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COMMENTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI

Ultimo Aggiornamento: 04/03/2012 22:30
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15/02/2012 21:35
 
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CAPITOLO NONO


DATE CON GIOIA

[1]Riguardo poi a questo servizio in favore dei santi, è superfluo che ve ne scriva.
La carità è l’essenza del cristianesimo. Possiamo dire che il cristianesimo è carità, amore, che si concretizza anche sotto forma di elemosina e di condivisione dei beni.
Raccomandare la carità ad un cristiano è come dirgli che non è cristiano e quindi deve divenirlo.
Per questo motivo Paolo ritiene superfluo scrivere su un argomento così vitale per il cristianesimo. I cristiani sono tali perché amano, perché l’amore è il loro unico comandamento.
Ciò che merita di essere annotato in questo capitolo è l’appellativo di santi che Paolo dono ai cristiani in genere. Qui i santi sono i cristiani di Gerusalemme.
Sono santi, i cristiani, perché sono stati santificati, rigenerati, risorti a nuova vita e questo grazie al sangue di Cristo che li ha purificati e allo Spirito Santo che li ha fatti nascere come figli di Dio.
I figli di Dio devono essere santi perché Dio è santo. Devono amare, perché Dio è carità. Devono condividere i bisogni degli altri, perché Dio ha condiviso i nostri bisogni, le nostre necessità.
Un cristiano non santo per Paolo è un non cristiano, uno che non ha capito cosa Cristo ha fatto di lui, non sa quali doni di grazia e di verità Dio ha versato nel suo seno. Ignora cosa è avvenuto nelle acque del battesimo. Ha dimenticato la sua adesione alla Parola di vita. È ritornato nel suo stato di un tempo.
Tutto questo deve convincerci di una sola cosa: la santità deve essere non solo la nuova essenza del cristiano, quanto il suo desiderio, il suo anelito, il fuoco che lo spinge e lo muove.
Se tutto questo è il cristiano, perché ad un certo momento della storia la santità è stata considerata come una dote riservata a pochi eletti? Perché il popolo di Dio si è dissociato dalla santità e ha percorso cammini e sentieri di non santità?
Le motivazioni sono tante. Molta responsabilità è data dalle circostanze storiche che hanno separato ricerca della santità e popolo di Dio. Finché un uomo pensa che per essere santo bisogna fuggire dal mondo e ritirarsi in un luogo solitario, appartato, lontano dal popolo di Dio, ci sarà sempre una distorsione mentale in tutti gli altri che rimangono nel mondo. Se loro per farsi santi si sono ritirati dal mondo, noi che siamo rimasti nel mondo non possiamo farci santi, a meno che anche noi non ci ritiriamo dal mondo. Gesù invece aveva detto ai suoi apostoli: voi siete nel mondo, non siete del mondo. La storia è riuscita a cambiare questa affermazione di Gesù, facendo pensare che per essere di Dio era giusto ed opportuno non rimanere nel mondo.
Non è forse il mondo il luogo della tentazione, dell’idolatria, dell’abbandono di Dio, della trasgressione dei comandamenti. Fuggiamo il mondo e abbiamo risolto il problema della nostra santificazione.
Nel mondo si ritorna quel poco che è necessario per ricordare loro l’obbligo della conversione o della fede al Vangelo.
È un errore grave questo, le cui conseguenze si ripercuotono lungo tutti i secoli a danno del mondo, ma sopratutto a danno della Chiesa.
Oggi per grazia di Dio e per mozione dello Spirito Santo la Chiesa sa che la santità non si vive fuori del mondo, si vive nel mondo. Tutti coloro che vogliono giovare al mondo e alla Chiesa devono coniugare l’essere nel mondo con il non essere del mondo. Ma bisogna essere nel mondo, per essere la luce del mondo e il sale della terra.
[2]Conosco infatti bene la vostra buona volontà, e ne faccio vanto con i Macèdoni dicendo che l'Acaia è pronta fin dallo scorso anno e già molti sono stati stimolati dal vostro zelo.
Paolo adduce qui il suo motivo per cui gli sembra superfluo scrivere ai Corinzi circa la colletta in favore della Chiesa di Gerusalemme, o come lui preferisce, a favore dei santi.
Il motivo è la conoscenza che Paolo ha dei Corinzi. Questi sono di buona volontà. Sono capaci di portare a termine un’opera così impegnativa.
Essi considerano l’opera come un qualcosa di importante, di valido, che impegna tutta la comunità e non solo pochi uomini.
Tutto questo Paolo lo sa e perciò gli sembra superfluo scrivere su cose che essi sanno bene, soprattutto che compiono bene impegnando ogni loro energia.
I Corinzi sono un modello e un esempio anche per gli altri. Il loro zelo è divenuto stimolo per tutti quelli della Macedonia.
Bisogna osservare che sempre lo zelo è stimolo per quanti ci stanno vicini, per coloro che vedono le nostre opere, che osservano i nostri comportamenti.
È giusto che si precisi, partendo da quanto Paolo ha detto in questo e nell’altro versetto, che l’Apostolo del Signore deve mettere ogni attenzione a che aiuti la comunità ad aggiungere alle sue virtù ciò che le manca.
Coltivare ciò che già c’è, è solo perdita di tempo, vana oziosità. A volte quello che manca è così grave che riesce a distruggere ciò che c’è e sul quale si insiste a dismisura.
Un buon apostolo, un missionario del Signore deve stare attento, vigilare, essere un buon osservatore, cogliere ciò che manca nella sua comunità e mettere ogni buona volontà, tutto il suo cuore e la sua mente perché si possa estirpare il vizio, aumentare le virtù, portare a compimento ogni parte della verità e la verità tutta intera. Questo è possibile ad una condizione: che si chiedano allo Spirito Santo i suoi occhi per vedere, la sua saggezza per comprendere, la sua forza per attuare, la sua santità per esporre la nostra vita alla persecuzione che di certo si abbatterà su di noi se saremo attenti educatori del popolo del Signore.
Su questo le lacune sono oggi numerose; non solo non si vede ciò che manca; ciò che si vede è solamente periferico, superficiale. Non si vuole riconoscere le cause che scatenano tutti i mali che avvolgono la società di oggi.
C’è come uno scollamento dalla saggezza e dalla sapienza dello Spirito Santo che rischia di farci miopi per rapporto alla verità di Cristo Gesù.
Non possedendo né la saggezza, né la sapienza, né l’intelligenza dello Spirito Santo curiamo le ferite del popolo di Dio alla leggera, scherzando su di esse, oppure adoperando un farmaco che è solo un palliativo, una cosa da niente e intanto la ferita si aggrava e tutto il corpo rischia di incancrenirsi.
Questa è la situazione in cui versa il popolo di Dio; ma di tutto questa situazione nessuno vede, nessuno percepisce niente, nessuno ha l’intelligenza di fare qualcosa.
Occorre che il Signore intervenga dall’esterno e susciti il suo Spirito Santo nei cuori perché svelino ciò che all’uomo manca e come deve fare per poter crescere in sapienza e grazia presso Dio e presso gli uomini.
[3]I fratelli poi li ho mandati perché il nostro vanto per voi su questo punto non abbia a dimostrarsi vano, ma siate realmente pronti, come vi dicevo, perché
Se Paolo conosce la buona volontà e lo zelo dei Corinzi, perché ha inviato Tito e gli altri due fratelli per portare a compimento l’opera intrapresa della colletta?
Il motivo c’è. Per quanto uno possa essere pieno di zelo, per quanto abbia buona volontà, per quanto possa fare sua l’opera intrapresa, c’è sempre il pericolo di stancarsi, di venire tentato, frastornato, venendo meno, così, all’opera intrapresa, o in parte o in toto.
Paolo è saggio oltre misura, intelligente oltre l’umano. Lui vede con gli occhi dello Spirito e parla con la stessa bocca di Cristo Gesù. Sa per esperienza quanto sia difficile perseverare sino alla fine, quale violenza è necessario che ognuno faccia a se stesso.
Inviando Tito e gli altri fratelli a Corinto, egli mette la comunità in agitazione, in fermento, incrementa la loro volontà, favorisce il loro zelo, moltiplica le loro forze. Ciò che essi sono restano, mentre ciò che non sono lo diventano e ciò che potrebbe essere in loro acquiescenza, sicurezza, coscienza tranquilla di aver fatto tutto si trasforma in un lavoro più intenso, più impegnativo, più massiccio.
È proprio dell’apostolo del Signore mantenere sempre viva l’attenzione, la vigilanza, la laboriosità di una comunità.
I mezzi, le forme e le vie sarà lui, sorretto dallo Spirito Santo, ad escogitarle, ma queste forme devono essere escogitate, altrimenti la comunità rischia di essere benevolmente assopita, di cadere in una specie di letargo, di accontentarsi del poco, del minimo, di ciò che è indispensabile per poter dire di aver fatto qualcosa, o di aver partecipato ad un’opera buona, giusta, santa.
Paolo conosce la fragilità umana e non si lascia ingannare da essa; conosce il cuore dell’uomo e si fida fino ad un certo punto, oltre il quale bisogna porre tutti quei rimedi perché ogni cosa riesca secondo la volontà di Dio.
Tito e gli altri fratelli devono far sì che i Corinzi siano realmente pronti, efficaci, immediati in quest’opera.
Essi devono stimolare, se non altro con la loro presenza; devono incoraggiare ad andare avanti fino in fondo; devono aiutarli a fare tutto ciò che è fattibile, perché ci si potrebbe anche accontentare del poco, dell’assai poco, del quasi niente e tuttavia pensare di essere stati pieni di zelo e di buona volontà.
Anche su questo devono riflettere tutti coloro che hanno responsabilità nella comunità. Bisogna che in essa vi siano coloro che pieni di zelo e di buona volontà siano come l’ossigeno nel fuoco.
Anche se il fuoco è forte, robusto, dalla fiamma alta, a poco a poco senza l’ossigeno viene come a spegnersi.
Se uno lo guarda mentre è vivace, può anche stare tranquillo. Il fuoco brucia, illumina, è forte, emana calore, riscalda il corpo e la stessa anima.
Ma bisogna anche pensare a ciò che potrebbe succedere fra qualche istante e per questo bisogna mettere tutte quelle attenzioni a far sì che il fuoco non si spenga anzi abbia ad ardere ancora di più.
Tito e i fratelli inviati da Paolo hanno questa funzione: essi devono essere come l’ossigeno sotto il fuoco, devono infuocare la legna dei loro cuori e farla ardere maestosamente bella, viva, senza interruzione.
Anche questa lungimiranza è dono dello Spirito Santo. Chi è senza Spirito Santo è un miope. Vede l’attimo presente, ignora ciò che avverrà dopo, non prende nessuna iniziativa e il lavoro va così perduto.
Grande è la responsabilità di coloro che governano le comunità. Il loro occhio di Spirito Santo e il loro cuore animato dalla carità di Cristo mette ogni attenzione a che l’amore non venga mai meno e mai si estingua la buona volontà con cui si è iniziata un’opera. Anzi fa sì che l’amore e la buona volontà diventino sempre più forti e per mezzo di essi un gran bene si faccia nella comunità, anche a favore e a beneficio degli altri fratelli nella fede.
[4]non avvenga che, venendo con me alcuni Macèdoni, vi trovino impreparati e noi dobbiamo arrossire, per non dire anche voi, di questa nostra fiducia.
Qui il pensiero di Paolo si fa ancora più evidente, più chiaro, nitido, senza alcuna ombra.
Paolo ha intenzione di recare con sé a Gerusalemme la colletta. Si trova, per ora, in Macedonia, fra qualche tempo si recherà a Corinto, poi da Corinto passerà nuovamente in Asia e da lì farà vela verso Gerusalemme. Qual è la sua intenzione? Egli vuole che quando avrà lasciato la Macedonia e si sarà recato a Corinto non debba aspettare che venga conclusa la colletta. Vuole invece che tutto sia pronto, tutto espletato, ogni cosa portata a buon termine.
Torna ancora una volta sul tema della fiducia. Bisogna avere fiducia degli altri, ma questa fiducia deve essere anche stimolata, coltivata, sorretta, incrementata. Non si può avere una fiducia cieca su nessuno, perché tutti possono venire meno all’opera intrapresa.
Questo suggerisce a Paolo di stimolare la fiducia accordata ai Corinzi attraverso alcune persone, che lui conosce molto bene e che sono capaci di agitare i cuori e suscitare la buona volontà perché porti a termine ciò che deve essere concluso.
L’apostolo del Signore deve essere sempre irreprensibile dinanzi a Dio e agli uomini. Se lui accorda fiducia ad una comunità e poi questa comunità non risponde alle sue attese, non passa egli forse per una persona incapace di conoscere a fondo le sue pecorelle?
Non dovrà forse arrossire dinanzi al mondo intero per una fiducia accordata e poi non mantenuta? In più quale credibilità potrà egli vantare presso i fratelli se le sue decisioni si rivelano carenti?
Ognuno è obbligato a salvaguardare il suo buon nome dinanzi al mondo intero ed è ciò che Paolo fa in questa e in molte altre occasioni.
Salvaguardare il proprio buon nome – lo abbiamo già detto – lo richiede la missione che noi svolgiamo. È la missione che domanda che noi siamo trovati veritieri in ogni parola che esce dalla nostra bocca, fosse anche una parola di poca importanza e che riguarda le cose di questo mondo.
All’apostolo del Signore non è consentito dire nessuna parola che poi non abbia il riscontro di verità nella nostra storia, sia che si tratti di parola di cielo, sia che si agisca di parola della terra.
[5]Ho quindi ritenuto necessario invitare i fratelli a recarsi da voi prima di me, per organizzare la vostra offerta già promessa, perché essa sia pronta come una vera offerta e non come una spilorceria.
Viene qui addotto un altro principio che merita di essere considerato, analizzato, esaminato con attenzione.
Quando bisogna fare una cosa, bisogna farla bene. Il bene è qualitativo, ma anche quantitativo.
Una cosa che non tutti vogliono sapere è questa: le improvvisazioni non giovano al bene evangelico, perché ciò che viene fatto in fretta, è sempre fatto male, o qualitativamente, o quantitativamente.
I Corinzi hanno promesso a Paolo una certa offerta. Per raccoglierla occorre del tempo, bisogna risparmiare, urge raggiungere ogni persona, sapere aspettare che la persona raggiunta sia in condizione di poter dare ciò che ha promesso o che intende dare.
Tutto questo richiede una buona organizzazione e soprattutto domanda che vi siano dei buoni organizzatori. Paolo che sa tutto questo manda i suoi collaboratori a Corinto perché facciano tutto questo, perché rendano efficace quantitativamente il lavoro svolto dai Corinzi.
Paolo vuole che il bene si faccia secondo Dio e non secondo gli uomini; il bene secondo Dio devono però farlo gli uomini. Per questo è necessario che venga preparato, studiato, calcolato, programmato.
L’estemporaneità non è di Dio, la fretta neanche è sua assieme a quella superficialità che è assenza di ogni vera, autentica collaborazione.
Quando è che una offerta è vera offerta e quando è una spilorceria? È vera offerta quando tutti vi hanno partecipato e ciascuno ha messo secondo i propri mezzi, rinunciando al necessario per lui, perché i fratelli abbiano l’indispensabile.
È invece spilorceria quando si partecipa con un obolo, con il minimo e senza alcun senso di responsabilità. Si partecipa perché bisogna partecipare, perché si è costretti a partecipare. Il cuore non c’è nell’opera e neanche l’offerta. Ciò che si fa non può essere chiamata in alcun modo offerta, perché niente viene offerto. L‘offerta è prima di ogni altra cosa un sacrificio, una rinunzia, un’oblazione, una vera e propria privazione.
Quando non ci si priva di qualche cosa, ciò che si dona non può essere chiamata offerta, perché non è un sacrificio. Tutto ciò che noi diamo deve essere un sacrificio, un’oblazione sacra al Signore, una privazione, una rinunzia.
Paolo vuole che l’offerta dei Corinzi non sia una spilorceria ed è tale anche quando essa è frutto di una rinunzia minima, anche per rapporto al tempo.
Rinunziare un giorno a qualcosa anche questo potrebbe alla fine rivelarsi una spilorceria. Per i fratelli non si rinunzia ad una piccola cosa in un solo giorno, a volte bisogna che la rinunzia venga operata per più giorni, per mesi ed anche per anni, se necessario.
La rinunzia però la detta il cuore, non la mente. È vera offerta, se il cuore è ricco d’amore per i fratelli, altrimenti il cuore si lascerà governare dalla mente e l’intelligenza umana prenderà il posto della fede e della saggezza divina e si agirà partecipando al minimo, a quanto basta perché si possa dire di noi che vi abbiamo partecipato, abbiamo collaborato, ci siamo impegnati a favore dei nostri fratelli.
[6]Tenete a mente che chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà.
In questo versetto Paolo ritorna ancora una volta nel cielo e dal cielo dona la regola perché quella dei Corinzi sia una vera offerta e non una spilorceria.
L’appello alla sapienza di Dio non è per sfoggio di cultura biblica, è invece per riportare la colletta nel suo vero alveo, che è quello soprannaturale.
Niente di ciò che si fa nella Chiesa deve sfuggire a questa legge; tutto deve essere considerato in Dio e nella sua provvidenza; tutto deve essere realizzato a partire dall’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori.
Bisogna leggere questo versetto secondo una duplice prospettiva: dal punto di vista di Dio, dal punto di vista dell’uomo, considerando l’amore di Dio seminato in noi, pensando all’amore nostro che viene seminato in quest’opera a favore dei poveri di Gerusalemme.
Dio ha seminato nei nostri cuori con larghezza divina. Ha seminato il Figlio e lo Spirito Santo e in Loro ha seminato se stesso in noi.
Siamo inondati dall’amore divino. Ora è giusto che Dio raccolga con abbondanza, con magnificenza, raccolga in misura proporzionata a quanto Lui ha versato in noi. E come può raccogliere questi frutti? Seminando noi stessi nel cuore di fratelli, donando loro tutto il nostro amore con opere di carità e di misericordia, amando loro allo stesso modo in cui Cristo ha amato noi.
Questo è il primo principio di interpretazione del versetto scritturistico. Il secondo è questo: chi vuole essere amato, chi vuole incontrare misericordia, chi vuole trovare domani accoglienza, chi desidera che gli altri vengano in suo soccorso nel momento del bisogno, costui sappia che raccoglierà domani e anche oggi ciò che avrà seminato in amore, in misericordia, in soccorso, in sollievo dato agli altri.
La Parola di Gesù è chiara: “Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia”. Come la otterranno? Da Dio che susciterà nei cuori dei fratelli lo stesso amore che loro hanno avuto per gli altri.
Se qualcuno vuole essere amato, ami; se vuole essere accolto, accolga; se vuole essere sollevato nel momento del bisogno, sollevi i fratelli quando è nelle capacità di farlo.
Se uno vive una vita scarsa di amore, sappia che raccoglierà poco amore. Che nessuno si illuda. L’amore con il quale uno vuole essere amato, Dio l’ha messo nelle nostre mani. Se lo seminiamo con abbondanza e con abbondanza lo doniamo, con abbondanza ritornerà su di noi; se invece ce lo teniamo tutto per noi, al momento del bisogno nessuno ci darà una mano d’aiuto e questo perché non potrà fruttificare per noi quell’amore che non è stato seminato per gli altri.
La Chiesa, nei suoi Ministri della Parola, ha una grave, gravissima responsabilità: deve insegnare a tutti a seminare quando è il tempo della semina, ammonendo severamente che non c’è raccolto abbondante per colui che non semina con abbondanza, per colui che non fa della sua vita un’opera di carità. Molti oggi chiedono la carità, chiedono i frutti agli altri; chi chiede la carità sappia che anche lui deve seminare carità e deve farlo in misura proporzionata all’amore che il Signore ha riversato nel suo cuore.
Una Chiesa che non ammaestra è una lucerna spenta, un faro senza luce, è sale insipido. Qualsiasi altra cosa faccia riflette questa insipienza e lascia il mondo nelle sue tenebre e nel suo buio.
[7]Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia.
Viene qui espressa un’altra regola che deve animare la nostra carità a favore dei fratelli.
La decisione di quanto e quando dare una cosa spetta solo all’autore del dono. Nessuno di noi può dire all’altro cosa fare e quando farlo. La libera decisione è obbligo morale che venga sempre rispettata. Le ragioni sono del cuore di chi dona, non di chi chiede. Nessuno può dare ragioni all’altro, e questo a motivo della fede dell’altro.
C’è chi ha una fede forte, robusta e secondo questa fede si spoglia di tutto per venire in soccorso ai fratelli.
C’è chi ha una fede piccola, assai povera, e allora tutto vede nelle sue mani e ha timore che le cose possano domani finire, o teme di non riuscire a fare tutto secondo vie che la sua razionalità, non sufficientemente illuminata dalla fede, gli suggerisce.
La Chiesa ha l’obbligo di formare i suoi figli ad una fede forte, robusta, tenace, una fede grande. Se la fede è grande anche l’opera di carità è grande, se invece la fede è piccola, anche l’opera di carità è piccola.
Posta la libera decisione, che deve essere antecedente all’opera e mai susseguente, di convincimento a posteriori, occorrono perché l’azione sia secondo il cuore di Dio altre tre qualità.
Nel dare non deve esserci tristezza. La tristezza nasce dal cuore pavido, pauroso; dal cuore che dona, ma che ha timore di restare lui senza. Se c’è questa tristezza che l’opera non si faccia.
L’elemosina deve essere considerata una vera seminagione. Essa produce una ricchezza infinita per noi sulla terra e nel cielo.
L’opera non deve essere forzata, non si può costringere uno a fare l’opera di bene. Occorre la somma libertà, nella quantità e nel tempo.
Senza questa libertà l’opera non è gradita al Signore. Cristo Gesù si è offerto liberamente alla passione, liberamente è andato incontro alla morte, liberamente si è lasciato inchiodare sul legno, liberamente ha amato, liberamente ha dato se stesso per noi.
Tutto egli ha fatto liberamente. Quando c’è costrizione, imposizione, obbligo esteriore allora l’opera non è gradita al Signore, non produce frutti di vita eterna per noi.
Se fatta con tristezza e per forza non è opera di misericordia, perché il cuore non avverte l’esigenza dell’amore e non ama. A che serve fare una cosa se non si ama il fratello a cui la cosa viene data? Nella nostra fede tutto deve essere amore e tutto si deve trasformare in amore. Ora l’amore è per l’uomo, non per le cose. L’uomo è da amare e lo si ama se si vede la sua necessità e gli si viene incontro.
Infine, perché la nostra opera sia vera misericordia e vero amore, si deve dare con gioia. Il cuore deve avvertire un vivo desiderio di fare del bene e questo desiderio deve ricolmarlo di letizia spirituale.
L’altro deve vedere questa letizia, questa gioia. Sarà essa il segno che veramente lo si ama e lo si vuole aiutare perché fratello e amico da soccorrere, fratello e amico che il Signore ci ha affidato perché fosse da noi sollevato, aiutato, sostenuto in un momento difficile della sua vita. Ognuno sa che cosa è la gioia, ognuno sa quando nel cuore c’è questa luce di letizia e di santità, ognuno sa cosa la gioia produce e secondo questa scienza deve egli operare.
Dare con gioia raccoglie un frutto immediato: l’amore di Dio si riversa su di lui e lo copre come di un manto. L’amore di Dio diviene per lui come una tenda di luce che mai lo lascerà. Questo è il frutto immediato di chi dona con gioia.
Come si può constatare non è sufficiente fare un’opera di misericordia; perché quest’opera sia meritoria presso Dio in nostro favore deve essere fatta secondo leggi ben precise. Fare conoscere queste leggi è obbligo dei ministri della Parola. Sono loro l’anima della carità nel popolo cristiano, come era Cristo al suo tempo e gli apostoli dopo.
Se il ministro della Parola si disinteressa di insegnare le regole della carità al popolo di Dio, questo vivrà male, perché seminerà male, male anche raccoglierà.
[8]Del resto, Dio ha potere di far abbondare in voi ogni grazia perché, avendo sempre il necessario in tutto, possiate compiere generosamente tutte le opere di bene,
È questo il principio soprannaturale alla luce del quale dobbiamo noi impostare tutta la nostra vita di carità.
Questo principio è assai semplice quanto a spiegarsi, difficile però diviene crederlo, quasi impossibile metterlo in pratica, a motivo della poca fede che è nel cuore del cristiano.
Del resto non ha forse detto Gesù che se la nostra fede fosse grande quanto un granellino di senapa, noi avremmo potuto comandare ad un gelso di gettarsi nel mare ed esso ci avrebbe obbedito?
Cosa significa comandare ad un gelso di gettarsi nel mare se non essenzialmente questo: fare opere impossibili alla ragione umana, ma possibilissime a colui che ha fede?
I Santi non hanno dimostrato al mondo intero che loro con la fede forte, robusta, tenace che avevano nel cuore sono riusciti a fare l’impossibile? Mentre noi con tutti i nostri mezzi e le nostre capacità, con la potenza della materia che abbiamo a nostra disposizione, non riusciamo a fare veramente niente?
La fede è tutto per l’uomo, e senza la fede un uomo è niente, potrà fare niente, farà veramente niente.
Dio dona sempre a noi in abbondanza. È questo il suo metodo, il suo stile. Egli lavora con noi così. L’abbondanza è la regola divina di agire nei nostri riguardi. Tutto viene da Dio in noi secondo l’abbondanza, anzi secondo la sovrabbondanza del suo amore.
Noi abbiamo una duplice possibilità: trasformare questa abbondanza in necessario per noi e per gli altri e qui occorre la fede che il Signore riverserà sempre la sua abbondanza su di noi, al momento stesso che noi abbiamo riversato la nostra abbondanza sugli altri, sui nostri fratelli; oppure chiuderci noi in questa abbondanza, serrare la porta del nostro cuore e usare i beni di Dio esclusivamente per noi. In questo caso, poiché noi non abbiamo seminato il dono di Dio, questo smette di produrre frutti in noi.
Dio non può riversare la sua abbondanza su un cuore che a sua volta non dona agli altri secondo l’abbondanza con la quale il Signore lo ha arricchito.
Quando nel cuore vi è questa fede, si va di abbondanza in abbondanza. La fede è necessaria a motivo dell’invisibilità dell’opera di Dio.
Noi non vediamo come Dio agisce nella nostra vita, non sappiamo quando agisce e secondo quali vie. Però sappiamo una cosa: se esaminiamo la nostra vita, possiamo vedere che mai il Signore ha smesso di farci del bene quando noi abbiamo fatto del bene agli altri e che le nostre ristrettezze sono iniziate quando il Signore ha chiuso le cataratte della sua misericordia su di noi a motivo della ristrettezza, della tristezza e della costrizione secondo la quale noi abbiamo agito con i nostri fratelli, con coloro che il Signore aveva messo dinanzi alla nostra porta perché noi li rendessimo partecipi, o meglio dessimo loro i beni che il Signore aveva dato a noi, ma che non erano per noi, ma per gli altri. Li ha dati a noi per metterci alla prova, per saggiare il nostro cuore, per vedere se noi ci fossimo appropriati di essi e li avessimo destinati per noi anziché per coloro per i quali il Signore li aveva dati a noi.
La ricchezza è la più grave tentazione per l’uomo. È il furto sempre possibile. Qui occorre fede. O vediamo tutto come un dono di Dio da dare agli altri, oppure tutto si risolve in un’opera ingiusta che non ci consente domani di entrare nel regno di Dio.
Basti pensare al povero Lazzaro e al ricco epulone. Il povero Lazzaro era stato mandato da Dio a chiedere al ricco epulone la porzione dei beni che il Signore gli aveva consegnato perché a sua volta li facesse pervenire a colui per il quale erano stati destinati. Il ricco epulone se ne appropriò, li trasformò in beni suoi, mentre non gli appartenevano.
Questa opera di ingiustizia gli meritò l’inferno eterno e l’esclusione per sempre dall’abbondanza di luce e di amore da parte del Signore.
La generosità è un’altra qualità che deve sempre accompagnare l’opera di bene che facciamo. Essere generosi significa non pesare, non contare, non misurare, non vedere con gli occhi ciò che fanno le mani e non pensare con la mente ciò che il cuore liberamente decide.
Non è facile essere caritatevoli. Molti pensano di esserlo, in verità è difficile esserlo finché il cuore non è tutto pervaso dall’amore di Dio e i nostri pensieri siano pensieri solo di fede.
[9]come sta scritto: ha largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno.
La generosità viene qui chiamata larghezza. La parola di Dio invita tutti noi a dare con larghezza ai poveri.
Ciò significa che invece di prendere il paniere piccolo quando si va da loro, bisogna prendere quello grande; invece di portare la sporta più stretta, bisogna andare con la sporta più larga; invece che riempire l’otre che contiene di meno, è giusto che si riempia quello che contiene di più. Questa è la larghezza alla quale il Signore ci chiama.
La larghezza è una mentalità da creare nei nostri cuori, è uno forma del nostro pensiero, è lo stile della nostra vita.
Il modello unico di larghezza per tutti è Cristo Signore. Egli ha dato tutto se stesso, ha dato il suo corpo e il suo sangue, la sua vita e ogni cosa che possedeva. Di tutto egli si è spogliato e lo ha messo a nostra disposizione.
La larghezza è una quantità senza misura. L’amore non può avere nessuna misura. Dal momento che si mette una misura al nostro cuore, egli non potrà mai più essere largo e questo a motivo del metro che abbiamo confezionato per lui secondo il quale egli deve sempre agire.
La nostra larghezza produce un frutto di giustizia eterna. È per questa larghezza che si apriranno per noi le porte del cielo e l’amore di Dio si riverserà su di noi non solo nell’eternità, ma anche nel tempo.
La larghezza è la nostra giustizia. Non ci sono altre regole per fondare la giustizia sulla terra.
Come si può constatare la colletta in favore dei poveri di Gerusalemme dona a Paolo l’occasione propizia per educare i discepoli di Gesù all’amore.
Lui può fare questo perché ha dinanzi agli occhi la larghezza con la quale Dio ci ha amati, Cristo ci ha redenti, lo Spirito Santo ci ha santificati.
Partendo dalla larghezza che Dio ha seminato nei nostri cuori, Paolo vuole che i discepoli di Gesù si comportino in tutto come il loro Dio e Signore. L’imitazione di Dio è fonte di vita, l’imitazione di Cristo è via di salvezza, l’imitazione dello Spirito Santo è generatrice di santità e di carità nei nostri cuori.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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