giorni e mezzo, tempo relativamente breve, i testimoni non solo risorgono ma salgono al cielo in una nube (v. 12).

 

v. 13

Nel momento della loro salita al cielo "...ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi dal terrore, davano gloria al Dio del cielo."

Questo quadro ci riporta al Vangelo, come per esempio al terremoto e ad altri eventi catastrofici avvenuti alla morte di Gesù sulla croce.

 

I nostri due testimoni restano comunque nel vago in quanto potrebbero identificarsi anche con gli apostoli Pietro e Paolo, morti per Cristo e saliti alla gloria.

Difficile è identificare la città colpita dal terremoto. Pietro e Paolo sono morti a Roma e nel v. 8 è scritto: "I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma ed Egitto...".

Questa grande città potrebbe essere Roma, perché Sodoma è la città lussuriosa per eccellenza e l'Egitto è la nazione che indubbiamente opprime il popolo. E Roma era molto lussuriosa e perseguitava i cristiani.

 

Ma la città "...dove appunto il loro Signore fu crocifisso" potrebbe essere Gerusalemme. Indubbiamente incontriamo notevoli difficoltà di interpretazione.

 

Fissiamo ora l'attenzione su un particolare che non si nota nel testo italiano e che è dovuto a una errata traduzione dal greco.

Nei vv. 7-8 i tempi dei verbi nella versione italiana sono al futuro (e corrispondono al greco); nel vv. 9-10 le voci verbali sono ancora al futuro, mentre il testo greco ha i tempi degli stessi verbi al presente. Quindi la traduzione esatta di alcune voci verbali dei vv. 9-10 dovrebbe essere: "...vedono il loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono..." e "...fanno festa...si rallegrano e si scambiano doni..." (v. 10).

Dopo il futuro del vv. 7 e 8 e il presente dei vv. 9-10 abbiamo il passato dei vv. 11-13 (tradotto esattamente in italiano).

Vediamo, allora, una strana successione dei tempi verbali (che è al contrario della normale successione temporale), perché nell'ordine il futuro precede il presente che a sua volta anticipa il passato.

Queste voci verbali, che in realtà sono "atemporali" e ci mettono in una situazione temporale diversa da quella a cui siamo abituati, indicano che il nostro brano va interpretato certamente in senso storico ma anche in senso metastorico (cioè al di fuori della storia, oltre la storia). Sostanzialmente torna il paragone della "strada" di cui si è parlato in precedenti incontri. Di conseguenza i due testimoni potrebbero tranquillamente essere non solo Pietro e Paolo, ma altri due martiri uccisi dal potere imperiale (la bestia) o addirittura due vittime delle persecuzioni del nostro secolo. Si tratta, cioè, di fatti storici che però diventano tipici in quanto si ripeteranno sempre. Ecco perché siamo nel tempo e, contemporaneamente, fuori dal tempo: futuro, presente e passato anziché passato, presente e futuro.

La città potrebbe quindi essere Gerusalemme o Roma, come Berlino o l'Avana o altre.

 

Dio non abbandona il suo popolo: questa è la nota dominante, il senso del cap. 11.

La persecuzione apparentemente ha successo, il potere imperiale (o dittatoriale) apparentemente annienta i discepoli di Cristo, ma "...dopo tre giorni e mezzo..." (v. 11) avviene la rivincita. I due testimoni salgono al cielo e avviene la manifestazione di Dio; nello stesso momento "...ci fu un grande terremoto..." (v. 13).

 

Quando il buio sembra farsi più fitto e sta per suonare la settima tromba, un raggio di luce stupendo ci apre il cuore alla speranza. Dio non ci abbandona come non ha mai abbandonato il suo popolo e neppure i due testimoni che sono nel tempo e fuori dal tempo. Stiamo tranquilli. Ora comprendiamo bene che l'Apocalisse non ci sta descrivendo la battaglia escatologica ma il "tempo" che si perpetuerà sino alla fine dei tempi: ci saranno persecuzioni che non prevarranno, martiri che verranno uccisi, ma vivranno nel Signore. L'invito pressante è a non cedere allo sconforto.

 

Alcuni studiosi interpretano i due testimoni non tanto come due persone in carne ed ossa quanto come un simbolo della Chiesa di sempre.

Si tratterebbe di un'interpretazione collettiva che si appoggia in particolare sulle due lampade (v. 4). Come ricordiamo, la lampada e il candelabro sono il simbolo della Chiesa. Ecco perché queste due lampade ci fanno pensare alla Chiesa come comunità. E, riprendendo quanto si leggerà in seguito, vediamo che la bestia dichiara guerra alla Chiesa.

Siamo di fronte, allora, a un annuncio di speranza e di salvezza: la bestia non prevarrà comunque, perché Dio sorregge e purifica il suo popolo.

 

Un elemento che ci aiuta a capire che ci troviamo ancora nella storia e non nell'escatologia è dato proprio dall'intervento parziale di Dio: il terremoto "...che fece crollare un decimo della città..." (v. 13). Notiamo che non siamo giunti al momento finale, perché i nove decimi della città rimangono indenni.

Inoltre, nell'ultima parte del v. 13 leggiamo che lo scopo di questa manifestazione divina è la conversione dei superstiti, i quali, "...presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo".

Teniamo presente che alcune persone, proprio perché prese dal terrore, arrivano vicino al Signore.

 

Dio è un grande pedagogista e si esprime attraverso la Bibbia, che si presenta come uno stupendo trattato di pedagogia. Per ciascuno di noi il Signore ha pensato il cammino adatto.

Parlando del Sacramento della penitenza si diceva che non sempre il cristiano si confessa perché contrito (cioè dispiaciuto di aver peccato e di avere così tradito la fiducia, l'amore di Dio), ma perché attrito (ossia addolorato di aver peccato soltanto per il timore dei castighi che gli verranno inflitti). Comunque, sia la contrizione che l'attrizione sono valide per accedere al sacramento: l'importante è confessarsi. Ne è conferma l'atto di dolore originale che recita: "...perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso Te, infinitamente buono...".

La grazia del sacramento della penitenza produce dall'attrizione la contrizione per essenza.

 

Teniamo presente che nella tribolazione, nella persecuzione, nella morte e poi nel trionfo della resurrezione, la vita della Chiesa non fa che ripresentare la vita di Cristo di cui la Chiesa è il Corpo mistico.

E poiché la Chiesa non è un'entità astratta, ma è costituita da ciascuno di noi, come membri dei Corpo mistico siamo tenuti a ripetere l'esperienza terrena di Gesù, dalla passione alla gloria. In effetti di tratta di quanto si vive nell'Eucarestia: la celebrazione del mistero pasquale.

 

La settima tromba

vv. 14-19 - lettura

Secondo il v. 7 del cap.10 quando "...il settimo angelo farà udire la sua voce e suonerà la tromba, allora si compirà il mistero di Dio...". Qui, al v. 14, leggiamo:

" Il regno del mondo

appartiene al Signore nostro e al suo Cristo...".

Tutto è compiuto; Dio regna.

Siamo di fronte a una scena celeste, ad una grande liturgia in cielo che afferma la regalità divina sul mondo. A differenza di quanto scritto nei libri precedenti, al v. 17 la tradizionale espressione: "Signore Dio Onnipotente che era, che è e che viene" è sostituita da "Signore Dio Onnipotente che sei e che eri". Dio è arrivato; tutto è compiuto.

 

Per capire che cosa comporta l'avvento del regno di Dio riandiamo al Salmo 2 ("Il dramma messianico") che ha tante attinenze con questo brano e con quelli successivi.

Si evidenziano due aspetti:

1) l'ira delle nazioni, impotente, tanto da non produrre alcun effetto, proprio come detto nel salmo 2:

"... insorgono i re delle terra

e i principi congiurano insieme..." (v. 2)

mentre:

"Se ne ride chi abita i cieli,

li schernisce dall'alto il Signore..." (v. 4).

2) l'ira di Dio che, invece, è efficace. Infatti:

"...è giunta l'ora della tua ira,

il tempo di giudicare i morti..." (Ap. 11, 18).

L'ira di Dio porta con sé il tempo del giudizio, ma nello stesso tempo la regalità divina porta il premio.

 

Il cap. 11 si conclude con l'arrivo di Dio, riprendendo il tema della misurazione del tempio:

"Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l'arca dell'alleanza" (v. 19).

Notiamo anche che la seconda parte del v. 19, con il terremoto, le folgori, gli scoppi di tuono, richiama il v. 5 del cap. 8.

Questa scena celeste vede come protagonisti Dio e il suo popolo, nonostante tutto i vincitori.

 

A proposito della figura un po' mitica dell'arca leggiamo 2 Maccabei 2, 1-8 in cui si parla anche dell'eredità di Dio contemplata da Mosè dalla cima del monte Nebo (vedere Deut. 34, 1-5).

Il secondo libro dei Maccabei riporta una tradizione, diffusa all'epoca, secondo la quale Geremia, nell'imminenza della distruzione del Tempio da parte dei Babilonesi, aveva preso l'arca e gli arredi sacri, che Giosia aveva fatto collocare nel santuario, e li aveva portati in salvo sul monte Nebo, in un luogo di cui si persero le tracce. L'arca rimarrà nascosta lassù fino a quando il Signore non avrà riunito la totalità del suo popolo.

Ora l'arca è nuovamente rivelata (Ap. 11,19) perché la gloria del Signore ha ripreso possesso del suo santuario e Dio ha finalmente radunato tutto il suo popolo.

Si realizza così la profezia di Geremia, un profeta che proclamava la legge incisa nel cuore e non l'osservanza formale della legge stessa. Qualche studioso sostiene che la predicazione di Geremia sia la più simile, come anticipazione, a quella di Gesù.

In questo capitolo Giovanni anticipa una realtà che poi descriverà e dice che Dio regna ed è re dell'universo. Dal cap. 12 in avanti l'autore spiegherà come gradualmente questa realtà sia potuta accadere.

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16/11/2012 20:39
 
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Capitolo 12

 

 

vv. 1-18 - lettura.

 

Stiamo leggendo una parte dell'Apocalisse che ha suscitato molte interpretazioni, alcune delle quali totalmente errate.

 

vv. 1-3.

Notiamo due segni (v. 1 e v. 3).

"Segno", dal greco semeìon, significa una realtà storica concreta, visibile, che però richiede di essere decifrata.

Il Vangelo di Gv parla spesso di segni quando si sofferma a considerare i miracoli di Gesù, il quale afferma che la vera fede non è quella che sorge dai segni. Lo diceva in quanto coloro che vedevano il miracolo si fermavano al portentoso, al fantastico, senza decifrarlo, senza decodificarlo.

Per comprendere meglio questo concetto riandiamo al Vangelo di Giovanni (cap. 11), al segno emblematico (nel senso di miracolo), cioè alla resurrezione di Lazzaro. E' l'ultimo miracolo, quello che anticipa la resurrezione di Gesù. Ecco perché un segno ha bisogno di essere decifrato: se si guarda solo al miracolo della resurrezione di Lazzaro si vede un uomo morto che risuscita. Ma andando al di là si capisce che quel segno visibile ha ben altro significato: la risurrezione di Gesù.

 

Consideriamo ora nel Vangelo di Giovanni un altro grande segno, molto conosciuto e dal significato chiaro: la moltiplicazione dei pani e dei pesci (cap. 6). Fissiamo l'attenzione solo sui pani. La gente che ha assistito al miracolo vorrebbe andare da Gesù "per farlo re". E proprio Gesù risponde: "Voi mi cercate non perché avete visto dei segni ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati." (v. 26).

Subito dopo inizia il grande discorso (nella sinagoga di Cafarnao) sul pane di vita che, alla fine, otterrà un risultato negativo: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andarono più con lui" (v. 66). Rimasero solo i dodici apostoli. E conosciamo al riguardo la bellissima espressione di Pietro: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna...". (v. 68).

La gente aveva assistito a un miracolo, aveva mangiato a sazietà, ma non aveva decodificato il segno perché si era fermata all'apparenza. Doveva capire,invece, che quel miracolo rimandava a Gesù, "il pane della vita" (Gv 6,35).

In questo capitolo dell'Apocalisse siamo di fronte a due realtà storiche concrete, ovviamente espresse in modo simbolico. Starà a noi decodificarle e comprenderle in profondità.

Analizziamo ora i due segni:

 

I segno

"...una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle." (v. 1).

In ordine cronologico, il sole è una delle prime creature di Dio; dà luce, esprime la potenza divina, a volte anche in senso negativo. Infatti il sole può bruciare e portare l'aridità; può imporsi con la sua forza ed essere segno della potenza e della benevolenza del Signore. Abbiamo così una donna vestita con la potenza e la benevolenza di Dio "con la luna sotto i suoi piedi.".

Noi sappiamo che la luna, allora, scandiva il tempo e anche i mesi. Infatti i calendari antichi erano quasi tutti "lunari", compilati sulla base delle fasi della luna. Ancora oggi certe attività agricole vengono effettuate in relazione alle fasi lunari.

Questa donna ha sotto i suoi piedi la luna che scandisce il tempo; quindi è già entrata nella dimensione dell'eternità. Il tempo non la interessa più; è sotto i suoi piedi: domina il tempo.

 

"...una corona...." è segno di un premio vinto (ricorda la corona degli atleti vincitori).

"...di dodici stelle." Il numero dodici richiama un elemento dell'Antico Testamento, le tribù d'Israele, e uno del Nuovo, gli apostoli. Non sappiamo a quale dei due elementi si riferisca il numero; probabilmente ad entrambi. Questa donna porta sul suo capo una corona che indica una sintesi della storia della salvezza: l'Antico e il Nuovo Testamento. Si tratta di una realtà nuova che proviene dalla fusione di altre due.

 

Chi è questa donna?

Per scoprirlo leggiamo:

a) Isaia 66, 5-11 ("Giudizio su Gerusalemme").

All'inizio del brano troviamo una donna che partorisce prima ancora di provare le doglie. Ci aspetteremmo quindi una descrizione quasi di vita quotidiana. E invece scopriamo che questa donna è simbolo di Gerusalemme, ovvero di Sion, della città santa che partorisce i figli in senso non fisico ma spirituale.

 

b) Michea 4, 9-13

Qui compare una figlia di Sion che grida, che spasima "come una partoriente" (v. 10). Apparentemente potrebbe trattarsi di una giovane, ma dal contesto comprendiamo invece che è il simbolo del popolo d'Israele.

 

 

c) Sofonia 3, 14-18

E' uno dei brani poetici più belli. Anche in questi versetti vediamo la dimensione comunitaria. La figlia di Sion è Gerusalemme, è il popolo stesso d'Israele.

 

d) Osea 2 ("Il Signore e la sposa infedele").

Si parla qui di una donna, sposa infedele, che nonostante tutto non suscita l'infedeltà di Dio.

 

A questi brani dell'Antico Testamento aggiungiamo la lettura di due del Nuovo e cioè:

1) Giovanni 2

Il capitolo inizia con il primo "segno" di Gesù, il miracolo di Cana, in cui torna la parola "donna" rivolta a Maria. Si parla di un banchetto di nozze in cui non compare la sposa e caratterizzato dal vino, che era l'elemento principale del banchetto messianico (il grande banchetto che Dio imbandirà per tutti i popoli sul suo alto monte, direbbe Isaia).

Alcuni elementi del racconto ci fanno trarre questa conclusione: Maria è, qui, simbolo della sposa che, grazie all'opera di Cristo (il vino nuovo dei tempi messianici), si ricongiunge nelle nozze mistiche con il suo sposo che è Dio. E allora Maria rappresenta la Chiesa, incarnata in una persona.

2) Giovanni 19 e in particolare i vv. 25-27.

"Stavano poi presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!»".

Anche in questa scena ritorna il termine "donna". Ricordiamo che nel Vangelo di Giovanni Maria compare due volte ma non è chiamata da Gesù con il suo nome proprio bensì con la parola "donna" e, in subordine, "madre".

Proprio riprendendo i brani profetici dell'Antico Testamento appena letti (la figlia di Sion che partorisce i figli) possiamo dire: ecco la nascita della Chiesa.

Maria in Gv. 19 è colei che genera nuovi figli (Giovanni) e quindi simboleggia la Chiesa intera. Anche per questo motivo, secondo la dottrina cattolica, Maria è immagine, oltre che modello, della Chiesa. Non per niente è vergine e madre: sono questi due elementi che contraddistinguono la Chiesa.

 

A questo punto possiamo affermare che i due brani del Nuovo Testamento appena citati ci aiutano a identificare meglio la donna del cap. 12 dell'Apocalisse.

 

II segno

"...un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso..." (v. 3).

Rilettura dei vv. 3 e 4, carichi di simboli mortiferi, cioè che portano la morte (il rosso vivo è il colore della morte).

E' un drago di un'intelligenza straordinaria (le sette teste) che detiene la regalità terrena (i sette diademi), che si chiama (v. 9) "...il serpente antico, colui che chiamano il diavolo e satana e che seduce tutta la terra...". Identifichiamo allora questo drago: è il serpente antico. Ce lo dice Giovanni stesso; non sono possibili equivoci.

Il brano sottinteso nel versetto ora letto è Genesi 3 (cioè il racconto del peccato originale con il ruolo ricoperto dal serpente).

 

Emerge dal v. 4 un elemento importante:

"Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato".

Per questa donna con le doglie del parto giunge il momento cruciale, perché il drago è pronto per divorare il bambino non appena sarà nato. Tutto fa pensare che il drago possa riuscire nel suo intento. Invece leggendo i vv. 5 e 6 scopriamo il primo insuccesso dell'enorme drago rosso, nonostante la sua intelligenza e la sua capacità di dominio.

Umanamente parlando, tutto era contro la donna e il suo bambino. Ma il bimbo appena nato viene rapito immediatamente in cielo, perché è il Messia (vedere il salmo 2). Il drago perde anche la donna, la quale si rifugia nel deserto che nella Bibbia può essere luogo di tentazione (le tentazioni di Gesù), luogo di incontro con Jahwe (i quarant'anni nel deserto del popolo di Israele, periodo di purificazione, ma anche di rapporto intimo con il Signore, tanto che i profeti quando vogliono indicare un tempo ideale del popolo si riferiscono proprio a questo) e anche luogo di rifugio e di salvezza (come per Davide ricercato da Saul).

 

Un secondo elemento importante per identificare questa donna: il senso comunitario, in quanto ha il senso del popolo perché si identifica con la Chiesa perseguitata, ma nonostante tutto preservata da Dio. Infatti al v. 14 leggiamo che alla donna vennero date "...le due ali della grande aquila..." (che è Dio) "...per volare nel deserto..." (v. 14).

Per alcuni studiosi la nostra donna potrebbe addirittura rappresentare il popolo di Israele che ha generato il Messia. Chiaramente si tratta di un'interpretazione comunitaria.

Io credo che siano validi tutti e tre i significati (Maria - la Chiesa - il popolo di Israele), perché il simbolismo della donna è talmente ricco che nessuna interpretazione esclude l'altra: è l'Israele; è il nuovo Israele (la Chiesa); è l'immagine perfetta della Chiesa, la Madonna.

Penso proprio che sia da accettare questa triplice dimensione, ovviamente con una sottolineatura particolare per le ultime due interpretazioni (la Chiesa e la Madonna), come la Chiesa stessa ci indica.

 

Affrontiamo ora una difficoltà: la donna, che noi interpretiamo - per esempio - come la Chiesa, genera Gesù..

Sarebbe molto più facile interpretare questa donna come la Madonna che ha generato Gesù, anziché come la Chiesa che genera Gesù. Ma vari elementi, nello stesso tempo, ci indicano proprio che la nostra donna va interpretata come la Chiesa.

E' bellissimo: la Chiesa, ancora oggi, genera Cristo.

Nella Chiesa esiste una dinamica particolare che le consente di essere generata da Cristo e nel contempo di generare il Cristo, come avviene in particolare nel sacramento della Eucarestia.

Senza la Chiesa non si può celebrare l'Eucarestia, non si può rigenerare il sacrificio pasquale, ma nello stesso tempo senza l'Eucarestia non potrebbe esistere la Chiesa. Perciò si dice che l'Eucarestia è contemporaneamente culmen et fons (culmine e fonte) della vita della Chiesa. Quindi è effetto e causa insieme.

 

vv. 7 e segg.

Davanti al drago sconfitto dall'arcangelo Michele, comandante dell'esercito di Dio, ecco che viene intonato il grande canto del cielo per celebrare una vittoria: satana è vinto.

La "gran voce nel cielo" non canta la vittoria di Michele, anzi dice:

"Ma essi lo hanno vinto

per mezzo del sangue dell'Agnello

e grazie alla testimonianza del loro martirio..." (v. 11)

Quindi satana è vinto dal sangue dell'Agnello e dai martiri associati alla passione di Cristo.

Alla fine del canto troviamo un avvertimento:

"Ma guai a voi, terra e mare,

perché il diavolo è precipitato sopra di voi..." (v. 12)

Il diavolo è sconfitto, ma ancora all'opera:

"...pieno di grande furore,

sapendo che gli resta poco tempo". (v. 12)

Per "martiri" possiamo intendere i testimoni del Vangelo (dal greco martüria = testimonianza).

E' bello constatare come la tentazione sia una realtà che viviamo tutti, ma nello stesso tempo sapere che Cristo ci rende vittoriosi associandoci al mistero della sua Croce, alla sua vittoria sulla morte.

Il capitolo 12 si conclude con un versetto che crea la premessa per il successivo capitolo: "E si fermò sulla spiaggia del mare". (v. 18)

 

Capitolo 13

 

vv. 1-18, lettura.

Compaiono due bestie; una esce dal mare e l'altra dalla terra.

Molti interpreti superficialmente intendono la prima bestia come una singola persona o come il diavolo stesso. In realtà non è vero, perché abbiamo visto che il diavolo è il drago e proprio questo dà potere alla bestia. Ma la bestia non è il diavolo; ne ha solo ricevuto il potere.

Un brano biblico da tener presente è il cap.7 di Daniele (lettura), nel quale il profeta narra la visione di quattro bestie il cui significato ci aiuta a identificare la bestia dell'Apocalisse. Infatti le quattro bestie rappresentano:

1) l'impero babilonese;

2) l'impero persiano;

3) l'impero di Alessandro Magno;

4 ) l'impero di Antioco IV Epifane.

Si tratta chiaramente degli imperi che hanno perseguitato Israele.

 

La prima bestia che esce dal mare ha un po' le stesse caratteristiche del drago, del quale è un portavoce o, meglio, un delegato.

Notiamo la parodia che Giovanni mette in scena al v. 4 del nostro capitolo: "Chi è simile alla bestia e può combattere con essa?" che si riallaccia al precedente cap. 5 in cui si chiedeva: "Chi è degno di aprire il libro e di sciogliere i sigilli?".

Qui si sta cercando di imitare quanto succede in cielo.

Quando individueremo la bestia vedremo quante volte si è resa presente nella storia.

 

"...e gli uomini adorarono il drago... e adorarono la bestia..." (v. 4).

Siamo davanti a una adorazione.

Stando a quanto è stato detto in questo capitolo, al parallelo con Daniele e a ciò che dirà Giovanni in seguito, noi possiamo sicuramente identificare questa bestia con il potere imperiale e non con i singoli imperatori, ossia con una forma di governo che si incarna in varie persone.

Tale potere ha tre caratteristiche:

1) l'arroganza;

2) la bestemmia;

3) la pretesa di essere adorato.

Alla luce di queste indicazioni possiamo rileggere molti poteri dei secoli passati ed anche, forse, di oggi.

 

Il brano, se interpretato compiutamente, appare come uno dei più rivoluzionari che siano stati mai scritti.

Tutte le caratteristiche di tale potere imperiale, direbbe Giovanni, derivano dal demonio Infatti coloro che detengono questo tipo di potere sono arroganti, bestemmiano e pretendono adorazione.

Ovviamente siamo su un piano storico: il potere imperiale, che qui concretamente perseguita la Chiesa, rappresenta una vicenda che dura da duemila anni. Questa bestia, perciò, diventa emblematica e simbolica di varie forme di potere nei secoli.

 

 

Capitolo 13 (continuazione)

 

 

vv. 11-18 - lettura

"I falsi profeti al servizio della bestia."

 

La seconda bestia, ignorata da molti, è al servizio della prima e possiede tutte le caratteristiche del falso profeta, di colui che, invece di annunciare la verità, inganna, imbroglia blandendo (è facile ricordare le tentazioni a Gesù nel deserto).

Come falso profeta, la bestia è in grado di compiere grandi prodigi; è intollerante e, soprattutto, vuole imporre a tutti il suo marchio.

Nella lettura dell'Apocalisse abbiamo già incontrato persone con un sigillo, con un marchio, ma si trattava di coloro che avevano il sigillo dell'Agnello sulla fronte, dei salvati - quindi -. La seconda bestia cerca di instaurare sulla terra un potere parallelo a quello di Dio. Il marchio imposto dalla bestia serve per indicare l'appartenenza a lei, mentre il sigillo di Dio designa l'appartenenza a Lui e, quindi, la salvezza.

Chi appartiene alla bestia non è salvo, ma schiavo.

 

Rilettura dei vv. 16 e 17.

Si accenna qui al diritto di cittadinanza romana. Il civis (il cittadino romano) non era sicuramente paragonabile agli altri sudditi dell'imperatore in quanto godeva, per questa sua condizione, di numerosi vantaggi. Ricordiamo al riguardo S. Paolo che, portato in giudizio davanti al procuratore, invocava il suo stato di civis e ottiene di essere giudicato a Roma dall'imperatore, evitando così la pena infamante della crocefissione.

 

Tutto ciò fa pensare alla propaganda imperiale dell'epoca e anche a quella di vari regimi totalitari del nostro secolo. Ogni sistema politico oppressivo ha bisogno della seconda bestia che lo prepari, che lo sostenga, che imbrogli il popolo. Nella situazione alla quale si riferisce il nostro brano la propaganda era diretta a inculcare nei sudditi l'idea che l'imperatore fosse un essere divino. Sappiamo che il primo tentativo in questo senso venne compiuto da Caligola (finito tragicamente) mentre il secondo fu messo in atto da Domiziano, alla cui persecuzione si riferisce l'Apocalisse. Quest'ultimo, senza più incontrare resistenza, pose come elemento unificante dell'impero il principio dell'imperatore-dio. E, infatti, iniziava i testi delle sue ordinanze definendosi "signore e dio".

Allora, storicamente, possiamo identificare probabilmente la seconda bestia con la classe sacerdotale, che in ogni parte del vastissimo impero sosteneva e propagandava il culto imperiale. Vediamo, quindi, che i sacerdoti avevano una notevole importanza in questo senso e consideriamo anche che nella storia ogni regime deve fare i conti con la religione o per tentare di distruggerla o per cercare di utilizzarla per i propri scopi.

Emblematico è il caso della chiesa ortodossa russa, in un primo tempo perseguitata dal regime e poi dallo stesso Stalin fatta diventare propria alleata. E questo è stato anche il gioco dell'imperatore Costantino (e di altri regimi succedutisi nella storia dei popoli) con il Cristianesimo.

 

Il marchio. E' significativo il termine tecnico usato da Giovanni, cáragma, che indica il sigillo dell'imperatore e che diventa il marchio d'infamia che, dal nostro punto di vista, caratterizza i servi della bestia.

 

"Seicentosessantasei"

Si ritiene erroneamente che sia il numero del demonio mentre invece è il numero della bestia. Si tratta, quindi, di qualcosa di concreto, di reale, di storico.

 

Nell'antichità, in ebraico come in greco, ogni lettera aveva un valore numerico dovuto alla sua collocazione nell'alfabeto. Ed era abbastanza diffuso il metodo di ricavare da un numero il nome corrispondente, e viceversa, in quanto il numero di una parola è costituito dal totale delle sue lettere. Nel nostro caso la somma dei numeri del nome da scoprire è 666.

Per gli studiosi sorse il problema di considerare le lettere come appartenenti all'alfabeto ebraico oppure a quello greco. Poiché il testo dell'Apocalisse è redatto in greco ed è rivolto a persone che conoscevano bene tale lingua, si può ritenere che si tratti dell'alfabeto greco. Sulla base di queste premesse i nomi corrispondenti al numero seicentosessantasei potrebbero essere due:

latínos (latino) oppure titan (titano), che erano i soprannomi dell'imperatore romano.

Qualche altro interprete afferma che si tratterebbe di lettere ebraiche e che di conseguenza il numero corrisponderebbe a Nerone - Cesare. Tale significato appare errato in quanto l'Apocalisse venne scritta all'epoca di Domiziano.

Accettiamo, quindi, il significato di latínos e di titan.

 

Notiamo ora che 666 significa tre volte sei.

Se fosse un numero perfetto dovremmo avere 777, cioè tre volte sette. Invece il nostro è il numero imperfetto per eccellenza (ossia sette meno uno); l'incompiutezza viene ripetuta per tre volte e perciò 666 significa l'incompiutezza assoluta, l'imperfezione assoluta. Per Giovanni, allora, si tratta del numero della perfetta imperfezione. Quindi la bestia, essere imperfetto per natura, è già sconfitta.

Possiamo leggere il seicentosessantasei in senso reale (l'impero romano) e in senso simbolico (l'imperfezione per eccellenza). Ne consegue che ogni regime umano è per sua natura imperfetto.

La Chiesa stessa nella sua parte umana ha delle imperfezioni, tanto è vero che nel corso dei secoli è cambiata e si trasforma ancora. Pensiamo a qualche sottolineatura. Fino al Concilio di Trento secondo la teologia si dava grande importanza alla vita monastica, alla vita religiosa consacrata. Il clero, infatti, non aveva molto peso e i vescovi erano generalmente legati ai vari principi regnanti. Dal Concilio di Trento al Concilio Vaticano II si è dato rilievo allo stato sacerdotale e dedicata particolare cura alla formazione del clero. Dal Vaticano II in poi la sottolineatura maggiore è per i laici, ai quali sono rivolte molte cure e che vengono chiamati a varie corresponsabilità.

 

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16/11/2012 20:41
 
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Capitolo 14

 

 

vv. 1-5. lettura

Notiamo l'incalzare delle visioni: dalla realtà terrena delle due bestie torniamo al cielo facendo tappa sul monte Sion che costituisce il cuore di Gerusalemme, il luogo sacro per eccellenza. Ciò significa che l'Agnello si trova in un contesto liturgico, nel massimo della sacralità possibile. E questo contesto è confermato dal suono delle arpe, dal canto che diventa "un cantico nuovo", misterioso a tal punto da essere compreso solo da centoquarantaquattromila persone.

Siamo davanti all'Agnello vittorioso, ritto sul monte Sion e circondato dai centoquarantaquattromila che "recavano sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo" (v.1). Costoro vengono descritti in modo più preciso nei vv. 4 e 5: "Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l'Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti fra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello. Non fu trovata menzogna sulla loro bocca; sono senza macchia.".

 

Alcuni interpreti ritengono che i centoquarantaquattromila siano coloro che hanno abbracciato lo stato di verginità (interpretazione letterale), quelli che fin dall'inizio della Chiesa sono vissuti in tale stato di vita. Sono i salvati, primizia di tutto il popolo di Dio.

Altri studiosi invece (interpretazione più valida), risalendo ai testi profetici che parlano dell'idolatria usando il termine prostituzione (vedere Osea), sostengono che ci troviamo di fronte al simbolo dell'idolatria. Quindi le donne indicate nel brano sono da intendere come prostitute, come simboli degli idoli.

Di conseguenza i centoquarantaquattromila sarebbero coloro che si sono mantenuti fedeli al Signore, che non hanno macchiato le loro vesti prostituendosi alle divinità, che non sono menzogneri - in senso biblico -. E' il caso di ricordare che essere menzogneri vuol dire l'opposto di essere puri di cuore, sinceri. E pura di cuore è la persona che ha accolto in sè il Signore e lo mostra all'esterno; sulla sua bocca non compare menzogna perché le parole pronunciate corrispondono alle idee, ai sentimenti. I puri di cuore sono coerenti. I farisei invece rappresentano l'ideale dell'ipocrisia e, quindi, della menzogna.

Il discepolo ideale resta fedele sempre al Signore, è puro e coerente, segue il suo Signore ovunque vada senza mai macchiare i suoi abiti.

Allora i centoquarantaquattromila sono gli unici che possono capire il cantico nuovo, ossia il cantico di lode all'Agnello vittorioso, quindi il cantico della resurrezione.

 

vv. 6 -13. lettura

"Gli angeli annunziano l'ora del giudizio."

Notiamo la parola "vangelo" ("buona novella"). E' l'unica volta che nell'Apocalisse compare questo termine.

"...un vangelo eterno..." viene proclamato da tre angeli e contiene:

a) un avvertimento;

b) un fatto (la buona notizia);

c) una minaccia.

In quanto "eterno" è immutabile e definitivo.

 

a) Leggiamo in proposito il libro della Sapienza 13, 1-9, che è parallelo a quanto scritto in Ap 14,7 cioè all'avvertimento (temere, adorare e dare gloria a Dio creatore del cielo e della terra).

La sapienza umana, con tutto il suo impegno di ricerca, può portare, perfino, ad adorare le creature al posto del creatore. Pensiamo al mito della scienza del giorno d'oggi, all'uomo che riesce a clonare un altro uomo. Le persone che sbagliano strada e bersaglio considerano la creatura come una divinità.

 

Proseguiamo la lettura del libro della Sapienza al cap.14, vv. 22-31 per conoscere le "conseguenze del culto idolatrico".

 

Questa tematica sapienziale è ripresa da S. Paolo nella Lettera ai Romani cap.1, vv. 18-32 ("I pagani oggetto dell'ira di Dio).

 

 

Capitolo 14 (continuazione)

 

 

Riprendiamo il Cap. 14, v. 6 in cui si parla del vangelo eterno che riguarda un avvertimento, un fatto, una minaccia. Mi riallaccio al punto a) della lezione precedente per dire che l'uomo colpito dal peccato non sa più riconoscere Dio e usa le creature come fine e non come mezzo per arrivare a Lui.

Per molte persone la creatura fondamentale è l'«io» in quanto si illudono di credere in Dio ma in realtà credono solo in se stessi. Quanto volte le creature prendono il posto del Creatore! In questo senso mi riferisco perfino ai sentimenti umani più alti, come possono essere l'amore per una persona, per gli stessi figli, per il proprio coniuge. Il nostro fine è il Signore: tutte le persone, quindi, fossero anche i nostri parenti più stretti, devono aiutarci a realizzarlo.

 

Tutto è relativo; Dio solo è assoluto.

Tutto passa e Dio solo resta (ricordiamo in proposito S. Teresa d'Avila). Passano la gioia e il dolore, passano le persone ma Dio resta sempre, per l'eternità. E' una certezza che ci consola.

Solo in un contesto come questo troviamo l'uomo autentico, quello che possiede una dimensione che lo porta a Dio. E stiamo ben attenti a non ridurre l'uomo alla sola dimensione materiale.

 

Il vangelo eterno che dobbiamo annunciare a tutti dice, prima di tutto, che noi siamo fatti per il Signore. Oggi questo discorso è abbastanza accettato, contrariamente a quanto avveniva qualche anno fa. Addirittura in passato la missione della Chiesa ad gentes era concepita puramente come promozione umana: aiutare l'uomo nei suoi bisogni materiali. E, allora, l'annuncio di Cristo avveniva in un secondo tempo, quando non era escluso a priori per non "violentare" la cultura, la tradizione, la religione di un altro popolo.

Stiamo attenti perché a volte ci comportiamo così anche noi. Se noi ci fermassimo alla promozione umana avremmo fatto la metà del lavoro.

Chi va in missione per portare Gesù Cristo evidentemente dovrà sostenere l'uomo anche da un punto di vista materiale ma dovrà soprattutto aiutarlo ad andare in Paradiso.

 

b) Il fatto - v. 8

Per leggere "il fatto" riandiamo a Geremia 51, 1-8 ("Il Signore contro Babilonia").

Tante volte ha ragione il libro del Qoèlet il quale sostiene che "...non c'è niente di nuovo sotto il sole." (1,9). Cambiano gli uomini, i regimi, le forme esteriori, ma il grande combattimento tra il bene e il male resta. E anche noi, oggi, ne siamo partecipi. "Oggi" è il cairós, il momento propizio, il tempo opportuno.

 

Inoltre appare utile leggere:

Isaia 13, 1-14 ("Oracolo contro Babilonia") e

Isaia 21 ("La caduta di Babilonia").

In Isaia 23, poi, la tematica diventa generale, per esempio attraverso l'Oracolo su Tiro.

Ci troviamo di fronte a un Dio che protegge il suo popolo e che, nonostante le apparenze, vince.

Allora, come abbiamo già visto, Babilonia è la città prostituta per eccellenza, che simboleggia Roma, la quale - secondo Tacito - era ricettacolo di tutte le nefandezze. Questa metropoli era vista a quei tempi da un lato come caput mundi e dall'altro come un luogo estremamente corrotto. Roma al culmine della sua potenza e della sua espansione territoriale, secondo l'Apocalisse, era già sconfitta. Giovanni è inesorabile: Roma-Babilonia è già caduta e non risorgerà più.

 

c) La minaccia. vv. 9-11

E' rappresentata da immagini bibliche: il fuoco, il vino, lo zolfo, il fumo. Il nostro brano ci rammenta subito l'episodio biblico della distruzione di Sodoma (Genesi 19). Al di là delle varie interpretazioni sull'evento che ne ha provocato la rovina, prendiamo atto che Sodoma, città peccatrice per antonomasia, è stata distrutta. E la minaccia, in Apocalisse, è proprio quella di provocare gli stessi guai a chi adora la bestia.

Non dobbiamo però interpretare in senso letterale le espressioni di Giovanni: "Chiunque adora la bestia...sarà torturato con fuoco e zolfo...", perché si tratta di immagini bibliche.

 

vv. 12-13 - lettura

Alla salvezza conducono la fede e le opere. "Qui appare la costanza dei santi, che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù." (v. 12). Sono beati, costoro, di una beatitudine che ci riporta al contesto della resurrezione: "....Beati d'ora in poi i morti che muoiono nel Signore... riposeranno dalle loro fatiche...".

"Riposeranno" va inteso nel senso che ci sarà per i santi il riposo dalla testimonianza faticosa (=martirio). Infatti essi raggiungeranno il premio perché non saranno più tormentati dal nemico che voleva costringerli ad abiurare. Da questo punto di vista i santi hanno finito di faticare.

 

vv. 14-20 - lettura

"La messe e la vendemmia delle nazioni.".

In queste visioni notiamo elementi agricoli: la mietitura e la vendemmia. La mietitura ci richiama la zizzania (Mt. 13) che sarà bruciata al momento del raccolto dopo la sua separazione dal grano. Si tratta di una parabola decisamente apocalittica nel senso che ci parla del giudizio divino.

 

Nel nostro brano è descritta la sorte beata di chi resta fedele a Dio e all'Agnello ed inoltre sono presentati tre quadri: il trionfo dell'Agnello, l'annuncio del vangelo eterno con la caduta di Babilonia e "la messe e la vendemmia delle nazioni".

 

v. 20 - "...per una distanza di duecento miglia.".

La traduzione letterale del testo greco è: milleseicento stadi, numero che rappresenta il prodotto di quaranta per quaranta. Conosciamo, ormai, la pregnanza simbolica di questo numero (i quarant'anni di Israele nel Sinai, i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto...) che ci richiama immediatamente un momento difficile e bello allo stesso tempo. Difficile, come camminare nel deserto e subire tutte le prove attraversate dal popolo d'Israele; bello perché Dio guida il suo popolo.Ugualmente per Gesù è difficile reggere il confronto con satana, ma bello affrontare la difficoltà che prelude alla vittoria.

 

Le interpretazioni del brano sulla messe e sulla vendemmia sono tre:

1) per alcuni interpreti siamo in presenza di due elementi negativi, cioè la messe costituita dai malvagi e i grappoli della vite che si identificano ugualmente con i malvagi. Siamo di fronte a un drastico giudizio di Dio che sta sterminando gli empi;

2) per altri la mietitura costituisce la salvezza per i giusti e la vendemmia il castigo per i malvagi, spremuti "nel grande tino dell'ira di Dio". Per comprendere questi versetti dovremmo tenere sullo sfondo Gioele 4, 9-21. Siamo in un contesto di giudizio e di salvezza: giudizio che suona come castigo per gli empi e come sostegno per i giusti. Dio salverà il suo popolo.

In questo brano di Gioele è presente anche la tematica del Tempio, di cui si parla all'inizio del nostro capitolo 14;

3) secondo altri studiosi si evidenziano due elementi positivi, ossia la mietitura che riguarda la raccolta dei giusti e la vendemmia che si riferisce alla sorte del popolo perseguitato.

Quel vino che esce dal tino dell'ira di Dio non è altro che il sangue dei martiri che grida vendetta al cospetto del Signore. Devono, quindi, essere puniti coloro che l'hanno sparso.

 

L'interpretazione più valida sembra essere la terza.

 

La seconda parte del nostro brano, quella che riguarda la vendemmia, sembra parlare chiaramente di gente ammazzata fuori della città ("Il tino fu pigiato fuori della città..." v. 20), luogo dove normalmente venivano uccisi i martiri e dove Gesù stesso è morto (il Calvario, infatti, era fuori dalla cinta muraria di Gerusalemme).

 

Ecco allora che, prima di arrivare alle grandi vicissitudini de "I sette flagelli delle sette coppe" (cap. 15), ci apriamo ancora alla speranza: il giudizio di Dio sarà di salvezza per tutti i giusti.

La messe è il campo pronto per ricevere l'annuncio della parola (vedere, ad esempio, Gv 4 in cui Gesù paragona i Samaritani alla messe).

 

 

Capitolo 15

 

vv. 1-4 - lettura

"...un altro segno grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli..." (i primi due segni apparsi erano la donna e il drago). La parola "segno" indica il momento finale della lotta.

 

In questi primi versetti notiamo diversi elementi interessanti. Ritorna il numero sette (gli angeli e i flagelli) nel v. 1, e al v. 2 troviamo un'immagine che anticipa la vittoria: "...coloro che avevano vinto la bestia...stavano ritti sul mare di cristallo." Costoro pertecipano già alla sorte dell'Agnello risorto e glorioso.

 

Al v. 3 si accenna al "cantico di Mosè".

In proposito leggiamo Esodo 15, 1-21, "Canto di vittoria" innalzato subito dopo il miracoloso passaggio del Mare dei Giunchi. E' interessante la domanda: "Chi è come te tra gli dei, Signore?" posta nel v. 11. Molti interpreti ritengono che gli ebrei siano arrivati gradualmente al monoteismo e che inizialmente credessero in varie divinità, la più importante delle quali era Jahwe. Si passò poi alla consapevolezza che esistesse un unico Dio, Jahwe, e che gli altri dei fossero un'invenzione dell'uomo.

 

Lettura di Deuteronomio 32, "Canto di Mosè dopo la liberazione dal nemico".

Mentre il "Canto di Mosè" in Es. 15 canta la liberazione dagli egiziani, qui si narrano le meraviglie compiute da Jahwe durante l'esodo, cioè durante il tragitto compiuto nel deserto.

Dio non si è limitato a liberare il popolo dalla schiavitù ma ha continuato a seguirlo amorevolmente con la sua Provvidenza.

Entrambi i cantici sono da tenere sullo sfondo per poter comprendere il cap. 15 dell'Apocalisse.

 

 

Capitolo 15 (continuazione) e Capitolo 16

 

 

Il breve cap. 15 ci dice che l'Agnello, cioè Gesù, è il vero Mosè e che la Pasqua dell'Agnello è il vero Esodo.

Nel brano della trasfigurazione, letto nella Messa della scorsa domenica, Luca (9,28-36) racconta che Gesù parlava con Mosè ed Elia della sua "dipartita" verso Gerusalemme.

Nel testo greco il termine usato è escodos, l'esodo, (e non "dipartita", quindi) perché la Pasqua viene colta con la sua precisa valenza di esodo, di passaggio, di cammino dal peccato alla grazia. Ricordiamo anche che in Gv 6,32 Gesù afferma: "...non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero..." e prosegue dicendo: "Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno..." (v. 51). Questo significa che Gesù realizza pienamente le promesse dall'Antico Testamento. Direbbero i Padri della Chiesa: ciò che lì era in figura, adesso è realizzato, diventa realtà.

La manna che aveva nutrito il popolo d'Israele era semplicemente un segno che andava compreso ben milleduecento-millequattrocento anni dopo. Era il segno del pane vero disceso dal cielo che "...è la mia carne per la vita del mondo." (Gv 6,51). Nell'opera giovannea torna spesso il paragone fra il Nuovo Testamento e l'Antico, soprattutto con personaggi cardine come Mosè, Abramo e Giacobbe.

Teniamo presente, allora, che l'Agnello, Gesù, porta a compimento quanto l'Antico Testamento aveva presentato in modo figurato.

Ci accorgeremo, adesso e in seguito, che il protagonista della vicenda è Dio con una conseguenza che la nostra sensibilità fatica ad accettare: vengono da Lui anche i flagelli che conosceremo leggendo i prossimi versetti.

 

Lettura cap. 15,5-8 e cap. 16.

La "Tenda della testimonianza" (15,5) ci riporta chiaramente all'esodo.

Notiamo che quanto scritto nei versetti 5-6-7 è presente a stralci nella Liturgia delle ore, soprattutto negli inni dei vespri.

 

 

Con il capitolo 16 inizia il terzo settenario, quello delle sette coppe, dopo gli altri già incontrati (i sette sigilli e le sette trombe).

 

Vediamo che al v. 15 il settenario viene interrotto in modo anomalo: "Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante...". Si tratta nella terza beatitudine contenuta nell'Apocalisse.

 

All'inizio abbiamo notato che dalla prima coppa vengono colpiti solo coloro "...che recavano il marchio della bestia e si prostravano davanti alla sua statua." (v. 2). Però già con la seconda coppa si parla della morte di "ogni essere vivente che si trovava nel mare.".(v. 3). Con le successive coppe il coinvolgimento degli esseri viventi è apparentemente totale. Non si distingue più tra buoni e malvagi.

 

Cap. 15 - vv. 5-8.

Innanzi tutto appare la centralità di Dio con la sottolineatura di vari luoghi sacri ("...il tempio che contiene la Tenda della Testimonianza...", denominata in Esodo "Tenda del convegno").

"...dal tempio uscirono i sette angeli che avevano i sette flagelli..."(v. 6): ciò significa che i flagelli vengono direttamente da Dio. Potremmo dire in proposito che la mentalità antica non attribuiva molta importanza alle cause secondarie in quanto faceva riferimento alla causa ultima che era il Signore.I sette angeli escono dal tempio e ricevono da uno dei quattro esseri viventi le sette coppe d'oro "colme dell'ira di Dio...". Il Signore ha perso la pazienza e sta entrando nel combattimento con tutta la sua potenza.

 

" Il tempio si riempì del fumo..." (v. 8a): è la classica immagine della teofania.

Appare significativa l'espressione "...nessuno poteva entrare nel tempio finché non avessero termine i sette flagelli dei sette angeli." (v. 8b).

Siamo ormai alla conclusione. Poi si potrà nuovamente accedere al tempio e arrivare alla piena comunione con il Signore.

 

Con i flagelli delle sette coppe sono riprese sostanzialmente alcune delle piaghe d'Egitto.

La prima coppa produce un effetto parziale in quanto la piaga "dolorosa e maligna" (che può essere una pestilenza) colpisce solo gli adoratori della bestia.

Anche la seconda coppa è indirizzata in particolare contro la bestia, perché ne colpisce il regno, il mare. Infatti, la bestia era uscita proprio dal mare. La potenza di Roma, che si identifica con la bestia, si fondava proprio sul dominio dei mari, conquistato dopo aver sconfitto Cartagine. Anche ai nostri giorni chi domina il mare ha la supremazia sulle altre nazioni e la vittoria.

La terza coppa venne versata nei fiumi e nelle sorgenti delle acque che diventarono sangue. Questo castigo ci richiama la piaga del Nilo e di tutte le altre acque d'Egitto trasformate in sangue.

 

Chi è l'angelo delle acque? (v. 5)

Al tempo della stesura dell'Apocalisse era diffusa l'opinione che gli angeli presiedessero ai vari elementi (come l'acqua, il fuoco, la terra, eccetera).

 

 

In questo brano (vv. 5-6 del cap. 16) l'angelo delle acque proclama l'inno alla giustizia divina. Ci troviamo così di fronte per la terza volta alla descrizione del giudizio di Dio (i sette sigilli, le sette trombe e le sette coppe), che è ternario. Questa continua ripresa dello stesso tema richiama le encicliche di Papa Giovanni Paolo II, che sono strutturate secondo il tipico modo ciclico di ragionare dei teologi orientali. E anche qui avviene la stessa cosa con la descrizione del giudizio

 

Nel v. 6 Dio ci viene presentato come il Dio del taglione:

"Essi hanno versato il sangue di santi e di profeti,

tu hai dato loro sangue da bere..."

Hanno versato il sangue; il loro sangue sarà versato. Questa è la giustizia retributiva in senso stretto, in base alla quale la pena viene commisurata al reato commesso. Tale giustizia è lodata dalla voce che viene dall'altare:

"Sì, Signore, Dio Onnipotente;

veri e giusti sono i tuoi giudizi!" (v. 7)

Dio ci provoca alla conversione, ad avere consapevolezza del male commesso e, di conseguenza, a pentirci e a convertirci.

Credo che da questo punto di vista l'Apocalisse abbia ragione: il nostro è un Dio che ad ogni costo vuole portarci in paradiso. Purtroppo gli uomini di cui si parla nel nostro brano, anziché convertirsi, bestemmiano il nome del Signore. Anche alcune persone che noi conosciamo si ribellano e muoiono disperate perché non riescono a trovare un senso alla loro sofferenza. Dio ci perseguita con la sua grazia. Queste brevi considerazioni non esauriscono certamente il discorso sulla sofferenza, che è complicato ed ha molte sfumature. Perciò vi rimando a uno stupendo documento del Papa, la Salvifici doloris, in cui veramente troviamo tutte le possibili risposte al problema della sofferenza.

 

v. 8 - rilettura

Entra in scena il quarto angelo (quarta coppa).

Il sole, che è una delle creature bellissime di Dio, appare quasi come una potenza malefica perché "...gli fu concesso il potere di bruciare gli uomini con il fuoco.". Il sole inverte il suo ruolo e da benefico diventa malefico. E' quasi un ribaltamento della creazione. Ci troviamo di fronte, anche nel v. 9, al tema della conversione: gli uomini, invece di ravvedersi per rendergli omaggio, bestemmiano Dio perché manda il flagello. In sostanza questa è gente che non guarda le cose con gli occhi della fede e non si chiede il motivo del flagello e neppure se non debba cambiare la propria vita. Si tratta di uomini sempre sicuri di sè, disposti persino a contraddire se stessi pur di non dare ragione agli altri. (In realtà sono persone insicure).

 

 

 

La quinta coppa arriva addirittura a colpire, con la piaga delle tenebre, la sede della bestia, il cui trono è in concorrenza con quello di Dio. Ma, anche qui, gli uomini che "...si mordevano la lingua per il dolore..." continuano a bestemmiare il Signore anziché pentirsi delle loro azioni.

 

Il sesto angelo, versando la coppa (sesta coppa) sul fiume Eufrate, lo prosciuga.

L'Eufrate costituiva il confine naturale dell'impero romano verso oriente ed impediva alle orde barbariche di sconfinare. Il prosciugamento delle sue acque sarebbe servito "...per preparare il passaggio ai re dell'oriente." (v. 12).

Comincia ora a delinearsi il grande scontro finale. Per la prima volta compaiono insieme il drago, la bestia e il falso profeta (v. 13). Adesso il potere delle tre forze malefiche (cioè del male e dei suoi due derivati) si riunisce.

Con l'immagine delle rane viene richiamata una delle piaghe d'Egitto. Teniamo presente che era allora diffusa la convinzione che le rane avessero una particolare predisposizione ad incarnare gli spiriti immondi.

 

Al v. 15 appare chiaramente un'interruzione ("Ecco, io vengo come un ladro...") che ci rimanda sia al Cap. 3 dell'Apocalisse sia a un brano di Luca (12,35 e 39-40) che si legge frequentemente nelle liturgie funebri: "Siate pronti con le cinture ai fianchi e le lucerne accese..." e "...se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell'uomo verrà nell'ora che non pensate." Il v. 15 ci vuole proprio invitare alla vigilanza: "Beato chi è vigilante...".

L'autore di queste parole non è né Giovanni né un angelo e neppure uno dei quattro vegliardi, ma Gesù stesso. Ed era dal Cap. 14 che il Cristo non parlava più. Ciò significa che dobbiamo prestare attenzione alle cose importanti, a ciò che "sta dietro" e non alle apparenze.

La vigilanza à tipica di colui che è sempre pronto all'incontro con Dio realtà eterna. Chi non vigila si fa attirare dalle realtà contingenti e dimentica spesso la realtà suprema (Dio) e la sua azione.

 

Proseguiamo la lettura del v. 15: "Beato chi è vigilante e conserva le sue vesti per non andare nudo e lasciar vedere le sue vergogne.".

In una precedente lezione avevamo parlato delle vesti candide lavate nel sangue dell'Agnello. Coloro che indossavano quelle vesti erano associati alla vittoria di Cristo. La veste simboleggiava proprio la fedeltà estrema, fino alla morte. Chi è vigilante è sempre fedele e non accetta compromessi con la realtà del mondo.

In una parabola del Vangelo di Matteo (22, 1-14) si insiste moltissimo sulla veste degli invitati al banchetto. Colui che è privo della veste nuziale viene gettato "...fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.". Indossare la veste significa esse pronti per la grande festa del regno dei cieli.

 

v. 16

Armaghedòn. Si tratta, per la verità, di una parola composta che non esiste nella lingua ebraica. Tra l'altro, è il secondo termine ebraico citato nell'Apocalisse (il primo si trova al Cap. 9,11: "Perdizione").

Scomponiamo Armaghedòn in due parti. "Ar" significa "monte" mentre "maghedòn" potrebbe essere una forma diversa o dialettale di "Megghido". Secondo questa ipotesi, il significato del termine sarebbe: "monte di Megghido".

Megghido era una città che dava il nome a una pianura, era situata al centro delle vie di comunicazione del territorio cananeo e aveva perciò grande importanza strategica. Di conseguenza era contesa dai vari re e veniva considerata la città della guerra per eccellenza. In particolare, Megghido era nota per un famoso episodio della storia d'Israele: la sconfitta e la morte di Giosia, un re giusto e pio, autore della riforma deuteronomica. Costui venne sconfitto perché commise l'errore di cercare di fermare il faraone Necao che si recava con il suo esercito a combattere contro i babilonesi.

Dopo quell'episodio, Megghido divenne il luogo simbolo dell'oppressione di Israele, ma anche dei tentativi di questo popolo di affrancarsi; luogo di scontro tra le forze demoniache che animavano gli egiziani e le forze del bene che sostenevano gli israeliti e che nella battaglia citata vennero sconfitte.

 

Capitolo 16 (continuazione)

 

Suggerisco di rileggere, ovviamente in chiave sapienziale, le descrizioni delle piaghe d'Egitto e degli avvenimenti più importanti dell'esodo in Sapienza, 15-16-17-18-19.

Lettura, come saggio, di Sap. 18, 5-19. Vi troviamo una rilettura dell'episodio della morte degli innocenti.

Teniamo presente che il libro della Sapienza è il più recente dell'Antico Testamento essendo stato scritto pochi decenni prima della venuta di Gesù (e non accettato dal Canone ebraico perché scritto in greco) ed è quello in cui chiaramente appare l'idea della resurrezione. Per questo motivo alcune letture della liturgia dei funerali sono tratte proprio dalla Sapienza.

 

Sono particolarmente importanti i vv. 14 e 15 del brano appena letto per capire il perché della celebrazione a mezzanotte della Messa di Natale:

"Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose,

e la notte era a metà del suo corso,

la tua parola onnipotente dal cielo,

dal tuo trono regale, guerriero implacabile,

si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio...".

Nel Prologo di Giovanni leggiamo che il logos,""il Verbo si fece carne". Il momento dell'incarnazione di Gesù dalla liturgia è stato stabilito in base al nostro v. 15. Allora, c'è un tempo preciso in cui la Parola diventa carne, si manifesta visibilmente? Sì, quando "la notte era alla metà del suo corso" (anticamente la notte iniziava alle sei di sera e terminava alle ore sei del mattino: quindi la mezzanotte ne era il momento centrale).

Ecco perché a Natale si celebra la Messa di Mezzanotte che, peraltro, è meno importante della veglia pasquale che rappresenta la "celebrazione madre" di tutte le celebrazioni dell'anno liturgico.

Comprendiamo, allora, che i capitoli citati del libro della Sapienza consentono una rilettura storica, cioè applicata ai fatti odierni, delle difficoltà, delle vicende di quei tempi. Rileggiamo, dunque, il passato per cogliere il significato dell'oggi.

 

Armaghedon- Al riguardo leggiamo:

a) 2 Re 9, 22-26 "Assassinio di Joram"

b) 2 Re 9, 27-28 "Assassinio di Acazia"

Come sappiamo, un re riceveva l'investitura in quanto inviato di Dio. Il Signore conferiva il potere e poteva toglierlo quando il sovrano si fosse dimostrato peccatore e, perciò, indegno. E non sempre Dio aspettava la morte di un re per ungerne un altro (vedasi il caso di Davide, unto da Samuele quando era ancora ragazzo, prima della morte del re Saul).

Nel secondo brano abbiamo notizia della morte di Acazia, re di Giuda, a Meghiddo.

c) Leggiamo ora: 2 Re 23, 29-30 "Fine del regno di Giosia". Vi si descrive la morte di Giosia che per una valutazione politica errata attaccò il faraone Necao a Meghiddo, dove venne ucciso in combattimento.

d) Altri riferimenti a Meghiddo in:

Giudici 5

Zaccaria 12.

 

Abbiamo già visto che Ar-Maghedon significherebbe "morte a Meghiddo". Ma Meghiddo è una località situata in pianura e nodo stradale di importanza strategica. Probabilmente Giovanni vuole mettere in relazione questo monte con il monte Sion dove si erano radunati i centoquarantaquattromila. In seguito vedremo la contrapposizione fra due città: Roma, la prostituta, e Gerusalemme, la città santa.

E gli ultimi capitoli dell'Apocalisse sono costruiti proprio sulla contrapposizione fra una realtà malefica e una benefica.

Allora Meghiddo, luogo dello scontro in cui le potenze infernali daranno il meglio di sè, diventa come un contraltare al monte Sion dove invece sono radunate le potenze dei vittoriosi (i centoquarantaquattromila).

 

Ap. 16, 17-21 - lettura (la settima coppa)

In questi versetti vengono ripresi diversi elementi della visione inaugurale descritta nel cap. 4. Innanzi tutto notiamo che quanto annunciato nel cap. 4 ora è compiuto.

La teofania (manifestazione di Dio) è sostanzialmente uguale nei nostri due capitoli.

 

In questo brano Giovanni annuncia qualche cosa che è già avvenuto ("E' fatto!" v. 17) e che descriverà nei capitoli successivi. Per ora l'autore crea un'atmosfera di attesa: "Dio si ricordò di Babilonia la grande per darle da bere la coppa di vino della sua ira ardente" (v. 19b). Notiamo che il flagello terribile è proporzionato alla città: Babilonia la grande merita un grande flagello.

 

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16/11/2012 20:42
 
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Capitolo 17

 

vv. 1-18

Lettura di uno dei brani più intricati dell'Apocalisse. Saranno utili alcune annotazioni introduttive tenendo già presente il successivo capitolo 18.

I capitoli 17 e 18 introducono alla conoscenza delle differenze fra le due note città, Gerusalemme e Roma. Una è la sposa dell'Agnello e l'altra è colei che combatte l'Agnello e i suoi santi. I nostri due capitoli hanno molti elementi comuni ma si differenziano per il genere letterario. Infatti il primo parla di una visione mentre il secondo costituisce quasi un canto funebre.

 

Ci accorgiamo facilmente della presenza di un crescendo che va in senso contrario all'ordine di apparizione di alcuni personaggi (il dragone; comparso per primo, poi le due bestie e, infine, la prostituta). Infatti vengono eliminati, uno alla volta, in senso inverso alla loro presentazione, prima la prostituta, poi le due bestie e per ultimo il dragone.

 

Il tema centrale di questo e dei successivi capitoli (almeno fino al cap. 20) sarà il giudizio di Dio che adesso si sta realizzando e che costituisce lo sviluppo di quanto letto sulla settima coppa.

 

La visione pone al centro la donna, mentre la spiegazione si sofferma soprattutto sulla bestia e sulle sue corna per poi riprendere alla fine del capitolo, quasi in un versetto sintetico,: "La donna che hai vista simboleggia la città grande che regna su tutti i re della terra" (v. 18).

Notiamo anche la rapidità dei passaggi e la sovrapposizione delle immagini (come, ad esempio, nel v. 11).

 

Cominciamo ad analizzare il primo simbolo: la prostituta.

Abbiamo già incontrato nella lettura dell'Apocalisse personaggi femminili come la donna con la luna sotto i piedi che dava alla luce un bambino poi sottratto al drago. Ebbene, questa donna è esattamente l'antitesi della prostituta potente che rappresenta Roma con i sette colli. Però gli occhi della fede ci aiutano a vedere la realtà nella giusta dimensione. La dea madre Roma, venerata e temuta, simbolo dell'unità dell'impero, in realtà - se guardata con gli occhi della fede - non è altro che una prostituta, madre sì ma di tutte le prostitute. Lo afferma già il titolo del cap. 17.

Come cristiani dobbiamo preoccuparci di leggere tutte le realtà autenticamente, tenendo presente che quanto non promuove Dio e l'uomo è da condannare. Nella prostituta, ad esempio, l'apparenza nasconde una realtà immorale. E questo è proprio il quadro di Roma a quell'epoca, con tutti i segni della decadenza che poi arriveranno a maturazione. E' un'immagine biblica quella della città corrotta per eccellenza e riguarda varie città, come ad esempio Tiro, di cui si parla in Isaia 23, e Ninive della quale scrive il profeta Naum in 3, 1-7 (lettura). In quest'ultimo brano è presente il paragone fra Ninive e la prostituta. Nello stesso capitolo si parla di Tebe, città che rappresenta l'Egitto, nemico storico di Israele.

La realtà della prostituta è applicata alla stessa Gerusalemme in Geremia 3 e in Ezechiele 23.

 

La prostituta, Roma, siede "sopra una bestia scarlatta" (17,3) ma non per dominarla bensì per essere usata come suo strumento. La città, infatti, è strumento della bestia; è al suo servizio.

Un secondo simbolo è costituito evidentemente dalla bestia che nei capitoli 17 e 18 dà unità a tutti gli altri simboli. Infatti è nominata ben otto volte. E notiamo che da lei dipendono sia la donna sia i re.

La bestia ci è presentata in una sorta di "parodia". Al v. 8 è scritto: "...era ma non è più, salirà dall'Abisso ma per andare in perdizione.". E ritroviamo quasi le medesime parole nello stesso versetto 8 e nel successivo v. 11. Si tratta esattamente del cammino opposto a quello percorso dall'Agnello, che sembrava sconfitto ed è vittorioso, che è morto ma è risorto. Infatti la bestia non risorgerà ma andrà in perdizione.

 

Alcune ipotesi sull'identità dei re.

I dieci re dovrebbero essere i sovrani alleati di Roma, i quali alla fine, secondo il disegno divino, si ribelleranno e faranno scempio della prostituta (vv. 16-17).

In particolare,

1) per alcuni studiosi vale un'interpretazione in senso storico, secondo la quale si tratterebbe dei primi imperatori fino a Vespasiano; sarebbero esclusi dal numero i tre sovrani che sono durati pochi mesi. L'ottavo imperatore sarebbe Tito, che ha regnato soltanto per due anni. Per sostenere questa ipotesi dovremmo ammettere che Giovanni, anche se ha scritto l'Apocalisse al tempo di Domiziano, fingesse di scrivere durante l'impero di Vespasiano;

2) per altri i sette re non dovrebbero essere intesi come tali, ma sarebbero i famosi sette tempi dei quali parlava la letteratura orientale dell'epoca, legati ognuno a un pianeta. Alla conclusione di questi tempi sarebbe iniziato l'ottavo, il tempo finale, quello dell'età dell'oro. Sarebbe come sostenere che con lo scontro finale sia iniziato l'ottavo tempo;

3) per altri interpreti ancora si pone il problema di conciliare l'ottavo re, che è anche uno dei sette, con la bestia. L'ottavo re sarebbe allora Diocleziano, talmente feroce da essere considerato, secondo l'opinione comune del popolo di Roma, reincarnazione di Nerone che era uno dei sette.

 

A questo punto dobbiamo convenire che stiamo leggendo uno dei passi più oscuri dell'Apocalissi. Aggiungo solo che la prostituta, che sembrava così potente e venerata, in realtà è un semplice strumento dei disegno di Dio. E gli altri strumenti, cioè i re e la bestia, alla fine "...la spoglieranno e la lasceranno nuda, ne mangeranno le carni e la bruceranno col fuoco" (17,16b). Qui si legge proprio la storia di Roma imperiale e di tanti altri imperi. Potremmo dire con una frase ad effetto: il sistema divora se stesso.

Teniamo comunque presente che questa pagina è la rivelazione del mistero, cioè del piano di Dio che si compie. Inoltre ricordiamoci che non esiste una esaltazione di Dio separata dall'esaltazione dell'uomo. Quando l'esaltazione del Signore è fine a se stessa e opprime l'uomo siamo di fronte a un altro caso di bestia, anche se ammantato di belle parole. Stiamo quindi attenti a giudicare anche i fatti di Chiesa con gli occhi della fede, come ci suggerisce l'Apocalisse. E il Papa ce lo sta insegnando anche con il recente documento sulla Shoah..

XXIII LEZIONE

 

Capitolo 17 (continuazione)

 

Ricordiamo che i capitoli 17 e 18 sono da leggere di seguito in quanto descrivono la vittoria dell'Agnello, del Cristo, sulla prostituta (Babilonia-Roma), sulle due bestie (impero romano e la sua forma propagandistico-religiosa) e, per ultimo, sul dragone.

Abbiamo già evidenziato che questa vittoria avviene nei confronti di personaggi che nel corso del racconto erano comparsi in modo inverso (prima il dragone, poi le due bestie e, infine, la prostituta), quasi a dire che l'azione salvifica inizia da ciò che appare per scendere sempre più in profondità.

 

Capitolo 18

 

vv. 1-24 - lettura

E' un capitolo lungo, composito, ma abbastanza semplice nella sua struttura.

Siamo di fronte a una serie di giudizi non più parziali, ma definitivi: è la resa dei conti.

Rammentiamo che nel cap. 14 abbiamo incontrato al v. 6 la parola "vangelo" (che in greco significa "buona novella") e che al v. 8 si parla della caduta di Babilonia. Ecco, nel cap. 18 "la buona novella", cioè il vangelo, è realizzata.

Nel nostro capitolo la caduta di Babilonia viene descritta attraverso le reazioni all'avvenimento. Infatti sono diverse le voci che ci danno un'immagine, un'opinione sulla distruzione della grande città. Si tratta di personaggi celesti e di personaggi terreni. Ciò significa che l'avvenimento non coinvolge solo la terra - e non ha, quindi, soltanto una dimensione superficiale - e perciò esige una lettura diversa e più profonda: la lettura celeste.

 

Notiamo come siano mischiati i tempi dei verbi (presente, passato, futuro), resi abbastanza correttamente nella versione italiana. Fatti che sembrano già avvenuti, perché definiti al passato ("E' caduta, è caduta Babilonia la grande..." v. 2), li troviamo poi in una prospettiva futura. Ciò è tipico della letteratura profetica che entra nella profondità di Dio per il quale non esiste il tempo. Dio è eterno e, quindi, al di fuori del tempo. Dio è l'eterno presente, passato e futuro. Ecco spiegati tutti i cambiamenti dei tempi verbali; un avvenimento è già passato e succederà.

Quale esperienza noi viviamo che esige la collocazione in questa mentalità? L'esperienza della Messa, dell'Eucarestia. Infatti il "memoriale" riunisce in sè tre caratteristiche, il passato, il presente e il futuro, che non si distinguono più in quanto si fondono in un'unica celebrazione.

 

Il cap. 18, come tutti gli altri dell'Apocalisse, ha un notevole sfondo vetero-testamentario. In particolare rieccheggiano qui i capp. 26 e 27 di Ezechiele, nei quali si parla della maledizione e della distruzione di Tiro, e il cap. 51 ("Il Signore contro Babilonia") di Geremia con una sottolineatura per i vv. 6 e 45.

Ritengo utile anche considerare Isaia 48, vv. 20-22 ("La fine dell'esilio"). In questo brano è molto evidente una rilettura dell'esodo. La situazione dell'esilio e di Babilonia viene illuminata da quella dell'esodo e dell'Egitto che gli ebrei avevano vissuto alcuni secoli prima.

Ecco, questo è il "memoriale": un passato che diventa presente e sarà futuro. E questo è il continuo cammino del popolo di Dio.

I profeti erano uomini di Dio che sapevano scrutare la realtà leggendola alla luce dell'esperienza che il Signore aveva imposto al popolo e, quindi, alla luce della sua fedeltà amorosa (vedere i Salmi). Anche noi dovremmo essere, come i profeti, uomini di conversione e di speranza in quanto testimoni della grandezza che Dio ha operato.

Anche nell'episodio della distruzione di Sodoma e Gomorra narrato in Genesi 19, vv. 1-26 (lettura) è presente il tema del fuoco e dei giusti che se ne devono andare dalla città non solo in senso fisico, ma anche in senso morale.

 

In fondo il nostro capitolo appare come una raccolta di testi profetici su diverse città (Tiro, Sidone;, Babilonia, ecc.); testi che condannano l'idolatria come rifiuto di Dio e come esaltazione, invece, di tutto ciò che è materiale e che induce alla presunzione. Le ricchezze materiali, infatti, portano alla presunzione di potersi salvare senza Dio. Allora l'idolatria non è semplicemente credere in altre divinità, ma è anche il fare assurgere a divinità delle cose materiali. Inoltre Roma, in questo caso, non è solo vista come città idolatra, ma addirittura come centro di irradiazione dell'idolatria stessa.

"...tutte le nazioni dalle tue malie furon sedotte." (18,23). L'idolatria non è solo un peccato personale, ma un peccato che contagia. Ciò appare vero anche oggi. Constatiamo quanto il consumismo e la ricchezza materiale attraggano i paesi poveri. Viene allora da chiedersi: che valori proponiamo noi a questi paesi?

 

Notiamo la terribile frase del v. 13 in cui si parla di tutti i "beni" che arrivano a Babilonia. Com'è attuale l'ultima parte di questo versetto "...schiavi e vite umane"!

Sono le migliaia di prostitute straniere che vivono in Italia, le migliaia di persone che, sempre nel nostro Paese, svolgono lavoro in nero, le migliaia di donne italiane ancora sfruttate anche nel lavoro.

Noi cristiani non possiamo restare indifferenti di fronte a queste situazioni.

 

Per chi la valuta in termini materialistici e mercantili, la caduta di Babilonia rappresenta una grande perdita. I mercanti, i naviganti, i re della terra hanno perso tutto e, non avendo più benefici, "...se ne stanno a distanza..." (v. 17)

 

Questo capitolo ci insegna che non dobbiamo fondare i rapporti umani sull'interesse. E' bene valutare ciò che ci circonda con gli occhi della fede. Dobbiamo evitare uno sviluppo fondato solo sull'economia e sul profitto.

 

Per coloro che hanno fede la sciagura che colpisce Babilonia diventa un fatto molto importante, perché è morta non una città che procurava profitto ai mercanti, bensì una città che condannava i santi e i profeti e li uccideva, e che commerciava in schiavi e in vite umane. Ricordiamo che a quell'epoca gli schiavi erano ancora considerati delle "cose" (anche per Giovanni). Vi invito a rileggere la breve "Lettera a Filemone" di Paolo sul trattamento da riservare allo schiavo Onesimo.

 

"Uscite, popolo mio, da Babilonia

per non associarvi ai suoi peccati

e non ricevere parte dei suoi flagelli" (v. 4)

L'appello pressante rivolto al popolo non riguarda unicamente un'uscita fisica dalla città, ma rappresenta anche un invito a non associarsi ai peccati, a non lasciarsi contaminare. Significa essere "nel" mondo e non "del" mondo. I cristiani, cioè, devono distinguersi per il loro modo di essere e di agire. A questo punto riscopriamo il nostro essere profeti di denuncia del peccato, di quelle che il Papa chiama le "strutture del peccato". E l'uscita morale dal mondo del peccato costituisce l'inizio del commino di salvezza per il popolo che diventa nel mondo il centro di irradiazione della salvezza. Ecco la funzione della Chiesa: portare nel mondo la salvezza cercando di non contaminarsi.

 

Nel brano che stiamo considerando viene applicata alla lettera la giustizia giudaica:

"Pagatela con la sua stessa moneta,

retribuitele il doppio dei suoi misfatti" (v. 6).

Nel cap. 18 ci troviamo di fronte ad una concezione veramente vetero-testamentaria della giustizia. E' interessante rileggere in proposito Esodo 22, ed in particolare i vv. 6-8, per vedere come fosse normale per la legislazione giudaica l'obbligo della restituzione del doppio di quanto sottratto con un furto.

Un superamento di tale norma si ha con Zaccheo (Lc. 19) il quale è disposto a restituire il quadruplo di quanto frodato al prossimo. Con l'entrata in scena di Gesù il dovere viene superato dall'amore.

Allora, possiamo concludere affermando che Babilonia si è autogiudicata. Con il suo comportamento, con la sua idolatria, ha espresso il giudizio su di sé: è condannata. Ma anche noi non abbiamo bisogno di essere condannati dal Signore; siamo noi stessi che ci condanniamo perché Dio ci ha offerto quanto è necessario per arrivare in paradiso.

vv. 21-24 - lettura.

Sono versetti che contengono la rivelazione di un "angelo possente", il quale prende una mola e la getta nel mare. E' un gesto simbolico che richiama Geremia 51, 60-64 (lettura). Si tratta di un segno di morte. Infatti sappiamo che il Deuteronomio proibiva di sottrarre al debitore la mola con cui veniva macinato il grano perché da quella pietra dipendeva la vita di una famiglia. Gettare la mola significava, quindi, dichiarare di voler morire.

 

Cominciamo, poi, a notare sullo sfondo un argomento che sarà sviluppato nei capitoli successivi e al quale si era già accennato nel cap. 14, là dove si parla delle musiche che si udivano a Gerusalemme. Ebbene, in questa città

"La voce degli arpisti e dei musici,

dei flautisti e dei suonatori di tromba,

non si udrà più in te..." (v. 22)

sono immagini della desolazione.

Vedremo come tale situazione contrasterà con la grande gioia di Gerusalemme.

 

Capitolo 19

 

vv. 1-10 - lettura

I capitoli 17 e 18 trattano della caduta di Babilonia; i capitoli 19 e 20 riguardano la vittoria totale di Cristo e i capitoli 21 e 22 l'esaltazione di Gerusalemme.

L'inno iniziale del nostro capitolo viene ripreso in parte dalla "Liturgia delle Ore", nei vespri della domenica sera. E' bello ricordare la salvezza che ci aspetta!

Il cap.19 è l'unico brano del Nuovo Testamento in cui compare la parola "alleluia", che viene tratta dall'ultima sezione dei Salmi. Precisamente nei salmi dal 107 al 150 è diffuso il termine "alleluia" che significa "Lodate Jahwe". E' qui evidente, comunque, uno sfondo vetero-testamentario perché Giovanni utilizza la lode tipica dell'ebraismo (salmi alleluiatici) applicandola alla vittoria di Cristo.

 

Questa lode viene affidata a tre voci diverse.

La prima voce è quella di una "folla immensa nel cielo" (che ha due aspetti in quanto prima dice una cosa e poi un'altra); la seconda è quella dei ventiquattro vegliardi e dei quattro esseri viventi i quali semplicemente pongono un sigillo ("Amen, Alleluia"); infine la terza è la voce che esce dal trono. Quindi, abbiamo tre momenti e tre protagonisti diversi della nostre lode. Potremmo affermare che qui appare un insieme di celeste e di terreno:

"Lodate il nostro Dio,

voi tutti, suoi servi,

voi che lo temete,

piccoli e grandi!" (v. 5).

Concludiamo la lezione osservando che è presente in questo brano la "comunione dei Santi", ossia sono presenti la Chiesa militante e la Chiesta trionfante, che sono due facce della stessa medaglia, potremmo dire due momenti della medesima esistenza: la vita terrena e la vita dell'aldilà.

 

 

Capitolo 19 (continuazione)

 

 

Ricapitoliamo quanto detto verso la fine della lezione precedente: motivo della lode sono il regno del Signore, le nozze dell'Agnello e le opere buone dei santi. Nel nostro brano appare quindi secondario il tema della distruzione di Babilonia.

Ricordiamo che a un certo punto della storia biblica si inizia a rappresentare come sponsale il rapporto tra il Signore e il suo popolo. Dio sposa il suo popolo e il suo popolo sposa Dio.

A questo riguardo teniamo presenti innanzi tutto:

1) Osea 1, 2, 3;

2) Isaia 62, 1-5;

3) Cantico dei Cantici;

4) Giovanni 2 ("Le nozze di Cana") nel quale è presente il tema tipicamente giovanneo della "sponsalità" con quel Dio che sposa il suo popolo. Nell'episodio specifico delle nozze di Cana la sposa mancante è rappresentata da Maria, immagine della Chiesa;

5) Paolo "Lettera agli Efesini" 5, 21-34.

 

v. 9 - rilettura

Ecco la quarta beatitudine dell'Apocalisse: "Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell'Agnello!" che riprende il tema della convivialità sponsale (vedere Ap. 3,20). Osserviamo qui una notazione già eucaristica.

 

Leggiamo ora in Matteo 22,1-14 "La parabola del banchetto nuziale" che si inserisce, come del resto la beatitudine dell'Apocalisse appena citata, in quel contesto di convivialità che i profeti presentavano come la migliore raffigurazione del paradiso. Se riandiamo all'episodio corrispondente del Vangelo di Luca, notiamo come gli evangelisti, presentando il tema del banchetto messianico, insistano molto sull'esclusione dal banchetto stesso. E ciò che sembra contare maggiormente in tale contesto è l'abito nuziale.

Dagli evangelisti, quindi, viene sottolineato il rischio dell'esclusione dal convito e la possibilità di finire come coloro che per primi avevano rifiutato di parteciparvi.

 

Nella quarta beatitudine compare un certo universalismo; però dal contesto del libro sappiamo che gli invitati al banchetto sono coloro che hanno saputo essere fedeli. Questa è la logica del paradiso e dell'inferno. Allora, secondo la conclusione della parabola richiamata (Mt. 22,14) "...molti sono i chiamati ma pochi gli eletti".

Noi potremmo aggiungere che l'umanità intera è chiamata al banchetto messianico, ma spetterà ai singoli la decisione di accogliere o meno l'invito. Se la partecipazione a tale banchetto appare segno di gioia e di comunione con Dio, viene spontaneo pensare che la situazione contraria sia invece indice di infelicità e di lontananza dal Signore. E chi è lontano dal convito si troverà dove "è pianto e stridor di denti" (Mt. 22,13).

 

vv. 11-21 - lettura

(L'ultimo versetto ci richiama lo scenario successivo a una battaglia dell'antichità).

Prima avevano incontrato "una porta del cielo"; adesso il cielo è "aperto" perché siamo nell'imminenza della manifestazione gloriosa di Cristo.

 

Nei versetti ora letti troviamo una grande concentrazione di titoli cristologici che possono aiutarci per la così detta "Preghiera del nome": Gesù, sei il fedele; Gesù, sei il verace...

 

Risulta molto importante il versetto 12b:"...porta scritto un nome che nessuno conosce all'infuori di lui.". Giovanni ci dice che il mistero di Cristo non è mai completamente percepito e che neppure la S. Scrittura può esaurirlo. Si tratta di un mistero che certamente nemmeno noi riusciamo a penetrare in profondità. Solo nell'aldilà potremo fare dei progressi seri in questo senso. Però, sulla terra, noi possiamo comunque avere diversi gradi di conoscenza del mistero di Cristo legati allo studio, che risulterebbe sterile (e rimarrebbe un fatto puramente culturale) se non alimentasse la preghiera e se non fosse a sua volta alimentato dalla stessa preghiera vissuta intensamente.

 

Nel nostro brano Cristo ha una bella caratteristica costituita dalla "spada che usciva dalla bocca" (v. 15). Nei precedenti capitoli abbiamo già esaminato questo simbolo: la parola di Dio è come una spada a doppio taglio e con essa sono colpite le genti. Però la vittoria riportata da Cristo sulla bestia e sul falso profeta (v. 20) non ha natura militare perché il cristianesimo non si impone con la forza ma testimonia il trionfo della parola di Dio.

Vediamo che Giovanni si sofferma soprattutto sull'esito del combattimento (vv. 19-20) e non prende in grande considerazione le scene dell'Apocalisse giudaica del tempo.

Soffermiamoci sul versetto finale (v. 21): "Tutti gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del Cavaliere...". Capiamo facilmente che si tratta di una morte morale. Allora questo Cristo con il mantello "intriso di sangue" (v. 13) è morto ma "ha sul suo capo numerosi diademi" (v. 12) e uno "scettro di ferro" (salmo 2,9). Il Cristo glorioso e risorto che governa il mondo combatte con la sua Parola è il Verbo di Dio (ripresa del Prologo del Vangelo di Giovanni).

 

Ritengo utile ora riflettere sull'importanza dell'annuncio: Gesù si propone al mondo attraverso le nostre parole. Infatti tutti noi battezzati e cresimati dovremmo essere profeti-missionari ed annunciare il Vangelo ogni volta che possiamo. Di conseguenza dobbiamo impegnarci a migliorare la qualità della nostra presenza missionaria nel mondo.

A proposito del banchetto con carni umane (v. 21) dobbiamo tener presente Ezechiele 39, 17-20.

 

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16/11/2012 20:43
 
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Capitolo 20

 

 

vv. 1-15 - lettura

Si tratta di un capitolo difficile e contorto ed è uno di quelli che più hanno avuto successo anche in senso negativo.

Il simbolismo dei mille anni risulta di difficile spiegazione. Nel corso dei secoli sono state date essenzialmente due interpretazioni: una letterale e l'altra simbolica.

Interpretazione letterale è, ad esempio, quella dei Testimoni di Geova secondo i quali avverrà una prima resurrezione (v. 5); in seguito ci sarà una seconda possibilità. Chi non diverrà Testimone di Geova prima della seconda resurrezione morirà in eterno.

Per l'interpretazione letterale sono evidenti le difficoltà circa la decorrenza dei mille anni: il conteggio inizia dalla nascita o dalla morte di Cristo, oppure dalla data dei fatti che vengono descritti nell'Apocalisse?

 

Una spiegazione simbolica, ma in senso terreno, venne fornita da S.Agostino, per il quale i mille anni costituivano il tempo di durata della Chiesa sulla terra dalla risurrezione di Gesù al suo ritorno finale.

Secondo altre interpretazioni simboliche, ma in senso totalmente celeste, i mille anni indicherebbero un tempo di massima, un modo per dire che il regno di Cristo si realizzerà certamente nell'escatologia e non sulla terra. Di conseguenza noi regneremo con Lui nell'eternità.

 

Questo capitolo ci offre una serie di visioni introdotte da "vidi" (vv. 1 e 4, ad esempio). All'inizio ci viene presentato un angelo più potente dei precedenti il quale "afferrò il dragone, il serpente antico - cioè il diavolo, satana - e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell'abisso...".(v. 2).

Rieccheggia qui il cap. 12 del Vangelo di Giovanni in cui si parla della glorificazione di Gesù attraverso la morte (vv. 20-33). Ora, nell'Apocalisse, si realizza la grande vittoria con la cacciata del principe di questo mondo. Allora il cap. 20 non può essere che un brano che tiene sullo sfondo il trionfo di Cristo.

Un dato è certo: Gesù Cristo vince il dragone e l'ultimo nemico a venire gettato "nello stagno di fuoco" (v. 14) è la morte. Quindi la vittoria divina è totale. In ogni caso il dragone soggiace alla volontà e al progetto del Signore.

 

 

 

"Dopo questi dovrà essere sciolto per un po' di tempo." (v. 3b).

Al riguardo ricordiamo quanto detto commentando il Vangelo di Luca: "dovrà", "deve" sono forme verbali (da greco dein) che indicano il progetto divino. Quel "dovrà" significa che proprio Dio ha stabilito che il dragone verrà "sciolto per un po' di tempo". Di conseguenza non meravigliamoci quando sembra che il male sia all'opera nel mondo. Si tratta del diavolo libero di operare per qualche tempo.

 

Accenniamo ora ad una interpretazione tolta dall'Apocalittica giudaica (e poi ripresa, ad esempio, dai gruppi avventisti di matrice protestante) la quale, partendo dalla Genesi - in cui è scritto che il Signore ha creato il mondo in sei giorni e il settimo giorno si è riposato - e da un salmo che recita "un giorno per te è come mille anni", sostiene che un giorno di Dio varrebbe mille anni dei nostri.

Di conseguenza i sei giorni della creazione sarebbero durati seimila anni e il settimo millennio (che corrisponde al settimo giorno) costituirebbe i mille anni del Regno di Dio.

Si tratta evidentemente di calcoli assurdi.

Anche nella chiesa cattolica, soprattutto ad opera di cristiani bollati poi come eretici, è sempre stata presente la tendenza al millenarismo (ricordiamo, ad esempio, nel medioevo, Gioachino da Fiore).

 

v. 4 - Qui si parla del regno dei giusti, cioè dei martiri e di coloro che non si sono fatti segnare con il marchio della bestia. Costoro sono associati alla risurrezione di Cristo. Ciò vuol dire che la vittoria sul male operata da Gesù coinvolge tutti i giusti e che anche le nostre opere buone contribuiscono, nel loro piccolo, ad eliminare il male nel mondo. Quando nella Messa proclamiamo: "Ecco l'Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo...", anziché "i peccati" sarebbe forse meglio dire "il peccato" perché Cristo ha sconfitto il Peccato. Sta a noi, invece, eliminare ogni giorno i peccati piccoli e grandi che commettiamo. In tal modo entriamo nella dinamica delle resurrezione.

Satana, anche se liberato, contribuisce alla sconfitta finale di tutti i nemici di Dio, perché li raduna facilitando, di conseguenza, il compito divino.

E nei vv. 9 e 10 si parla proprio della vittoria del Signore.

 

Concludo con una bella immagine di Teresa d'Avila, vissuta all'epoca della Riforma protestante. La santa sosteneva che la Chiesa fosse assediata dai nemici e che i monasteri delle suore di clausura costituivano delle piccole fortezze nelle quali venivano addestrati i soldati di Cristo. Ovviamente l'addestramento consisteva nella preghiera costante, assidua, totale, per la Chiesa che non potrà mai essere vinta.

 

Capitolo 20 (continuazione)

 

vv. 11-15 - lettura

La scena descritta richiama il giudizio universale: una risurrezione di tutti, "grandi e piccoli" (v. 12). Non si distingueranno i potenti e i miserabili, i ricchi e i poveri, perché i criteri di giudizio divini saranno ben diversi da quelli terreni. L'umanità intera si presenterà, così, davanti a Dio.

 

"Furono aperti dei libri" (v. 12)

L'espressione richiama molto l'Apocalittica giudaica del tempo. Alcune tradizioni parlavano di libri in cui erano scritte minuziosamente le varie opere compiute dagli uomini. Anche nelle nostre tradizioni si racconta del libro bianco nel quale sono annotate le buone azioni, e del libro nero con elencate le nostre malefatte.

Nell'Apocalisse, peraltro, si parla di un libro fondamentale, il libro della vita, cioè il libro della vita dell'Agnello. E noi sappiamo che in esso sono scritti i nomi dei martiri, cioè di coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello, che hanno dato testimonianza con la loro vita. Non a caso le cause di beatificazione dei martiri necessitano soltanto della attestazione che costoro sono morti per testimoniare la fede; non sono richieste le prove dei miracoli.

Il libro della vita, quindi, è di gran lunga superiore a tutti gli altri in quanto vi sono enumerati i testimoni, i martiri; i morti per Gesù Cristo.

 

"...ciascuno venne giudicato secondo le sue opere." (v. 13b)

E' importante sottolineare che tutti i convocati per il giudizio saranno giudicati secondo le loro opere. L'Apocalisse è chiara su questo punto: chi ha compiuto opere di bene avrà una risurrezione di felicità e, al contrario, chi si è comportato male avrà una risurrezione di infelicità ("...fu gettato nello stagno di fuoco" e "questa è la seconda morte...". vv. 15 e 14). Ovviamente non si intende parlare della morte dell'anima, ma di uno stato di infelicità perenne, eterno. Ciò significa che le nostre opere di misericordia sia spirituale che corporale sono importanti.

Come ho detto più volte, noi non dobbiamo necessariamente sostenere qualcuno materialmente, ma dobbiamo sicuramente aiutare il nostro prossimo ad andare in Paradiso.

 

Dalle riflessioni sul cap. 20 si ricava il principio che Dio guida la storia e che, perciò, il male non può prevalere.

Dobbiamo anche sottolineare l'importanza del tempo presente: oggi non si deve adorare la bestia. Si tratta del "carpe diem" di Orazio ma da un punto di vista cristiano: cogli l'attimo perché oggi ti è concessa ancora una giornata per poter amare Dio e i fratelli, per poter adorare il Signore soltanto e non la bestia. Domani potresti già essere chiamato a rendere conto dell'oggi.

Ecco, allora, che la presenza del male e del maligno nel mondo va letta in questa prospettiva: Dio guida la storia e il male non prevale; oggi per noi è importante adorare il Signore e non la bestia.

 

La presenza di satana nel mondo risulta svuotata dall'interno; è la presenza di chi è già sconfitto, di chi dispone di un tempo breve e che è un nulla rispetto ai mille anni di Cristo. Perciò, sapendo che il male è già sconfitto, possiamo guardare ai fatti della vita con ottimismo.

 

 

Capitolo 21 e 22

 

Lettura dell'intero cap. 21 e dei vv. 1-5 del cap. 22.

 

Siamo di fronte a tre quadri, distinti fra loro, la cui descrizione va letta in modo consecutivo:

I quadro 21, 1-8

II quadro 21, 9-27

III quadro 22, 1-5

 

Il primo quadro ci presenta la nuova Gerusalemme, tutta oro e pietre preziose, ben diversa dalla città di Babilonia, la prostituta, rivestita di ornamenti ma madre di tutte le prostituzioni.

"Ecco la dimora di Dio con gli uomini!

Egli dimorerà tra di loro

ed essi saranno il suo popolo..."

Questo versetto 3 ci richiama il prologo di Giovanni:

"E il Verbo si fece carne

e venne ad abitare in mezzo a noi..."(v. 14)

Ricordiamo ancora una volta che la traduzione esatta dei verbi "abitare" e "dimorare" è "porre la tenda". Di conseguenza, diremo:

"Ecco la tenda di Dio con gli uomini!

Egli porrà la tenda tra di loro..." (Apoc. 21,3)

e "...e pose la sua tenda in mezzo a noi..." (Gv 1,14)

 

La tenda racchiude in sé almeno due immagini: quella del cammino (è un Dio che cammina con il suo popolo) e quella del pastore nomade (Dio pasce il suo gregge camminando con le sue pecore).

Ecco la tenda di Di in mezzo a noi!

Notiamo che fin dall'inizio il primo quadro sviluppa il tema della novità: la Gerusalemme nuova è inserita in un contesto nuovo. "Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra..." (21,1).

Soffermiamoci un attimo sul v. 5: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose..." in cui "faccio" è la traduzione di un termine tecnico della creazione (il verbo greco poieo) che significa, appunto, "creo". Il Signore sta facendo una nuova creazione, che non è futura perché il verbo viene espresso al tempo presente.

Quindi, la nuova creazione è già in atto; Dio non attenderà la fine dei tempi per donarci la gioia, per toglierci il lutto, la morte, il lamento e l'affanno. Il Signore già oggi crea cose nuove, che porterà evidentemente a compimento nella loro pienezza alla fine dei tempi, quando lo incontreremo.

Credo sia fondamentale riflettere su questi concetti perché siamo di fronte a una situazione non solo di consolazione, ma d'impegno. Adesso Io, Dio, e tu, uomo, facciamo qualche cosa di nuovo.

La prospettiva cambia diametralmente: i semi del regno (il granello di senape, ad es.) sono già piantati e stanno crescendo.

E' bello sentirsi parte di questa novità perché con il battesimo noi siamo entrati nella nuova creazione, primizia della comunione piena con Dio alla fine dei tempi. Il nostro Signore è il Dio dell'Alleanza che non rinnega mai il suo popolo e il patto che ha stabilito con lui.

 

Lettura di Isaia 25, v. 6 e seguenti.

In Apocalisse 21, come in questo brano profetico, si possono distinguere due momenti: il primo con una visione di speranza, di apertura ("A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita" - v. 6) e un secondo momento di condanna ("Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali e i fattucchieri, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo." v. 8).

Appare chiaro il richiamo profetico alla possibilità di entrare nella categoria dei codardi, di quanti - cioè - non hanno avuto il coraggio di testimoniare.

 

In proposito sappiamo che successivamente agli anni 90 d.C. sorse nella Chiesa il grande problema dei "lapsi", cioè di coloro che nella persecuzione non erano stati coerenti, avevano abiurato e sacrificato agli idoli e che poi, con il ritorno alla normalità, avevano chiesto di essere riammessi nella comunità ecclesiale. Coloro che erano stati perseguitati si opposero, però, a questa riammissione pretendendo che fosse subordinata ad un nuovo battesimo, perché ritenevano che rinnegando Cristo i "lapsi" avessero addirittura cancellato il loro battesimo.

Sulla questione avvenne un grande dibattito nella Chiesa, con il rischio di scismi, fino a quando non prevalse l'opinione di Cornelio, vescovo di Roma, e di Cipriano, vescovo di Cartagine, secondo la quale il battesimo non poteva in ogni caso essere cancellato, nemmeno dal peccato più grave. Quindi i "lapsi" sarebbero dovuti essere riammessi nella comunità ecclesiale, magari attraverso un percorso penitenziale, ma senza essere ribattezzati.

 

Concludiamo le considerazioni sul primo quadro dicendo che Cristo oggi si incontra nella Chiesa, nuova Gerusalemme e centro della nuova creazione. Di conseguenza dobbiamo adoperarci per migliorare la nostra comunità ecclesiale in modo che "...i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gl'immorali, i fattucchieri, gli idolatri..." (21,8) e i mentitori diminuiscano e aumentino, invece, gli iscritti nel libro della vita.

La Chiesa è fondamentale per poter vivere fino in fondo l'esperienza di Cristo.

 

Il secondo quadro ci raffigura la nuova Gerusalemme, la città santa, ben differente da Babilonia, ricca di esteriorità e destinata a perire. Gerusalemme, ricca ma per essenza, dotata di ricchezze interiori, non rappresenta una città vera e propria, ma la comunità ideale in generale. Nel v. 16 è descritta a forma di cubo con ogni faccia, ogni fronte, uguale all'altra.

La città santa non è travestita (come Babilonia) in quanto racchiude in sé il Signore,tanto da non aver bisogno del tempio perché il contatto con Dio è immediato.

Ripenso a tante descrizioni dei Padri che paragonano la Chiesa, per esempio, a una corona regale d'oro, adornata di pietre preziose, oppure a un giardino con molteplici varietà di pianti e di fiori. Le pietre preziose, i fiori e le piante simboleggiano le varie membra della Chiesa, che è una comunità con in sé una preziosità che le deriva da Dio. In questa luce, allora, riscopriamo la vocazione di ciascuno di noi secondo la propria differente condizione (laico, sposo, sacerdote...). Noi siamo come pietre preziose incastonate nell'edificio di Dio, nella Gerusalemme santa.

Si potrebbe vedere un parallelo di quest'immagine in Ezechiele 48.

La nuova Gerusalemme finalmente si rivela come la sposa dell'Agnello.

Siamo di fronte a una nuova creazione. Non ci saranno più le maledizioni post-edeniche (Genesi 3) perché ormai cancellate dal sangue dell'Agnello. Consideriamo anche che le nostre sofferenze, i nostri sacrifici sono salvifici perché ricolmati di significato dal sangue dell'Agnello. La passione e la morte di Cristo ci insegnano pur qualcosa.

Questo significa far parte della nuova città santa nella quale confluiscono tutte le genti

("Le sue porte non si chiuderanno mai..." (v. 25)

e nella quale "Non entrerà...nulla d'impuro,

né chi commette abominio o falsità

ma solo quelli che sono scritti

nel libro della vita dell'Agnello" (v. 27))

 

Leggere:

Michea 4, 1-5 "Il regno futuro del Signore a Sion";

Gioele 4, 20-21 "Era paradisiaca della restaurazione di Israele";

Isaia 2, 2-5 "La pace perpetua".

 

La nuova città fondata sugli apostoli (v. 14) è perfettamente simmetrica; è una costruzione spirituale.

Potremmo tenere come sottofondo a questo brano dell'Apocalisse il cap. 4 del Vangelo di Giovanni ("Gesù dai Samaritani"): "...i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità..." (v. 23).

Non ci sarà più bisogno del tempio di Gerusalemme né di quello del monte Garizim: basterà mettersi nell'ottica di Dio adorandolo "in spirito e verità". (v. 24).

 

Il terzo quadro: la nuova Gerusalemme, giardino di vita. Siamo anche qui nel clima dell'Eden.

L'ultimo episodio della Bibbia (Apocalisse 22, 1-5) richiama l'inizio della stessa Bibbia (Genesi) con la creazione e la caduta dell'uomo. Ora si parla della nuova creazione (e non più della caduta) e della gioia di essere perennemente con il Signore. Ecco la grande speranza che infonde la Bibbia!

In Genesi si parla dell'albero della vita che viene sottratto subito all'uomo, mentre in Apocalisse 22 troviamo "...un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell'albero servono a guarire le nazioni" (v. 2). Qui la vita viene distribuita in pienezza.

Nuovamente rieccheggia il cap. 4 di Giovanni nel quale si parla del pozzo di Giacobbe e dell'acqua viva (che va letta simbolicamente). Siamo davvero alla comunione piena con Dio e alla luce piena, al giorno senza fine (Ap.22,5): "Non vi sarà più notte...".

Dobbiamo allora cominciare a gustare tutto questo ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, nella quale incontriamo il Signore. Dopo la comunione noi siamo come delle arche sante che portano Gesù per il mondo, siamo come dei "Cristofori".

Sono convinto che sia molto bella la visione terminale dell'Apocalisse in parallelo con l'episodio iniziale della Bibbia.

 

Stiamo vivendo una primavera della Chiesa: oggi lo Spirito soffia e ci provoca con le sfide del nostro tempo. L'incontro con le altre religioni, ad esempio, è impegnativo ma ci deve entusiasmare.

 

Concludiamo dicendo che il nostro capitolo è aperto alla speranza, ma contiene anche un invito alla conversione. Speranza e conversione vanno di pari passo e guai se non fosse così: la speranza diventerebbe fatalismo e la pigrizia prenderebbe il sopravvento (e con essa il nostro egoismo).

 

Un'ultima considerazione sui mentitori (21,8 e 27) che non sono soltanto coloro che dicono il falso, ma anche quelli che vivono nella falsità continua, che adorano i falsi dei, che vivono una vita di menzogna inseguendo ciò che è falso.

 

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16/11/2012 20:44
 
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XXVI LEZIONE

 

 

Capitolo 22 (continuazione)

 

 

vv. 6-21 - lettura

Come è bella la conclusione della Bibbia: "Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!" (vv. 20-21). Contiene un augurio, esprime una grande gioia.

 

In questi ultimi versetti ricomincia un dialogo che vede come protagonisti - quasi come all'inizio - Giovanni, Gesù e l'assemblea. Potremmo dire che è finita l'esposizione profetica e che adesso interviene l'assemblea con la parola conclusiva:"Amen!"(=così è).

 

Nell'ultimo capitolo vengono ripresi diversi elementi iniziali del libro: la presentazione di Giovanni come profeta, l'angelo che entra in comunicazione con lui, il Signore Gesù che parla in prima persona.

E l'assemblea, alla fine, è diventata "Lo Spirito e la sposa" (v. 17); cioè l'assemblea, istruita da quanto scritto nell'Apocalisse, è arrivata a sentire esattamente le stesse cose dello Spirito. E' quanto ci viene consigliato a livello personale:"Chiedete e vi sarà dato...". Io credo che, secondo la spiegazione fornita dagli esperti di vita spirituale, per chiedere e per ottenere ciò che vogliamo, noi dovremmo essere sintonici con Dio; dovremmo conoscere noi stessi e Lui tanto profondamente da richiedere solo quanto rappresenta il nostro bene. Quando questo accade lo Spirito e la sposa dicono:"Vieni!" (v. 17).

La nostra anima potrebbe essere paragonata alla sposa di Cristo che chiede soltanto quanto il Signore vuole già concederle. E questo vale per noi, ma anche per il mondo intero.

 

E' importante la preghiera che ci pone non solo in comunicazione, ma anche in comunione profonda con Dio. Questa sintonia, questa comunione si ha nella Messa, grande maestra di preghiera. Come disse il Papa ai giovani nell'incontro di Como: nella Messa si raggiunge in un tempo tanto limitato una perfezione assoluta di preghiera, in quanto in essa ne sono presenti tutti i tipi (la richiesta di perdono, la lode, la domanda di aiuto, il ringraziamento) riuniti in una situazione sacramentale, cioè di intima unione tra Dio e l'uomo.

Ricordiamo che lo Spirito e la sposa insieme invocano:"Vieni!". Cristo sostiene la sua sposa: (v. 16): "Io, Gesù, ho mandato il mio angelo...".

 

La Chiesa è in cammino; ma non può mai togliere gli occhi da Cristo e dai suoi inviati. La storia della Chiesa appare come un insieme di tratti agevoli, difficili e pericolosi proprio come quelli di un strada sterrata. Ma quella è la strada tracciata: la strada della nostra vita.

 

v. 14

"Beati coloro che lavano le loro vesti...". Cristo è colui che alla Chiesa dona forza e vita.

 

v. 15

Sappiamo che gli ebrei definivano "cani" i prostituti sacri, perché ritenuti - come i maiali - fra gli animali impuri per eccellenza. Per questo motivo sono elencati insieme ai "...fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!".

 

Nei vv. 14 e 15 è presente anche il mistero dell'esclusione: sono menzionati i beati ma anche gli esclusi. Però non si può sostenere che il Signore non ci abbia avvertiti: l'essere compresi fra i beati dipende dalle nostre opere.

 

Riandiamo ora a un brano del Vangelo di Marco che riassume tutta l'Apocalisse e precisamente al cap. 1,15: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo.". Queste sono le primissime parole di Gesù nel Vangelo e l'annuncio ne sintetizza tutta l'opera.

Il tempo è compiuto. Ecco la dinamica del "già" e "non ancora"; ecco la buona notizia che però si accompagna sempre all'appello alla conversione.

Conclusione e considerazioni finali

 

 

Ho raccolto in cinque tematiche le considerazioni conclusive sull'Apocalisse.

I - La concezione di Dio

Nel nostro libro ci troviamo di fronte, prima di tutto, a un Dio trinitario: il Padre, l'Agnello immolato che siede sul trono, lo Spirito che parla alle Chiese. Un Dio "che era, che è e che viene", ma che a un certo punto diventa "Colui che era e che è". Si tratta di un Dio che compie la sua missione nella storia e che affianca a sé i suoi santi per combattere contro il male. Il Signore non è uno spettatore ma un attore che dà il suo contributo e conduce la storia. Non per nulla una delle definizioni più belle dell'Apocalisse (da noi applicata anche a Gesù) recita: "Io sono l'Alfa e l'Omega" (v. 13), ossia il primo e l'ultimo, il principio e la fine: il Vivente.

 

Quando preparo le letture liturgiche per i funerali scelgo volentieri quella abbinata all'espressione del salmo che dice: "In te spero, o Signore, Dio dei viventi", perché il Vivente non può essere il Dio dei morti, ma di coloro che continuano a vivere per l'eternità.

Questa è una bellissima concezione di Dio che poi scopriamo come il "Fedele" e il "Verace" (19,11). Non può che essere così il Signore della storia, che è l'unico da adorare.

 

II - La Chiesa che cammina nella storia è un'altra grande protagonista dell'Apocalisse. Come ogni comunità paga alla storia il prezzo di essere umana. E' inevitabile.

Dobbiamo abituarci ai tempi lunghi della Chiesa, che è comunque fedele al suo Signore da duemila anni, sia pure con tutti gli errori tipici degli uomini, e custode del patrimonio della fede. E questo è importante.

 

Il sangue dei martiri ha irrorato la Chiesa e l'ha aiutata a crescere. Quindi, anche oggi il sangue dei martiri appare indispensabile; occorre qualcuno che si sacrifichi per l'ideale.

 

La Chiesa è la sposa sempre bisognosa di purificazione (ma comunque scelta dal Signore) che diventa l'autentica via di salvezza. In ogni caso è sposa fedele, nonostante le infedeltà dei singoli.

E' l'unica istituzione che conta duemila anni di storia nel segno della continuità e di conseguenza può permettersi di scusarsi per il male causato agli altri. Non avviene così, ad esempio, per i crimini del comunismo e dello stalinismo in quanto manca la continuità rispetto ai passati regimi.

 

 

 

III - Il potere temporale che nell'Apocalisse gode di cattiva fama.

Il potere romano - in questo caso - e il potere temporale in generale non sono malvisti soltanto in quanto persecutori, ma anche in quanto idolatri. Portano infatti gli uomini alla menzogna e li coinvolgono nell'inganno. Credo, allora, che si debba smascherare l'inganno insito in ogni potere materialista, che diventa adoratore di se stesso e della propria potenza e che fa della menzogna il suo fondamentale stato di vita.

Notiamo, per inciso, che anche la Chiesa durante la sua storia ha subito le tentazioni del potere sia nelle sue gerarchie che nei suoi membri comuni.

 

IV - Il giudizio, tema che fa da sottofondo ai molti passi del nostro libro.

Poiché Dio guida una comunità che vive nella storia, ecco che arriva il momento supremo del giudizio. Ma stiamo attenti a non prendere in considerazione soltanto il giudizio finale. Il giudizio è anche sul bene e sul male di oggi.

Usiamo allora un termine più sfumato, che possiamo applicare a noi stessi: il discernimento, che significa capire ciò che è bene e ciò che è male per avere una condanna intransigente per il male, ma un occhio di misericordia per il peccatore.

Ed io apprezzo, anche in questo caso, l'opera spesso impopolare che la Chiesa conduce oggi in difesa di alcuni principi fondamentali. La comunità cristiana deve aggiornarsi sul modo migliore di comunicare per poter proclamare al mondo la verità.

 

V - La comunione profonda che esiste nell'Apocalisse tra l'Agnello e il cristiano.

L'Agnello versa il sangue nel quale il cristiano deve lavare la propria veste diventando un'unica cosa con Lui. L'Agnello coinvolge i santi nella preghiera e nel combattimento contro il dragone; è seduto sul trono e giudica insieme ai santi che lo circondano. Ed il cristiano è chiamato ad essere in piena comunione con l'Agnello, il quale a sua volta coinvolge con tutte le sue forze il cristiano in questa unione perfetta.

Possiamo ricordare in proposito un brano del Vangelo di Giovanni (21,15 e segg.) in cui Pietro, così debole, è perseguitato dalla grazia al punto che Gesù stesso gli affida le sue "pecorelle". Questo ci dà un'idea della comunione profonda con Cristo che ognuno di noi deve cercare corrispondendo alla grazia.

 

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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