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L'UOMO E' RELIGIOSO PER NATURA

Ultimo Aggiornamento: 06/02/2015 22:06
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14/03/2012 12:18
 
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L'uomo ha in sé una istintiva tensione verso un Essere più grande. Egli sente che sopra di lui vi è qualcosa o Qualcuno più grande da cui dipende.
La storia dell'umanità lo rileva in tante opere dell'uomo che ha manifestato in tutte le epoche,  questa innata propensione al sacro costruendo templi, adorando anche erroneamente degli idoli, sempre per indirizzare ad esseri più grandi il proprio culto.
   Ovviamente questo, da solo, non è sufficiente a provare l'esistenza di Colui in cui si crede, anche perchè i popoli hanno creduto in tanti esseri diversi, deviando dalla verità rivelata.
   Tuttavia è significativo il fatto che la cosa che accomuna tutti i popoli di tutti i tempi, sia questo "senso religioso", come l'ago di una bussola che lo indirizza a cercare la propria origine per trovare il proprio destino ultimo.
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14/03/2012 12:20
 
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L’antropologo Julien Ries: «il primo uomo apparso è religiosus»

Non lo immaginava neanche lui che Benedetto XVI lo scegliesse per diventare cardinale, tanto che Julien Ries sorride e afferma: “Per me è stata una grande sorpresa. Sento una grande riconoscenza nei confronti del Santo Padre”. Ma chi è Julien Ries? Professore dell’Università cattolica di Lovanio (Belgio), è considerato il più grande studioso delle religioni vivente. Ha 92 anni ed è nato ad Arlon, comune della Vallonia sito a 185 km dalla capitale. Viene inoltre considerato come il fondatore di una disciplina scientifica, l’antropologia religiosa, per la quale si impegna dal 1968.

In un’intervista ad Avvenire, il neo-cardinale afferma che da oltre 40 anni spiega che l’uomo da quando esiste, ovvero da 2 milioni di anni, è già un essere religioso: «L’uomo fa esperienza del sacro sin dai suoi primordi e la sua coscienza razionale si è sviluppata non in senso fisico, ma come coscienza della sua esistenza nel mondo e della presenza di un essere trascendente al di là del mondo eterno». Nell’intervista trova spazio anche una critica verso ilpensiero marxista, pericoloso soprattutto perché non dà valore all’uomo, ma alla collettività, in modo che questo non abbia legami con il sacro. Ries, invece, con il suo lavoro riesce invece a mostrare che c’è un’antropologia religiosa profonda che accomuna tutti: greci, romani, buddhisti o induisti. E’ l’esperienza del sacro, per l’appunto. L’altra critica è verso il pensiero strutturalista, un altro “rischio” per il cristianesimo.

In una seconda intervista, pubblicata sull’Osservatore Romano, Ries afferma che l’uomo anche in futuronon potrà fare a meno della religione, perché l’uomo è soprattutto homo religiosus e questo è decisamente evidente in seguito alle ultime scoperte. L’uomo è nato dunque, come homo religiosus e comehomo symbolicus. D’altronde, anche gli stessi studiosi di preistoria, tra cui il prestigioso Yves Coppens, sono d’accordo: proprio dalla preistoria, si riesce a constatare una crescita continua della religione, e l’incarnazione di Gesù non può che rappresentarne l’apice“Le grandi religioni – afferma Ries -continueranno, perché sono una via, un senso per l’uomo. Ai lati di una via ci sono certamente i sassi (che potremmo paragonare alle sétte) ma le religioni, quelle grandi, continueranno. D’altronde, si possono trovare prove di questo in tutto il pianeta. Se si fa una panoramica mondiale, ci si rende conto che l’uomo ha bisogno della religione.” 

Infine, Julien Ries ci tiene a sottolineare che ha donato la sua biblioteca all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove un’intera equipe sta lavorando sul suo pensiero circa l’antropologia religiosa. La casa editrice è Jaca Book.

Antonio Ballarò

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28/04/2012 23:07
 
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tratto dal libro IL SENSO RELIGIOSO di don Giussani

Capitolo 1: il senso religioso

 

‘Partire da se stessi’: è questo l’imperativo con cui si inizia il cammino di scoperta del reale. Evitare dunque di ragionare su concetti astratti (opinioni, disquisizioni, etc): al centro deve essere l’io, colto nel momento in cui incontra la realtà e si paragona con essa seriamente (io-in-azione).

In questo impegno con la vita si incontra da una parte la ‘tradizione’ (ciò che si riceve dal passato) e dall’altra il ‘presente’ (la realtà attuale di sé). La tradizione è il patrimonio in cui ci viene trasmessa l’esperienza degli altri; il presente è il luogo in cui l’io prende coscienza di ciò che lo costituisce. In questo modo emerge nel presente la straordinaria evidenza di un duplice fattore operante in noi: quello ‘materiale’ e quello ‘non-materiale’.

Il senso religioso è il fenomeno in cui si esprime nel modo più chiaro il fattore ‘non-materiale’ che ci costituisce.

La natura di questo senso religioso è quella di essere una grande domanda in cui ad esprimersi è il nostro stesso io. Domanda inevitabile, strutturale, insopprimibile. Domanda che esige una risposta esauriente, non parziale o superficiale.

Di fronte  a questa grande domanda sperimentiamo la sproporzione del nostro io in merito alla possibilità di trovarne la risposta. Questa sproporzione appare paradossalmente sempre più grande quanto più progredisce la nostra conoscenza del reale. La conseguenza di questo fatto è quella profonda tristezza-nostalgia che caratterizza ogni uomo che sia serio di fronte alla vita. L’io in effetti appare come una ‘promessa’: da qui la sua permanente ‘attesa’. Essa diventa dimensione di ogni gesto che l’uomo compie.

La conclusione è che se non si ammette l’esistenza di una risposta –benchè insondabile- si sopprime la domanda stessa che è l’uomo e la sua ragione.

  

Capitolo 2: atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo

 Giussani indica sei atteggiamenti irragionevoli in cui comunemente l’uomo cade di fronte alla grande domanda che emerge dalla sua ragione e dal suo cuore.

Nelle prime tre (negazione teoretica del senso stesso della domanda; sostituzione di essa con un irrazionale volontarismo; negazione pratica o atarassia) si tenta una negazione radicale (svuotamento) della domandastessa, come se fosse priva di significato o di peso esistenziale.

Nelle seconde tre (riduzione a sentimento; negazione disperata della risposta; proiezione alienante della risposta nel futuro) si tenta di ridurre la domanda negando che abbia possibilità di risposta, pur considerandone il grande peso esistenziale.

Le conseguenze di questi atteggiamenti irragionevoli sono pesanti: la rottura con il passato (non c’è più legame tra l’esperienza degli uomini, privata di ogni significato), l’incomunicabilità e la solitudine (non ci si mette insieme per una più attenta sequela del Mistero Ultimo, ma solo per istintività, sentimentalità passeggera o sfruttamento reciproco), la perdita della libertà (l’uomo viene ridotto a prodotto dei suoi antecedenti biologici).

La conclusione è che la vera libertà consiste nella piena realizzazione di sé, cioè nella scoperta-incontro con l’Infinito, negando il quale si nega l’uomo stesso.

  

Capitolo 3: itinerario del senso religioso

 Ma come sorge la grande domanda in noi? C’è un itinerario che il nostro io compie quasi come una progressione.

Tutto comincia dall’incontro-impatto con la realtà: sorge lo stupore per la presenza delle cose, perché non le abbiamo fatte noi, ci sono date, sono ‘altro’ da noi e suscitano in noi un’attrattiva. Questa realtà si dimostra subito dopo come un ‘cosmo’, una realtà ordinata, strutturata secondo un disegno stupefacente. E, procedendo in questo sguardo al reale, esso ci appare come ‘provvidenziale’ all’io.

Il momento decisivo è quando l’io riguardo a sé prende coscienza di essere lui stesso dato a sé: io non mi do l’essere, dipendo da ‘altro’. Ecco allora cos’è l’io: tu-che-mi-fai, essendo questo ‘tu’ la realtà misteriosa che mi genera e che mi genera come un ‘io’. Sorge qui un dialogo che si chiama preghiera: scoprire al fondo di sé un altro.

Infine l’io si accorge di avere dentro di sé una legge non scritta che fa dire ‘questo è bene, questo è male’: non ce la diamo noi, è data, quasi imposta da altro.

Così la strada per arrivare al riconoscimento del Mistero Ultimo –cioè la strada della religiosità- è l’impegno con la realtà, considerata in tutta la sua ampiezza. La realtà è infatti ana-logia: parola che rimanda più in su.

 

A questo punto si è scoperto il concetto di segno: una realtà che rimanda ad un’altra realtà, una realtà il cui significato è un’altra realtà. E’ come una provocazione. Negare questa altra realtà sarebbe irrazionale.

Il rimando a questa altra realtà è esigito soprattutto dal segno potente che è il nostro io quando è considerata nel suo carattere esigenziale: la vita dell’io è esigenza di verità, felicità, giustizia, amore. Rimanda energicamente ad ‘altro’.

Questo altro è senza volto, ma per indicarlo il termine più adeguato è il ‘Tu’. Infatti il nostro io è ultimamente esigenza di un ‘tu’, come dimostra l’esperienza quotidiana (nulla ci appaga come il ‘tu’).

Questo ‘Tu’ rimane comunque ignoto; sorge l’idea di Mistero: è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende.

Anche i termini che usiamo per indicarlo (in-finito, in-effabile, im-menso…) sono solo ‘negazioni’ per avvicinarsi ad un concetto inesprimibile: sono aperture al Mistero.

 

La ragione è costretta ad ammettere l’esistenza di questo ‘incomprensibile’. Ma la libertà dell’uomo può rifiutare questo riconoscimento.

La libertà è necessaria perché l’uomo possa essere se stesso, raggiungere liberamente il suo destino, riconoscerlo liberamente. Essa pone di fronte ad una opzione decisiva: o vado di fronte alla realtà spalancato e desideroso di conoscerla, oppure ci vado chiuso in una mia misura. E’ una opzione quotidiana.

Questa libertà si gioca nell’interpretazione di quel grande ‘segno’ che è tutta la realtà, il mondo.

Il problema fondamentale è dunque l’educazione della libertà come responsabilità, cioè come capacità di rispondere alla grande chiamata della realtà. Richiede un atteggiamento insieme di domanda e di positività (cioè ammettere la possibilità della risposta).

L’uomo si incontra qui con l’esperienza del rischio. Esso non è la mancanza di ragioni, ma una debolezza quasi psicologica e strutturale a seguire l’indicazione della ragione. Questa debolezza viene superata solo attraverso il fenomeno della comunità. 

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28/04/2012 23:09
 
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Capitolo 4: ragione e rivelazione

 L’energia della ragione tende a entrare nell’Ignoto: tende a conoscere ciò che ha intuito come l’inarrivabile, il Mistero. Scoprire il Mistero, entrare in esso, è il motivo della ragione, la sua forza motrice. E’ il rapporto con quell’al-di-là che rende possibile anche l’avventura dell’al-di-qua.

L’Ulisse dantesco è il simbolo di tutto ciò. Dominatore del mare nostrum, sente l’esigenza di andare oltre le colonne d’Ercole, al di là delle quali la saggezza comune poneva solo vuoto e pazzia. La mentalità positivista cerca di scoraggiare questo ardimento dando per sicuro solo ciò che si misura all’interno dei confini stabiliti. Ma oltre le colonne d’Ercole sta l’oceano del significato: è nel loro superamento che uno comincia sentirsi uomo.

Nella Bibbia troviamo una pagina ancora più grande: la lotta di Giacobbe con Dio. Il patriarca rimane segnato da questa lotta, che mostra tutta la statura dell’uomo; una lotta senza vedere il volto dell’altro.

Ma rimanere sospeso alla volontà di questo ignoto ‘signore’, che giunge a me attraverso le circostanze, è unaposizione vertiginosa per la ragione.

Un eccessivo attaccamento a sé (‘amor proprio’) spinge la ragione a dire: “ecco, ho capito, il Mistero è questo”. E così l’uomo esalta il proprio punto di vista: un particolare viene pompato a definire la totalità. Il senso religioso viene corrotto, costretto a identificare il suo oggetto con qualcosa che l’uomo sceglie, con qualcosa di ‘comprensibile’ a sé.

Il problema è cosa sia la ragione: o l’ambito del reale o un varco sul reale, un varco sull’essere nel quale non si è mai finito di entrare. Pretendere invece di essere la misura di tutto significa pretendere di essere Dio.

Il particolare con cui la ragione identifica la spiegazione di tutto la Bibbia lo chiama idolo: qualcosa che sembra Dio e non lo è. Ne segue una corruzione  dell’umano descritta da San Paolo (Romani 1,22-31). Nella misura in cui gli idoli sono esaltati l’umano viene meno. Per la Bibbia l’origine della violenza come sistema di rapporti, cioè la guerra, è l’idolo.

Come idolo l’uomo sceglie qualcosa che ‘capisce’ lui. La razza, il partito, il capo, in nome del quale tutto è lecito.

Ma l’idolo non fa mai unità e totalità senza dimenticare o rinnegare qualcosa.

 

Esistenzialmente l’uomo è spinto ad interpretare male il segno che è la realtà, cioè prematuramente, impazientemente. L’intuizione del rapporto col Mistero si corrompe in presunzione.

Per questo San Tommaso d’Aquino dice che è necessaria per gli uomini una “divina rivelazione”. E prima di lui Platone invocava “l’aiuto della rivelata parola di un dio”. All’estremo della coscienza appassionata e sofferta dell’esistenza si sprigiona questo grido dell’umanità più vera, come una implorazione, una mendicanza.

E’ l’ipotesi della rivelazione.

Già il mondo è in se stesso, in quanto segno, una rivelazione del Mistero. Ma in senso proprio “rivelazione” non è il termine di una interpretazione che l’uomo fa sulla realtà: si tratta di un possibile fatto reale, un eventuale avvenimento storico. Un fatto che l’uomo può riconoscere o non riconoscere. Un fatto per cui Dio entra nella storia dell’uomo come un fattore interno alla storia, come una presenza dentro la storia, che parla come parla un amico: “il punto d’intersezione del senza tempo col tempo” (Eliot).

  • Una simile ipotesi prima di tutto è possibileNegare la possibilità di questa ipotesi è l’ultima estrema forma di idolatria, l’estremo tentativo che la ragione compie per imporre a Dio una propria immagine di Lui. “A Dio nulla è impossibile” (Luca 1).
  • In secondo luogo questa ipotesi è estremamente conveniente. Perché si incontra con il desiderio più autentico dell’uomo. Horkheimer: “Senza la rivelazione di un dio l’uomo non riesce più a raccapezzarsi su se stesso”.
  • In terzo luogo ci sono due condizioni che questa ipotesi deve rispettare:

-               deve essere una parola comprensibile  all’uomo

-               il risultato della rivelazione deve essere l’approfondimento del Mistero come mistero, non deve essere una riduzione del mistero. Sapere che Dio è padre, come ha rivelato Cristo, è illuminante, ma nello stesso tempo rimane il mistero, rimane più profondo: Dio è padre, ma è padre come nessun altro è padre. Il termine rivelato porta il mistero più dentro di te.

L’impossibilità di una rivelazione è il dogma fondamentale del pensiero illuministico, il tabù predicato da tutta la filosofia liberale e dai suoi eredi materialisti. Ma l’ipotesi della rivelazione non può essere distrutta da alcun preconcetto. Occorre che nell’uomo rimanga quell’apertura originale del cuore verso questo fatto possibile. 

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03/05/2012 23:21
 
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“The New Scientist”:
quando la scienza si occupa di Dio e della religione

Nell’editoriale, sottotitolato “La nuova scienza della religione ci dice dove laicisti vanno male”, viene confutata la teoria anticlericalecontro l’educazione religiosa dei bambini (il centro del pensiero di Dawkins, per intenderci), spiegando che «i bambini sono nati prontia vedere Dio all’opera intorno a loro e non hanno bisogno di essere educati a credere in lui». Questa, si legge, «è solo una delle tante recenti scoperte che stanno sfidando le critiche standard alla credenza religiosa. Conoscendo le radici biologiche della religione, sta diventando chiaro che i laici combattono spesso contro dei mulini a vento». L’altro dato, continua l’articolo, «è che tale credenza in Diosembra incoraggiare le persone ad essere gentili tra di loro», chiaramente «gli esseri umani non hanno bisogno della religione per essere morali, ma questo aiuta».

«I laicisti», continua l’editoriale, «dovrebbero inoltre riconoscere la distinzione tra “religione popolare”, e la complessa “ginnastica intellettuale” che è la teologia. Attaccare la seconda è facile, ma potrà fare ben poco per minare la presa della religione». Si conclude così: «rivendicazioni religiose meritano un posto speciale nella vita pubblica [...]. La religione è profondamente impressa nella natura umana e non può essere liquidata come un prodotto dell’ignoranza, indottrinamento o stupidità. Occorre riconoscere che i laici stanno combattendo una battaglia persa».

Tra gli articoli più interessanti c’è quello firmato dallo psicologo Justin L. Barrettil quale scrive«La stragrande maggioranza degli esseri umani sono nati “credenti”, naturalmente inclini a trovare interessanti affermazioni e spiegazioni religiose. Questo, mentre non ci dice nulla sulla verità o meno delle affermazioni religiose, aiuta a vedere la religione sotto una interessante luce nuova. Appena nati, i bambini iniziano a cercare di dare un senso al mondo che li circonda [...]. Quando si tratta di speculare sulle origini delle cose naturali, i bambini sono molto ricettivi alle spiegazioni che richiamano un design o uno scopo». La semplicità dei bambini li porta a preferire spiegazioni che offrono ragioni per quello che vedono, respingendo spiegazioni basate sulla casualità. Lo psicologo mette in guardia dal fatto che «i bambini non sono nati credenti del Cristianesimo, nell’Islam o qualsiasi altra teologia, ma credenti in quella che io chiamo “religione naturale“: hanno forti tendenze naturali nei confronti della religione, ma queste tendenze non necessariamente li spingeranno verso un qualsiasi credo religioso». Lo psicologo confuta anche la teoria che credere in Dio sia equivalente a credere a Babbo Natale o alla fatina dei denti: «l’analogia comincia a indebolirsi quando ci rendiamo conto che molti adulti arrivano a credere in Dio in età adulta, dopo aver ripensato alle loro credenze infantili. La gente non inizia, o riprendere a credere, in Babbo Natale in età adulta». E’ evidente che non c’è nulla che regga il confronto con il Creatore dell’ordine naturale, oggettivamente percepito da chi ha un’esperienza di fede. Alcuni pensano che credere in Dio sia una cosa infantile, ma -risponde Barrett- anche se fosse, «perché l’etichettatura di idea come “infantile” dovrebbe renderla automaticamente cattiva, pericolosa o sbagliata? E’ vero che i bambini sanno meno degli adulti e fanno più errori di ragionamento, ma questo significa solo che dovremmo esaminare più attentamente le credenze dei bambini rispetto a quelli degli adulti». E conclude:«gli adulti hanno anche altre credenze, come la permanenza di oggetti solidi [cioè che gli oggetti esistono anche se non vengono osservati, Nda], la continuità del tempo, la prevedibilità delle leggi naturali, il fatto che le cause precedono gli effetti, che le persone hanno una mente, che le loro madri li amano e così via. Se credere in una divinità è una cosa infantile, lo stesso vale rispetto a questi tipi di credenze».

Un secondo articolo è firmato da Ara Norenzayan, psicologo sociale presso la University of British Columbia, ed è intitolato: “La religione è la chiave della civilizzazione”. Scrive: fin dai primi uomini, «la religione è stata il collante che ha tenuto insieme le società, spesso composte da stranieri». Lo è stata«per la maggior parte della storia umana», anche se «recentemente alcune società sono riuscite a cooperare con istituzioni secolari come i tribunali, polizia e meccanismi per far rispettare i contratti. In alcune parti del mondo, in particolare Scandinavia, queste istituzioni hanno provocato il declino della religione usurpando le sue funzioni di “community-building”»Il cristianesimo in Occidente ha posto le basi della civiltà, è giusto che siano le istituzioni secolari a proseguire. Non è il compito principale del cristianesimo quello di far “essere più buoni”, ma di dare un senso adeguato alla vita, di rendere felici perché coscienti del mondo.

Infine, nel sommario viene scritto«nel nostro mondo illuminato, Dio è ancora ovunque. Nel Regno Unito ci sono gli argomenti rabbiosi dell’”ateismo militante” e il posto della religione nella vita pubblica. Negli Stati Uniti, la religione prende ancora una volta il centro della scena nelle elezioni presidenziali [...]. Gli atei vedono spesso Dio e la religione come imposti dall’alto, un po’ come un regime totalitario. Ma la fede religiosa è più sottile e interessante di questo». In questo numero di “New Scientist” si vogliono proprio reimpostare i termini del dibattito: «piaccia o no, il credo religioso è radicato nella natura umana. E’ una cosa buona: senza di essa saremmo ancora a vivere nell’età della pietra [...]. Soltanto capendo cosa è o non è la religione noi possiamo sperare di andare avanti».

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05/11/2012 08:05
 
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Russia: rinascita religiosa,
l’88% di credenti, nonostante il tentativo di cancellare Dio

Vatican Insider la chiama la “primavera ortodossa”, al di fuori di ogni metafora non è altro che il ritorno (di cui abbiamo già parlato altre volte) della religiosità e della fede (soprattutto di confessione Ortodossa) in quelle terre che furono succubi del comunismo sovietico e del conseguente ateismo di stato.

Stando all’articolo dell’Insider (che riporta anche la ricostruzione storica delle controversie della religiosità russa, che consiglieremmo di leggere), la percentuale di credenti in Russia è ora superiore a quella nel periodo precedente la rivoluzione bolscevica: si professa credente l’88% della popolazione ed il79% fa parte della Chiesa Ortodossa (il restante 9% è composto da musulmani, ebraici, cattolici e protestanti). Comparando questi dati con quelli appena successivi alla caduta del regime risulta che più di un russo su due, negli ultimi vent’anni, avrebbe riscoperto la fede.

Si tratta dell’ennesima, chiara dimostrazione del fallimento dei progetti sovietici: si era tentato infatti di sostituire la fede con il culto dello stato; di cancellare la cultura cristiana (come qualsiasi cultura anti-sovietica) mettendo al bando testi sacri e non o esponendo manifesti secondo cui “la splendente luce della scienza ha provato che non c’è alcun Dio”di stabilire le ideologie del regime e l’”ateismo scientifico” come religione di stato.

Come ebbe modo di dichiarare Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, l’orribile repressione staliniana, che non è riuscita a cancellare Dio dal cuore dell’uomo come avrebbe voluto, ebbe come conseguenza collaterale la presa di coscienza, di chi perseverò, del fatto che “nelle epoche di prosperità della Chiesa non si vive tanto intensamente questa gioia della fede, questa forza vivificante della fede”. Come è evidente, l’opera di ricostruzione e di recupero è iniziata: se è vero che le idee del regime si lasciano dietro “fiumi di sangue, degradazione e ignoranza in tutti i campi”, è anche vero che c’è la volontà di riparare a tali delitti, i numeri lo confermano.

Michele Silvi

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07/04/2013 15:06
 
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Nati per credere

Biologos 

di Maria Beatrice Toro
*psicologa e psicoterapeuta

 

La persistenza della religiosità e della spiritualità, sopravvissute al processo di secolarizzazione caratteristico dell’epoca moderna, sembra oggi costituire una sorta di “spina irritativa” nel fianco del pensiero di stampo scientista, laddove, anche nel nostro vivere post-moderno, così incline alla contaminazione fra culture e pensieri diversi, c’è ancora chi, graniticamente, sceglie di rimanere nell’alveo dell’ideologia positivistica e di trattare l’idea di Dio come un residuo di credenze erronee.

Tra le righe di molta letteratura prodotta in ambito scientista, si legge un certo sgomento, in particolare, nei confronti di un’idea-chiave del pensiero religioso e spirituale: il rifiuto che viene opposto nei confronti della riduzione della vita umana a prodotto del caso, con la rivendicazione, per l’uomo, di una discontinuità radicale rispetto al mondo naturale. È questo, infatti, uno dei punti che si connettono alla fede nel trascendente, dato che chi è religioso (o, come sempre più si dice in post-modernità, spirituale) crede che la propria esperienza di vita unica, significativa e voluta da una causa superiore.

Questa posizione risulta così fastidiosa, per alcuni, da investire una certa quantità di tempo e risorse per investigarla. D’altronde, scriveva Aristotele che il pensiero nasce dalla meraviglia; dovevano dunque essere alquanto “meravigliati” tanti scrittori che si sono dedicati a questi argomenti. Meravigliati della persistenza della religiosità nell’uomo post – moderno.

Richard Dawkins, Lewis Wolpert ed altri numerosi autori, italiani e stranieri, hanno scritto saggi e riflessioni, in particolare, sul fatto che la maggior parte delle persone non accetti l’idea che la casualità sia la forza fondamentale che governa la natura e la vita. La proposta di spiegazione di tale difficoltà è che, poiché Homo sapiens è un essere che comprende e modifica l’ambiente in cui vive ragionando in termini di causa ed effetto, tenda, poi, erroneamente, a esportare tali categorie fisiche anche in ambiti più ampi. La maggior parte delle persone, dunque, si trova naturalmente portata a rifiutare la concezione di un universo basato sulla casualità e preferisce supporre una causa che spieghi l’origine della natura e della vita, a causa di un’abitudine cognitiva estremamente radicata. Un’abitudine importante, dato che il ragionamento per causa ed effetto e l’utilizzo di strumenti per intervenire sull’ambiente sono caratteristiche vincenti della specie Homo ed, anzi, sono una delle ragioni del successo evolutivo di una specie fisicamente più debole di molte altre, che ha nel tempo soggiogato con la forza del pensiero, dell’inventiva, dell’organizzazione sociale. La religione viene interpretata come il sottoprodotto di tendenze cognitive utili ad altri scopi, che, in seconda battuta, causerebbero un’erronea idea di causa superiore per l’esistenza dell’universo e per la presenza dell’uomo. La religione, in qualche modo, viene fatta ricadere, ancora una volta, nelle nostre “zone erronee”[1].

Giorgio Vallortigara, professore di Neuroscienze alla Facoltà di Scienze Cognitive dell’Università di Trento, scrive, a tale proposito, un approfondimento, affermando che, sebbene sia un residuo senza una funzione reale, la credenza religiosa possa comunque avere avuto ricadute positive sull’uomo e non sia stata dunque “scartata” dai meccanismi della selezione naturale. Ciò che viene affermato è,  in conclusione, qualcosa di sottile:“non è necessario immaginare che la credenza nel sovrannaturale sia il risultato di una pressione selettiva diretta perché abbia dei vantaggi. Come abbiamo visto, molti studiosi ritengono che tale credenza sia una conseguenza collaterale, un residuo, privo di funzioni reali, della nostra capacità di leggere la psicologia degli altri individui”. L’ipotesi scientista viene da questo autore declinata in modo articolato. La fede nel sovrannaturale potrebbe esser stata inizialmente un effetto collaterale dei ragionamenti causali di Homo sapiens, per poi mostrare, in seguito “specifici vantaggi evolutivi”[2]. Insomma, Dio persiste anche dopo la secolarizzazione, perché, nonostante sia un’idea erronea, a qualcosa sembra servire…

Lo trovo un ragionamento a suo modo seducente, ma non trovo ben chiariti i motivi e gli ambiti per cui il  successo evolutivo umano si potrebbe ascrivere all’idea di Dio: mi sembra doveroso, anche se un po’ paradossale, l’utilizzo del famoso rasoio di Occam, per cui non ha senso moltiplicare i concetti laddove essi non siano strettamente necessari. L’uomo poteva sopravvivere e prosperare anche con una visione materialistica…perché no? Non avremmo comunque prevalso sulle altre specie grazie alle nostre caratteristiche intellettive e alla nostra capacità linguistica e sociale? Su questo punto appare davvero più “laico” il pensiero religioso, laddove la fede è vista come un atto personale e libero dell’uomo.

Si consideri, poi, che, per la maggior parte dei credenti, confidare in un’intelligenza che trascende la dimensione naturale non implica (come spesso viene erroneamente supposto), che si debba rifiutare la logica delle teorie scientifiche, e la teoria evoluzionistica quale ipotesi descrittiva sulla realtà. È, piuttosto, la visione di fondo che cambia; sapere tutto degli ultimi cento milioni di anni di storia evolutiva, per quanto esaustivamente lo si possa descrivere, non può, per chi è credente, supplire all’ignoranza umana circa i costituenti ultimi dell’origine dell’universo e della sua struttura profonda. Chi crede in Dio accoglie un sistema di interpretazione della vita che non entra necessariamente in contraddizione con il pensiero scientifico riguardo all’evoluzione: è una banalizzazione dire che chi crede deve per questo postulare un continuo intervento divino che sostenga l’evoluzione stessa.

Scrive il cattolico Fiorenzo Facchini“A parte il fatto che in ogni caso non basterebbero mutazioni delle strutture biologiche perché occorrono anche cambiamenti ambientali, con il ricorso a interventi esterni suppletivi o correttivi rispetto alle cause naturali viene introdotta negli eventi della natura una causa superiore per spiegare cose che ancora non conosciamo, ma che potremmo conoscere. Ma così non si fa scienza”. E aggiunge “La scienza in quanto tale, con i suoi metodi, non può dimostrare, ma neppure escludere che un disegno superiore si sia realizzato, quali che siano le cause, all’apparenza anche casuali o rientranti nella natura”.  Da persone religiose si può credere che Dio abbia posto, nella natura, le “cause seconde”, che sono in grado di portarne avanti l’evoluzione,senza che ci sia bisogno di un intervento miracolistico perché le cose accadano. Questa puntualizzazione di Facchini mi sembra un punto d’arrivo importante: non si tratta di un’ipotesi particolarmente semplice e intuitiva, ma credo che possa costituire un modo di descrivere le cose equilibrato e il punto di partenza di un dialogo tra credenti e non credenti.

Come psicologa, poi, vorrei aggiungere ancora qualcosa alle possibili motivazioni per la presenza, per alcuni ingombrante, della religione in un mondo de-sacralizzato e secolarizzato quale è il nostro occidente oggi. Vorrei sottolineare, se mi si perdona l’aspetto polemico, che la selezione naturale che alcuni riveriscono con tanto zelo, non sembra essersi curata di fornire all’uomo, attraverso il concetto di casualità, di una stringente idea valida per tutti e necessitante, cosicché siamo liberi di pensarla in modi diversi. L’idea di Dio potrebbe, allora, persistere e continuare a orientare la vita di miliardi di persone non già perché siano presenti “utili errori cognitivi”, ma perché la coscienza dell’uomo è davvero estremamente ricca e complessa e non è fatta di sola cognizione. La possiamo ragionevolmente inquadrare come un fenomeno non omogeneo e qualitativamente unico nel mondo naturale.

Uno dei fattori di base della personalità potrebbe, allora, essere costituito proprio dalla spiritualità, ovvero dalla tendenza ad auto–trascendersi, come tratto costituzionalmente umano e non dipendente da altri fattori. Io credo che dovremmo dare vita a ricerche in tale direzione e verificare, attraverso un adeguato disegno sperimentale, l’importanza del fattore “auto-trascendenza” tra tutti gli altri grandi fattori cognitivi, emotivi e personologici. Quel che potrebbe esser studiato è la dipendenza o indipendenza di tale fattore rispetto ad altre caratteristiche e peculiarità della persona. In Italia un tale studio sperimentale manca e, ancora oggi, la religiosità (data la mancanza di informazioni raccolte con l’ausilio di un qualche disegno e protocollo sperimentale), viene da alcuni associata a determinati tipi di personalità, magari suggestionabili, o infantili, o, ancora, così  prone a sensi di colpa irrazionali da esser costrette all’adozione di rigide regole morali. Si tratta di una serie di affermazioni che talvolta vengono fatte passare per ovvietà psicologiche, con un atteggiamento che denota mancanza di rigore e, dunque, di credibilità. Appare spontaneo, allora, riconoscere, in queste letture, una certa coloritura (questa sì antiscientifica…) di pregiudizio, da abbattere, a mio parere, attraverso il dialogo e la serietà di un approfondimento che consenta di andare oltre alle secche di posizioni puramente ideologiche.

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08/07/2013 22:53
 
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Ma religione e scienza non nascono dalla paura della morte

Le cose diventano complicate dunque per quanti si dicono nemici della religione ma al contempo divinizzano la scienza come unica fonte di verità e gli scienziati come nuovi sacerdoti di questa religione secolarizzata. E’ infatti possibile che il loro argomento principale si trasformi in un boomerang per spiegare il loro comportamento.

Lo studio ha anche il merito di suggerire la fallacia argomentativa di chi parla “dell’invenzione di Dio” da parte dell’uomo con lo scopo di fuggire dall’idea della morte. La religione non nasceper consolazione davanti alla morte così come, evidentemente, la scienza non nasce per questo motivo anche se entrambe hanno come effetto quello di diminuire lo stress nei confronti del fine vita. Come abbiamo detto altre volte, si scambia erroneamente la causa con uno degli effetti: mentre la scienza nasce per rispondere al “come” delle cose, la fede nel Dio cristiano nasce grazie alla Sua rivelazione all’uomo e non come iniziativa di quest’ultimo, nasce come interesse alla sua felicità nel presente (“qui e ora”). Se poi entrambe, scienza e fede, aiutano anche a vivere meglio il momento della morte questo è un effetto secondario, non certo la causa della loro origine.

In ogni caso, uno studio pubblicato nel 2012 ha proprio evidenziato che pensare alla morte rende soltanto i cristiani e i musulmani più vicini a Dio, ma non gli atei. «La nuova ricerca suggerisce che il vecchio detto “niente atei in trincea” non regge», si commenta. Questo evidenzia che la presenza della morte rafforza soltanto la propria fede in Dio e il motivo è molto semplice: proprio la morte paradossalmente è lo stimolo più efficace a pensare alla vita, cioè al suo Senso ultimo.

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17/08/2013 23:21
 
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La fede come espressione
di una mente adulta

Micromega 

di Maria Beatrice Toro
*psicologa e psicoterapeuta

 

Una delle questioni che si presenta sempre più frequentemente alla psicologia della religione è il tema delle basi biologiche ed evolutive della fede, dati i contributi provenienti dalle neuroscienze  e, altresì, dalle scienze cognitive, che stanno fornendo nuove informazioni sul funzionamento del cervello e della mente.

Oggi, in particolare, prendo spunto dall’articolo di Vallortigara e Girotto (la Repubblica 26-06-2013), che anticipa un loro saggio, contenuto nell’ultimo numero della rivista“Micromega” dedicato al tema dell’ateismo.

Gli autori mettono insieme, per dar forma a un ragionamento sull’origine naturale della fede, i risultati di una serie di ricerche svolte nell’ultimo decennio sulle modalità attributive della mente infantile e adulta. Come siamo ormai abituati a leggere, il punto di partenza di molte interpretazioni (a mio avviso errate) di tali ricerche è l’idea che la fede scaturisca dalla naturale tendenza del bambino ad attribuire impropriamente relazioni causali tra i fenomeni. Anche senza il contributo dell’educazione religiosa, poiché l’attribuzione causale impropria è una delle basi naturali del ragionare infantile, la fede tenderebbe a manifestarsi, anzitutto, come risposta a domande sui fenomeni del mondo naturale che non si spiegano in altro modo (“Perché c’è il mondo? Perché sono nato? Cosa c’era all’inizio del tempo?”).

Una simile interpretazione dell’origine naturale del credere in Dio non basta, tuttavia, spiegano gli autori, a dare conto della fede come percezione di un qualche significato e finalità dell’esistere. Gli autori aggiungono, allora, un secondo elemento: i bambini sono particolarmente orientati a distinguere le attività proprie di un oggetto inerte da quelle di un agente soggettivo e sono molto orientati alla ricerca di agenti soggettivi.  Gli oggetti inerti mostrano delle caratteristiche spazio temporali precise e si comportano in base a delle regole che i bambini intuiscono e sulla cui base formano le loro aspettative a proposito degli oggetti stessi. I bambini sanno che se si spinge un oggetto, ad esempio un pallone da calcio, questo si muove, così come imparano presto che la sua massa non può passare attraverso altri oggetti, e che il pallone da calcio cade verso il basso se lo si lascia andare. Il pallone, dunque, non si muove da solo, non va da qualche parte “perché lo vuole”, non essendo dotato di intenzionalità e capacità di agire, ma va dove viene spedito. I soggetti animati, invece, non si limitano a reagire, ma agiscono intenzionalmente e hanno degli scopi: fanno cose che hanno un senso per loro, finalizzano le loro azioni per realizzare progetti significativi. Allora, se qualcuno ha creato il mondo, poiché questo qualcuno viene pensato come un soggetto agente, lo ha fatto per uno scopo. E, ora, si aggiunga un terzo elemento: la tendenza umana a vedere nelle cose l’intenzionalità di un artefice, connaturata tanto alla mente infantile che a quella adulta, che porta l’uomo a vedere in troppe cose uno scopo.

Il cocktail ateistico, a questo punto, è pronto.  Mescolando i tre elementi si otterrebbe la base naturale della fede in Dio: che ha creato il mondo, lo ha creato con una finalità, e con l’intenzionalità propria di un artefice. Suppongo, basandomi su vari scritti in merito, che il ragionamento potrebbe proseguire così: “le persone razionali, giunte alla maturità, si volgeranno finalmente al pensiero scientifico e si ergeranno contro tali aporie della mente. Qualcuno continuerà a definirsi credente: non ci si può fare nulla, ma, in compenso sono stati scovati i presupposti cognitivi della credulità umana”Ma è davvero così?

Se il cocktail fosse davvero questo, dovremmo aspettarci che i credenti basino la loro fede e l’esperienza spirituale sui presupposti di questi tre ingredienti, magari estendendo le zone erronee dell’infanzia anche nell’età adulta.  Se, invece,  i credenti utilizzassero (come utilizzano), altri ragionamenti,  o si basassero su altre percezioni,  esperienze, sentimenti,  il discorso, logicamente, non si applicherebbe.  Come si sono abbandonate tante altre modalità infantili (come credere che se un liquido è versato in un bicchiere più stretto esso sia di più della stessa quantità versata in un bicchiere più largo…), si abbandonerebbero anche queste e ci sarebbero altri processi alla base della fede, certamente meno banali. Tali processi esistono e appartengono, a mio avviso, a una sfera peculiare della vita umana, che ricorda ciò che Kant chiamò “ragion pratica”, attribuendole non meno rilevanza che alla “ragion pura”. Non è, infatti, difficile scoprire che i credenti non si relazionano al trascendente perché, diversamente, non si spiegano  le cose, ma, piuttosto, vivono la fede in relazione ad un senso di finitudine esistenziale, per il quale la fede apre la possibilità di dare una risposta, che non è, tuttavia, necessaria, ma libera.

Non a caso, i credenti definiscono la fede come un dono, ovvero qualcosa di totalmente gratuito. Vi è, nell’esperienza spirituale, l’entrare in contatto con un senso di profonda interconnessione tra le cose, che collega il Sé a Dio, al mondo e agli altri. Se fosse solo un problema di sopravvivenza di antiche “vestigia cognitive”  non si capirebbe perché, oggi, in un mondo che non favorisce certo la visione di insieme, ma incoraggia la iper specializzazione e la velocità nel reagire, si senta, sempre più prepotentemente, il bisogno di fermarsi ad approfondire la propria vita, fino alle porte della fede.  Non si capirebbe come mai fioriscano tante scuole che insegnano a dare attenzione al presente, seguendo pratiche di preghiera cristiana, pratiche meditative, o, anche, pratiche di consapevolezza non agganciate a una fede in particolare.

Si sa che le attività di preghiera silenziosa e di meditazione sono esperienze specifiche, che si abbinano a correlati neuropsicologici tipici, con alterazioni del quadro elettroencefalografico e diversa percezione del dolore fisico e mentale (Coromaldi e Stadler, 2004, Kakigi et al., 2005, cit. in Chiesa A. 2011). La ricerca di tali dimensioni dell’esperienza, come la consapevolezza, può essere ritrovata in tanta psicologia contemporanea. Mi riferisco, in particolare, a tutti gli studi nati a partire dal lavoro di Kabat Zinn sulla pratica di consapevolezza (tanto per dare un riferimento a uno studioso che si muove all’interno dell’orizzonte della psicologia scientifica, che, mi auguro, appagherà la sete scientista di leggere cose che vengono pubblicate su riviste rigorosamente peer revieweed…). L’apertura al momento presente è il fulcro di molte attività e pratiche di meditazione, che oggi vengono copiosamente riscoperte come strumento fondamentale per preservare noi stessi dalla reattività del vivere di corsa, producendo, consumando e consumandoci.

E poi, vorrei porre all’attenzione una domanda importante, che rappresenta una delle cifre della ricerca di significato cui l’essere umano aspira e che fa da motore alla sua ricerca incessante di senso: perché quando ci si apre al momento presente, anche se non ci si concentra su un oggetto religioso, esperienze di senso di interconnessione emergono? È come se,  quando si scegliesse di fare un passo indietro  rispetto all’attività della mente nel pensare, si potesse scoprire un “luogo”, da cui guardare al proprio pensiero. E in quel “luogo” è possibilesperimentare un senso di unità, prima ancora di avergli dato un nome. So che è scandaloso, ma non posso non notare la risonanza tra il concetto di “luogo da cui osservare i pensieri”, proposto nei training di consapevolezza, e quello di “anima”, che osserva la mente, proprio delle tradizioni religiose.

Vale la pena, allora, riprendere la definizione di sacro come “riflesso dell’impotenza umana dinnanzi all’eternità del tempo e all’infinito dell’universo” (Zas Fris De Col, 2011) e cercare di comprendere davvero perché, comunque, anche nel pieno della secolarizzazione, lo ricerchiamo. Al fenomeno della fede, come libera scelta (o, se si preferisce, dono), di abitare nel sacro o di rifiutarlo, del credere o non credere, di essere o non essere religiosi mi sembra che si sia ancora ben lontani dal dare una spiegazione scientifica: anzi, forse è per ragioni strutturali che non ci può essere una risposta univoca; mi  limito a citare nuovamente il concetto kantiano di “ragion pratica” e a ricordare che, per quanto riguarda la psicologia,  il costrutto ditrascendenza ha un lungo “pedigree” teoretico (Piedmont R., 1999), davvero sorprendente per qualcosa che dovrebbe essere residuale. Nell’ambito della letteratura psicologica, la religiosità rappresenta un dominio di studi molto ampio, è un elemento importante, laddove la presenza della tendenza ad auto trascendersi, nella persona, è un elemento confrontabile con gli altri fattori fondamentali della personalità, tanto da poter essere considerato una delle maggiori dimensioni della vita psicologica. Normale, razionale e adulta, aggiungerei.

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06/02/2015 22:06
 
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La fede nell’aldilà  
e la prova del consenso comune

NeanderthalTra le più antiche “prove” (meglio dire “argomenti”) dell’esistenza di Dio c’è quella definita “del consenso unanime (o comune)”. Veniva utilizzata anche da latini e greci e sostanzialmente si concentra sul fatto che non esiste alcun uomo senza un “senso religioso, senza una domanda o una speranza sull’aldilà, senza quel grumo fondamentale di domande esistenziali che affratellano tutti gli uomini, senza quel bisogno di infinito, di soddisfazione infinita a cui ogni uomo, anche inconsapevolmente, anela da quando nasce.

La stessa rappresentazione di Dio non arriva dall’educazione religiosa ricevuta, come ha scritto Scott Atran, antropologo dell’Università di Oxford e direttore di ricerca in Antropologia presso il Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi: «Le trasformazioni determinate dall’educazione religiosa ufficiale nell’immagine di Dio possono soltanto aggiungersi ad una rappresentazione di Dio già costruita. L’educazione religiosa non contribuirà in misura sostanziale alla creazione di tale immagine. Elementi come la verità e l’eternità sono già presenti nei bambini rispetto a Dio ancora prima di qualunque educazione ricevuta. Il bambino apprende alcuni specifici aspetti di Dio prima di apprendere le caratteristiche e i limiti dei suoi genitori. La rappresentazione di Dio non viene né generalizzata dalla rappresentazione genitoriale e nemmeno associata in modo particolare ad essa» (S. Atran, “In God we trust. The Evolutionary Landscape of Religion”, Oxford University 2002, p. 187).

Infatti, la “religione” (da religere, tentativo umano di unirsi a Dio) non è affatto una sovrastruttura che compare ad un certo punto nella storia umana, ma nasce assieme al primo uomo chiamato, per l’appunto, homo religiosus. Il massimo esperto in questo è senza dubbio il compianto antropologo religioso più noto al mondo, Julien Ries, il quale ha posto l’attenzione sulle prime tombe a noi note, che risalgono a 90mila anni fa. Una sua riflessione inedita è stata recentemente pubblicata nel volume “Vita ed eternità nelle grandi religioni” (Jaca Book 2014). «A partire dall’80.000, l’uomo di Neandertal moltiplica questi riti» ha osservato. La scienza mostra che dal 60.000 ci sono prove convincenti per sostenere che Neanderthal usava sepolture intenzionali e «dal 35.000, nel Paleolitico superiore, l’Homo sapiens sapiens applica un trattamento speciale al cadavere del defunto: ocra rossa, ornamenti attorno alla testa, conchiglie incastonate nelle orbite oculari, perle d’avorio disposte sul corpo. A partire dall’inizio del Neolitico ci si trova in presenza del culto dei crani conservati dai vivi. Nel V millennio sorge la dea».

Dalla simbologia escatologica dei neo-Ittiti (il grappolo d’uva e la spiga significavano che l’anima umana veniva ricevuta nel mondo del dio della tempesta), alla visione sui defunti dei Celti e degli Egizi, i popoli dell’Antico Testamento, i greci ed infine i cristiani. Insomma, «constatiamo che l’homo religiosus, dalla Preistoria fino alla nostra epoca, ha lungamente riflettuto sul suo destino finale».

Come Ries disse in un’intervista nel 2012, il fatto che i nostri più lontani antenati, quotidianamente impegnati nella lotta per la sopravvivenza, mostrarono tanta cura per i resti di un morto è perché «l’essere umano presenta una coscienza religiosa sin da quando era homo habilis, due milioni e mezzo di anni fa, e da allora l’ha sempre sviluppata attraverso i millenni. L’uomo ha avuto coscienza della vita prima di avere coscienza della morte. Il passaggio decisivo è la conquista della posizione eretta: l’uomo ha potuto alzare lo sguardo verso la volta celeste, distinguere un alto e un basso, e lì è nato un simbolo primordiale. Ha notato i movimenti del sole, della luna, degli astri, dell’intera volta celeste, e in lui la coscienza dell’infinito si è fatta strada. Le sue mani libere, non più appoggiate a terra, hanno costruito i primi utensili, e ha avuto coscienza di essere creatore. L’uomo ha avuto coscienza della vita e dolorosamente della morte come rottura della vita. Di quello che pensa che avvenga dopo la morte, le tombe sono la testimonianza: il “linguaggio” delle tombe è molto importante».

Le tombe degli uomini preistorici e degli antichi hanno senso solo nella prospettiva di una vita dopo la morte. Come ha scritto lo psicologoGiovanni Cucci«l’uomo non è un sistema chiuso, ha bisogno di altro da sé e la realtà della società in quanto composta da altri esseri umani che non sono sistemi chiusi non può offrire questo “qualcosa al di là”» (“Esperienza religiosa e psicologia”, Ldc 2009, p.205).

Ecco perché riteniamo che questa “esigenza di altro”, realtà originale ed inestirpabile dentro di noi, è ciò che davvero ci accomuna gli uomini di tutti i tempi, rendendoci “fratelli”. La ricerca dell’Aldilà come soluzione che possa finalmente soddisfare una mancanza incolmabile che chiunque percepisce dentro di sé nell’aldiqua, forma un “consenso comune” a tutti gli uomini. Per questo siamo inevitabilmente indirizzati a pensare ad un Creatore unico che abbia voluto lasciare questa “firma” all’interno dell’uomo perché la creatura non si dimenticasse e non si allontanasse troppo da Lui. Certo, sarebbe però una ricerca impossibile, a tentoni, se non fosse che 2000 fa ha deciso di rendersi a noi incontrabile carnalmente, entrando umilmente nel mondo in uno sperduto villaggio della Palestina. Per questo, oggi, anche noi possiamo dire a chi Lo sta cercando vagando nel buio: “Quel che adorate senza conoscere noi ve lo annunziamo” (At 17,23).


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