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COMMENTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI

Ultimo Aggiornamento: 04/03/2012 22:30
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12/02/2012 18:58
 
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LO SPLENDORE DEL GLORIOSO VANGELO DI CRISTO

In possesso delle promesse. Ogni cristiano ha un obbligo dinanzi a Dio, dinanzi al mondo, dinanzi alla propria coscienza. Egli è figlio di Dio, è erede delle promesse, è chiamato alla vita eterna. Come figlio di Dio deve vivere conformemente alla nuova dignità che Cristo ha creato in lui per mezzo del suo Santo Spirito. Dio è il Santo, la fonte di ogni santità. Anche i suoi figli devono essere santi, devono in Lui divenire sorgente di acqua che zampilla di santità, di verità, di amore, di gioia per tutto il genere umano. Se un cristiano non diviene santo, non si fa sorgente in Cristo di acqua pura di grazia e di verità per i suoi fratelli, egli ha fallito la sua figliolanza adottiva. È stato battezzato, ma questo lavacro di rigenerazione e di salvezza sarà per lui causa di una condanna più grave. Ha una responsabilità per rapporto al mondo. Egli è luce del mondo, sale della terra. Egli è la luce e il sale di Cristo, è un portatore di luce e di sale, della luce e del sale di questo mondo che è solo Cristo Gesù. Deve portare questi due doni di salvezza attraverso la trasformazione della sua vita in sale e in luce. Se questo non lo fa il mondo resta nelle sue tenebre, dimora nella sua insipienza e stoltezza e di questo il cristiano dovrà rendere conto a Dio; ha omesso di compiere la missione che il Signore gli ha conferito quando lo ha associato al suo ministero profetico, sacerdotale e regale. Il peccato di omissione oltre che a renderci responsabili di morte eterna, è anche un segno rivelatore della nostra poca santificazione. Chi non evangelizza non è santo; chi non manifesta la luce di Cristo al mondo non è sulla via di Cristo Gesù, non è suo discepolo. Se vuole, può correre ai ripari; se vuole, può iniziare con timore e tremore l’opera della sua santificazione. Si è anche obbligati dinanzi alla propria coscienza. Se non ci santifichiamo, la coscienza vivrà nell’inferno il più pesante dei tormenti; ci sarà in essa quel verme che non muore che la roderà in eterno, la renderà a brandelli, senza però poterla distruggere, affinché in eterno pianga il suo peccato della mancata realizzazione della santità, vocazione alla quale il Signore l’aveva chiamata. Nel Nuovo Testamento la santità si esprime con un solo termine: configurazione perfetta a Cristo Gesù. È questo il concetto nuovo della santità neotestamentaria. Il cristiano è santo quando diventa a sua volta il Cristo vivente che cammina in mezzo ai suoi fratelli allo stesso modo di Cristo Gesù, in un viaggio che dalla Galilea dovrà portarlo fino a Gerusalemme, luogo del martirio e della suprema testimonianza al Padre dei cieli.
Rapporto di stima e di fiducia tra evangelizzatore ed evangelizzato. Ogni battezzato in Cristo Gesù è chiamato a creare un vero rapporto di stima e di fiducia con il mondo da evangelizzare. Questa stima e questa fiducia può essere stabilita su un solo principio: sull’amore dell’evangelizzatore. Prima che un datore di verità, l’evangelizzatore è uno che ama. L’amore però non deve essere un sentimento che dal cuore dell’evangelizzatore si riversa nel cuore dell’evangelizzato. Non si tratta di un moto che va dall’uomo all’uomo, si tratta invece di un movimento di amore che da Dio discende, in Cristo, per opera dello Spirito Santo, sull’evangelizzatore e da questi si riversa tutto sull’evangelizzato. Si tratta in verità di vivere quanto si vive all’interno della Santissima Trinità. L’amore del Padre verso l’uomo si travasa tutto nel cuore del Figlio. Il Figlio tutto pervaso di questo amore si fa uomo, si fa in tutto simile a colui che deve salvare, tranne che nel peccato. Ha preso la condizione umana, ma rimase fuori del peccato dell’uomo, perché il peccato è male, è opposizione a Dio. Questo amore lo portò a consumarsi per gli altri, fino al dono supremo della sua vita in riscatto. Per evangelizzare bisogna entrare in questa visione di fede. L’evangelizzatore non dona una parola, una verità, un Vangelo. Dona la sua vita che è parola, verità, Vangelo. Dona tutto se stesso perché l’amore di Cristo per opera dello Spirito Santo venga riversato nei cuori e anche loro entrino in questo movimento di amore il cui principio, origine e fine è sempre il cuore del Padre. Quando l’evangelizzato vede che l’evangelizzatore non ha altro interesse, altro scopo, altro fine se non quello di dare la sua vita, senza ricevere nulla in cambio, l’altro potrà capire che è solo l’amore che lo spinge e nulla più. Se vuole può accogliere questo gesto d’amore totale e aprirsi a suo volta all’amore totale. È questa la fiducia e la stima che l’evangelizzatore deve creare attorno a sé, altrimenti gli sarà sempre difficile poter entrare nel cuore degli altri. Nel cuore del mondo si entra solo attraverso l’amore, che per noi cristiani è la realizzazione in opera di ogni parola che è uscita dalla bocca di Cristo Gesù. Nell’amore e per amore si dona tutta la verità, ma la si dona solo per insegnare all’altro come si ama Dio secondo verità e come lo si serve per amore.
Consolazione, gioia, tribolazioni, battaglie all’esterno, timori all’interno. La vita del missionario del Vangelo non è semplice. Essa è fatta e si costruisce su mille difficoltà, sia di ordine spirituale, che di ordine materiale. Una cosa sola però il missionario deve tenere fissa nella mente. L’amore che egli è chiamato a portare nel mondo non è un qualcosa fuori di sé, non è un pacco, un involucro, che può anche dare agli altri perché a loro volta lo facciano pervenire al mondo intero. Ciò che lui deve dare al mondo per la sua salvezza è la sua vita. Il dono della vita è sempre sofferenza, perché è martirio dell’anima e del corpo, dello spirito e della mente, della volontà e dei sentimenti. Chi vuole annunziare il Vangelo deve preventivamente mettere in conto il dono totale della sua vita, perché è proprio in questo dono che la missione si svolge. Lui non è chiamato per dare qualcosa agli uomini, è chiamato per dare se stesso e ci si dona solo nella sofferenza, nella tribolazione, nel timore, nelle angosce, nelle battaglie, nei tumulti, nelle persecuzioni e in ogni altra opposizione che si abbatte sulla vita del missionario del Vangelo. Quando ogni missionario comprenderà questo, e cioè che il dono che il Padre dei cieli gli chiede è la sua stessa vita, il rinnegamento di se stesso, come lo ha chiesto a Cristo Gesù, che si spogliò di se stesso e si annientò nell’obbedienza fino alla morte e alla morte di croce, in quel preciso istante si inizia la missione dell’annunzio del Vangelo nel mondo. Fino a quel momento non si sarà fatto niente, perché il missionario ha dato qualcosa che è fuori di sé, ma non ha dato se stesso, la sua vita, il suo tutto.
Solitudine spirituale. Solitudine e santità. La solitudine del missionario non è una solitudine dall’uomo, è invece una solitudine di peccato. Il missionario non può peccare e quindi deve tenersi lontano da ogni fonte di peccato, da ogni sorgente che potrebbe inquinare la sua vita. Egli deve frequentare gli uomini per salvarli, può condividere tutto di loro, tutto può assumere della loro cultura e della loro mentalità, può farsi veramente tutto a tutti, ma non può in nessun modo assumere il loro peccato, che non solo è nelle opere, ma anche e soprattutto nei pensieri che sono la negazione di Cristo, di Dio, del suo Vangelo, della verità che conduce alla vita eterna. Quella del missionario è una solitudine nella santità e per la santità, ma è una solitudine strategica. Egli sa che solo rimanendo nella verità e nella carità di Cristo Gesù, solo compiendo nella sua vita tutto il Vangelo, egli potrà giovare ai suoi fratelli che sono tutti da condurre a Cristo Signore. Per questo non solo deve starsene lontano dal loro peccato, quanto deve combatterlo per toglierlo dal loro cuore e dalla loro mente. Nel momento in cui il missionario inizia a togliere il peccato dal cuore degli uomini, gli uomini tolgono lui dal loro cuore, lo tolgono anche dalla loro vista, lo tolgono addirittura dalla stessa terra, poiché lo condannano a morte e lo uccidono. Cristo è stato ucciso non perché faceva miracoli, ma perché li faceva per togliere il peccato di falsità e di menzogna che gravava sulla mente e nel cuore degli uomini del suo tempo. L’innalzamento sulla croce è il segno più alto della solitudine di Cristo Gesù, ma poiché è stata una solitudine di santità, di verità, di combattimento contro il peccato, da questa solitudine scaturisce l’acqua della vita che inonda i cuori e li apre alla verità e all’amore. La solitudine spirituale, l’innalzamento sulla croce, diviene pertanto la via attraverso cui si salva il mondo, non si salva per la nostra solitudine, ma per la nostra santità, che genera e produce sempre solitudine dal mondo a causa del suo peccato.
Fede, apostolo, comunità. Il vero rapporto da instaurarsi tra l’apostolo e la comunità è la fede. La fede insegna una cosa sola: c’è una volontà, quella di Dio, che è sopra l’apostolo e sopra la comunità. L’apostolo non può avere una sua volontà sulla comunità, su nessun uomo della comunità. La comunità neanche può avere una sua volontà sull’apostolo del Signore, l’apostolo è il servo del Signore, non della comunità. L’apostolo serve la comunità, ma in nome del Signore e secondo la sua volontà. L’apostolo deve annunziare alla comunità la volontà del Signore, la comunità deve accogliere la volontà del Signore che riguarda anche il rapporto che l’apostolo deve stabilire con essa. Se manca questa accoglienza della volontà di Dio nell’apostolo e nella comunità, si esce dall’ambito della fede e si instaura tra apostolo e comunità una relazione umana, non più soprannaturale. Questa relazione non produce salvezza, non genera redenzione, non conduce nel regno dei cieli, proprio perché manca la volontà di Dio che governa la vita dell’apostolo e della comunità. La comunità è del Signore se l’apostolo è del Signore; se l’apostolo non è del Signore, perché è uscito fuori della sua volontà, neanche la comunità è del Signore, perché vive senza la volontà del Signore nel suo seno. D’altronde sarebbe davvero impossibile che un apostolo che non è più del Signore possa fare una comunità del Signore. Questo è veramente assurdo. Chi non è con Dio non può fare che Dio sia con gli altri. Chi possiede Dio lo dona, chi è del Signore fa anche che gli altri lo possano divenire.
Correzione, tristezza, gioia. Sovente l’apostolo del Signore deve correggere la comunità del Signore, deve estirpare da essa vizi, falsità, modi errati di concepire la fede, l’amore, la speranza. Deve intervenire con energia altrimenti la comunità non sarà più del Signore, ma del peccato che inizia a corromperla e a distruggerla dal suo interno. L’apostolo, che vuole essere veramente apostolo del Signore, deve guardare in una comunità solo gli interessi del Signore e per questo non deve temere alcun uomo. Il suo intervento energico e forte potrà anche recare tristezza in un primo momento, ma se l’altro è di buona volontà e vuole emendarsi, alla fine arrecherà nel cuore una grande gioia. Del resto l’apostolo del Signore non può non agire se non secondo l’insegnamento che ci viene dalla Lettera agli Ebrei: “Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato e avete già dimenticato l'esortazione a voi rivolta come a figli: Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio. È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Se siete senza correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi, non figli! Del resto, noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita? Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di renderci partecipi della sua santità. Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie storte per i vostri passi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (Eb 12,4-13).
Esaminarsi nella luce attuale dello Spirito Santo. Altra verità che deve sempre governare la vita dell’apostolo del Signore è la sua saggezza e sapienza, la luce dello Spirito Santo che deve albergare, dimorare nel suo cuore, al fine di esaminare ogni cosa e di sapersi lui stesso esaminare, perché sempre e solo la volontà di Dio si compia e ogni azione, pensiero, moto del cuore e della mente, ogni altra cosa che avviene in lui e fuori di lui sia sempre vista in conformità alla scienza di Dio e sia portata nella sua volontà, perché solo così essa potrà essere santificata, redenta, salvata. Se l’apostolo del Signore si lascia invece prendere dai suoi sentimenti e non fa prevalere in se stesso e nell’intera storia la saggezza, la sapienza, l’intelligenza e la forza dello Spirito Santo, se stesso e l’intera comunità sarà privata dalla luce divina e celeste, non percorrerà vie di verità, ma di falsità. Quando la falsità si impossessa di un cuore e di una comunità, in essa non potranno mai maturare frutti di bene, frutti di amore, frutti di salvezza e di santità. Occorre per questo che il missionario si mantenga in un contatto perenne con lo Spirito del Signore; la via è una preghiera incessante, ma anche una vita sobria, pura, libera dal mondo e dal suo peccato, ritirata. Occorre all’apostolo del Signore che imiti in tutto Gesù, il quale si recava presso gli uomini durante il giorno, durante la notte invece, nel silenzio e nella preghiera, lontano dal frastuono e dalla confusione del mondo, si ritirava presso il Padre suo e lo invocava perché lo Spirito Santo gli desse la luce divina e la sua forza per poter fare, sempre, ogni cosa secondo la volontà di Dio e portare ogni situazione nella verità del cielo.
La verità è la forza di una comunità. La verità è la forza della comunità perché è la luce che illumina il suo cammino. La verità è come la colonna di fuoco e come la nube che accompagnava il cammino dei figli di Israele nel deserto, per tutti i quaranta anni della sua peregrinazione. Senza la colonna di fuoco e senza la nube era veramente impossibile camminare in un deserto inospitale, luogo di serpenti velenosi e terra arsa e infuocata. Così è per una comunità cristiana, senza la verità che è la sua luce sarà impossibile progredire sulla via di Dio. La comunità arresta ogni suo cammino spirituale, si impantana nella condizione e situazione della nostra storia, si lascia fuorviare dalla ingiustizia, si adagia alla mentalità del tempo, si imbratta nel peccato del mondo, finisce di essere comunità di Dio, per trasformarsi in un luogo dove non regna più il Signore. Senza la forza della verità che spinge in avanti, la comunità lentamente si spegne, muore, si esaurisce. Questo possiamo coglierlo anche dalla storia, sia recente che passata. Ogni qualvolta una comunità cristiana ha smarrito dal suo seno la verità, per essa non c’è stata se non la morte, morte non solo spirituale, ma anche fisica, morte di non esistenza della stessa comunità. Chi ama la Chiesa, la nutre e la pasce di verità; chi ama la Chiesa ogni giorno la rafforza con lo splendore della luce di Cristo Gesù e del suo Vangelo che deve sempre brillare su si essa; chi ama la Chiesa dovrà fare di tutto affinché mai si spenga su di essa la luce divina della volontà di Dio.
La legge della condivisione. La forza della comunione. Altro principio soprannaturale che sempre deve governare la comunità è la condivisione, la comunione, la solidarietà, l’amore che si fa dono di se stesso e di tutto ciò che si possiede, sia in beni materiali, che in beni spirituali. La comunione è la forza della Chiesa, perché è alimento perenne che la sostiene, la spinge, la conforta, la consola, la rinnova e la fa crescere armoniosamente. La comunione ha il suo fondamento in Cristo Gesù e nel mistero dell’Incarnazione. Con l’Incarnazione Cristo ha condiviso la nostra morte, ha espiato il nostro peccato, si è caricato delle nostre infermità, ha dato all’umanità intera la grazia e la verità assieme ad ogni altro dono divino. Con il battesimo l’uomo diventa corpo di Cristo, diventa una cosa sola con Lui, come Lui deve assumere la morte, espiare il peccato dell’umanità intera, riversare su di essa ogni dono di cui è stato arricchito da parte del Signore Dio. La comunione vera toglie il peccato dal mondo, abolisce il male, libera dalla schiavitù e dalla morte, riversa su ogni uomo la ricchezza della grazia celeste, l’abbondanza dei beni spirituali e divini. L’uomo è riconosciuto, chiunque esso sia, un chiamato alla salvezza, uno per il quale Cristo è morto e chi è in Cristo deve anche morire. Al di fuori di Cristo ogni altra forma di comunione si rivelerà sterile, non produrrà veri frutti di bene, perché non toglierà il peccato, la morte e la schiavitù, ma soprattutto non eleverà l’uomo in dignità, in grazia e in verità divine.
L’apostolo del Signore deve essere sempre vero. Una cosa che spesso l’apostolo del Signore dimentica – per apostolo è da intendersi in questo contesto ogni battezzato chiamato a partecipare alla missione profetica, regale e sacerdotale di Cristo Gesù – è quella di non pensare che ogni sua parola, dopo che è stato fatto corpo di Cristo Gesù, è parola del corpo di Cristo, non può essere più parola dell’uomo, puramente e semplicemente preso. Se è parola di Cristo Gesù essa non solo deve essere vera, quanto deve trasformarsi sempre in una parola di salvezza, di invito alla conversione, di annuncio del Vangelo, di quella buona novella, la sola che libera l’uomo dalla falsità dei suoi idoli e lo porta all’incontro con il vero Dio. La verità deve essere però incarnata nella storia, nell’oggi per il domani. Se oggi non si è veri, se oggi si mente, si inganna, si dice una cosa per un’altra, vengono immessi nella storia dei processi di incomprensione tra gli uomini che danneggiano gravissimamente il cammino dell’uomo verso l’altro uomo e insieme verso Cristo Signore. Ognuno pertanto è obbligato ad essere sempre vero. La verità però non deve essere quella immanente, della terra; deve essere quella del cielo, quella di Cristo Gesù, quella che lo Spirito Santo gli fa comprendere nella sua pienezza e che lui è obbligato a dire in tutta la sua interezza, senza nulla aggiungere e nulla togliere. A questa verità del cielo deve corrispondere anche l’altra verità, quella della terra. Anche questa deve essere proferita, mai omessa, mai taciuta, mai alterata. La forza di convincimento, affinché la verità del cielo abiti in un cuore, viene anche dalla fermezza e dalla completezza della verità della terra con la quale ci presentiamo ai fratelli. Questo lo afferma Gesù nel Vangelo secondo Giovanni: “Se vi parlo delle cose della terra e non credete, come potrete credere quando vi parlerò delle cose del cielo?”. È questo il principio sano, giusto, metodologico e propedeutico perché la verità del cielo entri in un uomo. Chi vuole dare la verità del cielo ai suoi fratelli, deve iniziare con il dire esattamente la verità della terra, quella a portata di mano. Sarà questa verità a convincere i fratelli ad aprirsi all’altra verità, quella soprannaturale e celeste. E così dicasi della carità. Se manca nel cristiano l’amore verso i fratelli nelle cose della terra come potrà sperare di convincerli a lasciarsi trasportare dall’amore delle cose celesti? Sarebbe veramente un controsenso, un assurdo, una follia solamente il pensarlo. Si è veri per le cose del cielo e della terra, quando lo Spirito del Signore agisce con potenza dentro di noi e Lui agisce solo se glielo chiediamo con una preghiera intensa, forte, senza esitazione e senza stanchezza.
Avere occhi di fede. Occorre, per essere veri secondo Dio, possedere occhi di fede, occhi cioè che riescono sempre a leggere il dito di Dio che opera nella nostra storia, sia in quella personale, che in quella di tutti i nostri fratelli nella fede e nel mondo intero. L’occhio di fede si possiede allenandosi nella conoscenza del Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo. Questo è quanto viene richiesto all’uomo. Ma l’occhio di fede è sempre e comunque un dono dello Spirito Santo, a Lui bisogna chiederlo con una preghiera che non conosce sosta. L’occhio di fede è necessario, anzi indispensabile, ad ogni apostolo del Signore, il quale è tenuto a vedere ogni cosa secondo gli occhi di Dio e secondo gli occhi di Dio farla conoscere anche agli altri, spiegandola. Su questo possiamo affermare che non ci siamo; spesso l’occhio non è di fede, non è neanche secondo una saggezza e una intelligenza umana, troppo spesso si tratta di un occhio concupiscente, superbo, maligno, arrogante, stolto, incapace di vedere Dio nella storia quotidiana. Anche se riesce a vederlo, gli diviene impossibile saperlo discernere, analizzare, spiegare, portando ogni intervento del Signore nella nostra storia nella verità del suo Vangelo. Chi non ha occhi di fede non può essere missionario di Cristo Gesù, gli mancherà sempre quella capacità di portare il mondo nel Vangelo e di annunziare il Vangelo al mondo. Non può portare il mondo nel Vangelo perché non conosce il mondo; non può portare il Vangelo nel mondo perché non conosce il Vangelo, non sa la verità, non discerne la giustizia secondo Dio, non cammina secondo quella retta moralità che è a fondamento del vero occhio di fede. L’occhio di fede è visione secondo la luce dello Spirito Santo, è intelligenza del reale secondo la sua sapienza, è lettura della storia fatta con la sua saggezza soprannaturale. Senza quest’occhio l’apostolo del Signore potrà fare ben poco nel mondo. Gli mancherà quella certezza nella verità e nel discernimento che sono indispensabili perché il Vangelo sia portato nel mondo e il mondo nel Vangelo.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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