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Incontri promossi da Comunione e Liberazione

Ultimo Aggiornamento: 11/03/2014 08:20
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04/10/2012 23:17
 
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Appunti dagli interventi di Davide Prosperi e Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl. Mediolanum Forum, Assago (Milano), 29 settembre 2012

Dipendenza originaria: «Fatti»

«Parlare dell’uomo e del suo anelito all’infinito significa innanzitutto riconoscere il suo rapporto costitutivo con il Creatore. L’uomo è una creatura di Dio [tutti sappiamo queste frasi, tutti le sappiamo, io per primo, ma se non le riscopriamo rispondendo alle circostanze, rimangono lì nel cassetto delle nostre conoscenze inutili, e poi tutti siamo spiazzati da qualsiasi circostanza; per questo, vi prego (come chiedo per me stesso) di non soccombere alla tentazione di pensare che già lo sappiamo. Non lo sappiamo! Altrimenti vivremmo con una intensità che noi tante volte nel quotidiano ci sogniamo]. Oggi questa parola - creatura - sembra quasi passata di moda: si preferisce pensare all’uomo come ad un essere compiuto in se stesso e artefice assoluto del proprio destino. La considerazione dell’uomo come creatura appare “scomoda” poiché implica un riferimento essenziale a qualcosa d’altro o meglio, a Qualcun altro - non gestibile dall’uomo - che entra a definire in modo essenziale la sua identità; un’identità relazionale, il cui primo dato è la dipendenza originaria e ontologica da Colui che ci ha voluti e ci ha creati». Questo non ce lo può togliere alcuna circostanza, alcun potere, alcun attacco, perché costituisce la verità di noi più dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti o delle nostre reazioni, o degli altri: non sono gli altri a definire che cosa siamo noi; noi siamo questa dipendenza originaria, e quando questa dipendenza originaria non è così consapevole, allora siamo in balìa di tutti, lo vediamo al lavoro, nei rapporti, con gli amici, leggendo i giornali, stando da soli. Eppure, sottolinea Benedetto XVI, «questa dipendenza, da cui l’uomo moderno e contemporaneo tenta di affrancarsi, non solo non nasconde o diminuisce, ma rivela in modo luminoso la grandezza e la dignità suprema dell’uomo, chiamato alla vita per entrare in rapporto con la Vita stessa, con Dio» (Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, 10 agosto 2012).
«Ma il peccato originale?», ci domandiamo spesso.
Continua il Papa: «Il peccato originale ha la sua radice ultima proprio nel sottrarsi dei nostri progenitori a questo rapporto costitutivo, nel voler mettersi al posto di Dio, nel credere di poter fare senza di Lui. Anche dopo il peccato, però, rimane nell’uomo il desiderio struggente di questo dialogo [cioè il desiderio di respirare, il desiderio di uscire dal bunker], quasi una firma impressa col fuoco nella sua anima e nella sua carne dal Creatore stesso. [...] “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua”. [...] Non solo la mia anima, ma ogni fibra della mia carne è fatta per trovare la sua pace, la sua realizzazione in Dio. E questa tensione è incancellabile nel cuore dell’uomo: anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Inizia invece una ricerca affannosa e sterile, di “falsi infiniti” che possano soddisfare almeno per un momento» (Ivi). Siamo talmente costituiti da questo Mistero che ci vuol bene, che neanche noi, con tutto il nostro male, possiamo ridurre questa sete. Allora questa sete grida, grida, grida Lui, grida che c’è qualcosa in me che resiste, che permane dopo tutte le mie distrazioni, dopo tutto il mio male, dopo tutto il mio confondermi. Dite se non rimane la sete, che è il segno di qualcosa di irriducibile, un dato: siamo fatti per l’infinito. Questo è il nostro destino. 
Questo dato è il primo elemento della nostra autocoscienza, di una percezione chiara e amorosa di sé. La dipendenza originaria costituisce la verità di noi: siamo frutto di un atto di amore di Dio. Siamo! E nessuno sbaglio, nessuna distrazione, nessuna circostanza, nessun dolore può cancellare il fatto che io ci sono. E se ci sono, il Mistero che mi fa mi sta gridando, per il fatto di esserci: «Tu sei un atto di amore Mio. Tu sei fatto per Me ora, sei fatto a Mia immagine e somiglianza». E allora acquista tutta la sua portata la frase che tutti “sappiamo” e che ci farebbe respirare, se noi ne prendessimo consapevolezza: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò» (Gen 1,27). Questo, ci dice don Giussani, è il fondamento dell’affezione a sé (e noi che tante volte andiamo a mendicare le briciole che cadono dalla tavola di qualche potente!): «L’affezione a se stessi non può essere motivata da quel che si è; è motivata dal fatto che si è, è la sorpresa di sé come dono di qualcosa d’altro, come grazia, come sorpresa di essere, come fatto di un altro. Se la prima cosa che fa Dio è amarti, qual è l’imitazione più immediata di Dio? L’imitazione di Dio è la sorpresa di amarsi, di volersi» (Memores Domini, 8 ottobre 1983, pro manuscripto). «Se uno non ha amore, se uno non ha tenerezza per se stesso, imita Dio in niente; se uno non imita Dio nell’amare, non può imitare Dio, perché la prima cosa, e fondamentale, con cui Dio si rivela all’uomo che è fatto a Sua immagine e somiglianza, la prima somiglianza con Dio è amare sé. Perché la prima cosa che fa Dio è amarti» (Memores Domini, 3 maggio 1987, pro manuscripto).
Ciascuno può fare il paragone tra la coscienza che ha di sé e ciò che dice don Giussani; non per lamentarci di quanto siamo ancora inconsistenti, ma per gustare una promessa, per riscoprire la possibilità di non perdere quel che ci diciamo.

b. Avvenimento cristiano: «Suoi»
A noi è successo un altro fatto, che costituisce il secondo elemento della nostra autocoscienza e che risponde a una domanda che spesso anche noi ci facciamo e che il Papa ha formulato così: «Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della propria natura? E non è forse una condanna questo anelito verso l’infinito che egli avverte senza mai poterlo soddisfare totalmente? Questo interrogativo ci porta direttamente al cuore del cristianesimo. L’Infinito stesso, infatti, per farsi risposta che l’uomo possa [guardate che verbo usa!] sperimentare, ha assunto una forma finita. Dall’Incarnazione, dal momento in cui il Verbo si è fatto carne, è cancellata l’incolmabile distanza tra finito e infinito: il Dio eterno e infinito ha lasciato il suo Cielo ed è entrato nel tempo, si è immerso nella finitezza umana» (Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, op. cit.). 
Come ciascuno di noi sa che è successo proprio così, che queste non sono parole dette a vanvera?
Perché anche noi, come Giovanni e Andrea, siamo stati presi, fino al punto che ciascuno può dire: mai sono stato me stesso come quando Tu mi sei accaduto. Questo è il contenuto dello sperimentare Cristo. Il secondo dato del contenuto della mia autocoscienza, dunque, è Cristo che mi è successo nella vita, che mi ha fatto sperimentare me stesso con una intensità, con una grandezza, con una pienezza che io non riesco a riprodurre con tutti i miei tentativi. Il contenuto della mia autocoscienza, del sentimento di me, è che il mio io sei Tu, Cristo. Tu sei me, Tu sei il mio vero io. Per questo si può sintetizzare il contenuto della mia autocoscienza con le parole di san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Ciascuno può guardare e vedere fino a che punto è questa autocoscienza di Cristo a dominare le giornate, oppure se è una frase scolpita sul muro, ma di cui non abbiamo un contenuto reale di esperienza.
Il Papa ci ricorda la gioia e la gratitudine che invadeva la vita dei primi cristiani: «Infatti, nel Cristianesimo delle origini era così: l’essere liberato dalle tenebre dell’andare a tastoni, dell’ignoranza - che cosa sono? perché sono? come devo andare avanti? -, l’essere diventato libero, l’essere nella luce, nell’ampiezza della verità. Questa era la consapevolezza fondamentale. Una gratitudine che si irradiava intorno e che così univa gli uomini nella Chiesa di Gesù Cristo» (Benedetto XVI,Omelia alla S. Messa a conclusione dell’incontro con il “Ratzinger Schülerkreis” , op. cit.). Tutti sappiamo quanto Giussani fosse talmente dominato da questa coscienza, al punto tale da fare dire al cardinale Martini: «Ecco, tu, ogni volta che parli, ritorni sempre a questo nucleo, che è l’Incarnazione, e - con mille modi diversi - lo riproponi» (C.M. Martini citato in J. Carrón, «Carrón: sono addolorato, potevamo collaborare di più», Corriere della Sera, 4 settembre 2012). Che cos’era, ogni volta, sentirlo parlare!
A questo punto il Papa tira le fila: «Nulla allora [dopo l’Incarnazione] è banale o insignificante nel cammino della vita e del mondo. L’uomo è fatto per un Dio infinito che è diventato carne, che ha assunto la nostra umanità per attirarla alle altezze del suo essere divino». È stupefacente come prosegue il Papa: «Scopriamo così la dimensione più vera dell’esistenza umana, quella a cui il Servo di Dio Luigi Giussani continuamente richiamava: la vita come vocazione. Ogni cosa, ogni rapporto, ogni gioia, come anche ogni difficoltà, trova la sua ragione ultima nell’essere occasione di rapporto con l’Infinito, voce di Dio che continuamente ci chiama e ci invita ad alzare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a Lui la realizzazione piena della nostra umanità» (Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per l’Amicizia fra i Popoli, op. cit.).
Capite? Vivere la vita come vocazione è camminare al destino attraverso ogni cosa, che non è più banale e insignificante, ma acquista la capacità di richiamarci all’autocoscienza. Le circostanze ci sono date per risvegliare questa autocoscienza, non perché le circostanze possano darci quello che abbiamo detto (il fatto di esserci e il fatto che Cristo ci accada), ma perché le circostanze ci aiutano a scoprire carnalmente, sperimentalmente che cosa vuol dire Cristo e che cosa vuol dire il fatto che io ci sono, perché il Signore ci fa camminare al destino attraverso tutte le circostanze che fa capitare. Per questo: «Non dobbiamo avere paura di quello che Dio ci chiede attraverso le circostanze della vita» (Ivi).
Il Signore richiama tutti a riconoscere l’essenza della propria natura di essere uomini, fatti per l’infinito.
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11/03/2014 08:20
 
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«Una memoria che rigenera fedeltà e gioia»



del cardinale Stanislaw Rylko*


- Il saluto iniziale e l'omelia del cardinale Stanislaw Rylko alla messa per il IX anniversario della morte don Giussani e il XXXII del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione. Roma, San Giovanni in Laterano, 24 febbraio 2014





Saluto ed introduzione
Saluto cordialmente tutta la comunità romana di Comunione e Liberazione e ringrazio i responsabili per l’invito a presiedere questa solenne Eucaristia, durante la quale vogliamo fare memoria di alcune importanti ricorrenze del vostro movimento: il sessantesimo anniversario della nascita, il trentaduesimo del riconoscimento pontificio e il nono anniversario della morte del suo fondatore, il Servo di Dio don Luigi Giussani. Si tratta di ricorrenze significative per tutti voi, perché nella vita di ciascuno di voi l’incontro con il movimento, e in particolare con la persona di don Giussani, è stato l’inizio di un nuovo cammino, ha dato una svolta decisiva alla vostra esistenza, è stato come una sorta di spartiacque. Grazie al movimento, avete scoperto la bellezza e la gioia di essere cristiani, avete compreso che il cristiano non è colui che aderisce ad una dottrina o condivide una teoria, ma è colui che vive un autentico incontro con la persona di Cristo vivo, un incontro che cambia radicalmente la vita e dischiude orizzonti nuovi e affascinanti. Quante schiere di donne e di uomini, giovani e adulti hanno potuto fare questa esperienza grazie al vostro carisma! Questa sera, dunque, radunati in questa Basilica Patriarcale di San Giovanni in Laterano - la cattedrale del Papa - vogliamo elevare insieme la nostra lode al Signore e rendergli grazie per le grandi opere che ha compiuto nel vostro movimento e nella vita di ciascuno di voi. Davvero abbiamo di che rendere grazie al Signore!
Ora, predisponiamoci spiritualmente alla celebrazione di questa Santa Messa mediante un atto di sincero pentimento per i nostri peccati: Confesso a Dio onnipotente...

Omelia
Una memoria che rigenera fedeltà e gioia...
1. Stasera, il nostro rendimento di grazie al Signore vuole abbracciare tutta la storia di Comunione e Liberazione, nata ormai sessant’anni fa. Ripercorriamo con grata memoria le tappe di questo lungo cammino, iniziato da un piccolo gruppo di studenti di un liceo milanese, che si riuniva attorno a don Giussani, un prete che aveva scelto di insegnare religione per ricostruire una presenza cristiana nell’ambiente studentesco. Tutto sembrava rientrare nell’ordinarietà delle cose, ma la storia ha dimostrato che non era così. Dietro quell’apparente “normalità”, stava nascendo qualcosa che superava i disegni umani, stava prendendo forma un movimento ecclesiale vero e proprio... Sempre, quando lo Spirito Santo interviene ci sorprende, suscita stupore... E nella storia del vostro movimento le sorprese non sono mancate! In questi sessant’anni il piccolo granellino di senapa - mi piace molto ricorrere a questa immagine suggestiva - è diventato un albero grande e robusto, cioè una realtà ecclesiale presente ormai in più di settanta Paesi di tutti i continenti. Una tappa importante della vostra storia è stata indubbiamente il riconoscimento della Fraternità da parte del Pontificio Consiglio per i Laici, come associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio, avvenuto l’11 febbraio 1982. Per il movimento è stato un sigillo di autenticità, nonché una sicura garanzia ecclesiale del cammino intrapreso.
Ne avete fatta di strada! La vostra è una storia viva, concreta, che si può leggere in tante storie personali di straordinaria bellezza, storie di autentiche conversioni; storie di fede e di santità; storie di coppie di sposi e di famiglie felici, perché fedeli alla loro vocazione; storie di uomini e di donne innamorati di Cristo fino a donargli totalmente la loro vita (Memores Domini!); storie di opere al servizio dell’uomo, dettate dallo spirito di solidarietà cristiana verso quanti sono nel bisogno... E oggi siamo qui per rendere grazie al Signore di questa storia che Lui ha scritto con voi!

2. Nella vita di ogni movimento ecclesiale, la memoria è essenziale, perché è quel fattore indispensabile e costitutivo della sua identità più profonda. Chi siamo nella Chiesa? Qual è la nostra vocazione e missione? Penso soprattutto alla memoria delle origini, alla memoria del carisma sorgivo da cui un movimento nasce. È questa la radice vitale a cui bisogna far sempre riferimento, perché è da qui che un movimento nasce e rinasce continuamente... E la memoria del carisma sorgivo di un movimento deve diventare fedeltà nei confronti di quel dono effuso dallo Spirito; deve diventare profondo senso di responsabilità affinché quel dono non vada smarrito; deve diventare stupore permanente di fronte alla grandezza, bellezza e novità del dono ricevuto; e deve diventare infine profonda gratitudine nei confronti di Dio da cui proviene «ogni dono perfetto» (cfr. Gc 1,17). Ogni dono nella nostra vita diventa un compito da assumere fino in fondo! E non c’è altro modo di conservare vivo il carisma di un movimento, se non vivendolo con gioia ed entusiasmo.
La memoria del carisma sorgivo si unisce strettamente alla memoria della persona del fondatore di un movimento, perché è lui il primo testimone ed interprete del carisma ricevuto. Nel vostro caso, dunque, la memoria di don Giussani... Per quanti giovani e adulti questo sacerdote milanese è stato un vero maestro di vita, una guida sicura, un testimone credibile e convincente del Mistero, un fedele compagno di strada, un amico su cui poter contare... Ma credo anche che la figura di don Giussani vada continuamente riscoperta! E in questo momento ne approfitto per congratularmi con l’autore della sua biografia recentemente pubblicata - un grande aiuto per chi vuole conoscere veramente il fondatore di Cl. 
Sebbene siano trascorsi già nove anni dalla sua morte - avvenuta il 22 febbraio 2005 - don Giussani non cessa di interpellarci, proprio come faceva quando era tra noi. E forse questa sera, ciascuno può porsi questa domanda: chi è in realtà don Giussani per me? Cosa mi dice la sua personalità così ricca di doni di natura e di grazia? Credo che ci possano aiutare in questa riflessione personale le parole pronunciate dall’allora cardinale Ratzinger in occasione dei suoi funerali a Milano: «Sempre, don Giussani, ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il Cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che Cristianesimo è un incontro; una storia d’amore; un avvenimento. Questo innamoramento in Cristo, questa storia di amore che è tutta la sua vita, era tuttavia lontana da ogni entusiasmo leggero, da ogni romanticismo vago. Vedendo Cristo, realmente, ha saputo che incontrare Cristo vuol dire seguire Cristo. Questo incontro è una strada, un cammino...». E poi aveva aggiunto: «[Don Giussani] Non voleva essere un padrone, voleva servire, era un fedele "servitore del Vangelo", ha distribuito tutta la ricchezza del suo cuore, ha distribuito la ricchezza divina del Vangelo, della quale era penetrato e, servendo così, dando la vita, questa sua vita ha portato un frutto ricco - come vediamo in questo momento - è divenuto realmente padre di molti, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo /.../ Questa centralità di Cristo nella sua vita gli ha dato anche il dono del discernimento, di decifrare in modo giusto i segni dei tempi in un tempo difficile, pieno di tentazioni e di errori, come sappiamo» (Card. Joseph Ratzinger, Funerali di don Luigi Giussani, Milano, 24 febbraio 2005). Siamo davanti ad un bellissimo ritratto di don Giussani e così oggi vogliamo ricordarlo. Ma siamo anche certi che il processo di beatificazione - ormai in corso - ci farà scoprire molti altri tesori della sua ricca personalità cristiana e sacerdotale.

3. In occasione poi degli anniversari, si è soliti formulare degli auguri. Anch’io questa sera vorrei rivolgere a tutti voi un augurio. Lo faccio, prendendo spunto da un discorso di papa Francesco, in cui il Santo Padre ha parlato di una «santa inquietudine del cuore» (cfr. Santa Messa per l’inizio del Capitolo generale dell’Ordine di Sant’Agostino, 28 agosto 2013). Ritengo che questa riflessione sia di grande importanza per vivere fedelmente ogni carisma nella Chiesa. In realtà, si tratta di tre inquietudini complementari: la prima è l’inquietudine della ricerca spirituale. Il Papa ci sollecita: «Guarda nel profondo del tuo cuore, guarda nell’intimo di te stesso, e domandati: hai un cuore che desidera qualcosa di grande o un cuore addormentato dalle cose? Il tuo cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca o l’hai lasciato soffocare dalle cose, che finiscono per atrofizzarlo?». Segue poi l’inquietudine dell’incontro con Dio. E papa Francesco continua ad interrogarci: «Sono inquieto per Dio, per annunciarlo, per farlo conoscere? O mi lascio affascinare da quella mondanità spirituale che spinge a fare tutto per amore di se stessi? /.../ Mi sono per così dire «accomodato» nella mia vita cristiana /.../ anche nella mia vita di comunità, o conservo la forza dell’inquietudine per Dio, per la sua Parola, che mi porta ad «andare fuori», verso gli altri?”. E infine il Santo Padre parla dell’inquietudine dell’amore e pone alcune domande veramente incisive: «Crediamo nell’amore a Dio e agli altri? O siamo nominalisti su questo? Non in modo astratto, non solo le parole, ma il fratello concreto che incontriamo, il fratello che ci sta accanto! Ci lasciamo inquietare dalle loro necessità o rimaniamo chiusi in noi stessi, nelle nostre comunità, che molte volte sono per noi "comunità-comodità"?». Ecco, dunque, che il Papa sollecita noi cristiani ad avere un cuore inquieto, anzi ci stimola a custodire e a far crescere in noi quella santa inquietudine del cuore, perché essa non si assopisca e non si spenga! 
Fin dall’inizio del suo Pontificato, papa Francesco ha chiamato la Chiesa (cioè tutti noi!) ad una vera e propria conversione missionaria. Desidera una Chiesa che entri pienamente in una “dinamica di uscita” verso le periferie esistenziali e geografiche del nostro mondo; vuole riaccendere in tutti i battezzati quell’inquietudine missionaria… E per questo guarda con grande speranza ai movimenti ecclesiali. Ricordiamo le sue parole pronunciate nella Solennità di Pentecoste dell’anno scorso: «Siete un dono e una ricchezza della Chiesa! Questo siete voi! /.../ Portate sempre la forza del Vangelo! Non abbiate paura!» (Regina coeli, Solennità di Pentecoste 19 maggio 2013). Stasera, la comunità romana di Comunione e liberazione, riunita nella cattedrale del Vescovo di Roma, vuole riaccogliere il mandato missionario di Cristo con rinnovata gioia ed con entusiasmo. E io sono qui per dirvi: Andate! La Chiesa ha bisogno di voi e conta su di voi!

*Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici


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